Dati bibliografici
Autore: Mario Marcazzan
Tratto da: Letture dantesche
Editore: Sansoni, Firenze
Anno: 1955
Pagine: 151-172
Conviene richiamarsi, prima di passare all'esame e alla lettura del canto nono, ad alcuni motivi descrittivi e psicologici del canto VIII; alla grandiosa scenografia ivi affrescata o meglio violentemente rilevata e articolata, alla sbigottita umanità del dramma che quelle immagini paurose traduce sullo schermo di una sensibilità fattasi debole e fioca, non meno sopraffatta dall’incubo di un terrore incombente che insidiata e impigrita dalla tentazione della rinuncia e della diserzione.
La città di Dite è là, «coi gravi cittadin, col grave stuolo», coll’alte fosse che vallano la terra sconsolata, colle mura di ferro, colle torri arroventate, cogli spalti erti sullo sfondo di un orizzonte caliginoso e rossastro. Sulle porte, oltre le quali in una luce d’incendio s’infossa l’abisso scavato dalla colpa e pullulano le cieche forze del male e dell'odio, i demoni: più di mille, «dal ciel piovuti», che ne difendono le soglie agitandosi e minacciando con stizzosa protervia. Fosca città: per ricavarne la immagine Dante non aveva bisogno di guardare lontano. Fu già notato come sulla vaga indicazione virgiliana ben potesse sovrapporsi e prender consistenza la città medioevale, cinta di fosse, di mura e di torri, colle sue scolte d’armati, col suo pittoresco linguaggio di misteriosi segnali notturni. Ma è un’immagine ingigantita, enorme, tradotta in misura e in proporzioni sovrumare, illividita da una paurosa suggestione che la svincola dalla sua materiale concretezza. Sul dato reale la fantasia dantesca ha evocato un immane fantasma, da una forma del tempo l'emblema di un’eterna idea.
Sullo sfondo di questa scenografia apocalittica l’uomo tremante di paura nella fragilità della carne inferma, e l'ombra del poeta che di vestigia umane e di umani sensi è tuttavia dolcemente impressa, ma di un’umanità che s’avviva al lume della grazia operante in remoto e inaccessibile mistero. Il rapporto tra questo incontro umano e lo sfondo disumano che gli fa da cornice è tuttavia misurato sul ritmo di quello sgomento e di quella solitudine che Dante aveva accennato all’inizio («quando vidi costui nel gran diserto»): perché se l’incontro ha via via educato una consuetudine fatta di gentilezza, di fiducia e d'affetto, la forza morale che questa consuetudine cementa bilancia a fatica l’attonito sgomento della terrificante visione. La viltà che Dante confessa all’inizio del canto («Quel color che viltà di fuor mi pinse») è la stessa viltà che Virgilio gli aveva rimproverato nel canto I («l’anima tua è da viltate offesa»). Non solo: ma come quell’umanità di Virgilio che è appena temperata dalla coscienza del «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole» ci ha sempre portati a credere che Dante fosse nel vero interpretando la natura del pallore di Virgilio nel canto IV («e io, che del color mi fui accorto...») e che la spiegazione da Virgilio fornita non sia che un più delicato tratto di quell’umanità alla quale Dante riconosce il patetico cantore dell’umana fragilità, così siamo portati a pensare che tutta la terzina
Quel color che viltà di fuor mi pinse,
Veggendo il duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo novo ristrinse...
vada intesa non già nel senso che Virgilio moderi, per non preoccupare Dante, la sua ira, ma si rinfranchi per non dar esca, colle sue ansie, alla paura di lui. Anche perché se così non fosse, e ci attenessimo alla spiegazione dell’Ottimo per risalire agli antichi («Virgilio era arrossato per l’ira concepita debitamente contro i demòni per la ingiuria ch’elli li fecero; ma da che Virgilio vide che non bastava il conforto delle sue parole a rinvigorire l’Autore, come savio s’attemperò e restrinse quella ira, sì che il proprio ed usato colore tornò sul viso») o del Pietrobono, per richiamarci a un de’ moderni, che quell’interpretazione rincalza colorendola con una presunta impassibilità di Virgilio (« essendogli fallito il tentativo di superare colla sua prudenza l’opposizione dei diavoli non gli rimaneva che aspettare l’aiuto dall’alto; e naturalmente si ferma, col capo basso e con l’orecchio teso, per vedere se gliene giunga qualche segno») se così non fosse, dico, le parole di Virgilio suonerebbero stranamente incaute e imprudenti, ozioso e superfluo apparirebbe quel suo perplesso e così vivo atteggiamento; quadrerebbe forse la spiegazione in ordine a un'esigenza razionalistica, si salverebbe forse la coerenza del personaggio in ordine a un'esigenza dialettica, ma si impoverirebbe irrimediabilmente l’umanità di quel dramma che con tanta efficacia il Vossler ha delineato nel suo svolgimento, nella successione dei suoi episodi e delle sue scene; cadrebbe un’imperdonabile frattura proprio nel punto in cui esso matura la soluzione promessa, che non sarebbe così maestosa e solenne se anche per Virgilio, e non solo per Dante, non rinnovasse il miracolo che testimonia del dominio dei cieli sulle forze infernali come di una vittoria che si rinnova per la maggior gloria di Dio.
