Dati bibliografici
Autore: Giorgio Petrocchi
Tratto da: L'Inferno di Dante
Editore: Rizzoli, Milano
Anno: 1978
Pagine: 75-87
La conoscenza che il viator Dante acquisisce dei vari tipi e forme della dannazione, non vuol rimanere pura acquisizione del vario modo in cui l’uomo può cadere in peccato e come, non essendosi pentito, lo sconti in eterno. Il viaggio nell’oltretomba deve servire a Dante stesso, deve fornirgli i mezzi per poter poi ripudiare il peccato e indicare agli altri, all'umanità intera cui la Commedia è indirizzata, la maniera per evitarlo. La singola dannazione non ha sviluppi interni, non diminuisce o progredisce col tempo: l’anima patisce le pene dell'Inferno nella stessa perenne intensità; né l’incontro che essa ha con Dante può in qualche guisa alleviare o accrescere il modo della condanna, stabilita per l'eternità. Tuttavia (e anche in questo è la prova della straordinaria capacità inventiva del poeta) sul terreno narrativo i personaggi si comportano in modo diverso, poiché il colloquio con Dante lascia qualche segno visibile sulla loro dannazione. Il viator è in un certo modo uno strumento della «vendetta» di Dio. Cogliendo un ramicel da un gran pruno o percotendo il piè nel viso ad una Dante accresce la pena d'un suicida, Pier de le Vigne, o d’un traditore, Bocca degli Abati. La notizia che Dante fornisce a Farinata, che i Fiorentini continuano a detestare il nome di lui, fa ancor più sospirare di sofferenza e d’amarezza il vecchio capo-ghibellino. Così nel Purgatorio Dante è strumento della clemenza di Dio arrecando a Nino Visconti la speranza che otterrà preghiere propiziatrici dalla figlioletta Giovanna, e così via.
Ma non è in ciò il significato essenziale del viaggio escatologico di Dante nell’Inferno: conoscendo il peccato, constatando a quale dannazione esso rechi, il poeta attua in sé il primo grado del processo ascetico, quello di prendere nozione del male. E proprio perché, procedendo di cerchio in cerchio dell'Inferno, il peccato si fa più grave, l'esperienza morale compiuta dal personaggio — Dante si avvertirà sempre più aspra e intensa, l'orrore si farà più forte ogni volta si scende d'un grado verso il centro della voragine, maggiore sarà lo sgomento del personaggio, maggiore la sua sorpresa, più icastico e drammatico il modo della rappresentazione letteraria. Tutto ciò non avverrebbe se il protagonista del viaggio assistesse soltanto ad uno spettacolo schematico e scheletrico d'uno o d'altro peccato, trovandosi dinanzi a dannati senza nome (in qualche caso egli visita zone senza individuare i singoli dannati, ed è felicissima variatio narrativa); le ombre hanno un'identificazione storica precisa, furono uomini e donne del lontano passato, persino della mitologia pagana, o dell’immediato ieri, amici o nemici toscani coi quali ha vissuto la propria giovinezza, o di cui ha sentito parlare in quanto operarono in una generazione immediatamente precedente la sua, o che ha dovuto fronteggiare in vita: il tremendo nemico Bonifacio VIII. E per attualizzare la temperie umana dell’Inferno, per vivere più intensamente quel mondo, inventa l'espediente di far profetizzare i fatti successivi al 1300 dalle anime che incontra nei cerchi (i dannati non conoscono il presente, ma hanno la prescienza del futuro).
Tutti i motivi dell’animus cristiano di Dante andranno scorti e apprezzati nella rigorosa assunzione d'ogni fermento umano, d’ogni reazione emotiva, d’ogni status psicologico, d'ogni impulso morale in un ritmo spirituale che tutti li comprende e li colorisce, ed è per l’appunto la perfetta fusione del movimento di purificazione ascetica e dell'iter mistico, immersi in un ardente crogiuolo di passioni terrene, politiche, personali. Le profezie post factum cui dianzi alludevamo, servono a rendere ancor più incandescente e attualizzante il magma politico, a rendere più spontaneo lo sfogo passionale; esse sono irregolarmente disposte in varie parti dell’opera, non più nell’Inferno che nelle altre cantiche: onde più efficace risulterà, all'indagine del fatto poetico, la schietta vivezza della reiezione morale e della provocazione politica. Il poeta si affida felicemente alle sorprese del viaggio, alla casualità degli incontri: è il viator nell’oltretomba cristiano che reca con sé tutto il bagaglio delle proprie quotidiane esperienze d'uomo di parte e di battaglia; è l’asceta che non mortifica in sé una nozione astratta di peccato, ma un peccato concreto, personalizzato e «visualizzato» nei singoli personaggi che incontra: conosciuti o sconosciuti (Ciacco o Francesca), antichi o moderni (Ulisse o Farinata), venerati o esecrati (Brunetto Latini o Filippo Argenti), oggetti d’odio, di pietà (o pièta), d'ammirazione, di biasimo, di curiosità, di sdegno, d'attrazione, di ripulsa.
