Dati bibliografici
Autore: Edoardo Fumagalli
Tratto da: Lectura Dantis Turicensis. Inferno
Editore: Cesati, Firenze
Anno: 2000
Pagine: 127-138
Il canto IX dell'Inferno è saturo di cultura classica: una cultura classica a volte esibita, come vedremo, ma spesso anche lasciata sullo sfondo; e di conseguenza è anche uno di quei canti che più ci fanno rimpiangere di non conoscere la biblioteca di Dante. Il motivo di questo rimpianto è molto semplice, almeno per quanto riguarda il nostro argomento: il canto IX presenta molte figure del mito, che assumono un significato allegorico sul quale l’autore stesso attira la nostra attenzione in modo assolutamente esplicito nella famosa terzina 61-63:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
La dottrina si riferisce a prima vista all'intervento risolutore del cosiddetto Messo celeste, del quale parlerò subito: ma è evidente che, dal momento che il messo scardina le difese dei mostri mitologici, la dottrina misteriosa interessa anche il significato di quei mostri. Ma, appunto, il significato allegorico dei mostri, delle figure del mito classico, non è chiaro, tanto che gli interpreti si sono affannati, e un po’ anche sbizzarriti, nei secoli, a dare ciascuno la propria interpretazione: e la varietà delle soluzioni proposte è un indizio sicuro del fatto che nessuna sia apparsa veramente convincente.
Per questo, come dicevo, è vivo il rimpianto per la perdita dei libri appartenuti a Dante e da lui senza dubbio postillati: perché è chiaro che, se avessimo le sue osservazioni in margine al VI libro dell’Eneide, o le sue reazioni di lettore di fronte a tanti passi delle Metamorfosi di Ovidio — tanto per citare solo i due poemi classici che più sembrano presenti in questo canto -, potremmo sapere dalla viva voce dell'autore quel è stato il suo intendimento, o potremmo essere potentemente aiutati a scoprirlo. Ma tutto questo manca, e dobbiamo procedere in altro modo. Non potendo penetrare nell’officina di Dante, non potendo gettare nessuna occhiata sul suo scrittoio, sul suo tavolo di lavoro, dobbiamo di necessità seguire altre strade. Che sono, più o meno, tre: esame dell’intera opera di Dante, per quel che altri passi possono offrire a chiarimento e interpretazione del canto che ora ci occupa; esame degli autori accessibili a Dante, e dunque indagine sulla sua cultura; esame della tradizione interpretativa di quegli autori e di quelle opere, perché sappiamo ormai tutti molto bene che la tradizione esegetica, sia sul versante biblico e patristico, sia su quello degli autori classici, può essere stata importante e influente tanto quanto i testi volta a volta commentati.
A queste strade accennerò — di necessità sommariamente — nella lettura che propongo, anche se la terza strada, quella dei commenti, verrà in questa sede lasciata un po’ da parte; ma prima è opportuno spendere due parole per richiamare il contenuto del canto, la vicenda che vi è narrata.
Nella parte conclusiva del canto VIII Virgilio e Dante erano arrivati in vista della Città di Dite e l’accesso era stato loro vietato dai diavoli — più di mille — apparsi sulle mura; Virgilio stesso, che era stato respinto, aveva però preannunciato l’arrivo di «tal che per lui ne fia la terra aperta», come recita il verso conclusivo. Nel canto IX c'è la continuazione del dramma, e la sua conclusione: Dante, colpito dall’insuccesso di Virgilio, gli chiede — indirettamente ma chiaramente — se conosce la strada per esservi già stato (vv. 16-18), e la guida risponde di sì, per essere stato convocato nel basso inferno dalla maga Eritone (vv. 22-30): un episodio, questo, che certo deve giustificare la possibilità da parte di Virgilio di essere fino in fondo guida a Dante nel regno dei dannati, e che il poeta inventa sulla base di un analogo racconto di Lucano; poi la vista dei pellegrini viene attirata dalle Erinni, che sono apparse sulla torre e che invocano l’arrivo di Medusa, la quale pietrificherà Dante, che è stato reso baldanzoso dal fatto che, a suo tempo, esse e Medusa stessa non avevano punito adeguatamente l’audacia di Teseo, nell’occasione della sua discesa agli Inferi (vv. 52-54); a questo punto Virgilio esorta Dante a girarsi, perché, se vedesse la Gorgone, non avrebbe più la possibilità di salvarsi e di ritornare sulla terra (vv. 55-57); ma già sta arrivando colui che li salverà: uno «da ciel messo» che scardina la difesa dei demoni e, nell'impassibilità più totale per tutto ciò che non è assolutamente necessario allo svolgimento del suo compito, apre ai viandanti l’accesso alla città di Satana. Conviene leggere con calma la descrizione magnifica dell’arrivo, ai vv. 64-72. È anche da sottolineare il discorso, breve ma intensissimo, che il Messo rivolge ai diavoli e alle Furie (vv. 91-99). Ritornerò brevemente su queste parole; ma per il momento accenno solo a un fatto significativo, sul quale invece non mi soffermerò più: cioè che le parole del Messo sono caratterizzate da rime difficili e dure, ma che del resto tutta questa parte si caratterizza proprio per l’uso, da parte di Dante, di rime aspre e corpose, con più di una consonante dopo la vocale tonica. Dante e Virgilio entrano finalmente nella Città di Dite e si trovano di fronte allo spettacolo delle arche infocate. dei sepolcri degli eresiarchi: si sentono gli accordi che preludono al grande episodio di Farinata, nel canto seguente.
