Dati bibliografici
Autore: Aldo Vallone
Tratto da: Nuove letture dantesche
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1966
Pagine: 237-260
La ricerca di una struttura logica o narrativa o ambientale ha, finora, interessato largamente Dante. La misura del canto è sempre rimasta circoscritta ad una vicenda preminente o anche ad una figura di grande impegno costruttivo. Superata quella o rappresentata conchiusa questa, l’azione si è poi sciolta, pronta ad interessare altri fatti ed altri personaggi. Le aperture dei canti, in armonia alla chiusura degli stessi, indicano sempre un proposito, anche se via via diverso, che si ponga per se stesso e valga come avvio proemiale. Se si vuol lasciare il canto I, che per sua natura è quel che deve essere, si prenda il II, che s'apre con una presentazione temporale o il III, che pone il lettore dinanzi alle «parole di colore oscuro» e all'ingresso dell'Inferno. Il IV, il V, il VI e il VII conducono l’azione in modo che all'apertura dell'uno corrisponda la chiusura dell’altro e non evitano, se mai calcano, le varie corrispondenze. Dante è impegnato nel fatto narrato intensamente. Le chiuse del III e del V, le aperture del IV e del VI esprimono, nell’intreccio, una ricerca voluta di misure e di equilibri. Sembra anzi che, sgombrato il terreno dagli impegni generali, Dante tenda ad assegnare ad ogni cerchio un canto e certamente ad ogni situazione un canto. Così è dal III in poi. Può sembrare questa prova di aridità scolastica, è, invece, angosciosa presenza di uno schema entro cui il poeta trova comodo assuefarsi e disciplinare la prorompente materia. Dante avrà sentito paura della vastità del suo disegno e probo (non solo per dominio di poetica) raccogliere in nuclei-canti l’azione e le tappe da suo viaggio.
Tutto questo non autorizza affatto ad accogliere la notizia tramandataci dal Boccaccio, da Benvenuto e dall’Anonimo, e poi ripresa da taluni moderni, circa i due tempi (con il taglio tra VII e VIII canto) di composizione della Commedia, che noi consideriamo inaccettabile; ma se mai a sottolineare da una parte l’esaurirsi di una sperimentazione che dà prova fino all'VIII canto e dall’altra l'avvio di una nuova che presenta i canti non più chiusi in misure esterne (di cui si è già provata tutta la gamma possibile), ma sciolti in larghe vicende narrative che possono, o non, coincidere con le chiusure formali dei canti. Si crea così un ritmo nuovo, una piega nuova, che non interrompe, certo, lo sviluppo a catena della vicenda, ma lo rinnova, lo varia, lo lega a più interne e segrete coincidenze. La formazione dei primi otto canti permetteva uno slegamento di episodi-canti e la loro autonomia era, o sembrava, conchiusa in essi, se singolarmente considerati. La nuova formazione impone un rapporto interno più stretto, che sottintende i passaggi o li dissimula, o li scioglie per tempo o li assorbe anzitempo. L'unità ne guadagna. L’idea della catena dei canti rimane, ma perde il rigore degli agganci. Il passaggio è più fluido. Il taglio può esprimere, ben più sottilmente, un segno di pausa, una cadenza, un ritmo dinanzi alla vastità della rappresentazione. Si perde lo schema. Il semplicismo scolastico decade.
Il canto IX si pone per primo, nel rispetto dell’ordine cronologico e numerico, in questa nuova prospettiva. Vale per sé, ma è disposto, preparato e immesso nell’azione dal precedente. Non c’è stato, finora, un inizio di canto meno proemiale di questo. L'azione è già delineata. La situazione continua ad evolversi. Ai personaggi non si dà sobbalzo alcuno. Colore e tono di scena e di raffigurazioni si allargano e si intensificano. La parola scorre. Nel caso particolare il comportamento di Dante è un riflesso di quello di Virgilio. La fluidità tra i due canti non è data solo dallo sviluppo narrativo (il che accade in più luoghi tra canto e canto e forse tra cantica e cantica in modo perfettamente naturale nella Commedia), ma da un'osservazione precisa e lucida di Virgilio sulle sorti che gli sono riservate.