Ma questo «viaggio d’un’anima», ci si chiede, è un'invenzione letteraria o una profondissima istanza dello spirito? Gli studiosi di Dante si sono interrogati se la Commedia sia una vera e propria visio in somniis o una mera finzione poetica. L'interpretazione del poema come verace visio mystica fu particolarmente apprezzata dagli antichi esegeti, e, ritenuta valida anche dal Foscolo, è stata ripresa anche in tempi recenti (ad es. da Bruno Nardi): la Commedia fu sentita come «vera visione profetica, apparsa [a Dante] dopo le accese meditazioni sull’Eneide e sulle visioni profetiche e apocalittiche della Bibbia. [...] E se visioni e rivelazioni ebbero San Francesco e i suoi compagni, perché non poteva averne Dante? Né, d’altra parte, è necessario che il lettore moderno pensi e creda quel che Dante ha pensato e creduto della sua vicenda, bensì che egli intenda e giustifichi storicamente quel modo di pensare e di sentire, senza ritenerlo demenza» (ha scritto, per l'appunto, il Nardi). Ma oggi si tende a valutare la Commedia soltanto come fictio poetica, la quale trovava i precedenti nelle «finzioni» dell’Eneide e faceva coincidere le res dell’escatologia con i verba della narrazione letteraria: poema letterario, dunque, sebbene d’argomento mistico, non resoconto d’un vero raptus mistico, d'un sogno, concepito con la «vigile coscienza di costruire una fictio poetica e di impegnarsi in questo sforzo costruttivo», ha concluso il Sapegno.
Il «viaggio di un'anima», quantunque opera d’un letterato, deve essere avvolta nelle ambagi di un allegorismo fitto, in parte arcano, sempre presente in ogni episodio e personaggio del poema. L’allegoria è elemento inscindibile della creazione letteraria.
La costruzione allegorica dell’Inferzo e i numerosi simboli che ad essa danno un senso profondo (non è possibile nella Commedia operare una netta distinzione o, men che mai, opposizione tra allegorie e simboli) è in stretto rapporto con l’idea centrale del poema come viaggio d'un’anima dallo smarrimento alla salvazione. Il testo poetico deve essere inteso, come Dante ha spiegato all’inizio del secondo trattato del Convivio, secondo quattro sensi: il primo è il senso letterale, che deriva dalla lettera che la singola invenzione rivela; il secondo è il senso allegorico, celato dietro la «favola», così come la Verità si nasconde sotto una «bella menzogna»; il terzo è il senso morale, che viene ad essere definito e compreso secondo la propria utilità; il quarto è il senso anagogico, o «sovrasenso», cioè la «spiegazione spirituale, ordinata alla vita eterna, di un testo che peraltro è vero nel senso letterale» (J. Pépin). Anche i testi classici, oltre che quelli della Bibbia, debbono essere interpretati secondo i quattro sensi, e peculiare è in Dante l’interpretazione allegorica del messaggio poetico di Virgilio nell’ Eneide, quella dei vari miti pagani (per lo più tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, e più d’una volta mescolati l’uno all'altro, ad esprimere la complessità dell’interpretazione allegorica di ciò che hanno cantato i poeti della classicità). Evidentemente l’interpretazione allegorica è diretta soprattutto a spiegare la Bibbia e ad offrire un significato al viaggio di Dante nell’oltretomba alla luce di detta interpretazione delle Scritture. Si dovrà tornare sul problema a proposito del Purgatorio e del Paradiso, dove questa interpretazione allegorica offre spunti maggiori e più significativi sul piano filosofico-teologico (basterà pensare a tutta l'ideazione dantesca del Paradiso terrestre); per l'Inferno è centrale il simbolo del Messo celeste, giunto a dischiudere la porta della città di Dite a Dante e a Virgilio; di notevole rilievo è l'immagine del Veglio di Creta, rivolto verso Roma, avente un corpo composto di differenti metalli, e la cui significazione deve essere spiegata in rapporto con la soluzione che Daniele, nella Bibbia (Dan. 2, 31-45), dà del sogno di Nabucodonosor: il preannuncio della fine degli Imperi terrestri. Simbolo ricchissimo di riferimenti scritturali, ma per il quale non è sufficiente l’interpretazione in chiave d’allegoria biblica, è poi quello del Veltro.