Questi sono, a mio avviso, gli elementi tematicamente più importanti del canto IX. Ne risulta un episodio drammatico, certamente di importanza fondamentale, se Dante stesso ci mette in guardia dal pericolo di non cogliere i significati veri che stanno sotto il succedersi serrato dei fatti. Ma i problemi incominciano adesso: qual è il significato dei personaggi che affollano la movimentatissima scena? che cosa rappresentano le Erinni? quale funzione ha Medusa? perché viene evocata l’impresa di Teseo? e, infine, che cosa rappresenta il messo celeste? Sono domande che da sempre assillano gli studiosi, che hanno prodotto una massa intricata di risposte diverse. Prendiamo il caso delle Furie (v. 38), che Virgilio al v. 45 chiama «Erine»: sono state interpretate volta a volta come il rimorso, l'invidia, le ancelle di Medusa, a sua volta interpretata come l’ostinazione eretica. Certo nessuno spingerà la sua amabile ironia fino ad aspettarsi che io mi proponga di sciogliere, una volta per tutte, gli enigmi disseminati nei versi di questo episodio. Il compito che mi prefiggo è molto più modesto: desidero, infatti, solo condurre una riflessione su alcuni problemi generali, per vedere poi se questa riflessione offre qualche aiuto per l’interpretazione dell’episodio. E la riflessione che propongo prende le mosse dalla constatazione di un fatto che è normale in Dante, e che dunque può essere giudicato ovvio, ma che, a causa della sua lontananza dal nostro modo di pensare, può essere dimenticato o non tenuto presente in modo adeguato. Questo fatto non è solo la commistione di elementi pagani e di elementi cristiani, ma è molto di più: il fatto che, per parlare delle verità cristiane, Dante faccia appello alla tradizione culturale classica, e da quella tradizione attinga a piene mani immagini, figure, personaggi, che, inseriti in un contesto cristiano e provvidenziale, necessariamente assumono un significato cristiano, sono piegati a un’interpretazione cristiana che certo non avevano in origine.
Su quest’argomento rimane ancora fondamentale, a tanti anni dalla sua pubblicazione, il libro di Paul Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin e non è il caso di insistere troppo su elementi che sono pane quotidiano per ogni lettore della Commedia; mi interessa però, per documentare il procedimento di Dante, richiamare un passo del De civitate Dei, XVIII 47, dove S. Agostino si pone il problema se fuori dal popolo ebraico ci sia stato qualcuno, prima di Cristo, che sia stato amato e salvato da Dio; nessun popolo — egli sostiene — si è trovato in questa situazione, ma almeno un uomo singolo: Giobbe, della stirpe degli Idumei, che per ciò stesso fa parte della Gerusalemme celeste, della Città di Dio (riproduco anche la traduzione di Domenico Gentili [Roma, Città Nuova], facendo risaltare il passo che per i nostri scopi risulta più significativo):
Nec ipsos Iudaeos existimo audere contendere neminem pertinuisse ad Deum praeter Israelitas, ex quo propago Israel esse coepit, reprobato eius fratre maiore. Populus enim re vera, qui proprie Dei populus diceretur, nullus alius fuit; homines autem quosdam non terrena, sed caelesti societate ad veros Israelitas supernae cives patriae pertinentes etiam in aliis gentibus fuisse negare non possunt; quia si negant, facillime convincuntur de sancto et mirabili viro Iob, qui nec indigena nec proselytus, idest advena populi Israel fuit, sed ex gente Idumaea genus ducens, ibi ortus, ibidem mortuus est; qui divino sic laudatur eloquio, ut, quod ad justitiam pietatemque attinet, nullus ei homo suorum temporum coaequetur. Quae tempora eius quamvis non inveniamus in Chronicis, colligimus tamen ex libro eius, quem pro sui merito Israelitae in auctoritatem canonicam receperunt, tertia generatione posteriorem fuisse quam Israel. Divinitus autem provisum fuisse non dubito, ut ex hoc uno sciremus etiam per alias gentes esse potuisse, qui secundum Deum vixerunt eique placuerunt, pertinentes ad a lem Ierusalem. Quod nemini concessum fuisse credendum est, nisi cui divinitus revelatus est unus mediatot Dei et hominum, homo Christus Tesus, qui venturus In carne sic antiquis sanctis praenuntiabatur, quemadmodum nobis venisse nuntiatus est, ut una eademque per ipsum fides omnes in Dei civitatem, Dei domum, Dei templum praedestinatos perducat ad Deum. (Aug., De civitate Dei, XVIII 47)