Chi m'ha negate le dolenti case
(VIII, 120)
Il senso e il tono non sono da cogliersi, come comunemente si crede, in un momento di cruccio e di dolore, quale s’addice ad un'esclamazione amara e disdegnosa («Guarda un po’ che gente mi ostacola il cammino»); quanto piuttosto in una perplessità, amara sempre, che nasce da cosa inaudita strana e imprevista. Virgilio vorrà dire: Chi è mai così potente da inibirmi il passaggio? Si ha un tono interrogativo ed esclamativo insieme come càpita spesso nella poesia di Dante. È una domanda che Virgilio volge a se stesso non proprio per rincorarsi, quanto per richiamare alla mente quel ch’era accaduto e quel che gli era stato assicurato. È del tipo usato nell’Eneide:
Quis deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris avertit, tantos ratibus quis depulit ignis?
(IX, vv. 77-78)
Virgilio era partito con sicurezza e fermezza di riuscire. Aveva già sperimentato la validità della missione e aveva rincuorato Dante. Sa assai bene che nessuno può impedire il passaggio: «da tal n’è dato» (ibid. 103). Accade invece l’imprevisto e Virgilio se ne ritorna confuso e umiliato certo, ma ancor più sorpreso e increduto. Nulla è valso contro i diavoli. La loro azione non appare tanto atto d’ingiuria al volere di Dio espresso da Virgilio, quanto atto di ribellione e di audacia come usano i potenti e i prepotenti. Passa in loro il desiderio di misurarsi ancora una volta con la legge divina. Il loro comportamento è un invito al duello come «divinum iudicium» (Mon., II, ix, 2): una specie di prova di Dio, invocata polemicamente e diabolicamente quale gagliarda manifestazione di sprezzante ironia e di beffarda malizia. Si vuol «giocare» con le stesse armi e con le stesse regole.
Tutto il canto va guardato da questa angolazione. I diavoli hanno capito l'ufficio e la natura di Dante, sanno bene la volontà che lo conduce avanti e vogliono cimentarsi. Il loro è atto di sfida sin dalle prime battute: «pruovi, se sa» (ibid., 92). Il chiuder le porte «nel petto» di Virgilio è una logica conseguenza: è un atto innanzitutto di coerenza. Virgilio ha «passi rari», ciglia «rase d'ogni baldanza» e sospira (e cioè, si cruccia) proprio perché è completamente smarrito. Sono atti di chi è stato sorpreso, non proprio di chi è avvilito. Quando si riprende, il suo primo pensiero è di lotta: «io vincerò la prova». Si lotta con chi si è palesato forte, potente e prepotente. Vince perché gli torna salda la fiducia in chi l’ha avviato e protetto. Nel rapido riesame delle cose dette e delle sottaciute una nuova certezza si fa avanti per cui, via via, il discorso si fa fermo e preciso. Il valore del «chi» nella individuazione di una forza, audace e capace ad opporsi a Dio, è riconfermato nella espressione, «qual ch'a la difension dentro s'aggiri» (ibid., 123), qualunque potere, cioè, ci sia dentro la città che impedisca d’entrare. Alla balda fiducia («Non temer; che 'l nostro passo Non ci può torre alcun», ibid., 104-105), corrisponde, dopo i moti della sorpresa e del disagio, la convinta certezza («non sbigottir, ch'io vincerò la prova», ibid., 122). È un parallelismo logico ed espressivo, che fissa due situazioni diverse, assicura e intende uno sviluppo dell’azione ch'è notevolmente diverso nei due distinti momenti: l’avvìo e la conclusione. Il termine ‘ tracotanza’ (che non deve tradursi semplicemente con ‘presunzione orgogliosa'), si esplica meglio ricorrendo al suo valore etimologico di «ultra cogitatio» di azione al di là d’ogni previsione. Conferma cioè per questa via un'iniziale posizione di urto e di lotta, che si vuol sostenere ad armi uguali nell'alta stima che della propria forza hanno i diavoli. Essi sanno certo di essere sconfitti, eppure non esitano a lottare ed essere vinti da guerrieri. Tutto il linguaggio è militare. La loro opposizione se da una parte può sembrare orgoglio vano e irriverenza (come Dante stesso nel Convivio), dall'altra è atto di energia suprema e consapevole, di violenza organizzata. Virgilio, solo ora, sa che deve mettersi a «prova» con loro. ‘Prova’ sta per ‘lotta’, che si conduce con ogni sorta di prodezza. Si anticipa il destino del superbo Fialte, qui perfettamente intonato, che «volle essere sperto Di sua potenza contro al sommo Giove» (Inf., XXXI, 91-92). E di lotta si parla dopo, anche quando Virgilio ha avuto modo ormai di ripensare all’accaduto e di riconfortarsi nella buona attesa:
Pur a noi converrà vincer la punga.
