Dati bibliografici
Autore: Bruno Nardi
Tratto da: "Lecturae" e altri studi danteschi
Editore: Le Lettere, Firenze
Anno: 1990
Pagine: 205-225
Il punto sull’Epistola a Cangrande l’aveva già fatto nel 1901 Giuseppe Vandelli, dopo i due saggi del D’Ovidio e del Torraca. Ma le discussioni continuarono e sono in corso ancor oggi. Vi parteciparono il Luiso e il Moore (1902-1903), il Boffito nel 1907, Friedrich Schneider e Manfredi Porena nel 1933, Luigi Pietrobono nel 1939, Augusto Mancini nel 1943, Charles S. Singleton nel 1954, Francesco Mazzoni che dal 1955 in poi è ancora sulla breccia come campione della «scuola fiorentina», di nuovo lo Schneider nel 1957 per disdire la tesi già da lui sostenuta nel 1933, e ultimo, credo, proprio in quest'anno di grazia 1960, in appoggio alla nuova tesi dello Schneider, il dotto latinista di Oxford, Colin G. Hardie . E tutti, a mio parere, han portato qualche utile contributo alla soluzione della vexata quaestio dell’autenticità dell’Epistola.
Ma uno più degli altri: il Mancini. Fin dal 1939, il dotto maestro dell'Ateneo pisano, incaricato di preparare la nuova edizione delle Epistole che vanno sotto il nome di Dante, venuto a conoscenza del codice della Comunale di Bergamo contenente la lettera a Cangrande solo per i primi quattro paragrafi, ne offrì la trascrizione negli «Studi Danteschi» di Michele Barbi, e ne fece il raffronto con gli altri codici dei quali lo Schneider nel 1933 aveva riprodotto le fotografie in servizio degli studiosi. I codici sono in tutto nove; dei quali l’Ambrosiano, il Monacense e il Bergamasco contengono solo i primi quattro paragrafi, mentre gli altri hanno l’Epistola intera quale si legge nelle edizioni moderne.
Intento a preparare la sua edizione, il Mancini volle, come del resto aveva fatto il Boffito, rendersi conto, con maggiore accuratezza di questo, dell’uso che dell’Epistola intitolata al Signore di Verona avevano fatto i più antichi commentatori della Commedia fino al Boccaccio. E nella sua nota pubblicata nei «Rendiconti» della Classe di Scienze Morali e Storiche dell’Accademia dei Lincei , egli arrivava a questa conclusione: se per Epistola si intende tutto il testo quale noi lo possediamo, non ci è dato di risalire più su di Filippo Villani che leggeva Dante a Firenze sui primi del Quattrocento; se si intende invece una parte di esso, non ricordata però come epistola e tanto meno come Epistola di Dante a Cangrande, possiamo risalire fino al commento di Guido da Pisa che, secondo l'opinione del Mancini, avrebbe scritto la sua esposizione della Comedia pochi anni dopo la morte del Poeta.
Quest’opinione del Mancini sulla precedenza del commento di Guido ad altri commenti del Trecento non pare del tutto esatta, poiché sembra che esso debba posporsi a quello di Jacopo della Lana, dell’Ottimo e di Pietro di Dante. Ma, corretta questa inesattezza, il ragionamento del Mancini è ugualmente vali- do applicato al commento lanèo e a quelli dell’Ottimo e di Pietro e, mettiamo pure, a quello di Graziolo Bambaglioli che su di questi parrebbe avere la precedenza.
Con questa sua conclusione balenava al Mancini la possibilità, non contemplata né dai fautori dell’autenticità di tutta l’Epistola quale è conosciuta da noi, dopo Filippo Villani, né da coloro che tutta intera l’Epistola ritengono un falso, che veramente dantesca fosse la prima parte formata dei primi quattro paragrafi, mentre tutto il resto, cioè la massima parte di essa, non fosse se non il frammento iniziale di un'esposizione del Paradiso che un anonimo commentatore avrebbe lasciata interrotta; questo dapprima avrebbe circolato adespoto, cioè anonimo, finché qualcuno non l’ebbe «accodato» (la parola è del Mancini) alla breve lettera con la quale Dante aveva accompagnata l'offerta allo Scaligero di alcuni canti del Paradiso assai prima che la cantica fosse recata a termine. Così accodata alla breve lettera di Dante a Cangrande, anche questa lunga aggiunta acquistava particolare importanza e autorità, in quanto orientava il lettore della Commedia e in particolare del Paradiso verso una certa maniera d’interpretazione, sulla quale dovrò fermarmi un po’ più a lungo.
Balenatagli la possibilità che così fossero andate le cose, il Mancini, ammessa come sicura l’autenticità dantesca dei primi quattro paragrafi della lettera, sino alla frase «Itaque, formula consumata epistole» esclusa, si pose ad esaminare con molta attenzione la lunga parte espositiva e dottrinale, ossia la lunga coda che sarebbe stata appiccicata alla parte autentica, per cercare in essa le prove che autentica non fosse.
A parere del Mancini, mentre la parte autentica serviva ad accompagnare l'offerta di alcuni canti del Paradiso a guisa di primizia di un’opera non ancora recata a termine, l’autore della coda sembra aver dinanzi tutta intera la terza cantica che s'accinge ad esporre, sì da far pensare che egli ignorasse addirittura in quel momento la prima parte della lettera, cioè quella, come suol dirsi, nuncupativa. Ma l’autore di questa coda non può dirsi per questo un falsario; perché egli faceva opera di espositore (sub lectoris officio; badate bene che lector non è un comune legens, ma è termine scolastico che indica appunto chi fa lezione dalla cattedra, leggendo un’opera che egli si propone di esporre e commentare), e si guardava bene dallo spacciarsi per autore dell’opera commentata.
Soltanto più tardi, quando già questo frammento di esposizione del Paradiso, che non va più là dell’invocazione ad Apollo appena sfiorata, era entrato anonimo in circolazione, vi fu chi, o con intenzione o per errore , riunì la parte dottrinale ed espositiva alla parte nuncupativa, poiché non gli parve indegna di Dante.
E su questo punto, osserverò che lo stesso Mancini, per mantenersi entro gli stretti limiti della critica filologica, si è rifiutato di prendere in considerazione quelle obiezioni che tendono a negare l’autenticità dell’Epistola perché, come pare ad alcuno, per esempio al compianto maestro ed amico Luigi Pietrobono, essa non ci aiuta in niente a comprendere il poema sacro, ma svia piuttosto dall’intelligenza di esso, soprattutto del fine perseguito dal Poeta. Come avviamento ad un commento del Paradiso, niente trova in esso il Mancini che possa sconvenire a Dante. Ma, come insegna la loica, a posse ad esse non datur illatio, cioè dal fatto che una cosa appaia possibile, non si può concludere che essa sia reale.
Come accennavo dianzi, il Mancini ritiene dunque la parte dichiarativa o dottrinale dell’Epistola frammento di un'esposizione, appena iniziata e bruscamente interrotta, di tutto il Paradiso. A spiegare come questo frammento venne aggiunto alla breve lettera a Cangrande, egli postula l'intervento di una terza persona senza nome, s'intende, che per saldare le due cose diverse avrebbe dovuto spiegare: 1) il passaggio dall’una all’altra; 2) la brusca interruzione della parte dichiarativa. E quindi questo secondo anonimo, per adattare il frammento espositivo al quarto paragrafo, col quale la lettera a Cangrande finiva, avrebbe introdotto il periodo: «Itaque, formula consumata epistole» ecc. E alla fine, a dar ragione della brusca interruzione, avrebbe accennato, in modo piuttosto sconveniente, ad una «rei familiaris angustia», che mal s’accorda con quel che Dante dice in principio e ripete nel canto XVII del Paradiso, della sua affettuosa amicizia col «gran Lombardo» la cui cortesia e liberalità egli aveva sperimentata, sì «che del fare e del chieder», tra lor due, era «primo quel che, tra gli altri, è più tardo».