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
Ché l’occhio nol potea menare a lunga
Per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»
Cominciò el, «se non... Tal ne s’offerse:
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!»
I’ vidi ben sì com'ci ricoperse
Lo cominciar coll’altro che poi venne,
Che fur parole alle prime diverse;
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
Perch'i' traeva la parola tronca
Forse a peggior sentenzia che non tenne.
Dante ha moltiplicato, per così dire, l’ansia di Virgilio, l’ha dilatata in paura, ma in quell'attimo, nell’attimo impercettibile in cui Virgilio s'è contessato e scoperto, Dante ha letto e riconosciuto se stesso. Da quell’attimo si avvia e si avviva il dramma, o forse più di lontano ancora, da più remota scaturigine, da vena più ascosa; da quel primo accenno («ne l’orecchie mi percosse un duolo...») che rifà nuovo uno sgomento in cui non è il ripetersi o l’intensificarsi di un’eco a cui l'animo come l’orecchio si sono addomesticati, o si vanno addomesticando, ma che si propone come un limite oltre il quale il mistero ancora si avvolge della sua integrità, intatto dalle precedenti esperienze, e il triste mondo del male appare come un approdo tuttavia sconosciuto, come una terra che è tutta ancor da scoprire: anche per Virgilio che ha fatto altra volta quel viaggio, per Virgilio che Dante già aveva visto impallidire non appena li aveva sfiorati «l'angoscia delle genti Che son laggiù», per le quali non hanno differenza di tempi la pena e lo strazio, come non ha differenza di tempi, né un prima né un poi, la lotta tra il cielo e gli abissi, anche se noi possiamo leggerla, fra l'VIII e il nono canto, episodicamente esemplata.
Restituito a questo quadro, l’atteggiamento di Virgilio, fissato con arte che scolpisce mirabilmente nel rilievo esterno l’interna perplessità c accenna con timida delicatezza l’affettuosa sollecitudine verso il compagno, il preciso significato letterale, la definizione del recondito pensiero che la reticenza di Virgilio copre con le parole diverse, l’identificazione di quel Tal col messo divino piuttosto che con Beatrice o con Dio stesso, sono tutte questioni che hanno, sì, la loro importanza, ma che diventano in certo senso secondarie; perché l’indeterminatezza in ordine ad esse non deriva dalla nostra incapacità di cogliere un pensiero che Dante abbia inteso chiaramente esprimere: risponde a una esigenza artistica a cui Dante ha inteso tener fede, traendo proprio dalla suggestione di questa indeterminatezza e di questo mistero motivo di poesia. Ciò non ci esonera, naturalmente, da una ricerca, né deve essere inteso nel senso che le espressioni sopra accennate non abbiano nell’intenzione di Dante un significato preciso, anche se velato e nascosto. È vero invece che in ordine all’uno come all’altro punto, il se non e il Tal ne s'offerse, il divario fra le interpretazioni non è sostanziale, giacché si tratti del Messo, di Beatrice o di Dio è sempre all’intervento attivo e operante della grazia che Dante intende alludere, e quale sia il pensiero che la reticenza di Virgilio nasconde, non v'ha dubbio ch’esso lascia affiorare una momentanea sfiducia. Ben altre difficoltà d’interpretazione offre questo canto. Ed è per questo, come dicevo, che convien riprendere all’inizio i due motivi, descrittivo e psicologico, che affrontandosi dan luogo a uno svolgimento drammatico potentemente unitario. A questo svolgimento, all’animarsi della tragica scena, all’angoscia e allo stupore di questa umanità investita dalla presenza ratta e turbinosa dell'intervento celeste bisogna tener costantemente fisso lo sguardo se si vuole di questo episodio e di questo canto cogliere l'intensa bellezza c l’altissima poesia. Che non dovrebbero sfuggire ai commentatori e non devono sfuggire ai lettori, ma che in effetto sono spesso sottaciute, sopraffatte da un concentrarsi dell’attenzione, che il poeta stesso esplicitamente impegna, sui significati allegorici, su interpretazioni singole e parziali, tali in verità da avvivare un interesse che finisce per sovrapporsi all’interesse essenziale per lo svolgimento più propriamente poetico, come se la poesia non fosse la via ad intendere l’allegoria, più di quanto l’allegoria non sia la via ad intendere la poesia. Non che si possa con facile disinvoltura sgombrare il campo dalle difficoltà in cui si concreta l’ardua materia del canto: ma un così fitto incrociarsi d’interpretazioni non avrebbe preso l’avvio, e tante congetture non si sarebbero così sbizzarrite, o sarebbero cadute da sé, o sarebbero state con fermezza scartate e risospinte nel limbo delle fantasticherie, solo che si fosse dato maggior rilievo all'ampia e solenne architettura e alla raccolta e coerente linearità del dramma a cui il canto VIII fa da preludio, ma che si svolge e si scioglie nel canto nono.