La certezza di Virgilio nasce da fiducia e da coscienza pensosa, non da valutazione delle deficienze reali dei diavoli. La sicurezza della vittoria verrà fuori dalla speranza del credente, non dalle forze dei contendenti venute in urto. Il ‘pur’ riconferma ancora una volta la pericolosità di questa ribellione ad oltranza e si lega strettamente alla reticenza di Virgilio, cui sopravanza solo la fede:
... «se non... Tal ne s’offerse
Il restauro proposto dal Castellani (‘tal ne s’offerse’ per ‘tal ne sofferse’ nel senso di «Tale ce lo permise», «Tale sofferse che noi scendessimo quaggiù»), ci sembra probo accoglierlo. Giova ad ogni modo anch'esso alla nostra interpretazione. Virgilio crede che anche ora, come già altra volta, sia sufficiente il permesso dall'alto per entrare nella città; e qui si sbaglia.
L'aggiunta poi «o quanto tarda a me che altri qui giunga», completa lo smarrimento di Virgilio e ne precisa senso e valore, ma toglie suggestione e icasticità alle due forme ellittiche.
L'osservazione di Dante tende a sciogliere ancora di più questi valori puri e li porta a sistema di commento e di chiarificazione. È un tipico esempio di didascalia, pur necessario a togliere perentorietà ai due nessi e a sciogliere un evento drammatico in cadenze più ordinatamente narrative.
I’ vidi ben sì com'ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch'io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
Una realtà si sovrappone ad un’altra. Accade questo spesso in Dante nei momenti di alta tensione, quando la sua coscienza è prigioniera delle supposizioni e la immaginazione costruisce e integra quel che si sottace. Il rilievo sull’interpretazione falsa o dubbiosa è il momento riflessivo della vicenda e dà distensione e distacco alle parti. Ma anche qui torna il tema della ‘paura’. E la paura riguarda Dante soltanto. La prima terzina ne dà l’impostazione:
Quel color che viltà di fuor mi pinse,
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.
Ci pare improprio il riferimento a Virgilio e di conseguenza inadatta, anche se di facile persuasività, la relativa chiosa: il pallore del mio volto indusse Virgilio a ricacciare dal suo il colore nuovo e cioè di dolore e di cruccio, a fine di confortarmi. Dante aveva già rappresentato Virgilio, di ritorno dall’incontro coi diavoli, in atteggiamento umile e sorpreso (VIII, 115-120). Per di più Virgilio aveva già sospettato la paura di Dante e aveva avuto modo, avvicinandosi, di rincorarlo e di rinnovargli la sua fiducia con parole non dubbie: «perch’io m’adiri Non sbigottir» (ibid., 121-122). In sostanza Virgilio ora non ha da nasconder più nulla. Se Dante l’ha visto umiliato e sgomento è fatto ormai accaduto. L'azione non può ristagnare. La penna del poeta, qui e altrove, non si ferma a ribadire un concetto ormai chiaro e conchiuso. Si deve andare più in là. Il discorso di Virgilio (che ha rilevanza psicologica come in un vero soliloquio), continua ed è naturale, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX canto, nei passaggi e nella stesura se si pone sul telaio del dubbio e della perplessità. Per di più non vede e non può distinguere il volto di Dante. L’aere è nero e la nebbia è fitta, i pensieri sono tanti. In questa fase la paura di Dante è più indovinata che vista. La terzina iniziale, nel senso e nella interpretazione, deve gravare (isolando il primo verso come prefatto), sul terzo verso, nel suo valore di azione duratura e perenne. Essa vuole perciò cogliere e sintetizzare la posizione di Dante dall’apparire dei diavoli in poi. Il pallore di viltà che si stende sul volto è il primo atto e perciò Dante parlò di sentirsi «sconfortato» (VIII, 94) e «disfatto» (ibid., 100). Il nuovo colore è il secondo atto ed affiora sul volto causato dalla discreta fiducia cui si è aperto l’animo per le parole di Virgilio («e io rimango in forse, Che no e sì nel capo mi tenciona», VIII, 110-111). Ma è un momento soltanto. Quando Dante vede Virgilio tornare indietro, questa fioca luce di fiducia («il suo novo» colore) si spegne: il pallore livido torna sovrano e lo ricaccia subito dentro.