La tesi del Mancini presenta certamente alcuni lati deboli; primo fra tutti quello di non spiegare a che cosa potesse mai giovare l’avere accodato la parte dichiarativa alla vera Epistola a Cangrande, ai fini di mettere in evidenza i legami di Dante con la corte scaligera, contro la tendenza del Boccaccio, rilevata dal Mancini, a dar risalto all’abbandono di Verona da parte del Poeta che, negli ultimi anni, al rifugio veronese e al primo ostello aveva preferito l’ospitalità di Ravenna .
Altro punto poco chiaro nel Mancini è quello del momento nel quale questa coda sarebbe stata appiccicata all’Epistola autentica. Ma qui la faccenda si complica per un raffronto che era già stato fatto, fin dal 1890, fra certi passi della parte espositiva dell’Epistola e taluni passi del commento di Guizzardo Bolognese all’Ecerinis di Albertino Mussato, che hanno tra loro un’indubbia affinità. Siccome il commento di Guizzardo alla tragedia del poeta padovano porta in fine la data del 1317, e già taluno aveva pensato che Guizzardo dipendesse da Dante e non viceversa, il Mancini, che propende a datare ambedue le parti dell’Epistola negli anni successivi al 1317, era d’avviso che o il commento all’Ecerinis dipendesse da una stessa fonte dell’autore dell’Epistola, o che questo conoscesse e si valesse del commento alla tragedia del Mussato. In realtà il problema sollevato per l’affinità fra il commento di Guizzardo e l’Epistola è insussistente, perché, come ha intuito, più che veduto, lo stesso Mancini, le coincidenze tra l’uno e l’altra si spiegano ottimamente, come ho documentato altrove con numerose testimonianze tratte dall'ambiente culturale bolognese e padovano del secolo XIII e dei primi decenni del XIV, con l’esistenza non di una ma di molte fonti comuni . Sì che il problema da risolvere, nella teoria del Mancini, è triplice: quando poté essere scritta la parte autentica dell’Epistola a Cangrande? — primo problema; quando verosimilmente fu scritta, e con quali intenti, la dissertazione dottrinale? — secondo problema; quando questa fu accodata alla parte nuncupativa? — terzo problema. I tre problemi vanno tenuti accuratamente distinti.
Quasi dodici anni dopo che era apparso, lo scritto del Mancini fu sottoposto ad ampia critica da Francesco Mazzoni, in un saggio apparso negli stessi «Rendiconti» dell’Accademia dei Lincei . Il giovane autore, che ha nelle sue vene il sangue di Guido Mazzoni e di Pio Rajna, cioè di due grandi maestri dei miei verdi anni ormai lontani, si presenta alla giostra critica come campione e con le insegne della «scuola fiorentina»; e non nasconde una certa baldanza, nella fiducia che la trattazione dell'argomento abbia a farsi ormai «risolutiva» del più che secolare problema, sì da aspirare alla gloria di potere anch'egli fregiarsi del motto «Dantes vindicatus» .
Col proposito di difendere, dunque, l’autenticità integrale dell’Epistola a Cangrande, che è in sostanza la tesi della «scuola fiorentina», egli la suppone scritta entro i termini del 12 febbraio 1312, quando lo Scaligero ebbe da Arrigo VII la nomina a Vicario imperiale di Verona e di Vicenza, e il dicembre 1317, che è la data segnata alla fine del commento all’Ecerinide.
E veramente per la data del 1312, come termine a quo, non ci sarebbe niente da eccepire, se si potesse dimostrare che con questa Epistola Dante intendeva accompagnate l’invio al Signore di Verona del primo canto del Paradiso o di altra primizia della cantica da poco iniziata. Ma è possibile dimostrare questo?
Quanto poi alla data del 1317, che il Mazzoni assume come estremo limite ad quem o ante quem, c'è molto da eccepire.
Anzitutto per la convinzione che l’amico fiorentino s'è fatta, che l’Epistola tutta intera, così com'è giunta a noi dopo Filippo Villani, fosse nota a Guizzardo bolognese prima del dicembre 1317, e che questi ne dipendesse nel determinare i «sex solita» premessi al suo commento all’Ecerinis del Mussato. Ora io son perfino disposto ad ammettere che Dante e Guizzardo si conoscessero di persona. Guizzardo di Bondì o di Bondo, da Pregnano nell’alta valle della Secchia, comincia a comparire nei documenti bolognesi come insegnante di grammatica e di retorica nel 1289, e a Bologna egli insegnò, forse ad intervalli, fino al 1319. Verosimilmente a Bologna egli era ancora studente quando Dante, a Bologna, scriveva il sonetto sulla «Garisenda |torre... co’ risguardi belli», verso il 1287. Un fratello minore dello stesso Guizzardo, in un’opera andata perduta, diceva di lui che «dovunque, tanto nelle parti di Lombardia che in quelle di Toscana, era ritenuto il dottore dei dottori in grammatica» . Ma tutto questo non autorizza in nessun modo ad affermare che Guizzardo nel commento all’Ecerizide, quando accenna ai «sex solita» che sogliono premettersi o, come diceva Boezio, prelibarsi, a principio di ogni esposizione o commento, pensasse ai «sex inquirenda» della parte espositiva dell’Epistola a Cangrande. È ciò per la buona ragione che quei «sex in omni expositione praelibanda» erano stati fissati da Boezio sull’autorità di Mario Vittorino, ed avevano ormai una tradizione ininterrotta di 800 anni; ai tempi di Dante e di Guizzardo erano usati ovunque e da tutti: astronomi, medici, filosofi, teologi, giuristi e grammatici, specialmente a Bologna, come ho dimostrato con ampia documentazione che potrei dire schiacciante, sì da farci ritenere che fossero scritti fin sui proverbiali boccali di Montelupo. Alla qual tradizione, assai più che all’Epistola a Cangrande, s’uniforma per la terminologia corrente Guizzardo, come può facilmente persuadersi chi ne faccia il confronto con meno fretta di quel che abbia fatto l’amico Mazzoni .
Ma v'è ben altro da osservare. Per supporre, come fa il Mazzoni, che l’Epistola tutta intera fosse scritta da Dante un po’ prima del dicembre 1317, mettiamo pure nel corso del 1316 o qualche mese dopo, bisogna esser ben sicuri che questa lettera accompagnasse l'invio del primo canto del Paradiso o di pochi altri canti, e non di tutta la terza cantica già compiuta, e che nella parte espositiva l’autore si proponesse di esporre solo la protasi del primo canto e non tutta intera la cantica.