Questo dramma il Vossler, come ho accennato più sopra, ha ridotto a un’azione dall'andamento semplice e chiaro, e diviso, non tanto per metafora o per approssimazione, o per artificiosa opportunità espositiva, quanto per fermo e sicuro intuito della vera natura della poesia dantesca che presuppone come intima realtà la visione e ad essa condiziona e subordina la struttura intellettuale e razionale, in quattro atti. Il primo si chiude sulla sconfitta di Dante, che pieno di baldanza poco innanzi nei confronti di Filippo Argenti, intimidito dall’opposizione dei diavoli che il solo Virgilio vorrebbero lasciar entrare, supplica umilmente il Maestro: «Non mi lasciar... così disfatto». Il secondo si chiude colla sconfitta di Virgilio che respinto nelle trattative coi demòni vede chiudersi tra grida di scherno le porte infernali. Il terzo, dopo una pausa riempita dalle domande di Dante e dal racconto di Virgilio d’un suo precedente viaggio agli inferi, culmina nell’apparizione delle tre Furie le quali chiamano a gran voce Medusa affinché venga ad impietrare col suo sguardo l’audace mortale. Nel quarto, che reca la soluzione, sopravviene quello che Virgilio ha sperato e atteso: dal cielo arriva un messaggero: fende possente e fragoroso come un uragano l’aere infernale, tocca con una verghetta la gran porta, la spalanca, lancia tuonando dalla soglia il monito divino dentro la città. I pellegrini entrano, «sicuri appresso le parole sante». «Davvero non si potrebbe immaginare all’azione un andamento più semplice e chiaro. Nei primi due atti l’insufficienza dell’uomo e delle sue forze spirituali, nel terzo la minaccia infernale, nel quarto la risposta del ciclo; c tutto strettamente legato c avvivato dalla paura, l’attesa, la speranza, lo smarrimento dei pellegrini». Fin qui il Vossler.
A questo punto ritengo si possa procedere oltre in tale processo di semplificazione, sceverando quello ch’è il puro dato visivo — esterno, per così dire — dal tessuto psicologico ed emotivo che gli fa da contrappunto, lasciando grandeggiare quel dato nel ritmo attonito con che scena si svolge da scena; immaginando non più, su questo sfondo tragico, animato, mobile nel suo infoscarsi in ordine al succedersi di magiche e sovrannaturali evocazioni che via via lo accentuan in sé, la presenza di Dante, l’intessersi del dialogo articolato tra lui e Virgilio, o di quell’altro dialogo inarticolato, e anche più suggestivo, dei loro sentimenti e dei loro affetti taciuti; evocando idealmente questo ritmo, questo snodarsi di fantasmi da cui vorrei tolti persino voce, parole, eco di rumori: la Città di Dite, i demòni, le Furie, Medusa, il folgorante affacciarsi del Messo. Tutto ciò che è visione, e che si potrebbe esser tentati di considerare scena, colore, sfondo, fantastica cornice al dramma dell’anima umana e dell’intelletto umano, diventa esso stesso il dramma, il motivo essenziale d'una poesia astratta nel suo momento più estaticamente intuitivo: diventa una trama che s’allarga in fila compatte, entro cui la stessa materia umana, nonché la materia concettuale, si cala quasi a riempire e a dar corpo a una figura che, se non fosse così fissata, svanirebbe dissolvendosi nello stesso mistero a cui per un attimo come un inafferrabile miraggio ha dato forma. Ma su questa via il dramma pare possa anche ulteriormente semplificarsi. Al proteico camuffarsi delle forze diaboliche, spinte dalla stessa frenetica fatalità del loro agitarsi a parodiare sconciamente l’armonico cospirare all'unità ch'è del regno di Dio, assommandosi attraverso i demòni e le Furie nel mozzo capo della Gorgone, in Medusa — l’immobilità che impietra per l’eternità quel moto che dall'immobilità vivificante del Motore primo trae origine e vita, la distruzione, la morte eterna, il nulla, il dissolvimento e la negazione della creazione, la vittoria infine delle potenze d’abisso sol che nell'uomo riuscissero a guadagnarne la posta — alla figurazione, dico, delle forze del male s’oppone schietta e folgorante la figurazione della forza del bene, alla suggestione del peccato la grazia, ai demòni, alle Furie, alla Sfinge il Messo del cielo, alla potenza di Lucifero la potenza di Dio. Il dramma diventa così d’una solennità senza pari: è l’eterna lotta del bene e del male, l’eterna, immutabile e sempre attuale vittoria di Dio. Per questo il Messo non può esser Dio stesso, sia pure in persona di Cristo. Basta un Angelo e, sia pure in veste e con linguaggio e costume quali possono sol convenire a un siffatto paesaggio, meglio ancora un Arcangelo. Dio è lassù. Regge dall'alto la bilancia di questa lotta che ha avuto inizio col Creato ed è destinata a durare eterna, o almeno sino all'ora in cui a Lui piacerà tutto raccogliersi e tutti raccoglierci nella luce della sua gloria.