Se questo vale, valgono anche, e ancor più si giustificano, perplessità e dubbi che si accentuano e si indovinano nelle parole e nel comportamento di Virgilio. Si capisce così come non passi, e non può passare inosservata, la reticenza di Virgilio e perché Dante riconosca e dica infine, dopo tante dichiarazioni perifrastiche, che la sua è ‘paura’. La confessione, chiusa in sintesi nel nome suo più vero, giunge, con ogni opportunità psicologica e stilistica, a termine della fase più drammatica del colloquio, di cui è il tema e la consacrazione.
Gli sguardi, il mutar di volto, l'angoscia stessa che le poche parole nel tentativo di attenuare accrescono paurosamente, le pause di silenzio lungo e cupo più di quello reale che circonda cose e personaggi, sono tutti elementi tenuti su con vivissimo senso dell’inespresso e dell’ineffabile. Le osservazioni, che nascono da suggestione e su cui la mente si ferma incredula e sospettosa, si riflettono all’esterno e assumono corpo, diventando immagini di un reale scaturito dall’astratto. Qui non ci sono solo Virgilio e Dante; ma ci sono viltà, smarrimento, indecisione, che tutti si riconoscono nel nome più proprio di paura. Questo potere di far agire come personaggio l’inespresso o da trarre dalla coscienza, qui turbata altrove gaudiosa, immagini vive, è propria della poesia della Commedia.
La domanda di Dante e la risposta di Virgilio non sono una semplice progressione del dato narrativo; sono invece un espediente per rendere più acuto e mosso il dramma, più vivo e tenace il diverso sentimento che unisce i due viandanti. Dante non è mosso da curiosità. Egli vuole accertare, come si conviene ad uomo preso da viltà e sfiducia, se Virgilio ha esperienza dei luoghi che stanno percorrendo. La remota stima per il maestro, al di là della recente prova, lo spinge ad usare una forma indefinita che, manifestando l'intenzione, toglie perentorietà alla richiesta:
discende mai alcun del primo grado?
Virgilio è questo ‘alcun’ e tale è stato veramente dinanzi alla resistenza dei diavoli: non una guida consapevole.
La risposta coglie questa segreta intenzione e le si modella. Anche qui il sentimento e la sensazione di timore di Dante sono avvertiti senza alcuna incertezza da Virgilio.
«Di rado
incontra» mi rispuose «che di nui
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui
Non solo si dà volto e nome a quel ‘alcun’, ma anche si attribuisce al suo alto valore di eccezionalità, sottolineato dalla gradazione pronominale, per cui dal ‘nui’ si passa all’ ‘io’. L’inserimento del primo viaggio di Virgilio attraverso l’inferno, «congiurato da quella Eritòn cruda», che Dante trovava in Lucano (Phars., VI, 508 sgg.), non è un «espediente parallelo a quello che Virgilio [Aen., VI, 563 sgg.] aveva trovato per dar ragione delle cognizioni consimili di cui è fornita la Sibilla», come pensa il Parodi; ma è una invenzione pedagogica, posta non dall’esterno, quanto proprio dalla necessità di rendere veridica la promessa di Virgilio e di riaccertare il buon messaggio della sua missione. Il motivo di cultura passa sì in Dante, ma è sfruttato in tutte le sue possibilità di inserimento nella materia della Commedia, disadatta qui e altrove di puri adornamenti culturali. Le storture dei fatti, colti dalla realtà, o delle notizie attinte dai testi e dalla tradizione, spesso sotto specie di esempi, sono suggerite il più delle volte dall’ assestamento della fantasia, che corrode e amalgama il tutto per la fluidità della vicenda narrata.