Ora di tutto questo io non mi sento affatto sicuro, e quel che ne dice il Mazzoni «m'ha fatto di dubbiar più pregno». Nessuna difficoltà ad ammettere che i «decem vascula» di latte munti dall’«ovis gratissima,... ubera vix que ferre potest», siano dieci canti del Paradiso da mandare a Mopso, cioè a Giovanni del Virgilio. Che così Dante solesse fare anche con Cangrande, prima d’aver recato a termine la terza cantica, che intendeva dedicargli, è narrato dal Boccaccio, e qualcosa di vero nella narrazione del certaldese ci sarà bene, a parte il fantasioso racconto del ritrovamento degli ultimi tredici canti dopo la morte del Poeta. Anche se tutto questo è vero, non getta alcuna luce su quanto si legge nei primi quattro paragrafi dell’Epistola, che hanno un senso sufficientemente chiaro in se stessi, dal quale i «decem vascula» dell’Egloga I di Dante e le notizie tramandate dal Boccaccio sembran fatti apposta per distrarre chi legge. Rileggiamoli insieme questi quattro paragrafi, che recano così visibili e inconfondibili i caratteri dello stile dantesco, quasi direi le impronte digitali del loro autore:
Al Magnifico e vittorioso Signore, il Signor Cangrande della Scala, Vicario generale del sacratissimo Cesareo principato nella città di Verona e in quella di Vicenza, Dante Alighieri, fiorentino per nascita non per costumi, a lui pienamente devoto, prega dal cielo una vita per lunghi anni felice e un incremento senza fine del nome glorioso.
1. L’inclita lode della Magnificenza vostra, che la fama vigile diffonde, volando qua e là, divide gli uomini a tal segno, che gli uni esalta a bene sperare di lor prosperità, gli altri piomba nel terrore di loro sterminio. Tal rinomanza, superiore certo alle imprese di qualunque altro moderno, io un tempo giudicava eccessiva, quasi amplificazione del vero. E perché una troppo lunga incertezza non tenesse sospeso il mio animo, come la regina del Mezzogiorno si recò a Gerusalemme e Pallade sull’Elicona , così mi recai a Verona per vedere ad una ad una, con l’occhio che non inganna, le cose che avevo udito. Or quivi ammirai le meraviglie da voi compiute, vidi le vostre larghezze e le sperimentai; e come per l’innanzi sospettavo eccessivo quanto si narrava, così dipoi mi convinsi che ben maggiori della fama erano i fatti. Sì che, come per l’addietro, al solo udirne parlare, avevo provato per voi un sentimento di benevolenza, insieme ad una certa sottomissione dell’animo, così, poi che ebbi visto, mi feci a voi devotissimo ed amico.
2. Né penso, assumendo il nome d’amico, d’incorrer nella taccia di presunzione, che forse più d’uno potrebbe rinfacciarmi; poiché il sacro vincolo dell’amicizia stringe tra loro non meno quei che son di disugual condizione di quei che sono di condizione uguale. Ché, se vogliamo fare attenzione alle amicizie dilettevoli e a quelle utili , molto spesso vedrà, chi ben guarda, che persone eminenti si legano a persone loro soggette. Se poi si drizza lo sguardo all’amicizia vera e disinteressata, non s'ha forse conferma che uomini oscuri per fortuna, ma chiari per virtù, furono amici il più delle volte di illustri ed eccelsi principi? E perché no, se neppure l’amicizia tra Dio e l’uomo è impedita dall’infinita distanza? Che se questo ad alcuno sembrasse un parlare indegno, ascolti lo Spirito Santo, là dove dichiara d’aver fatto taluni uomini partecipi della sua amicizia. Nel libro appunto della Sapienza , si legge, che «la sapienza è come un tesoro infinito per gli uomini, del quale quei che han fatto uso son divenuti partecipi dell’amicizia di Dio». Ma l’imperizia del volgo suol giudicare senza discernimento, e nello stesso modo che crede il sole della grandezza d’un piede , così anche nel giudicare dei costumi è tratto in inganno dalla sua vana credulità. Orbene, a coloro cui è stato concesso di conoscere qual è in noi la parte migliore , non s’addice di calcare le orme delle pecore, ma anzi son tenuti ad opporsi agli errori di queste , ché per il vigore del loro intelletto e della loro ragione , dotati quasi di una divina libertà, non sono astretti da alcuna consuetudine . Né ciò fa meraviglia, per la ragione che non essi dalle leggi, bensì le leggi da quelli prendon norma. E chiaro pertanto che l’avere io detto di sopra, d’esservi devotissimo ed amico, non è affatto cosa presuntuosa.
3. Ponendo dunque innanzi a tutto la vostra amicizia come il più caro tesoro, è mio desiderio di conservarla con diligente preveggenza e premurosa sollecitudine. Or, siccome nei dommi della scienza morale s’insegna che l'amicizia può ridursi a similitudine ed esser mantenuta mercè qualcosa d’analogo , mi son proposto d’attenermi all’analogia nel ricambiare i benefici che m'avete largito; e a questo scopo, spesso e con molta cura ho preso a considerare i piccoli doni che avrei potuto farvi, a sceverarli l’un dall’altro, e, dopo averli sceverati, a esaminarli, per trovare tra essi il più degno di voi e a voi più gradito. Ma altro non ne trovai, che fosse più adatto all’alta vostra dignità, se non la più ardua cantica della Comedia che s'otna del titolo di Paradiso. E questa appunto con la presente epistola, dedicandovela quasi con propria soprascritta, a voi intitolo, a voi offro, a voi infine raccomando.
4. Ed inoltre l’ardente mio affetto non permette che si lasci semplicemente senza risposta [quel che sembra a taluno] , che cioè da tale offerta derivi maggior fama ed onore al dono che non al Signore cui s’offre. Al contrario, col titolo che a lui ho dato pur ora, per chi vi ha posto sufficiente attenzione, si vede com’io abbia espresso il presagio di un accrescimento della gloria del vostro nome; ché tale è appunto il mio proposito. Ma il vivo desiderio della vostra grazia, che bramo con ardore, poco della mia vita curando, mi spingerà più innanzi verso la mèta che fin da principio m'ero prefissa.
Le tipiche cadenze ritmiche dello stile epistolare, le reminiscenze di altre opere dantesche che ho cercato di mettere in evidenza, l’ardita franchezza nel rivolgersi al principe amico e il non meno ardito ragionare col quale questa franchezza si giustifica, la stessa fiera convinzione d’aver trovato finalmente, tra le sue coserelle, quella davvero degna dell’ospite liberale e magnifico, da ricambiare in dono, tutto questo tradisce, a parte l'intestazione, la mano di Dante, e preannuncia il generoso proposito del Poeta di voler fra breve dedicarsi a celebrarne le gesta, nell’attesa che si compiessero le speranze riposte in lui in quel momento.
Ma qual era il dono che Dante offriva, accompagnandolo con questa breve lettera, al Signore di Verona? Alcuni, e fra questi lo stesso Mancini, si sono adontati dell'espressione «Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi», che pare ad essi contrastare troppo coi «munuscula» tra i quali aveva prima frugato per trovarvi qualcosa di degno del principe. Veramente sublime sembra che qui significhi «la più elevata» o «la più ardua», come appunto ho tradotto. Ma, per Dio, non avete letto l’invocazione ad Apollo, e i versi in principio del secondo canto:
L’acqua ch'io prendo già mai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse?
Eliminata pertanto l’inconsistente difficoltà, mi pare che il tenore della lettera non lasci adito a dubbi di sorta: con essa Dante offriva in dono e dedicava, affidandola alla protezione di lui, la terza cantica del poema; la qual dedica non avrebbe avuto senso se l’opera non fosse ormai stata condotta a termine. Qui non si parla né di «decem vascula» né di primizie di canti, ma della cantica del Paradiso pronta ormai ad essere dedicata «sub epigrammate proprio», intitolata, offerta e non promessa, anzi raccomandata al Signore di Verona, e non a Federico d’ Aragona né ad altri. Il che non può essere avvenuto se non nel 1319 o in ogni modo prima della grave sconfitta di Padova nell’agosto 1320, quando Cangrande conservava ancora il titolo di Vicario imperiale per Verona e Vicenza ed era veramente «vittorioso». I conti per accogliere questa data assai ampia tornano perfettamente, e non c’è nulla da eccepire. Proprio nulla; a meno che non si prenda sul serio la voce raccolta dal Boccaccio dell’intenzione di dedicare la terza cantica a Federico re di Sicilia (non ostante quel che di lui vi si legge al canto XIX, 130-138!), e la storiella del ritrovamento degli ultimi tredici canti del poema dopo la morte dell’autore. La lettera che doveva accompagnare l’offerta ha tutta l’aria di concludersi, a qualche distanza dal tempo in cui Dante aveva visitato la corte scaligera, e, preso d’ammirazione per le meravigliose cose vedute, aveva sperimentato la generosità del principe (nessuna notizia sicura sul momento e sulla durata della permanenza di Dante a Verona), con la promessa, che è anche augurio, d’aver tra breve a riprender la penna, per celebrarne nuovi trionfi e quelle «magnificenze» che, conosciute, gli stessi suoi nemici «non ne potran tener le lingue mute».