Mi pare insomma che qui, come altrove, l’individuare il vivo nucleo poetico, l’astrarre il motivo fantastico nella sua immediatezza intuitiva, il disarticolarlo dal piano del suo contenuto pratico e umano, il riconsegnarlo in altre parole al tema della pura visione, porti insieme a individuare con chiarezza l’idea e il concetto; che la pura visione altro non sia che l’idea nel suo esprimersi, nel suo svelarsi. Se così è, non dico che un chiarimento siffatto dipani la matassa delle allegorie, ma certo limita il campo delle congetture possibili e probabili. Se il grande tema è l’urto delle forze in perpetua contesa, è chiaro d’altra parte che un tema siffatto aleggia sulla materia di questa poesia più di quanto non la occupi integralmente di sé. La sovrasta, più di quanto in essa non si stenda o si spieghi. Voglio dire che a piè dell’alte torri o in margine all’uragano che accompagna la presenza del Messo, Virgilio c Dante appaiono come rimpiccioliti, sommesso il loro linguaggio come fioco e lontano mormorio. Ma è in questo dialogo e nell’articolarsi di questo racconto, ricco di pause e rotto da diversioni, che Dante spiega quell’efficacia rappresentativa e quella viva estrosità che traducono l’ineffabile su un piano umano e comunicativo. Non senza qualche indulgenza e qualche spunto di velata ironia verso se stesso: e non senza qualche comica venatura, sottile, presente come un vago sentore, come un sottinteso appena accennato:
«In questo fondo de la trista conca
Discende mai alcun dal primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?»
Interrogazione tendenziosa, ma di una tendenziosità così scoperta e ingenua che se la parola di Virgilio non fosse inconciliabile con la menzogna, sia pur benevola, compiacente e affettuosa, potremmo sospettare di tendenziosità anche il racconto che egli fa del suo primo viaggio al cerchio di Giuda.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui
Congiurato da quella Eriton cruda
Che richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
Ch'ella mi fece entrar dentr’a quel muro,
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è il più basso loco e ’l più oscuro,
E ’l più lontan dal ciel che tutto gira;
Ben so il cammin; però ti fa sicuro.
Beatrice all’interrogazione di Dante avrebbe amabilmente sorriso: ciò meno si conviene a Virgilio, dal quale mai si scompagna la patetica tristezza di chi senza speme vive in disio: ma l’ultimo verso lascia intender ch’egli ha ben compreso quanto sottintende il discorso di Dante. Se non lo punge, come altrove avviene, è perché misura egli stesso, da se stesso, il sospeso disagio di quella pausa che il suo racconto riempie. Racconto che piacerebbe pensare come una favola. Senonché come favola è essa stessa penosa e amara, quasi che ripetendo da Lucano la leggenda, e conservandole tuttavia il suo color di leggenda, Virgilio alle prese con le potenze malefiche e in segreto ancora tentato dallo sconforto, non senza intenzione accennasse alla parodia, ch’esse avevano su di lui consumata, di quell’intervento divino che pel soave tramite di Beatrice l'aveva prescelto a un viaggio infernale di ben altro significato. Può apparir strano, e strano apparve a taluni in effetto, questo associar la figura di Virgilio alle arti di una maga. Direi che la fonte, Lucano, è giustificazione sufficiente a questo capriccio di Dante, ed è buona osservazione di Adolfo Venturi che proprio Lucano abbia suggerito questa associazione in quanto ci mostra la maga intesa a evocare un’anima
Non in Tartareo latitantem... antro
Adsuetamque diu tenebris...
ma «modo luce fugata Descendentem animam» un’anima che
... primo pallentis hiatu
Haeret adhuc Orci;
uno spirito quindi del primo cerchio, e da poco disceso nel regno dei morti. Lo scopo immediato, comunque, da parte di Virgilio, è di assicurare Dante d’essere altra volta disceso laggiù, di conoscere il luogo. Che significa rassicurarlo soltanto a metà, e per l’altra metà sottolineare invece che nella città dolente non sarà possibile ormai entrare senz’ira. Ciò non chiarisce retrospettivamente il significato di quel «se non...» in cui Virgilio aveva confessato a mezzo la propria perplessità, ma circoscrive, mi pare, il campo delle supposizioni; essendo da escludersi almeno che Virgilio intendesse, come taluno poté sostenere, «se non ho errato il cammino»; riferendosi piuttosto, quale fosse il preciso oggetto del suo dubbio, all’incertezza o al ritardo dell'intervento divino. Senonché, anche nel fatto che Virgilio si ritraesse sconfitto dal primo urto colla fortezza del male, c'è un significato che si offre, mi pare, semplice e chiaro; e cioè che, se la ragione umana non può da sola diradare le tenebre della mente, e non può da sola trionfare della potenza del male, deve tuttavia impegnarsi; e che la grazia interviene a illuminarla e a sorreggerla quando nella prova, pur soggiacendo alla tentazione del dubbio, la superi uscendone vittoriosa per virtù di fede. Ma questo tema, anche ridotto alla sua enunciazione più semplice, ci richiama a una verità che vale, religiosamente parlando, nell’ordine individuale come nell’ordine universale, a una verità che può trovare applicazione in una gamma direi quasi infinita di significati e di accentuazioni, com'è della parola segreta colla quale Dio parla al cuore dell’uomo, che una è e una rimane, in sé raccogliendo e risolvendo il molteplice linguaggio delle creature, così come la visione che rivela la verità dell’universo ultrasensibile non è corpo ma forma, nella quale possono, improntandosene, configurarsi esperienze diverse e molteplici.