Al carattere dell'invenzione pedagogica concorrono la precisione delle linee generali (non i dati minuti), da cui balza l’esemplarità del fatto, e la dichiarazione terminale che riassume in sintesi lo scopo e suggella le intenzioni:
ben so il cammin; però ti fa sicuro.
È una sicurezza tanto più proba quanto più completo è stato il primo viaggio di Virgilio verso il «più basso», il «più oscuro» e «il più lontano» dei cerchi infernali; ma ancora non assoluta e non cieca, poiché in Dite non si può «intrare omai sanz’ira» senza «dolore, rammarico, affanno e tormento», come vuole il Barbi, il che nasce dal combattere contro spiriti ribelli. ‘Ira’, richiamando nel senso il ‘m’adiri’ (VIII, 121), di apertura, chiude l’episodio più sospeso e trepidante della Commedia.
Allo stato di disagio e d’imbarazzo, in cui però sempre più chiara si è manifestata la necessità della lotta, si lega strettamente la descrizione della città infernale. Dante, qui più che altrove, è tutto Medio Evo. Lo sfondo architettonico ha una forza violenta e precisa. Le linee sono scavate. Mura torri cime spaldi si disegnano con vigore scultoreo. Le fiamme ne sono l'animazione. È una città in armi. La vita, che Dante dentro s'immagina, è quella che precede la lotta ad oltranza: preparativi, disposizione di vedette, accensione di fuochi, innalzamento di simboli guerreschi. La città-castello è militare e pagana. Pagani sono gli abitanti. Pagani gli usi, le prepotenze, le audacie, gli orgogli. Pagani e militari i simboli. Pagani i nomi: ‘meschite’ (VIII, 70), sono le chiese, ‘meschine’ (v. 43) le schiave. Senza accettare l'opinione di chi ritrova echeggiati i simboli della vita di Dante (a cui i fiorentini negarono l'ingresso in città, aperta poi da Arrigo VII, come nel Rossetti) o di chi stabilisce stretti rapporti tra questa scena e le Epistole V, VI e VII, si può vedere in Dite configurata una città pagana e militare che resiste agli attacchi dei crociati, la cui conquista è necessaria per giungere, alla città di Dio. Si può anche pensare, e ragionevolmente, ad un'esperienza militare compiuta da Dante di età giovanile, quale la presa del castello di Caprona, di cui vive il ricordo nello stesso Inferno (XXI, 94-96): rocca «sì forte, come si legge in antichi cronisti, che per battaglia non si poteva avere». L'Inferno è tutta una città umana (e questo si sa), ma una città più propriamente muraria. Elementi di un'architettura civile ci sono ovunque, in misura pari, almeno, a quella sacra che domina nel Paradiso (e si pensi alla «candida rosa», e insieme, ai rosoni delle cattedrali gotiche). Il dannato è un uomo che perpetua, come rito, consuetudini di vita e di morte. Vanni Fucci (ed è un esempio dei meno clamorosi) rimuore dinanzi a Dante strozzato da un serpente (XXV, 4-8) proprio come i bestemmiatori legati ai pali di tortura del Palazzo comunale.