Non si può in questa sede analizzare tutta la simbologia infernale, ma per questi tre esempi dovremo fare eccezione, non senza trascurare l’importanza che ha nell'Inferno dantesco tutta la complessa invenzione demonologica: i diavoli, cioè gli angeli ribelli a Dio, rappresentati sovente nelle forme del mito pagano: Caronte, Cerbero, Minos, Pluto, Flegiàs, le Furie, il Minotauro, i Centauri, Caco, i Giganti; talvolta vere e proprie incarnazioni della demonologia scritturale: Lucifero, soprattutto; infine grotteschi personaggi d'invenzione, i Malebranche, coi loro nomi sarcastici e caricaturali (Cagnazzo, Barbariccia, ecc.), ovvero propriamente demoniaci (Gerione).
Per spiegare le invenzioni demoniache non è sufficiente far ricorso alla ricerca medievale e perciò dantesca di trovare un'unità o un’analogia tra la cultura classica e quella cristiana, poiché proprio nel campo della demonologia tali affinità creerebbero incognite non facilmente risolvibili. Gli scrittori cristiani erano convinti che le potenze del male, le forze demoniache erano state giustamente intese come tali dai classici, anche se essi, prima della Rivelazione, non erano in grado che di fornirne rappresentazioni letterarie. Ha ben detto il Padoan che «per il cristiano il demonio si caratterizza anzitutto come forza violenta e bestiale che agisce nel bruto istinto della distruzione e che assume forme mostruose, in una mescolanza di figura umana e figura animalesca». Per rappresentare il mondo infernale Dante non poteva eliminare le rappresentazioni letterarie della classicità, e anche le divinità non infernali, i personaggi della mitologia, dovevano essere immessi nel circolo; donde la sua scelta di affidare a personaggi mitologici il compito di custodi dei cerchi, e ad alcuni d’essi funzioni anche più rilevanti nell’allegoria del viaggio escatologico. Considerevole è l'esempio di Gerione, che anche nella letteratura classica era collegato a miti infernali, e Virgilio l'aveva collocato tra i mostri posti a custodia dell’Averno, «forma tricorporis umbrae» (Eneide, VI, 279). Il servizio che il mostro rende ai due poeti, facendoli discendere a volo dal settimo all’ottavo cerchio, è lungamente descritto, da quando su invito di Virgilio Dante si scioglie d'una corda di cui era cinto e la porge al maestro che la protende in un profondo burrato, all’attesa di un misterioso evento, all'apparizione del mostro orrendo, al volo spaventevole, all'approdo. La descrizione, di forte densità realistica, è tutta svolta in chiave simbolica: il significato della corda, il modo irripetibile del traghettamento aereo, i connotati del mostro, figura della tentazione e della frode onnipresenti (Gerione ammorba tutto il mondo), ecc. Il che serve, ai nostri fini, a rilevare un caso, fra i tanti, in cui non viene presentata una sola allegoria, ma l'episodio racchiude in sé simboli diversi eppur convergenti in un'unica struttura narrativa che tutti li prospetta nel clima arcano dei sovrasensi e nel rapporto tra di essi e la lettera, e che ha una sua facciata esterna, avventurosa e romanzesca, tra le più «incredibili» e perciò più insegnative dell'Inferno: anche se l'insegnamento che l’episodio impartisce a Dante, non viene dalla viva parola d'un dannato ma dall’evidente concentrazione di tutti i simboli, in un caso narrativo in cui tra il personaggio Dante e il personaggio Gerione non viene a crearsi nessun rapporto, anzi il poeta prova repugnanza anche per il contatto fisico col mostro; al fine di evidenziare l’estraneità del protagonista, il ripudio totale della frode, la più grave delle offese che possano essere rivolte a Dio, e anche la più composita (le dieci bolge, la quadripartizione di Cocito), tesa a ingannare l’uomo in forme molteplici, c dinanzi alla quale la ragione, che è Virgilio, ha modo di costruire un sistema di protezione e persin di utilizzazione, a fin di bene, per lo spaurito alunno.