A questa bella chiusa segue invece, inaspettata, una lunga coda, ben diversa nello stile e nel proposito, che s’annuncia come un commento alla terza cantica, ove l’autore, messa da banda la prima persona, assume la parte d’un qualunque espositore: «sub lectoris officio»!
E, quel che è veramente stupefacente, mentre nessuno, prima di Filippo Villani, mostra di conoscere la parte della lettera con la quale Dante in proprio nome e in prima persona dedicava la cantica allo Scaligero, tutti i commentatori, da Jacopo della Lana fino al Boccaccio, sembrano conoscer bene questa teologica coda, ma senza sapere che è di Dante, anche quando, come l’Ottimo del codice Barberiniano lat. 4103, ne approfittano più o meno largamente.
E che si tratti del principio di un commento a tutta la terza cantica è dimostrato non tanto dal fatto che l’autore si presenti «sub lectoris officio» (Dante aveva già commentato le proprie rime nella Vita Nuova e nel Convivio), quanto dall'esordio con una citazione aristotelica, quasi di rito: «Sicut dicit Phylosophus in secundo Metaphysicorum...» , col quale il commento piglia le mosse, e più ancora con l’enunciazione dei «Sex... que in principio cuiusque doctrinalis operis inquirenda sunt».
Di questi «Sex... inquirenda» mi sono occupato quanto basta nelle mie Osservazioni sul medievale «accessus ad auctores»; perciò non vi tornerò sopra, se non per aggiungerne due molto brevi.
E prima di tutto questa. Siccome questo commentatore si accingeva a esporre soltanto la terza parte del poema, ha creduto opportuno di fare due volte il suo lavoro introduttivo nei riguardi di tre dei «Sex... inquirenda»: una prima volta in rapporto a tutto il poema, e quindi una seconda volta in rapporto soltanto alla parte presa a commentare; poiché il «soggetto», la «forma» e il «titolo» variano dal tutto alla parte. Così, ad esempio, se pigliamo il «soggetto», ossia l’argomento, di tutto il poema, nel senso letterale, esso è lo «status animarum post mortem», sì di quelle che sono all’inferno come di quelle che sono in purgatorio e in paradiso, cioè di tutte le anime passate da questo all’altro mondo: è evidente. Argomento del Paradiso, preso a sé, è invece lo «status animarum beatarum post mortem», cioè non di tutte le anime dei trapassati, ma soltanto di quelle che han raggiunto la beatitudine celeste: anche questo è evidente, e non nasconde alcun segreto; quasi direi che è banale. E tutto questo l’autore dice distinguendo lo «status animarum post mortem... simpliciter acceptus», che è di tutta la Corzzedia, compreso in essa il Paradiso, e lo «status... contractus» che è proprio di ciascu- na delle tre cantiche presa a sé. Ora all'amico Mazzoni la cosa non è parsa così semplice; ed è stato condotto dall'anima beata di Mario Casella a imbastirvi su la più ‘oscura glosa’. Sentite che roba:
Da un lato, dunque l’uomo simpliciter acceptus: creatura che vive ed agisce e che si colloca nell’esistente come libera attività d'una natura razionale, che si determina in relazione al fine cui mira, e che può quindi negarsi al Suo Creatore — e subirne così l’Eterna legge — o edificarsi su se stessa, in un continuo perfezionamento e arricchimento interiore, mediante l'affermazione di una volontà buona, che del Bene fa la sua stessa ragion d'essere; dall'altra (?), invece, l’uomo non simpliciter acceptus, ma contractus: còlto cioè non assolutamente, come natura creata e passivamente (?) ordinata ai suoi fini temporali — la materia delle prime due cantiche — ma secundum quid: come anima «naturalmente ordinata al suo fine ultimo soprannaturale» ecc. .
Tutto questo senza riflettere che l’intero poema comprende... anche la parte, e che anche nell’Inferno s'incontrano «anime naturalmente ordinate al loro fine ultimo soprannaturale», che esse per incontinenza, per matta bestialità o per pura malizia, non ostante i divini carismi, non si sono adoprate a raggiungere.
Seconda osservazione, che riguarda la svalutazione del senso letterale del poema, a beneficio di un supposto senso allegorico.
Chiunque s’accingeva a leggere la Commedia appena o da poco uscita, non poteva esimersi dall’intenderla così come suonano le parole. Trascinato dall’armonia del verso e dalla vivezza delle immagini, sedotto dalla stessa arditezza e novità della concezione, egli seguiva il Poeta nel suo smarrimento, nel suo incontro con Virgilio, e nel suo fatale andare, sotto la guida di questo, giù per la voragine infernale, e quindi lo vedeva, risalito a riveder le stelle, intraprender l’ascesa per i faticosi balzi del Purgatorio, sulle pendici de monte dell’Eden, fino a raggiungere sulla cima di questo monte il Paradiso terrestre, ove Dio aveva collocato Adamo e formata Eva. Poi, dopo il drammatico incontro con Beatrice sulle sponde del Letè e la vista della pianta due volte dispogliata, salire, sotto la guida della donna beata, di cielo in cielo fino al cospetto di Dio, come Paolo, e come questo fatto degno, prima della morte, della visione beatifica dell’essenza divina. E nelle tappe di questo sovrumano viaggio farsi dichiarare dagli spiriti da lui incontrati, che il suo andare a secolo immortale, corruttibile ancora come Enea e come Paolo, era voluto «colà dove si puote |ciò che si vuole», per un privilegio particolare di Dio, perché vedesse «la cagion che ’l mondo ha fatto reo» e la denunciasse, tornato sulla terra, a premio della sua grande speranza in un rinnovamento umano che facesse rinverdire la pianta edenica «due volte dirubata». Tutto questo non era lasciato indovinare, ma detto con parole chiare e ripetute con insistenza. Sì che, chi leggeva il poema ne riportava la convinzione di trovarsi dinanzi ad una visione profetica, ispirata direttamente da alcuni dei libri profetici della Bibbia, ad un altissimo canto religioso che taluno non esitò a ritenere divinamente ispirato. Tutto questo appariva chiaro, insolito sì ma chiaro, a chiunque, leggendo la Commedia, si attenesse al senso letterale. Tanto più che la Chiesa non ritiene affatto chiusa la serie dei profeti, cui Dio rivela i suoi arcani disegni, col Vecchio e il Nuovo Testamento. Tutto il Medioevo è pieno di queste profetiche rivelazioni, e lo stesso Dante ritiene ispirati nei loro scritti Sant'Agostino e altri Padri della Chiesa (Mon., III, 1, 13) «a Spiritu Sancto adiutos», senza contate «il calavrese abate Giovacchino, [di spirito profetico dotato».