Qui, nel nostro canto, la pena del fuoco (fuoco, peraltro, è un elemento domestico della città e della fortezza militare) risponde a un preciso scopo ed uso del tempo. C'è di più: questo aspetto, esterno e militaresco, che si pone come componente primaria del grande rapporto arte-vita in Dante, si integra bene con un altro, anch'esso feudale, rivolto alle stesse cose e suscitato dalla stessa esperienza: le consuetudini di corte. A parte ogni altro rilievo, il «nobile castello» del canto IV (v. 106) è un contraltare della «fortezza» (v. 108) del presente canto. L’esterno può essere uguale: è architettura che inquadra e distribuisce personaggi e scene come accade nella pittura coeva a Dante. L’interno è diverso. Diversissimi i personaggi che vivono dentro, le consuetudini e i modi. Lì genti composte e austere che parlano «con voci soavi», luoghi luminosi e alti, smalti verdi, anime elette della cui vista Dante si esalta. Qui furie «tinte di sangue» cinte da «idre verdissime» e con capelli di serpenti e di ceraste, lutti e rovine. Il castello aveva questi due aspetti o meglio si presentava in questi due modi di vita e Dante li accoglie e li assume ad immagine di vita infernale. Non si contrappone il dotto al militare (anche se via via nei duri anni dell’esilio questo, certo, sempre più cede a quello), quanto proprio l'aspetto civile e umano a quello barbarico e pagano. Le «feroci Erine» sono il rovescio degli «spiriti magni» non un altro volto del mondo infernale, ma l’unico volto, truce e violento, del nemico quale appare nei cronisti medievali. Questo nemico è per di più un infedele, cui si attagliano i toni del disdegno e dell’ingiuria e i colori del sangue nero.
Quest'è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifone è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme; e gridavan sì alto,
ch’i’mi strinsi al poeta per sospetto.
La presentazione, come spesso accade in Dante, designa di ognuna «femmina» l'attributo e il posto, per poi riassumersi in un'immagine comune e corale che ne accentua i dati e ne integra le fisonomie. Dal pianto nasce il pianto. Attorno alla «regina de l’etterno pianto» si muovono le «meschine» con pianti e lutti. Non è un pianto immoto e silenzioso, ma accidioso e gesticolato. Sono immagini furenti che si dimenano senza sosta e si battono ed urlano. Un truce femminino che ci fa comprendere la scelta foscoliana di «cagna» e non «cane». È anche questo un espediente, prima che infernale, diabolicamente guerresco, con cui si tende a incutere terrore negli assedianti. Qui il motivo del ‘piangere’ non accoglie solo il valore del dolore cupo e della pena greve, ma anche quello di origine, del percuotersi e dell’urlare. Il gusto dell’etimo prevale in questo primo Inferno. Dopo, s’insinuano e via via il senso dell’espiazione e l'elegia del dolore. Qui siamo nella sfera di Filippo Argenti che urla a Dante: «Vedi che son un che piango» (VIII, 36) e a cui Dante decreta, come eterna pena, il «piangere» e il «lutto».
Il «battersi a palme» ne precisa il significato e conchiude l’azione. Certamente l’immagine è presa, come vuole il Barbi e intuì il Boccaccio, dagli «atti usuali, convenzionali, al pianto e all’esequie dei morti»; ma è asservita ad una rappresentazione teatrale e guerresca, tragica piuttosto che comica. I guizzi di comicità, che coglie il Rossi, «tenue, in sottil vena, a tratti», in tutto l'episodio anche alla vista delle Erinni, paiono piuttosto un intervento esterno del lettore che un’intenzione manifesta del poeta. Siamo noi a porci dinanzi a queste figure femminili col metro della realtà mitica, da cui provengono, e della funzione particolare, cui Dante le sottopone. L'invocazione urlata di Medusa, teatralmente tragica e ingiuriosa nella minaccia di trasformazione di Dante da essere vitale in sostanza immota e vile (la parola ‘smalto’ acquista valore concreto di fronte a quello metaforico assunto precedentemente, IV, 118), vale anch’essa come espediente guerresco e serve a mantenere costante il clima di tensione e d’incubo. La scena a cui le Furie danno luogo, la sollecita cura di Virgilio di far chiudere gli occhi a Dante dinanzi alla minaccia dell’apparizione delle Gorgoni, l'invito rivolto al lettore per una intesa morale dei versi, non sono atti singoli ma un insieme organicamente impostato e proposto alla interpretazione. Una chiosa staccata porta a individuare, più o meno felicemente, simboli e corrispondenze, in