[Ritengo che neanche i Giudei osino sostenere che nessuno, fuorché gli Israeliti, si fosse dedicato a Dio da quando ebbe inizio la razza da Israele con la destituzione del suo fratello maggiore. Certamente non ci fu nessun altro popolo che si potesse considerare veramente popolo di Dio. Non possono negare però che anche negli altri popoli vi furono per un vincolo derivante dal cielo degli appartenenti ai veri Israeliti, cittadini ca la patria dell'alto. Se lo negano, vengono facilmente confutati dal santo e meraviglioso Giobbe che non fu né indigeno né proselito, cioè un forestiero del popolo d’Israele ma discendente dalla stirpe degli Idumei, lì nato, lì morto, ma viene così esaltato dalle parole di Dio che, per quanto attiene alla morale e alla religione, nessuno dei suoi contemporanei gli può essere paragonato. Sebbene nella Cronaca non troviamo il periodo in cui egli visse, rileviamo tuttavia dal suo libro, accolto in vista del valore dagli Israeliti nell’autenticità del canone, che fu di tre generazioni posteriore a Israele. Non ho dubbi che il fatto è rientrato nei disegni della divina Provvidenza affinché da questo unico esempio apprendessimo che anche fra gli altri popoli vi poterono essere individui appartenenti alla Gerusalemme spirituale, che vissero secondo Dio e furono a lui accettati. E si deve ammettere che a nessuno fu concesso tale favore se non a chi con divina ispirazione fu rivelato l’unico Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Allora agli eletti dell’antichità si annunciava che egli sarebbe venuto nel mondo, come oggi a noi si annuncia che è già venuto, affinché per la sua mediazione l’unica fede conduca a Dio tutti i predestinati a giungere nella città di Dio, casa di Dio, tempio di Dio.]
Non mi sembra che questo passo sia stato utilizzato in prospettiva dantesca, ma esso mi pare molto istruttivo, perché anche Dante si pone il medesimo problema che si era posto Agostino, e anche lui lo risolve in modo analogo, ma sulla base di fonti assolutamente diverse. Per S. Agostino la base autoritativa era il testo sacro, la Bibbia; ma per Dante, accanto beninteso alla Bibbia, ci sono anche altri testi: i classici con in testa Virgilio. Nella Comedia, se si tralascia il caso molto particolare di Catone abbiamo un solo pagano che, vissuto e morto prima di Cristo, si salva: e si tratta di Rifeo troiano, la cui sorte eterna viene sottolineata da Dante con un’enfasi che è direttamente proporzionale all'importanza dell’episodio. Leggiamo in Par. XX 67,72, a proposito delle anime che formano il ciglio dell’aquila dei giusti:
«Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Riféo Troiano in questo tondo
fosse la quinta delle luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».
Rifeo è un personaggio non solo minore, ma minimo, nell’Eneide: è ricordato di passaggio da Virgilio (II, 426-28) come «iustissimus unus» e «servantissimus acqui», e in questa circostanza sta tutto il senso dell’episodio: Virgilio non aveva dato importanza al suo personaggio, perché lui, Virgilio, non illuminato dalla grazia e dalla fede, non capiva fino in fondo le verità di cui era portatore; ma Dante, che dalla grazia e dalla fede è invece illuminato, è in grado di riprendere personaggi e figure virgiliani e di interpretarli rettamente, sanando così i fraintendimenti che caratterizzavano l’Eneide e le altre opere di Virgilio.
Non posso insistere oltre su questo punto, che del resto non ha bisogno - credo - di particolari sottolineature; ma c'è una conseguenza, che deve essere sempre tenuta presente: sarebbe un errore credere che Dante, quando utilizza un personaggio che trova negli autori classici, lo utilizzi — per dir così — “da filologo”, con senso storico e cercando di rispettare il più possibile le intenzioni dell'autore. Dante si comporta di solito in modo assolutamente diverso, proprio perché è convinto che gli autori antichi abbiano trasmesso delle verità profonde, ma delle verità di cui non si rendevano conto e che loro stessi erano i primi a fraintendere; ed era anche convinto che quelle verità potessero essere correttamente interpretate solo depurando il racconto classico dai fraintendimenti che gli autori vi avevano depositato.
Non ha dunque molto senso, per esempio, nel caso delle Furie o di Medusa, esaminare semplicemente i poeti, quali Virgilio e Ovidio, che parlano di loro, per ricavarne l’idea di Dante: l’idea di Dante, infatti, sovrappone a quelle figure del mito classico il loro inveramento - reale o presunto - che è dedotto dalla fede cristiana.
Detto questo, possiamo dedicarci ad alcune delle figure del canto IX dell’Inferno, con un'ultima avvertenza preliminare: è evidente che, pur imperniando l’esposizione su questo canto, non potrò evitare di richiamare anche altre parti della Commedia — come del resto ho già fatto — o altre opere di Dante.