Ora pensate un po’ che significato e che valore acquistano i giudizi tremendi, le condanne e le invettive che risuonano per tutto il poema dantesco contro «la gente ch’ al mondo più traligna» (Par, XVI, 58), se s‘ammette il senso letterale della Commedia. Oggi, per discolpare Dante da siffatto linguaggio da... codice penale, si ricorre volentieri alla passione politica che lo avrebbe ispirato. Ed io son disposto ad ammettere che la passione politica sia più violenta dell’ispirazione divina, sebbene taluni profeti dell'Antico Testamento non scherzassero nel minacciare. Nemmeno scherza nel profetare tremendi castighi l’Apocalisse. Ed ammetto anche che Dante fosse violentissimo nelle sue veementi passioni politi- che. Ma lo studio attento dello svolgimento del suo pensiero mi ha persuaso che, dopo la separazione dalla compagnia malvagia e scempia, nell’estate 1304, egli si rassegnò al doloroso esilio, e che nel 1305-1307, la sua passione politica egli avesse ormai già domata con una più gagliarda passione: quella filosofica del Convivio e della Monarchia. E che, quando pose mano alla Commedia nel 1308, com'io penso, anche la passione filosofica fosse ormai frenata e domata da una più ardente passione: quella della riforma religiosa, accesasi nel suo animo men- tre attendeva a scrivere il terzo trattato della Monarchia. Sì che nella Commedia rivive, sì, il ricordo di molte vicende politiche che un tempo l’avevano investito e travolto, ma è ricordo piuttosto lontano; e i casi che gli erano occorsi e le persone che erano state cagione delle sue sventure son giudicati da un punto di vista più alto e più nobile che non quello del risentimento personale.
Meno brutali e più generosi di certi commentatori moderni, i primi commentatori del Trecento presero un’altra via per dissipare le accuse di eresia che furono elevate contro di lui, forse prima che le sue stanche ossa riposassero nella pace di San Francesco a Ravenna. Anzi senza forse: ché nel paragrafo 28 dell’Epistola stessa, cioè nella parte dottrinaria, scritta certamente appena il Paradiso cominciò a divulgarsi, si accenna già a «invidiosi», i quali latravano contro di lui «in dispositionem elevationis tante propter peccatum loquentis», dicevano cioè che, se Dio voleva innalzare alla visione beatifica un mortale e svelargli i suoi arcani disegni, non si sarebbe certo servito d’un peccatore come l’autore della Commedia.
E non eran dieci anni ch’egli era morto, che il domenicano frate Guido Verna- ni da Rimini, accingendosi a confutare la Monarchia, parla in questi termini del «poema sacro | al quale ha posto mano e cielo e terra», e del suo autore, scrivendone al cancelliere del Comune di Bologna Graziolo, che fu uno dei primi a commentare la Commedia:
Vaso del padre della menzogna, costui, poetizzando su molti argomenti con la sua fantasia, da sofista verboso qual'è, grato a molti per la sua eloquenza fatta di parole che suonan di fuori, con le sue poetiche fanfaluche e vane finzioni, per usare le parole della Filosofia venuta a consolare Boezio, quasi conducendo sulla scena delle sgualdrinelle, conduce alla perdita della salutifera verità non soltanto gli animi deboli, ma anche quelli alacri nella ricerca del vero, col dolce canto delle sirene. Perciò, messe in disparte con So le altre sue opere, passo ad occuparmi di quel libro che egli intitola Monarchia...
E pochi anni dopo, nel capitolo dei domenicani della provincia toscano-romana, tenuto a Firenze nel 1335, fu severamente (stricte) proibito a tutti i frati giovani e anziani di tenere presso di sé e di studiare i libri o libelli poetici scritti in volgare da quello che chiamano Dante. Questi «libelli» poetici in volgare erano certamente le tre cantiche della Commedia.
Quando dunque Pietro, figlio di Dante, nella canzone morale Quelle sette arti, che gli è attribuita nell’unico codice Riccardiano 1091, si duole di «quei che voglion dire | che ’l mastro della fede fussi errante», attesta il vero. Proprio lui, che, «se (la fede) fussi spenta» sarebbe in grado di rifarla («rifariela Dante», cioè ne potrebbe riscrivere i documenti), era stato «condannato in concestoro», da un concilio di frati domenicani, e per giunta in Firenze. A tutto questo non hanno pensato né il Mancini né il Mazzoni. Eppure tutti i primi commentatori della Commedia si son preoccupati di difender Dante dall’accusa di eresia ogni volta che le sue parole davan pretesto a simile accusa. Tutti, dico, da Graziolo a Pietro, da Jacopo della Lana a Guido da Pisa, dall’Ottimo al Boccaccio. E tutti lo metto- no al riparo da questa accusa nello stesso modo, cioè distinguendo quello che Dante scrive come poeta (poetizans) da quello che Dante pensa come teologo «nullius dogmatis experts», ossia, in sostanza, fra il senso letterale, intenzionalmente svalutato, e il senso allegorico, il solo vero, cioè quello che si cela sotto il velo delle parole fittizie, «sotto il velame de li versi strani», come dice Dante stesso in uno dei luoghi del poema veramente allegorici. Quello a cui bisogna badare non è il senso letterale, ma il senso che si cela sotto le parole fittizie.
La «corteccia delle parole», ossia «i poetichi detti», come vuole l’Ottimo, non conta, poiché «pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas»: ai pittori e ai poeti è stata sempre riconosciuta la facoltà di osare qualunque cosa. La sentenza della Poetria d’Orazio è invocata dall’Ottimo nel codice Barberiniano lat. 4103 (f. 66va), proprio in un caso in cui Dante era tacciato d’eresia: «Se l’auctore sentisse come la lettera dice, non è dubbio che sarebbe heresia... Ma elli poetizza». Del resto, anche Aristotele, nel proemio della Metafisica a proposito di un detto di Simonide, aveva ricordato il proverbio, di sapore schiettamente platonico: molte volte soglion mentire i poeti: «secundum proverbium, multa mentiuntur poetae». Sotto la corteccia delle parole poetiche va pertanto cercato, secondo l’Ottimo, «altro e più alto intendimento», come s'erano adoprati a fare gl’interpreti medievali, non solo di Virgilio, ma anche delle opere più scabrose d’Ovidio. Il senso allegorico è appunto quello che per i commentatori antichi poteva salvare, e salvò, Dante dalla taccia d’eretico.
Ora questo accorgimento ermeneutico di applicare alla Commedia i criteri dell’interpretazione allegorica della Bibbia, specialmente per quei luoghi che parevano più scabrosi, è stato suggerito a questi antichi commentatori dall’autore della parte dottrinale dell’Epistola a Cangrande. Nell’applicazione dei «sex... inquirenda», ossia dei tradizionali sei accessus ad auctores, egli s'è adoprato, da scaltro teologo, a sviare l’attenzione del lettore dal senso letterale dell’opera, per additargli un soprassenso che non è quello della lettera, anche quando questa è piana e non richiede «oscura glosa». Il vero soggetto della Commedia, non è per lui il viaggio di Dante Alighieri fiorentino con la sua propria individualità ricca di tanta esperienza e di accese speranze, ma la visione dello stato delle anime dopo la morte, secondo la lettera, e la giustizia divina nel punire e premiare le opere dell’uomo, secondo il senso allegorico. Quindi il modus agendi o tractandi del poema, in quanto poetica finzione senz’altra realtà che quella fittizia e immaginaria, è da perdonare al poeta in grazia del mondo teologico nel quale egli ci introduce con l’allegoria. Poco dopo, Jacopo della Lana dirà che, quando Dante pone questa o quell’anima in un determinato posto dei tre regni da lui visitati, questo non si deve intendere nel senso letterale, che cioè quell’anima si trovi davvero nel posto che egli le ha assegnato, ma spiritualmente si deve intendere del vizio o della virtù che a quelle anime vengono attribuiti.