Caratteristica del poeta medievale è quella di presentare sùbito il caso allegorico centrale (mentre invece è peculiare presentare a poco a poco il protagonista, cioè Dante Alighieri fiorentino, i cui nodi documentari e biografici sono sciolti a poco a poco, al fine di evidenziare l'aspetto rivelatorio e palingenetico del viaggio morale del personaggio). Tale allegoria centrale è quella del Veltro, in quanto vincitore delle tre fiere che sbarrano (c. I dell'Inferno) il cammino di Dante verso il colle illuminato dai primi raggi del sole: la lonza, il leone e la lupa. Se gli altri o molti altri simboli sono soltanto indirettamente collegabili ad un'esperienza individuale di Dante (anche perché, come lo stesso Veltro, si tratta di un personaggio atteso, d'una teofania messianica: verrà), le tre fiere sono altrettali e altrettante forme di vita, inquietudini e patimenti personali del poeta: le tre faville ch'hanno i cuori accesi, «superbia, invidia e avarizia», legate all'origine stessa del genere umano: la superbia di Adamo, l'invidia del serpente, l'avidità di Eva (o, secondo altri interpreti, le tre disposizion che ’l ciel non vole, vale a dire le categorie del peccato secondo Aristotele, proprio quelle che sono alla base della struttura allegorica dell'Inferno: malizia, matta bestialità e incontinenza; né sono mancate ipotesi di carattere eminentemente politico per far corrispondere la «politicità» del Veltro a quelle delle tre fiere: la lupa come simbolo dell’avarizia che regna nella Curia di Roma, ovvero come caratteristi ca di Firenze; e nel primo caso la lupa altri non sarebbe che lo stesso Bonifacio VIII). Pur in una così complessa situazione allegorica, occorre tuttavia saper distinguere l'aspetto «evidente», flagrante dei simboli: lupa-avarizia, leone-superbia, lonza-lussuria, dai complementari sovrasensi che Dante ha voluto loro attribuire, in così ricca copia da non impedire che ai valori simbolici « elementari» altri se ne aggiungessero in considerazione della necessità di arricchire di allusioni e ambagi diverse lo scenario morale dell'esordio dell'Inferno, ove agli elementi ascetici (il cammino della vita, la vita concepita come faticoso procedere, la solitudine dell'uomo a colloquio soltanto con se stesso: la piaggia diserta) e a quelli più propriamente mistici (il sonno, la selva oscura, il colle, ecc.) venissero ad unirsi quelli profetici (il Veltro che verrà) e quelli contingentemente politici (la lupa, come si diceva poc'anzi, ma anche alcuni attributi delle altre due fiere) e autobiografici: la consapevolezza personale di Dante-uomo di essersi trovato in un momento risolutivo della propria vita e che quella drammatica epoca corrispose al 1300, tra le aspettative del Giubileo e le delusioni cocenti seguite al bimestre di Priore, quando egli aveva 35 anni, l’età cui si era riferito il profeta Isaia: «Ego dixi: in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi», dunque nel mezzo del cammin di nostra vita, giacché anche qui la Bibbia gli aveva insegnato: «Dies annorum nostrorum [...] septuaginta anni».
Il Veltro è presentato, rispetto ad altri simboli pur oscuri della Commedia, in modo oscurissimo. E si dovrà sùbito premettere che il voler identificarlo in un preciso personaggio storico, è alterare il senso misterioso delle parole di Dante, voler a forza alzare un velo che il poeta ha voluto che fosse fittissimo dinanzi all'immagine allegorica; inoltre il fatto che l'apparizione sia annunziata, ma come d'una potestà che dovrà venire a salvare l’umanità, tronca ogni discussione che verta su eventi storici. Una connessione tra il Veltro, il Messo celeste e il Cinquecento diece e cinque (vedi poi, nel Purgatorio) è ineliminabile, un’identificazione delle tre figure in una sola è, invece, da scartare recisamente. Che sia per l'appunto un «veltro», un cane da caccia, ben adatto a cacciare la lupa riguardo a molti altri animali con cui la lupa invece s'ammoglia; che non si nutrirà né di terra né di peltro, denaro, ma di sapienza, amore e virtute, cioè di quel che esprimono le tre persone della Trinità; che nascerà tra feltro e feltro è sarà destinato a recare a salvazione l’umile Italia: tutto ciò serve a definire gli spazi allegorici e anagogici della figura, ad offrire i termini di un amplissimo quadro misterico (e d'ogni segmento dei celeberrimi versi è stata operata un'indagine esegetica minuziosa da parte dei lettori antichi e dei commentatori moderni), ma non già a «rivelare» una figura che deve rimanere oscura e della quale dobbiamo sapere soltanto che sarà una potestà, o religiosa