Venendo al canto IX, nel tentativo di applicare ad esso ciò che ho premesso sull’interpretazione dantesca del mondo classico, sembra opportuno partire dalla figura che Dante stesso, nei versi che ho citato all’inizio, presenta come la chiave per interpretare tutto l’episodio: il cosiddetto Messo celeste. Dico il cosiddetto Messo celeste perché fra le poche cose su cui tutti concordano c’è almeno questa: che la parola «messo» nel verso 85 «Ben m’accorsi ch'egli era da ciel messo» non è un sostantivo, ma un participio; anzi, che si tratta di un participio che, unito a «era» precedente, forma un imperfetto passivo: insomma, “ben m’accorsi che egli era messo, Inviato, dal cielo”.
Non sto a fare la storia, lunga e complicata, del dibattito intorno a questa entità: si discute, in sostanza, se si tratti di un angelo o di un essere che ha relazione con la potestà imperiale, ma naturalmente questi non sono che i due poli più affollati della diatriba; e — sia detto in margine — non sono nemmeno tanto sicuro che questi due poli siano fra loro inconciliabili. Per conto mio vorrei proporre un esperimento, che forse corre il rischio di sembrare futile, ma che futile non è, almeno nelle intenzioni: un esperimento di traduzione. Mi domando: che cosa si otterrebbe se si traducesse in latino la frase «egli era da ciel messo»? Credo che ci siano pochi dubbi: si avrebbe, probabilmente, caelo demittebatur; ma, se si riflette, caelo demittebatur subito richiama, con la lieve variazione del tempo, un famosissimo emistichio virgiliano, «caelo demittitur alto» della IV egloga, l’egloga messianica.
L'ipotesi su cui propongo di lavorare è proprio questa: che Dante presenti il cosiddetto Messo celeste con alcuni almeno dei caratteri che Virgilio aveva delineato nella sua egloga, soprattutto nei versi 5-7:
Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
È perfino superfluo ricordare che con quei versi Virgilio aveva auspicato, dopo tanti anni di guerre civili, il ritorno della giustizia — simboleggiata dalla Virgo cioè da Astrea— e della pace — indicata con l’età dell’oro di Saturno; è anche superfluo ricordare che questo testo, a partire almeno da Costantino e dunque dall’inizio del IV secolo, era interpretato come profezia annunciante la venuta di Cristo. Ma questi sono versi che Dante traduce, meglio tradurrà nel XXII del Purgatorio, quando Stazio li citerà a Virgilio proprio per spiegare, in terzine celebri, che quel passo, rimasto inaccessibile al suo stesso autore nel suo vero significato, aveva portato lui, Stazio, alla conversione (vv. 67-72):
«Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: ‘Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenie scende da ciel nova’».
Qui interessa in particolare l’ultimo verso, che traduce il virgiliano «iam nova progeries caelo demittitur alto». Non c'è dubbio che la traduzione del Purgatorio sia Lon to tendenziosa, e che la tendenziosità risalti ancora di più se si confrontano le parole di Stazio con quelle del IX dell’Inferno, dalle quali siamo partiti. Al «demittitur» passivo, di Virgilio, corrisponde il verbo «era messo», pure passivo, nell’Inferno ma corrisponde anche «scende», attivo, del Purgatorio; la questione è che Stazio parla di due fatti diversi: prima accenna alle condizioni di giustizia e di pace nelle quali il Verbo si è fatto carne, poi, con l’ultimo verso, parla dell’Incarnazione; ed è notevole che, per parlare dell’Incarnazione, usi un verbo attivo: anzi, un verbo che a me pare direttamente derivato dal Credo: «propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis». Il Verbo non “viene mandato”, ma “discende”: e in questa correzione apparentemente — ma solo apparentemente — poco importante cogliamo uno degli interventi più significativi di Dante sul testo di Virgilio; un intervento che significa che, una volta di più, la verità del messaggio della IV egloga, oscuro per il pagano Virgilio e dunque riferito in modo impreciso, viene decodificato e chiarito dal poeta cristiano.