Con siffatta interpretazione il poema sacro, da opera di altissima poesia religiosa quale si presenta a chi s’attenga al senso letterale, veniva messo alla pari di un trattato teologico morale De novissimis, e svuotato di quella personale esperienza che aveva condotto il poeta ad avvicinarsi all’ideale di riforma vagheggiato dal gioachimismo francescano, ai profeti dell’Antico Testamento e al rapimento di San Paolo, per trarre ispirazione dalle loro visioni.
Il colmo di questa tendenza, che si manifesta in tutti i commenti trecenteschi della Commedia e che avrà conseguenze nefaste sull’esegesi dantesca fino ai nostri giorni, è raggiunto dal Boccaccio, il quale sdoppia addirittura, per ognuno dei canti da lui commentati, l’interpretazione letterale da quella allegorica. E il vero sentire di Dante cerca, non nell’esposizione letterale, infarcita di quell’erudizione mitologica che fu la sua delizia di “umanista” nella sua vecchiaia, bensì nell’interpretazione allegorico-morale. Quando s’afferma che il Boccaccio salva il poema dantesco dai sospetti d’eresia «affermandone esclusivamente la validità poetica», cioè, come si spiega, «di finzione» , mi pare che si riecheggino le difese dell’Ottimo e il «multa mentiuntur poetae» di Aristotele.
La parola «finzione» va chiarita. Dante e il Boccaccio, al pari di Guizzardo Bolognese, avevano appreso da Isidoro, dalle Magnae derivationes di Uguccione e dal Catholicon di Giovanni da Genova, che le parole «poeta» e «poesis» derivano dal verbo greco «poiéo», tradotto in latino «fingo». Ora «fingo» nel significato primitivo di «creare, costruire, dar forma, dipingere, scolpire», sì con le mani che con la fantasia, rende esattamente il significato del verbo greco «poiéo», onde «poietài» sono in greco tanto l’umile artigiano che costruisce un oggetto per soddisfare i bisogni della vita quotidiana, quanto Omero che foggiò i suoi «poiémata», Fidia e Apelle che scolpirono statue e dipinsero quadri, e Dio stesso che «epéiesen», cioè creò, il cielo e la terra, dei quali appunto è il «poietés». Ma del verbo latino «fingo» vi sono altri sensi derivati e secondari; per esempio quello di «simulo», che vuol dire appunto «mentire». Ora, quando i commentatori di Dante svalutano il senso letterale della Commedia, dichiarandolo «finzione», e gli oppongono il senso allegorico, come l’unico vero, mostrano d’aver troppo subìto l’influsso del proverbio «multa mentiuntur poetae».
Eppure il Boccaccio, nei suoi verdi anni, era stato vero e grande poeta. Come sarebbe stato interessante udirlo, a settant'anni, esporre allegoricamente la novella di Ser Ciappelletto o quella di Fra Cipolla!
Il caudatario dell’Epistola a Cangrande non vuol certo male a Dante. Anzi il suo intento è proprio quello di scagionare il Poeta dalle accuse d’eresia che, da diverse parti, gl’«invidi» gli avevano mosse. E anche a proposito della «finzione» finale del poema, cioè dell’elevazione di lui, ancor vivo e peccatore, alla visione beatifica di Dio, la teologia non ha niente da opporre. «Poiché quel Dio “che fa sorgere il suo sole sui buoni e i cattivi e fa piovere sui giusti e gl’ingiusti”, talvolta per misericordia a scopo di conversione, talaltra sdegnato per giusto castigo, manifesta la sua gloria, in misura maggiore o minore, a coloro che mal vivono, sempre che lo voglia» (Ep., XIII, 28, 82).
Che questo sia veramente accaduto a Dante, Dio solo lo sa. All’autore di questa seconda parte dell’Epistola basta, per la difesa del Poeta, considerare la vicenda narrata da questo come «finzione» poetica che cela un senso allegorico. Con tale avvedimento, questo teologo, qual si dimostra, ha avviato l'interpretazione del poema sacro sul binario della comune teologia e, svalutandone il senso letterale, ne ha attenuato gli ardimenti profetici e le roventi invettive. Nel che egli è stato buon maestro non solo a tutti i commentatori del Trecento, ma anche a quelli più vicini a noi, i quali, pur riconoscendo a Dante la tempra di vero poeta, ne svalutano l’altissima ispirazione religiosa da cui la poesia sgorga, e s'adoprano a darci di lui una rappresentazione che, per usare una nota espressione carducciana, ben potrebbe dirsi di paolotto.
Come teologo, certo, l’autore di questa teologica coda si mostra assai scaltrito, e dice cose che, così all’ingrosso, si trovan dette da Dante o che non sconverrebbero al Poeta. Ma non bisogna esagerare sulla finezza di questo teologo, come fa l’amico Francesco Mazzoni. Per esempio, quando, al paragrafo 28, 77-78, parafrasa i versi 8-9 del I canto del Paradiso: «“intellectus in tantum profundat se” in ipsum “desiderium suum”, quod est Deus, “quod memoria sequi non potest”», traduce letteralmente con precisione; ma subito dopo mostra di non aver capito, spiegando: «Intellectus humanus in hac vita... quando elevatur, in tantum eleva- tur, ut memoria post reditum deficiat propter transcendisse humanum modum». La memoria, che è facoltà legata alla fantasia, non vien meno post reditum, per la ragione che essa, non avendo potuto tener dietro all’intelletto nella elevazione di questo alla visione beatifica ed essendo già prima venuta meno «a tanto oltrag- gio», non ha ritorno di là dove essa non era salita. Così anche quando parafrasa il verso 6: «“que referre nescit et nequit rediens”;... nescit quia oblitus, nequit quia, si recordatur et contentum tenet, sermo tamen deficit» (29, 83). La memoria non ha obliato quel che non ha mai veduto .
Qualche differenza di linguaggio si può notare anche nel parlare dell’Empireo. Sì; per il teologo dell’Epistola l’Empireo è, come per Dante, il cielo che prende maggiormente della luce divina; ma è sempre un corpo che circonda e contiene il primo mobile, ed è quello che esercita la sua causalità efficiente su tutto il resto dell’universo. In quanto sede degli spiriti beati, esso è «igne sui ardoris flagrans», non perché sia in esso fuoco o ardore materiale, «sed spiritualis, quod est amor sanctus sive caritas» (24, 68); e questo ammettevano tutti i teologi. Ma per Dante l’Empireo è qualcosa di più alto: come per Marciano Capella, l’Empireo è per lui «fore | del maggior corpo», è «pura... luce intellettual» (Par., XXX, 38-42). Ma non starò a ripetere quello che diffusamente ho detto altrove .
Ma v'è un altro punto che m’ha dato più volte ragione a dubitare, e sul quale l’amico Mazzoni ha ora richiamato di nuovo la mia attenzione; ed è proprio là dove il nostro caudatario, nell’intento di chiarire come la gloria del Primo motore «per l'universo penetra e risplende», introduce la ben nota dottrina della distinzione tra l'essere e l'essenza, per concludere che essa «penetrat, quantum ad essentiam; resplendet, quantum ad esse» (23, 64). Evidentemente, questa distinzione non può trasferirsi nel Primo motore, perché esso è, per tutti i filosofi e teologi medievali, «essere per essenza», cioè essere puro e infinito, nel quale ogni differenza fra potenza ed atto, fra essenza ed essere, è comunemente ritenuta assurda e teologicamente giudicata eretica. Dunque, la differenza di cui qui si parla va riferita alle cose che costituiscono l’universo ove la gloria di Dio «penetra e risplende | in una parte più e meno altrove».