È questa una premessa alla quale dovremo rifarci più avanti. Per ora rimaniamo aderenti al racconto, che dopo essersi attardato con arte, quasi divagando, onde poter rinnovare, più attonito, quel senso di sgomento che s’era accompagnato al primo urto colla cerchia infuocata e colla proterva resistenza dei demòni, s’avvia verso più drammatiche fasi e urta contro una nuova, spaventosa apparizione. L’occhio di Dante è tratto
Ver l’alta torre alla cima rovente,
Dove in un punto furon dritte ratto
Tre Furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminine avieno e atto,
E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
De la regina de l'eterno pianto,
«Guarda» mi disse «le feroci Erine.
Quest’ è Megera dal sinistro canto;
Quella che piange dal destro è Aletto;
Tisifone è nel mezzo» e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
Battiensi a palme, e gridavan sì alto,
Ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»
Dicevan tutte riguardando in giuso:
«Mal non vengiammo in Teseo l'assalto».
«Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso;
Ché se il Gorgén si mostra e tu ’l vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso».
Così disse ‘l maestro; ed elli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Che con le sue ancor non mi chiudessi.
Non c’è dubbio che sul Poeta abbia agito la suggestione delle stesse fonti mitologiche dalle quali trasse i tanti mostri che popolano il suo Inferno: Virgilio in primo luogo, Ovidio, Stazio, gli echi IMOLCRES trasfusi nella poesia latina dal mito più tremendo e più severo a cui abbia dato vita la fantasia dei Greci. Non c’è particolare di cui Dante si valga per dar rilievo alla sua immaginazione che non possa su queste fonti essere esattamente controllato. E tuttavia, come la figurazione ben poco tiene dell’implacabile austerità del mito greco, di cui Dante del resto non poteva risalire alla fonte immortale, così il realismo della tradizione classica è come trasfigurato da una concezione nuova: concezione poetica, voglio dire, ché quanto al significato allegorico che le Furie impersonano pare certo non sia il caso di cercare lontano da quelli, naturali e comuni, che i classici loro attribuivano. Ma si noti che per quanto abbiano in comune cogli altri mostri infernali l’irosa insofferenza nei confronti d’una presenza in cui vedono contraddetta la legge del loro tristo e cieco mondo, poco c’è di comune tra esse e Cerbero e Minosse e Flegìas e lo stesso Gerione, ministri ringhiosi e riottosi, ma pur sempre ministri della volontà divina, gente che si placa e addomestica al suon delle parole. Non solo in ordine a una prospettiva interna alla Commedia, ma anche in ordine a quell’uniformità da cui emergono le figurazioni infernali nell’oltretomba classico, le Furie dantesche hanno alcunché di singolare. Tengono dell’evocazione, più che della figurazione. Compaiono sulle torri, ma si direbbe che la virtù diabolica in grazia di un sortilegio le abbia evocate dai profondi abissi del più profondo Inferno. E quel loro far appello a Medusa «guardando in giuso», tiene esso pure dell’evocazione. Pensiamo che se Dante ce ne avesse potuto descrivere l’apparizione, l’occhio avrebbe dovuto fissarsi più in alto, più su delle Furie, al vertice di una piramide che ha i diavoli per base; di tanto più su, di quanto più profonde è l’abisso da cui l’orrendo sortilegio intendeva evocarla. Un rovesciamento dell’ordine naturale dell'Inferno in un sacrilego e appena abbozzato tentativo di scimmiottare l’ordine celeste. Si noti ancora: con l’emergere delle tre Furie sull’orlo della torre, non dico che i diavoli scompaiano, ma è come se non esistessero più. Se Medusa avesse potuto folgorare Dante con la sua luce livida e fredda, essa avrebbe senza dubbio campeggiato sulla scomparsa delle Furie. All’appressarsi del Messo non si ritrovano che i diavoli. Nessuna traccia di Medusa. Le Furie son dileguate. Siam ritornati sul piano di una realtà poetica, o, se si vuole, di una fantasia a fior della quale l'apparizione è emersa e dileguata come uno spauracchio, come una ciurmeria solenne attraverso la quale l'Inferno ha mostrato un'immagine di sé, un'immagine nuda, si è smascherato, si è lasciato irretire proprio nell’atto in cui s'era avventato sulla sua preda puntando superbamente e caparbiamente sulla vittoria.
A questo punto è troppo naturale il domandarsi: qual è il significato delle Furie? Qual è il significato di Medusa? E la risposta potrebbe essere facile, chi volesse accontentarsi d’una superficiale e, per dir così, letterale coerenza: e cioè che le Furie son figurazione simbolica della natura del male che si accoglie negli abissi più profondi dell’Inferno, della sua oscura potenza, della tenacia ribelle con cui s’oppone al disegno di Dio, della consapevole, perversa volontà con che viene lacerando, stracciando e insudiciando la tela luminosa che Dio intesse, il simbolo della discordia, dell'odio, della negazione; e che Medusa può anche essere un semplice pretesto mitologico, l’immagine di quanto s’avvererebbe qualora l’Inferno avesse a trionfare in questa lotta in cui si decidono valori supremi: la distruzione, la morte, peggio ancora, il crollo, l’immobilità eterna: impietrato il movimento in cui l’idea di Dio respira, agghiacciato quel calore di carità che riscalda la sua opera di vita e di redenzione. E sarebbero tutti significati bastevoli a fornire un logico sostegno alla poesia, che di tal sostegno ha bisogno, ma che pur splende, quale esso sia, nella sua nativa e immediata bellezza, nella plastica efficacia della sua potenza espressiva e rappresentativa. Ma Dante stesso interviene ad ammonirci di non esser troppo facili e corrivi, con una battuta di sospensione insinuata accortamente come una didascalia: richiamo e suggerimento, ina insieme diversione, intesa a preparare il passaggio da una tonalità drammatica a un’altra tonalità drammatica necessariamente diversa.