Ma come va interpretata, allora, l’allusione al verso della IV egloga contenuta nel IX dell’Inferno? Ho il sospetto che Dante voglia dire, con termini oscuri, con espressioni velate — ma è lui il primo a metterci in guardia -, che colui che è arrivato, messo da cielo, è strettamente imparentato con ciò che Virgilio aveva capito del proprio messaggio, con ciò che Virgilio aveva creduto di annunciare: e che aveva annunciato in effetto, ma cadendo in un equivoco che Dante, dal suo punto di vista, dissolve Perché, secondo Dante, colui che «caelo demittitur alto» esiste, ed è — se non l’autorità imperiale - qualcosa che con l’autorità imperiale è strettamente collegato, ma non è, in ogni caso, la «nova progenies»; e la «nova progenies» esiste a sua volta, ed è Cristo, ma non «demittitur», bensì «descendit»: o, per citare ancora le parole di Stazio nel Purgatorio, «progenie scende da ciel nova». A questa interpretazione non si oppongono gli altri due passi dell’opera di Dante in cui quei versi della IV egloga sono citati e utilizzati. Si tratta di un passo della Monarchia e di un passo dell’epistola VII, indirizzata all'imperatore Arrigo VII. Qui mi interessa accennare soltanto al secondo passo, quello dell’epistola ad Arrigo VII, perché esso conferma nel modo più chiaro che al ritorno della Giustizia, alla nascita della speranza di un’età migliore non si associa solo la venuta di Cristo, come nel XXII del Purgatorio e come nella secolare esegesi cristiana della IV egloga: si associa anche l'avvento della potestà imperiale, anzi, il regno della giustizia e la presenza dell’autorità imperiale fanno tutt'uno.
Praeterea, mundus optime dispositus est cum iustitia in eo potissima est. Unde Virgilius commendare volens illud seculum quod suo tempore surgere videbatur, in suis Buccolicis cantabat: “Tam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna”. ‘Virgo’ nanque vocabatur iustitia, quam etiam ‘Astream’ vocabant; ‘Saturnia regna’ dicebant optima tempora, que etiam ‘aurea’ nuncupabant. (Mon. I.xi)
[Inoltre, il mondo è disposto nel miglior modo quando in esso regna sovrana la giustizia. Onde Virgilio, per esaltare quel secolo che pareva stesse per sorgere al tempo suo, cantava nelle sue Bucoliche: “Già la Vergin ritorna, ritornano i regni Saturnii”. Ché Vergine’ era detta la giustizia, la quale chiamavano pure ‘Astrea’; ‘regni Saturnii” dicevano l’età felicissima, che denominavano anche ‘dell’oro’.]
Cumque tu, Cesaris et Augusti successor, Apennini iuga transiliens veneranda signa Tarpeia retulisti, protinus longa substiterunt suspiria-lacrimarumque diluvia desierunt; et, ceu Titan, preoptatus cxoriens, nova spes Latio seculi melioris effulsit. Tunc plerique vota sua prevenientes in iubilo tam Saturnia regna quam Virginem redeuntem cum Marone cantabant. (Ep. VII, 5)
[E quando tu, successore di Cesare e di Augusto, valicando i gioghi dell'Appennino, riportasti le venerande insegne tarpeie, d’un tratto si arrestarono i lunghi sospiri e il profluvio delle lacrime cessò; e, come Titano sorgente desideratissimo, una nuova speranza di età migliore brillò per il Lazio. Allora i più prevenendo i loro desideri nel giubilo con Marone cantavano i saturni regni e la Vergine che tornava.]
Ripeto: se questa interpretazione è accettabile, Virgilio, secondo Dante, aveva SER so i dati, presentando l’imperatore come la «nova progenies», ma non aveva sbagliato collegando l’impero al ritorno della Virgo e dei Saturnia regna. Ne consegue — sempre che questa interpretazione sia valida — che l’allusione alla IV egloga contenuta nel IX dell’Inferno a proposito di colui che «era da ciel messo» induce a vedere in questo misterioso personaggio, se non proprio un imperatore, qualcosa di intimamente legato all’autorità imperiale. Ed una conferma giunge ancora dalla medesima epistola VII, in cui ritornano accenti molto simili a quelli usati dal Messo celeste net confronti dei diavoli che avevano invano tentato di opporsi: in entrambi i casi, infatti, ci si oppone, senza alcuna speranza di successo, a eventi provvidenziali. Riporto il passo del settimo capitolo dell’epistola, da accostare ai vv. 91-99; e l'accostamento € tanto più giustificato, in quanto anche qui, come nell’episodio infernale, alla rivolta contro il fato si associa la presenza delle Furie («furialiter», detto di Amata e di Turno, in lotta contro il lontano progenitore dell'Impero), così da giustificare il rilievo tipografico alla parte che le concerne:
An ignoras, excellentissime principum, nec de specula summe celsitudinis deprehendis ubi vulpecula fetoris istius, venantium secura, recumbat? Quippe nec Pado precipiti, nec Tiberi tua criminosa potatur, verum Sarni fluenta torrentis adhuc rictus eius inficiunt, et Florentia, forte nescis?, dira hec pernicies nuncupatur. Hec est vipera versa in viscera genitricis; hec est languida pecus gregem domini sui sua contagione commaculans; hec Myrrha scelestis et impia in Cinyre patris amplexus exestuans; hec Amata illa impatiens, que, repulso fatali connubio, quem fata negabant generum sibi adscire non timuit, sed in bella furialiter provocavit, et demum, male ausa luendo, laqueo se suspendit. (Ep. VII, 7, 23-24)
[O forse ignori, eccellentissimo fra i principi, e non scorgi dalla specola della somma altezza dove si rintani la piccola volpe di codesto fetore, noncurante dei ‘cacciatori? Certo la scellerata non si abbevera alle acque precipiti del Po, né al tuo Tevere, ma le sue fauci infettano ancora la corrente dell'Arno impetuoso, e si chiama Firenze, forse non sai?, questo crudele flagello. Questa è la vipera avventatasi contro le viscere della madre; questa è la pecora malata che infetta col suo contagio il gregge del suo pastore; questa la scellerata ed empia Mirra che arde per gli amplessi del padre Cinira; questa è quella Amata furiosa che, rifiutate le nozze fatali, non ebbe paura di prendersi per genero colui che i fati vietavano, anzi lo eccitò furibonda alla guerra e infine, pagando il fio delle audacie malvagie, si impiccò.]