se stesse probe e vere, ma forse inadeguate all’ufficio richiesto da Dante e slegate dall'azione drammatica. Par certo che l’invito al lettore, rarissimo della Commedia in questo modo e con questo tono (il secondo è in Purg., VIII, 19-21) intende porre e collegare la scena delle Furie (e l’azione che l’ha preceduta) con quella del Messo. Non si pone a conclusione di quella o a preambolo di questa, ma è per ambedue strettissimo legame. Ci par certo ancora che, se la ribellione estrema dei diavoli assomma in modo truce e cruento tutti gli odi e gli inganni finora orditi, Furie e Gorgoni stiano ad indicare non una singola stortura di vita morale ma tutti insieme i vizi con cui è devastata l'umanità. È la prima figurazione globale della brutalità del peccato. Se può essere buona cautela, qui e altrove, pensare col Venturi che «Dante non poteva attribuire a così famosi personaggi mitici come le Furie una significazione troppo diversa dalla più naturale e comune, nuova affatto», è lecito dire però che qui Dante ha caricato i valori naturali di più ampi e universali significati presentando, una per una e nell'insieme, le «meschine de la regina de l’etterno pianto» e richiamando poi, per la prima volta, l’attenzione del lettore. Anche qui come altrove il tempo e le preferenze dei critici hanno lasciato traccia del proprio gusto nella traduzione dei simboli. AI Lombardi, ad esempio, le Furie non significavano altro che il pentimento e Medusa la libidine. Gli antichi, o taluni di essi (Pietro di Dante, Benvenuto, Buti ecc.), guardando più agli atti e al contegno, vedono nelle Furie la superbia e in Medusa il terrore. Taluni moderni invece (da Biagioli e Fraticelli a Rossi, Pellegrini, Venturi, Marcazzan, ecc.) fissi alle ragioni da cui sono determinati gli atti o che questi promuovono, intendono le Furie come rimorso e Medusa come disperazione. Dare a questa significato di eresia, come hanno voluto molti lettori dal Lana al Blanc e al Valli, è restringere la funzione all'episodio del canto. In realtà, atteggiamenti esterni e modi interiori in queste creature primitive e diaboliche si corrispondono, sono emanazioni le une delle altre. Furie, Medusa, e prima i diavoli che sono peccati e vizi nel totale di ogni istinto, classificati in cerchi o non classificati da Dante, si battono qui sull’ultima frontiera, nella loro fortezza, sugli spaldi di essa, con gli artifici e gli accorgimenti di ogni disperata milizia. Il loro potere è sommo non solo per l’intensità dell’azione, ma anche per la pluralità delle loro forze. Dante deve perciò distogliere gli occhi da loro. Il lettore invece deve aprirli per un retto intendimento. L'acquisto definitivo è la speranza. Ci pare di cogliere questo valore, negli atti compiuti da Dante, per consiglio di Virgilio, davanti a Medusa:
... se il Gorgòn si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso
e, in contrasto, davanti al Messo:
... Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica.
L’alzare degli occhi dinanzi al bene costituisce un segno chiaro di probità. Guardando in alto vede la sommità del colle illuminata dal sole (I, 16 sgg.) e nel «nobile castello», il «maestro di color che sanno» (IV, 131). Spia, tra le tante di eredità di miti e tradizioni classiche o anche di antiche consuetudini di corte, che adusavano alla lealtà e alla franchezza: un galateo di profondo significato morale. L’apparizione del Messo è innanzitutto una necessità del rito di liberazione e di propiziazione che si sta compiendo. Non è un espediente atto a sciogliere l’azione. Il suo significato non può ricercarsi, per talune analogie con testi antichi, in Mercurio (Pietro di Dante, Benvenuto, Chiose Vernon, ecc.) o in Enea (Caetani, Troya, Pascoli, Toffanin), ma più naturalmente in un angelo, messo del Cielo. La traduzione del simbolo, che Dante fa in questo canto (v. 85) e altrove (Purg., II, 29), è imposta anche dalla corrispondenza ch’è legge universale nella Commedia, tra vizi da combattere (e tali sono le Furie e Medusa) e virtù da innalzare (e tale deve essere il Messo). L’interpretazione del simbolo di Dante si palesa sempre (nell’astratto che si veste del reale: fiere, alberi, oggetti e cose concrete) in una diretta e coerente corrispondenza di valori morali: al male il bene, al negativo il positivo. Rinunciare a interpretare il Messo, come parve opportuno in età positivistica, è, qui almeno, un segno di inerzia mentale ingiustificabile.