O voi che avete gli intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame de li versi strani.
Vorrà davvero Dante stimolare l’intelligenza del lettore, o non semplicemente richiamarlo a una dottrina che deve presentarsi naturale e ovvia solo ch'egli non si lasci distrarre dalla suggestione esterna dei modi della rappresentazione? Analoga questione si pone pel canto VIII del Purgatorio:
Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
Ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
Certo che ’l trapassar dentro è leggero,
e senza approfondire qui l’analogia, sia concesso esprimere l’opinione che l’interpretazione dell’uno e dell’altro avvertimento, dell’una e dell’altra situazione, possano e debbano aiutarsi a vicenda. Ma vediamo di pesare, per quanto è possibile, le parole di Dante: strani egli definisce i propri versi in ordine alla materia inusitata e favolosa ch’essi accolgono, non già in ordine all’allegoria e tanto meno al significato ch’essa adombra; l’aggettivo è usato qui in senso non dissimile da quello che si riconosce come più ragionevole nel noto passo dell’episodio di Pier de le Vigne. E quanto agli intelletti sazi, credo Dante intenda molto semplicemente non guasti e non fuorviati da errore. Quale errore? Per Dante errore, nell’ordine religioso e morale, non può essere che il discostarsi dalla dottrina della Chiesa. Se così fosse, la terzina non suonerebbe se non come un richiamo a intendere l’allegoria in senso religioso. Direi di più: un preciso richiamo alla dottrina della Chiesa come a quella che può non solo aiutare l’intelligenza, ma naturalmente suggerire la spiegazione dell’allegoria. Non voglio dire con questo che la spiegazione che poteva apparire facile a un Dante «theologus nullius dogmatis expers» lo sia per noi nella stessa misura.
Siamo anzi tanto lontani dallo stupirci per la molteplicità delle congetture e delle ipotesi che son venute accumulandosi sul tessuto allegorico del canto nono, che siamo disposti a credere aver Dante stesso, qui come altrove, adombrato significati molteplici. Stupisce piuttosto il fatto che si possa a queste esigenze esegetiche aver sacrificato il senso e il gusto della poesia, e stupisce anche maggiormente il fatto che nel senso e nel gusto della poesia, che vuol dire oltre a tutto rispetto alla sua intima coerenza, non si sia in alcuni casi trovato un naturale freno e una ideale disciplina e in definitiva una guida a spiegare difficoltà e oscurità con Dante stesso, piuttosto che coll’arbitrio di sovrastrutture che quelle stesse significazioni allegoriche, a cui Dante ha inteso indubbiamente dar vita, finiscono coll’appesantire piuttosto che. col chiarire. Dato che l’allegoria sia essenzialmente di carattere religioso, e dato che il tema della Commedia sia l’umanità in ordine alle sue sorti ultraterrene, mi pare ciò porti non dico a scartare, ma a relegare in un secondo piano tutte le interpretazioni che fanno riferimento a motivi storici e contingenti, non universali ed eterni, e a considerare con estrema cautela tutte le interpretazioni troppo sottili e anguste, che tengono del particolare, del parziale, del marginale, della sottigliezza filosofica e teologica più che della chiara significazione religiosa: sfumature, piuttosto che viva sostanza di quella verità che il velame degli strani versi adombra, e che crediamo debba essere, quale essa sia, di natura evidente, lineare, tale da imporsi come insegnamento, e da conformarsi al quadro di quella finalità didascalica sempre attiva e operosa nei mirabile messaggio dantesco. E allora mi pare abbia anche obbiettivamente un suo valore e un suo peso il fatto che l’interpretazione già anticamente affiorata, che identifica le Furie coi rimorsi della coscienza, e Medusa colla disperazione della salvezza, interpretazione varia- mente accentuata, talvolta travisata, mai abbandonata nel corso dei secoli, sia giunta ai nostri giorni raccogliendo tuttavia suffragi e non tra i meno autorevoli. È interpretazione che riflette la comune coscienza e la comune esperienza dell'umanità; è interpretazione che s’accorda, oltre che colla dottrina, colla sensibilità religiosa, in quanto quei motivi sono ammessi e sentiti come naturali attributi del male; è infine interpretazione che s'accomoda senza sforzo all’allegoria generale suggerita da sicuri indizi e da analogie con luoghi consimili. Ma quando diciamo rimorso e disperazione accenniamo soltanto due indicazioni € due approssimazioni; in primo luogo perché son termini che si svuoterebbero del loro significato se non si inserissero in uno svolgimento in cui tutti gli clementi giocano a coordinare e a integrare in più articolato e spiegato discorso l’allegoria; in secondo luogo perché allusivi di moti e concetti talmente complessi nell’ordine psicologico, morale, filosofico e religioso, che il solo tentativo di definirli, nonché d’inserirli nel quadro di uno svolgimento solenne qual è quello della Commedia, non potrebbe che rinnovare le perplessità che hanno accompagnato per secoli lo studio del testo dantesco. Senza dire, appoggiandoci all’autorità di Dante stesso, il quale ammette accanto al senso un sovrasenso, che il dramma spiegato nel canto nono non va letto soltanto nel cuore dell'Uomo; va idealmente trasferito, in virtù di un'ulteriore, suprema anagoge, alla ragione stessa, al destino dell'Universo: e in questa mirabile metafora quel moto e quei concetti, concreti in ordine a un’esperienza umana, s'allargano in un’astrazione mitica. Perché la rovina di un’anima e la distruzione dell’opera di Dio sono, sì, la stessa cosa; ma quale ala offerta al pensiero, e quali spazi aperti al linguaggio in cui tale identità dovesse umanamente esprimersi!