Ma, naturalmente, si tratta di vedere se questa interpretazione è coerente — come credo — con tutto l’episodio che si svolge fuori della città di Dite.
Vorrei soffermarmi in particolare su due momenti, che mi appaiono molto istruttivi: l'esortazione di Virgilio a Dante perché si copra gli occhi per non vedere Medusa (e l’aiuto che lo stesso Virgilio offre al discepolo in questa bisogna), ai vv. 55-60, e il significato di Medusa e del suo pietrificare chi la guarda. I due momenti, del resto, sono naturalmente e strettamente collegati fra di loro.
Tuttavia, prima di esaminare questi due momenti, pare necessario domandarsi il perché di tutto l'episodio, e avanzare delle ipotesi di soluzione che andranno poi, ben inteso, verificate sul testo. La questione è semplice: perché Virgilio, che finora ha superato gli ostacoli con la formula «Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare», o altre analoghe, non è in grado di superare questo ostacolo? perché non può guidare Dante all’interno della Città di Dite? che cosa gli manca? Qui siamo certamente in presenza di qualcosa di importante, e che Dante sottolinea: Virgilio è la sua guida, e Virgilio, come abbiamo già visto, è stato nel profondo dell’inferno, a suo tempo, convocato dalla maga della Tessaglia; ma Virgilio, nonostante questo, non è in grado di forzare l’accesso alla città, in compagnia di Dante: come mai? e che guida è uno che non ha la forza di superare questa difficoltà? e, in ogni caso, come mai Virgilio è potuto scendere fino fra i traditori, quella volta, e adesso non è in grado di guidare Dante sulla stessa strada? Sembra una contradizione, ma è certo che Dante, esibendo, come fa, questi elementi che paiono contraddittori, e tra l’altro esibendoli l’uno vicino all’altro e non a distanza, vuole mostrare che la contraddizione in realtà non esiste, e che sta a noi capire perché.
Sarò brevissimo, esponendo solo un tentativo di soluzione, che poi si cercherà di verificare. Fin qui Dante e Virgilio hanno passato in rassegna i peccati di incontinenza e hanno incontrato, dopo i limbicoli, i lussuriosi, i golosi, gli avari e i prodighi, gli iracondi; ma i peccati di incontinenza sono peccati, per dir così, individuali, e la ragione da sola è in grado di correggerli; ma adesso, con l’ingresso nella Città di Dite, ci troviamo di fronte peccati di genere tutt’altro: peccati che possiamo chiamare sociali, perché hanno fortissime conseguenze non soltanto sul singolo e sulla sua sorte eterna, ma sulla vita di una comunità. Forse la differenza la si può cogliere pensando ai prodighi, del canto VII, e agli scialacquatori, del canto XIII: mentre i primi si limitano, per dir così, a un eccesso di liberalità, i secondi disperdono la ricchezza della famiglia o addirittura della consorteria, e il loro peccato è di conseguenza uno dei peccati sociali. Si spiega che per vincere questi peccati la ragione del singolo individuo non basti, perché è inefficace di fronte alla violenza o all’astuzia, alla malizia altrui. La ragione può esortare, ma non ha alcun potere coercitivo; occorre, per vincere questi peccati, l’autorità della legge: dunque l'autorità politica. Ed è qui, probabilmente, il senso di tutta la vicenda: Virgilio guida di Dante da solo non può scardinare la difesa che i demoni gli oppongono, ma ha bisogno dell’aiuto di qualcuno, da ciel messo, che abbia il potere di imporsi con un'autorità interpersonale. Numerosi sono gli appigli che si possono invocare a questo proposito. Cito la Sura Theologiae di san Tommaso: non perché voglia dire con questo che san Tommaso sia la fonte di Dante, ma a documentazione di un pensiero che era diffuso, che era già presente in Aristotele e che Dante certamente conosceva € faceva proprio (PriMa Secundae, qu. XC art. III: Utrum ratio cujuslibet sit factiva legis):
Ad secundum dicendum, quod persona privata non potest inducere efficaciter ad virtutem; potest enim solum monere; sed si sua monitio non recipiatur, non habet vim coactivam, quam debet habere lex, ad hoc quod efficaciter inducat ad virtutem, ut Philosophus dicit. (Ethic. lib. X, cap. ult.)