Riferita appunto alle cose create, questa distinzione è una vecchia dottrina d’origine neoplatonica, che San Tommaso aveva trovato in Avicenna ed aveva confortato con la distinzione di Boezio tra il «quod est» delle cose create e il loro «quo est». E siffatta distinzione aveva dato luogo a vivaci discussioni fra tomisti e scotisti che durano anc’oggi con la stessa vivacità e non poca ostinazione tra le due scuole. Ma alla fine del secolo XIII e nei primi decenni del secolo successivo era in corso una non meno vivace polemica tra tomisti ed eremitani di Sant Agostino, seguaci questi ultimi del pensiero di Egidio Romano. E il bello si è che tomisti ed egidiani eran d'accordo nell’ammettere siffatta distinzione reale. Se non che, mentre i tomisti si guardavano bene dal separare l'essenza dall’esistenza, e le consideravano unite nel rapporto di potenza ed atto, gli egidiani accentuavano la diversità delle due realtà metafisiche fino a considerarle quasi come «cose» a sé. Tutta questa storia, poco nota un tempo, è stata accuratamente messa in chiaro dal 1927 in poi dal belga E. Hocedez .
Sentite ora come argomenta il caudatario dell’Epistola per dimostrare che la gloria di Dio, primo motore dell’universo, «penetra e risplende» in tutte le cose create:
20. Tutto quel che è, o ha essere da sé o l’ha da un altro. Ma è chiaro che avere esser da sé non s’addice che a uno solo, cioè al Primo essere o Principio [di tutti] , che è Dio; poiché il fatto di avere essere non implica esser necessario per sé, ed esser per sé necessario non compete che ad un solo essere, cioè al Primo, ossia a quel Principio che è causa di tutti; dunque tutti gli altri esseri, ad eccezione soltanto di quello, hanno essere da un altro. Se pertanto noi prendiamo l’ultimo essere dell’universo, non uno qualsiasi, è evidente che ha essere da un altro; e quello da cui ha essere o l’ha da sé oppure da un altro. Se l’ha da sé, ecco che è Primo; se da un altro, anche questo del pari o da sé o da un altro. E poiché in tal modo s’avrebbe un processo all’infinito nelle cause agenti, com'è provato nel secondo della Metafisica , bisogna arrivare ad un primo, che è Dio. Sì che, mediatamente o immediatamente, ogni cosa che ha essere l’ha da quello; ché, il fatto che una causa seconda riceva dalla prima, dà ad essa il potere di agire alla sua volta sul proprio causato, a modo di cosa che riceve un raggio e lo riverbera su altre; onde la causa prima è causa a maggior titolo... Or questo è da dire quanto all'essere.
Ma subito riprende:
21. Quanto poi all’essenza provo [il mio assunto] così. Ogni essenza, ad eccezione della Prima, è causata; altrimenti vi sarebbero più cose ad esser per sé necessarie; il che è impossibile. Quello che è causato, lo è dalla natura oppure dall’intelletto; e quello che lo è dalla natura, è causato per conseguenza dall’intelletto, poiché la natura è opera d intelligenza . Dunque, tutto quello che è causato, è causato da un qualche intelletto, vuoi mediatamente vuoi immediatamente . Ora, siccome all'essenza seguita la propria virtù, quando un'essenza è di natura intellettuale, soltanto dalla causa di questa deriva per intero la sua virtù. E così, come dianzi ci è stato forza pervenire alla prima causa dello stesso essere, allo stesso modo ora [è forza arrivare alla prima causa] dell’essenza e della virtù. Onde è chiaro, che ogni essenza e virtù [creata] procede dalla prima [intelligenza], e che le intelligenze inferiori ne ricevono a così dire il raggiare, e rimandano, a guisa di specchi, i raggi venuti di sopra su quel che è loro di sotto...
Il ragionamento concernente l’«essenza» è esattamente uguale al precedente concernente l’«essere». Si oda invece come Tommaso, che pure ammetteva la distinzione reale dell’«essere» dall’«essenza», argomenta a risolvere il problema come Dio è in tutte le cose :
Dio è in tutte le cose... come l'agente è presente alla cosa sulla quale agisce; ché occorre che ogni agente si congiunga a quello su cui immediatamente agisce e che lo tocchi con la sua virtù... Ora, siccome Dio è lo stesso essere per essenza, bisogna che l’essere creato sia suo proprio effetto, come l’ardere è proprio effetto del fuoco. Ma questo effetto Dio causa nelle cose, non solo nel momento quando dapprima cominciano ad essere, ma fintanto che esse durano, a quel modo che la luce è causata dal sole nell’aria fintanto che l’aria continua ad essere illuminata. Perciò, fintanto che una cosa ha essere, è necessario che Dio sia ad essa presente in quel modo che essa è. Ora l’essere è quello che v'è di più intimo in ogni cosa e che in tutte le cose è più profondo, come principio formale rispetto a tutti gli altri principi che sono in ciascuna cosa... Sì che è forza dire che Dio è in tutte le cose, e in modo intimo.
Che bisogno c’era di tirare in ballo la distinzione dell’essere dall’essenza? Il nostro teologo s’è proposto di spiegare la differenza tra «penetra» e «risplende». E per lui, infatti, la gloria di Dio «penetra» nelle cose «quanto all'essenza» e «risplende quanto all'essere». Tommaso invece è d’avviso che proprio l’«essere» sia quello che v'è di «più intimo» e di «più profondo» in ogni cosa creata. Questione di punti di vista.
Anche Dante (Par, II, 112-120) ci fa conoscere qual è il suo punto di vista a proposito della derivazione del molteplice dall’Uno, a giustificazione delle macchie lunari. Avvolto entro la luce «intellettuale» dell’Empireo, «si gira un corpo», il «maggior corpo» dell’universo, «ne la cui virtute | l’esser di tutto suo contento giace». Cielo perfettamente uniforme in tutte le sue parti, il primo cielo mobile è appunto il cielo dell’essere indifferenziato. Il cielo stellato, che vien dopo, per mezzo delle sue «tante vedute», diverse tra loro «nel quale e nel quanto», «quell’esser parte per diverse essenze, | da lui distinte e da lui contenute». Le «diverse essenze» o nature, che «li altri giron per varie differenze» determinano ancor di più, disponendo «le distinzion che dentro da sé hanno |... a lor fini e lor semenze», fin che esse divengono, per tal processo discendente, nature particolari di «elementi» e di «misture». Nella qual teoria, d'origine schiettamente neo- platonica, le «essenze», lungi dal cadere fuori del «contento» dell’«essere», non sono altro che determinazioni, a guisa di «differenze specifiche», e di limitazioni dell’àmbito di quello. Mi pare una cosa un po’ diversa .
Questi due paragrafi dell’Epistola ebbero ad attirare l’attenzione dell’Ottimo nella redazione barberiniana segnalata da Francesco Mazzoni . Badate per altro che il Mazzoni, nel mettere a raffronto il brano dell’Epistola con quanto ne riporta il Barberiniano lat. 4103 (ff. 250a-251b), non prova affatto che questo attribuisca a Dante quel che si legge nella chiosa ai primi due versi del Paradiso. Evidentemente anche in questo caso il commentatore ha sott'occhio la parte dichiarativa dell’Epistola e non sospetta ch’essa sia dell’Alighieri; tanto poco il raffronto istituito dall’egregio studioso fiorentino lo autorizza a concludere: «L’Ottimo aveva dunque dinanzi l’Epistola a Cangrande, e se ne servì, come di una scoperta preziosa, soltanto nella sua terza redazione: databile, per elementi interni, tra il principio del 1337 e il 1343» . E nonera stato lo stesso Mazzoni a suggerire l’ipotesi che la parte dichiarativa, staccata dalla parte nuncupativa, fosse stata diffusa «sotto il velo dell’anonimo, e per questo veramente res nullius», finché «qualcuno un bel giorno», ecc. ecc. ?