Il nostro pensiero è tuttavia talora così angusto, e così meschino il nostro linguaggio, che abbiamo sul serio potuto domandarci, noi lettori, ai quali Dante pensava insinuando quell’invito «oh voi che avete gli intelletti sani», se quei tre versi debbano essere riferiti a quel che precede o a quel che segue, a Medusa o al Messo, come se ci potessero essere qui allegorie singole e staccate, da intendersi ciascuna in sé e per sé, come se Dante avesse con quei tre versi fatali inteso frapporre una frattura e non invece annodare un legame, un nesso irrevocabile tra due momenti di uno svolgimento rigorosamente e necessariamente unitario!
Chi ben consideri, questi due canti segnano — e il Momigliano felicemente lo osservò — un ritorno di pericoli morali dopo quelli della selva: come là la soluzione dall’alto era venuta in persona di Virgilio, qui sopravviene in persona del Messo divino. Inutile aggiungere che, allegoria a parte, le figurazioni e l’apparato stesso si giustificano anche da un semplice punto di vista narrativo. Non direi con questo però che il richiamo dantesco al significato allegorico rappresenti un’incrinatura nel succedersi e nello snodarsi di queste scene grandiose, e neppure vedrei la convenienza di istituire un confronto tra questo canto e il canto I: sono due momenti ugualmente drammatici per intensità, nei quali la poesia ha il respiro dei valori supremi ch’essa coinvolge; nel canto I l’accento batte sul dato umano, e umanizzato attraverso il racconto di Virgilio è il modo stesso del sovrannaturale intervento; nel canto nono l’accento è sulla grandiosità dell’apparato, sull’augusta solennità dell’intervento, e implicitamente sul significato universale, cosmico dell’allegoria.
E già venia su per le torbid’onde
Un fracasso d’un suon, pien di spavento,
Per che tremavano amendue le sponde,
Non altrimenti fatto che d’un vento
Impetuoso per li avversi ardori,
Che fier la selva e senz’alcun rattento
Li rami schianta, abbatte e porta fòri;
Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere e li pastori.
Gli occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
Del viso su per quella schiuma antica
Per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la nemica
Biscia per l’acqua si dileguan tutte,
Fin ch’alla terra ciascuna s' abbica,
Vid'io più di mille anime distrutte
Fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
Passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
Menando la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell’ angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’egli era del ciel messo,
E volsimi al maestro; e quei fe’ segno
Chi’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne alla porta, e con una verghetta
L’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta»
Cominciò elli in su l’orribil soglia,
«Ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
A cui non puote il fin mai esser mozzo,
E che più volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
E non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
D’omo cui altra cura stringa e morda
Che quella di colui che li è davante;
E noi movemmo i piedi inver la terra,
Sicuri appresso le parole sante.
Un commento al quale non sia data la possibilità di svolgersi con un impegno e con un respiro adeguato all’augusta bellezza di questa pagina di poesia, non potrebbe esser che motivo di mortificazione per chi lo tentasse: particolari descrittivi e figurativi immediati e icastici, tessuto narrativo concreto, rapido, energico; potenza di evocazione fantastica, suggestione mitica, rilievo scultoreo, michelangiolesco: tutte indicazioni che meriterebbero d’essere sviluppate, approfondite, illuminate; indicazioni tuttavia generiche, convenzionali, esterne, inefficaci a cogliere l’intimo moto, a penetrare la ragione che l’ignoto, il mistero, l’arcano, traduce e risolve nei termini di un concreto e immediato realismo.