Su questa base possiamo avviarci alla conclusione, esaminando il Pan di cui Virgilio copre gli occhi di Dante, perché non veda Medusa. È chiaro, se le cose ne fin qui possono essere accettate, che questo episodio è centrale. Ma st tratta di un episodio unico nella Commedia? No, naturalmente. Questo episodio si lega ad un altro almeno, e mostra, una volta di più, come Dante abbia costruito la sua opera con una fitta rete di rinvii interni, che possono essere anche rinvii per opposizione. Per esempio, l’espressione «da ciel messo» del v. 85 è analoga a quella «da ciel piovuti» di VIII, 83: ma nel nostro canto si riferisce a un personaggio positivo — inviato d cielo —, mentre nel canto precedente si riferisce ai diavoli, con una materialità — piovuti — che Dante utilizzerà ancora nel XXIV, 122 a proposito di Vanni Fucci: «io piovvi di Toscana». In più, la contrapposizione fra il Messo celeste e i diavoli è ulteriormente sottolineata dalla collocazione opposta nei versi: all’inizio per i diavoli, alla fine per l’inviato: ma sempre in posizione forte. Tornando alla questione che avevo sollevato, e cioè se questo episodio di Virgilio che copre gli occhi di Dante sia unico nella Commedia, occorre riconoscere che — oltre quello meno evidente di Lucifero alla fine dell’Inferzo — ce n'è uno, diverso eppure analogo, nel Paradiso, ai canti XXV-XXVI. L’Inferno dantesco si trova spesso a essere rovesciato rispetto al Paradiso: quasi una terribile imitazione del regno di Dio, nel regno di Satana; lo si vede nello stesso Lucifero, trino e spirante come la Trinità divina, ma bestialmente rivolto al male; ma lo si trova anche in ciò che qui ci interessa. In Paradiso, come tutti sanno, Dante subirà l’esame, da parte dei tre apostoli prediletti, sulle virtù teologali: fede, speranza, carità; e proprio la vista di san Giovanni, che lo esamina sulla carità, renderà cieco il pellegrino, che rimarrà cieco fino a che non avrà chiarito che l’amore di cui parla è l’amore di Dio, del quale tutte le creature partecipano in quanto provengono da lui. E soprattutto Dante dichiarerà che la fede e la speranza si risolvono in carità, la quale, appunto, deve rivolgersi a Dio, e anche alle creature, ma non alle creature in sé considerate, bensì alle creature in quanto create da Dio.
Credo, a questo punto, che l’episodio del Paradiso sia speculare a quello dell’Inferno, così come succede diverse volte nel poema, e che di conseguenza se in Paradiso ciò che priva - momentaneamente — Dante della vista è la carità, nell’Inferno il pericolo venga da ciò che è il contrario della carità, il contrario dell'amore. Ma che cos'è il contrario della carità? La prima risposta che viene in mente è: l'odio. Ma sarebbe una risposta superficiale e banale; in ogni caso non è la risposta di Dante, come, per fare un esempio classico, probabilmente non sarebbe stata la risposta di Ovidio, stando almeno alla descrizione dell'età dell’oro nel primo libro delle Metamorfosi. Leggiamo un altro passo della Monarchia:
Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest. Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberi potest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere — ut supra dicebatur [= I 4] — et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius. (Mon. I.ii)
[Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola, annebbia in qualche modo l’abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più attivo e più chiaroveggente. Dunque in quello nel quale il retto amore può giungere al più alto grado, la giustizia può trovare la sede più acconcia. Ora tale è il Monarca. Dunque, solo sotto di lui v'è, o può esservi, somma giustizia. Che poi il retto amore operi quanto si è detto, si può ricavare da ciò, che la cupidigia, spregiata la perseità dell’uomo, persegue altri beni; invece la carità, sprezzando tutti gli altri beni, cerca Dio e l’uomo, e di conseguenza il bene vero dell’uomo. E siccome fra gli altri beni dell’uomo, di somma importanza è quello di vivere in pace, nel modo che sopra si diceva, e a questo soprattutto e nel modo più efficace conduce la giustizia, la carità più d’ogni altra cosa rafforzerà la giustizia, e tanto più quanto più sarà intensa.]
La cupiditas, la cupidigia come radice di tutto il male della società: questo, probabilmente, è il senso dell’episodio; e, se le cose stanno in questi termini, si capisce che Virgilio, la ragione, esorti il pellegrino Dante a non guardare Medusa, perché ne sarebbe impietrito. Virgilio non ha, da solo, il potere di vincere la cupidigia: occorre la legge, rappresentata dal Messo celeste; ha però la capacità di non lasciarsene personalmente travolgere; Dante, invece, non ancora in possesso di quel libero arbitrio che conquisterà solo dopo l’esperienza del Purgatorio — e alla fine del XXVII Virgilio lo coronerà padrone di se stesso —, corre il rischio di essere travolto, e non deve vedere Medusa.