Io riterrei piuttosto che le cose fossero andate più semplicemente in questo modo: l’Ottimo, che presenta il suo lavoro come raccolta di chiose prese da diverse parti, s'è imbattuto, «un bel giorno», in questo inizio di commento al Paradiso, anonimo e vagante alla deriva, e n’è stato colpito, come prima e dopo di lui altri chiosatori fino al Boccaccio. Incappato nella chiosa alla frase «penetra e risplende», cerca di appropriarsela a modo suo. Ed anzi tutto comincia coll’intendere per «gloria di colui che tutto move» la «continua fama con lode o exultatione d’excellenza di Dio», la quale «passa per tutto et risplende», ove è chiaro che «passa» sta al posto di «penetra», e quindi travisa il senso che ha in mente il cauadatario:
...passa per tutto et risplende in una parte più sì come incielo, et meno altrove sì come apo li inferni, pero che secondo la dignitade et conditione del receptibile et del luogo, così vi si mostra questa gloria. Et do exemplo. Altrimenti passa et luce il sole in uno et per uno corpo dyafano et trasparente, et altrimenti in uno et per uno corpo la cui materia è obtusa et grossa. Che risplenda in ogni parte ragione et auctoritade il manifesta. La ragione così. Cio che è...
E qui l’Ottimo riporta alcuni tratti del paragrafo 20 dell’Epistola, a dimostrare che Dio è prima cagione dell’essere delle cose create. Alla dimostrazione che è nel paragrafo successivo, che cioè questo è vero anche quanto all’essenza, l’Ottimo non bada affatto, e la salta a piè pari. Quella dell’Ottimo è una «scelta inconscia», oppure egli era «cosciente d’agire entro una ben precisa corrente filosofica»? Il Mazzoni non risolve il piccolo problema quando scrive :
E che il salto dell’intiero paragrafo fosse deliberato, ce lo dice l’attacco del § 23: «Donque è bene detto, ch’el divino raggio overo la divina gloria per l'universo penetra et risplende: penetra quanto a l’essentia, risplende quanto a l’essere»; sarà stata questa enunciazione conclusiva dell’Epistola, mantenuta anche dal commentatore, a spingerlo verso la soppressione d'un passaggio ritenuto supervacaneo alla dimostrazione.
Ora l’Ottimo nella raccolta delle sue chiose da diverse fonti, specialmente quando si tratta di punti dottrinali della Commedia, e in particolare di quei punti che avevan «più di felle», dal suo punto di vista schiettamente tomistico, dimostra di essere sempre molto avveduto e sagace. Né il paragrafo 21 dell’Epistola costituisce affatto un passaggio che potesse ritenersi «supervacaneo alla dimostrazione», così come l’autore l’aveva impostata. Certo, il fatto che in quel paragrafo si ripeta sostanzialmente per l’essenza lo stesso ragionamento che nel paragrafo precedente era stato fatto per l’essere, è assai curioso. Perfino il paragone del raggio diretto e di quello riverberato è ripetuto. Tutto questo perché allo scrittore premeva di mettere in evidenza una dottrina che gli stava a cuore, quella della distinzione fra essere ed essenza, che alla illustrazione del verso dantesco non era richiesta. Proprio questo a me pare abbia capito l’Ottimo, lasciando andare il paragrafo 21. Ma resta tuttavia la conclusione al paragrafo 23. Sì, ma priva della sua giustificazione logica, che la legava ad una premessa, la quale nell’Ottimo manca; e, perciò, resta come semplice aggiunta esplicativa delle parole del Poeta, che la divina gloria «per l’universo penetra e risplende».
Anche il modo piuttosto disinvolto come l’Ottimo usa di un documento che «aveva dinanzi», per giovarmi dell’espressione mazzoniana, parrebbe dimostrare che questo documento non era «l’Epistola a Cangrande» almeno quale è pervenuta a noi, dopo Filippo Villani. E nel caso presente è certo ch’egli non se n’è servito davvero «come di una preziosa scoperta», qual si pretende. Sì che l’attestazione dell’Ottimo si riduce a questo: che nel 1337 o qualche anno dopo, la parte espositiva dell’Epistola era conosciuta; ma non come opera di Dante. Non è molto, ma è già qualcosa, e serve a provare che questa parte, sebbene non ancora aggiunta, a mio parere, alla parte nuncupativa, non dev'essere di molto posteriore alla morte del Poeta.
L’argomentare che fa l’autore di questa parte espositiva prima dall’essere e dipoi dall’essenza, nel modo che abbiamo visto, mi ha già indotto a esprimere il sospetto che egli avesse qualche interesse a mettere in evidenza questa distinzione. Interesse, voglio dire, di scuola. Ho già accennato al vivace dissenso tra i tomisti e i seguaci di Egidio Romano su questo argomento. Ora Egidio era stato proclamato nel capitolo generale degli Eremitani, tenuto a Firenze nel 1287, il caposcuola dell'Ordine, e si prescriveva ai confratelli deputati all'insegnamento di difenderne «sententias scriptas et scribendas»! A Verona gli Eremitani, dal loro convento a Sant'Eufemia, ove s'erano stabiliti da poco più di cinquant'anni, godevano di gran prestigio, anche perché eremitano fu dal 1298 al 1331 il vescovo della città, in gara coi Domenicani, ormai tomisti, di Sant'Anastasia, e coi Francescani, scotisti, di San Fermo Maggiore. Più volte, ripensando a tutto questo, mi son sorpreso a fantasticare (e un elemento fantastico racchiudono tutte le ipotesi) di qualche dotto teologo eremitano di Sant'Eufemia, intento a meditare sui Theoremata de ente et essentia e sul Liber Hexaemeron di frate Egidio, morto da cinque o sei anni, per difenderne le dottrine impugnate da teologi, filosofi e cosmografi di contrario avviso, che anche a Verona non dovevano mancare. È pensavo che forse a questo dotto teologo eremitano fosse pervenuta l’eco del plauso e delle ire con cui era stato accolto, hinc inde, il poema di Dante, del quale era arrivata da poco a Verona la terza cantica. Col pio intento di giustificarne gli ardimenti, e difenderlo dalle accuse di chi gli «latrava contro» per avere osato attribuirsi, ancor vivo e peccatore, la grazia della profetica visione, anzi addirittura quella della visione beatifica, il dotto teologo avrà concepito il disegno di un commento teologico alla terza cantica, impostandolo sul principio dell’interpretazione allegorica. Ma s'era arrestato all’invocazione appena delibata, che forse non era pan pei suoi denti.
Poiché, se è vero che il linguaggio, lo stile, la tecnica filosofica e teologica di questo commentatore son tali da non disdire a Dante, è altrettanto vero che lo stesso linguaggio e la stessa tecnica si ritrovano nelle Somme, nei commenti al Libro delle Sentenze e nei trattati teologici, filosofici e cosmografici del tempo. Ma non è altrettanto vero che tutto quel che si trova nel poema dantesco si ritrovi nelle opere cui ho accennato, e neppure nel commento appena iniziato di questo dotto teologo, né, tanto meno, in quelli che a lui si sono ispirati. L'arte e il pensiero di Dante sono un’altra cosa.