o politica, o, meglio, politico-religiosa al tempo stesso: politica ma non necessariamente un imperatore o un principe, religiosa ma non necessariamente un papa. Nell’oscurità del disegno allegorico si intravede con sufficiente chiarezza un punto fermo: che il compito specifico del Veltro è quello della rigenerazione spirituale dell'umanità e della Chiesa; dal che discende l'evidente constatazione che il Veltro possiede tutti e tre gli attributi trinitari. Se riflettiamo alla rapida e grande diffusione dell'Inferno in tutti gli ambienti letterari italiani, e soggiungiamo che Dante visse coi due suoi figli e poi suoi commentatori, Jacopo e Pietro, i sette anni che intercorrono tra la divulgazione dell'Inferno e la morte, ci si aspetterebbe che almeno i due Alighieri «minori» avessero qualche base precisa di discussione. Ma Jacopo, che scrive un anno dopo la morte del padre, si limita ad affermare: «Ver è che per certi diversa intenzione sopra ciò si contiene, dicendo che ‘l detto veltro debbia essere alcuno virtuoso che per suo valore dal cotal vizio rimova la gente, approvando ch’altro che di gentil nazione non possa essere. Onde, per abbattere cotale opinione, cioè che così di vile come di gentile non possa essere, qui per contrario solamente tra feltro e feltro così si consente, sì come tra vile e vile; però ch'è drappo di vile condizione, avegna che la intenzione del presente Autore a questa ultima non consente». E Pietro Alighieri, che scriverà vent'anni dopo, si ferma a stabilire raffronti tra il Veltro e l’uomo profetato da Alano, ma si guarda bene da formulare ipotesi sopra una precisa configurazione e, men che mai, identificazione.
Il simbolo anche in altre evenienze si mescola di apporti culturali diversi. Il Veglio di Creta non è soltanto figura scritturale, ma la collocazione geografica che Dante dà alla statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, è di per sé sola prova di reminiscenze classiche; nell’isola di Creta i poeti antichi avevano situato la sede della prima età dell'uomo; in essa si svolgeva il mito di Saturno e dell'età dell'oro; in Creta era stata rinvenuta dopo un terremoto, racconta Plinio il Vecchio, l’immagine di un gigante; l'etimologia dei fiumi infernali, che nascono dal Veglio, è attinta da Servio oltre che da Isidoro. Sul significato allegorico del Veglio le interpretazioni dei dantisti sono state numerose, e sovente molto difformi le une dalle altre: simbolo della superbia, immagine della varietà della natura umana, allegoria dei vari periodi della storia umana dalla primitiva purezza all’attuale degenerazione, simbolo dell’uomo corrotto dopo il peccato originale. Di maggiore chiarezza allegorica è il Messo Celeste: per vincere la tracotanza dei diavoli (i quali avevano cercato d'usarla anche contro Cristo, allorché discese in Inferno per liberare i giusti dal Limbo) è necessario un intervento straordinario, esercitato da un personaggio da ciel messo; il problema fondamentale dell’esegesi dantesca verte qui sulla natura, fisionomia e identificazione del Messo: se esso sia un angelo (che è l'ipotesi tradizionale, e tra i vari angeli è prevalsa la scelta su s. Michele), un personaggio biblico (sia vetero-testamentario, Mosè, sia evangelico: San Pietro), un personaggio della mitologia classica (Mercurio, Ercole, Enea) o della storia romana (Cesare) o di quella contemporanea (Enrico VII); al problema si è collegato anche il rapporto tra la particolare funzione descritta, dischiudere le porte della città di Dite, e un'ruolo che il Messo celeste eserciti stabilmente nell’Inferno, in rispondenza alle fonti scritturali (nell’Apocalisse è detto di un angelo che possiede le chiavi dell'Inferno; San Paolo parla di un arcano katéchon che vieta alle forze infernali di scatenarsi in terra): in tal caso sembra prevalente l'ipotesi, formulata dal Pasquazi, che il Messo celeste sia un angelo che sovraintende al Limbo, ove sono avvertibili i segni di una presenza celeste, e dove sappiamo che Beatrice, donna [...] beata e bella, può far giungere il suo desiderio a Virgilio che si trovava tra color che son sospesi, scendendo di persona, lo scender qua giuso in questo centro / de l’ampio loco ove tornar tu ardi. In tal modo si viene a strutturare un'ampia compagine allegorica all’interno delle gerarchie angeliche, sia pur soltanto il solo Messo (e quindi s. Michele), anche in rapporto alla prima cantica, oltre che (e dovremo ovviamente riparlare dell’angelologia dantesca a proposito del Purgatorio e del Paradiso) alla costante presenza negli altri due regni oltremondani.