A una interpretazione di questo tipo credo che si possano portare altri puntelli: non solo l’importanza della cupidigia in Dante, a cominciare dalla lupa del canto I per proseguire lungo tutta l’opera, come nella terzina famosa di Purg. XX, 10-12, ancora contro la lupa simbolo della cupidigia:
Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
Ma il puntello più forte viene da altri testi. Ho detto all’inizio che in Dante si potranno spesso — spessissimo — trovare immagini e simboli tratti dai classici, ma che in ogni caso la verità che egli vuole trasmettere è fondata principalmente su altre basi: che sono la fede cristiana, i testi sacri, la tradizione della Chiesa. Ebbene: che cosa possono dirci i testi sacri a proposito non tanto 0 non subito della cupidigia, ma di Medusa? qual è il corrispondente biblico della trasformazione in pietra della persona? Anzi, più correttamente: qual è il messaggio, desunto dalla Bibbia, che Dante trasmette anche attraverso l’immagine classica degli effetti di Medusa? Credo che su questo possiamo essere abbastanza sicuri: è l’obduratio cordis, l'indurimento del cuore, cioè la riduzione della persona all’insensibilità. E a questo proposito non si può evitare di notare che nella Vulgata oltre metà delle presenze del verbo indurare sono concentrate in pochi capitoli dell’Esodo: più precisamente, il verbo indurare compare 15 volte, a cominciare da 4, 21 per finire a 14, 17. Dopo questo passo, il verbo non compare più nell’Esodo: e il fatto non può non essere significativo in un libro di 40 capitoli. Possiamo procedere oltre, osservando che il verbo in questione st riferisce sempre a Faraone: «indurabo cor eius, et non dimittet populum» (4, 21); «indurabo cor eius» (7,3); «induratumque est cor Pharaonis et non audivit eos» (7, 13; 7,22; 8, 19; 9, 12; ecc.); «et ingravatum est cor eius et Servorum illius et induratum nimis; nec dimisit filios Israel, sicut praeceperat Dominus per manum Moysi» (9, 35); 0 ai suot «servi» («Et dixit Dominus ad Moysen: Ingredere ad Pharaonem; ego enim induravi cor eius et servorum illius, ut faciam signa mea in eo»: 10, 1). La conseguenza di questa obduratio cordis è la rovina del popolo, con l’uccisione dei primogeniti; ma ancor più interessa sottolineare che l’obdurazio cordis di Faraone è relativa all’uscita del popolo eletto dall’Egitto. Abbiamo dunque questo fatto, che mi pare fondamentale: la vicenda degli Ebrei in Egitto, la vicenda quindi della loro schiavitù, è segnata dall’indurimento del cuore di Faraone, che vuole perpetuare tale stato, e dal passaggio del Mar Rosso, che segna il momento della liberazione. Non è un caso, a questo punto, che Dante contrassegni in modo analogo il basso inferno: la presenza di Medusa, cioè dell’indurimento del cuore, all'ingresso; e il canto del salmo 113 «In exitu Israel de Aegypto» da parte delle anime che giungono sulla spiaggia del Purgatorio, alla fine. Il canto del salmo 113, dunque, rinforza questa interpretazione, e il basso interno si presenta, allora, come un memorabile entre deux, dove i piloni sono, appunto, la Gorgone e l’uscita dall'Egitto.
Si può aggiungere, se non è eccessiva sottigliezza, che colpisce anche la presenza dei “servi” di Faraone, nella persona delle Furie: presentate come meschine, cioè, appunto, come schiave. E credo che non sia un caso, pensando alla dominazione araba sull’Egitto ai tempi di Dante, che per dire “serve”, “schiave” si usi un termine di origine araba: che non ha qui la sua unica occorrenza, certo, ma il cui significato viene retrospettivamente rafforzato dalle “meschite” di Inf. VIII, 70.
Non presumo affatto, e del resto lo dicevo già all’inizio, di avere chiarito tutto di questo canto, che certamente segna una drammatica fase di passaggio non solo dal punto di vista narrativo, ma anche e soprattutto sul piano dei significati morali. Spero tuttavia che gli elementi raccolti ed esposti possano servire da utile base per una discussione. Se poi, un giorno, emergeranno novità documentarie, le cose cambieranno radicalmente. Giorgio Petrocchi ha detto una volta — o forse più d’una — che il sogno di tutti gli studiosi di letteratura italiana è di trovare, in una cassetta misteriosamente sfuggita a tutte le indagini, il manoscritto autografo della Commedia. Con- fesso che messo davanti alla alternativa secca di dovere scegliere un solo manoscritto dove si è posata la mano di Dante, forse addirittura preferirei una delle grandi opere che lui ha utilizzato, con le sue postille: perché quando si troverà l'Eneide postillata da Dante, o le Metamorfosi o l’Etica Nicomachea, potremo allora davvero svelare gli enigmi che avvolgono anche questo come tanti altri episodi, e penetrare oltre il vela- me de li versi strani.
8 gennaio 1998