Perché la nota veramente singolare di questa scena magistrale consiste proprio nell'armonizzare i tratti realistici coi quali il Messo è figurato, e il greve realismo del suo linguaggio, coll’alone misterioso che avvolge la sua augusta presenza; nel conciliare il senso divino e la divina natura di questo intervento coi foschi colori del paesaggio, animato e inanimato, ch’esso sfiora e soggioga; nel costringere il fulgore della luce celeste nel fosco balenio di un turbine devastatore, nell’adombrare come forza sterminatrice la virtù redentrice: c ciò, si noti bene, senza rinnegare, ma certamente incupendo € accentuando personalissimamente una tradizione rappresentativa, figurativa, o addirittura religiosa e liturgica, in omaggio a una convenienza artistica che da questo altissimo piano si spinge e si dirama con armonica coerenza sino ai tratti più veristici e sconcertanti coraggiosamente inseriti negli anfratti del cieco mondo per dar rilievo alla materia difforme e discorde. Vogliamo dire che l’intervento divino nell’abisso infernale, Dante non poteva immaginarlo e rappresentarlo che così; che anche qui come altrove sensibilità e gusto di poesia forniscono argomenti per sfrondar largamente la fitta selva di supposizioni, di ipotesi, di discussioni e di interpretazioni che di questo canto han fatto, più che terreno di polemica, quasi campo di battaglia. Anche per questo, accennata l'opinione che a noi sembra più ragionevole, ci esoneriamo dall’entrare in così spinosa materia: non senza avvertire che il riconoscere all’allegoria carattere essenzialmente religioso, e l’accettare l’identificazione del Messo divino coll’angelo, non porta, a noi pare, come necessaria conseguenza che non si possa ammettere, accanto all’allegoria principale, un’allegoria secondaria. Quando si pensi alla figurazione della città di Dite, alle mura negate, alle dolenti case, al Messo che spalanca le porte, a Dante che può entrare sicuro; quando si pensi a certi luoghi delle Epistole dantesche, della VII segnatamente, nei quali in ordine alla discesa di Arrigo sembrano riecheggiare situazioni analoghe e colle situazioni espressioni ed apostrofi che le colorano con non diverso linguaggio («Quantunque la nostra sete, come suole, faccia ciecamente dubitare delle cose certe quanto più si avvicinano, pure in Te crediamo e speriamo, Te affermiamo Messo di Dio») per non dire degli accenni all’Imperatore che avanza, durus debellator, contro la terra destinata allo sterminio; quando pensiamo alla passione del poeta, che persegue con un’idea di giustizia un'idea morale di civile e religioso rinnovamento della società, par difficile non ammettere che Dante non abbia letto, nella sua visione, anche quest'altra pagina: pare anzi che questa polivalenza natural mente s’accordi coll’idea da noi proposta della visione dantesca, com'è delle grandi parole che leggiamo nei testi sacri, che si traducono ne’ più diversi insegnamenti e s’adattano alle più diverse esperienze della vita.
Il canto volge ormai alla fine. I versi che seguono sembran tradurre, nella novità dello spettacolo e del silenzioso, fermo e quasi morto paesaggio in cui si placa la frenetica animazione e l’affollata coreografia dell’episodio precedente, l’effetto magico di quel tocco di verga che spoglia la scena dai paurosi fantasmi, la sgombra d’ogni malefica apparizione, e immette i viandanti in una solitudine amara, popolata di sepolcri, di gemiti indistinti, di sparse fiamme vaganti:
Dentro lì entrammo senz’alcuna guerra;
E io, ch’ avea di riguardar disio
Le condizion che tal fortezza serra,
Com’io fui dentro l’occhio intorno invio;
E veggio ad ogne man grande campagna,
Piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
Sì com’ a Pola, presso del Carnaro
Che Italia chiude e i suoi termini bagna,
Fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
Così facevan quivi d'ogni parte,
Salvo che ‘l modo v’era più amaro:
Ché tra li avelli fiamme erano sparte,
Per le quali erano sì del tutto accesi,
Che ferro più non chiede verun’arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
E fuor n’uscivan sì duri lamenti,
Che ben parean di miseri e d’offesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti
Che, seppellite dentro da quell’arche,
Si fan sentir con li sospir dolenti?»
Ed elli a me: «Qui son l’eresiarche
Coi lor seguaci, d’ ogni setta, e molto
Più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
E i monimenti son più e men caldi».
E poi ch'a la man destra si fu volto
Passammo tra i martiri e gli alti spaldi.
Il paesaggio già appartiene idealmente al canto X, che scolpirà, ritta in quella solitudine tragica, «quasi avesse l’Interno in gran dispitto», l’immortale figura di Farinata.
Come è parso opportuno rifarsi al canto che precede per afferrare lo svolgimento del dramma nella sua compiutezza, così ci sia concesso di sfiorare appena il canto che segue per trarre dalla natura del peccato ivi punito conferma alla significazione rigidamente religiosa e dogmatica di tutta l’allegoria; e dalla umana passione che riaccende, oltre la soglia che consuma i ricordi terreni in fuoco eterno, il duello mortale che aveva fatto i fratelli molesti ai fratelli, e la città di Dante quasi immagine della città di Dite, conferma alla compresenza del tema politico e municipale che della più severa architettura s’adombra e che in quella si dispone e s’insinua come cerchio nasce da cerchio e nel concentrico moto dell’onde s’allarga.
E se l’accenno ad Arli «ove Rodano stagna» può aver invogliato gli interpreti a trarne decisiva conferma alla discussa tesi del viaggio in Francia di Dante, o i geografi e gli archeologi a discutere se le ricostruzioni della necropoli provenzale corrispondano alla descrizione della dolorosa campagna che imprigiona gli eretici, ben altrimenti e per altre ragioni ci tocca l’accenno «a Pola presso del Carnaro Che Italia chiude e i suoi termini bagna», confortandoci a chiedere che la voce del poeta chiara, precisa, perentoria, non venga soffocata e oltraggiata, o consegnata ancora ai secoli come vindice monito di un diritto calpestato e offeso; ad augurare che la storia non abbia a smentire la poesia, ma si illumini alla sua luce, nella quale risplendono eterne verità e incancellabili testimonianze.