Anche il Messo è una somma di virtù, cui sono affidati destino e potere. È un evento che si presenta come un uragano estivo, un «fracasso» che rovina e sconvolge. Non altrimenti era possibile sgominare le resistenze dei diavoli. Al terrore si oppone il terrore. La lotta si sostiene con armi uguali (qui battono le corrispondenze) così come avevano voluto i diavoli nella loro irosa sfida.
E già venia su per le torbid’onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per che tremavano ambedue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Del Messo non si presentano né volto, né qualità. È una figura eccezionale ch'è preceduta dagli effetti del suo potere, come il male è seguito perennemente dalla sua ombra: è «un fracasso d’un suon» che spande attorno a sé rovine e terrore. L’espressione, forse «enfatica», ma tipicamente dantesca, esprime, in grado assoluto, la sensazione fisica d’un potere astratto. Le cose riflettono ed echeggiano questo potere. Nella valle dello smarrimento la rabbiosa fame del leone è tale «che parea che l’aere ne temesse» (I, 48). In Virgilio pini, fonti, arbusti invocano Titiro (Ecl., I, 38-39); nomi selvaggi, selve e leoni africani gemono per la morte di Dafne (ibid., V, 27-28). Un annunzio simile sembra al Buti «accordarsi con li teologi che dicono che quando l’angelo viene, prima dà spavento e poi sicurtà, e lo demonio fa il contrario». Al Brossa la similitudine suggerì invece, assai opportunamente, un accostamento ai versetti 5 e sgg. del Salmo XXXIV. A parte si pongono i riscontri da altri tentati con le fonti classiche.
L’azione del Messo è decisa, ferma e sprezzante. Anche per questo lato e al rovescio il Messo agisce con le armi dei diavoli e delle Erinni. Il canto presenta questo ribaltamento di situazioni. Il Messo, che passa «Stige con le piante asciutte», non è molto diverso, per natura, da quel glorioso manipolo di savi, che passano il «bel fiumicello» «come terra dura» (IV, 109). Se l’annunzio procura fracasso e tremore, la sua presenza scompagina gli avversari e li distrugge. I suoi atti sono di guerra. Le parole, di fuoco. I mezzi, atti all’espugnazione. Il vocabolario militare, che già abbiamo notato nell'uso dei diavoli e nella loro fiera opposizione, ritorna ancora qui. ‘ Verghetta', ‘oltracotanza’, ‘recalcitrare’ e ‘ dar di cozzo’ designano atti guerreschi e pongono l’opera dei diavoli nella luce che essi avevano voluto attribuirsi per loro presunzione. L’ineluttabilità d’ogni azione era già presente alla loro coscienza e non suona nuova. Rimane a loro l’orgoglio di aver osato e il pregio di aver recato paura a Dante e Virgilio, e «angoscia», cioè fastidio e affanno, al Messo del cielo. Eppure questo, di tanto rimprovera e incalza e non dà tregua ai diavoli.
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
e che più volte c’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo».
Non è questo un discorso: non ne ha né la logicità, né la fluidità. Non tende a persuadere. Tende piuttosto a inculcare un fatto, irriducibile. Le tre terzine battono su un solo concetto: l’inutilità delle rivolta. È piuttosto un’invettiva sprezzante (si pensi all’inciso «sebben vi ricorda») e orgogliosa come s’addice ad un vincitore che sa di possedere la verità contro nemici che brancolano nel buio. L’espressione «cacciati del cielo» è l’emblema di questa supremazia, come quella di «Cerbero vostro» è il segno di onta e disprezzo, a cui si destina la «gente dispetta». Ricordare l’ineluttabilità del valore divino serve al Messo per colorire, ancor di più e sempre più sarcasticamente, l’inutile lotta. Nella prosopopea del vincitore i diavoli si configurano come poveri diavoli. La loro maggiore umiliazione (l'umiliazione in cui cade il vinto) è nell’accusa di vanità e di imprevidenza. La parola più grave è nell’assunzione di immagini bestiali per la resa del loro stato. Tali sono: ‘recalcitrare’ ch'è come dire ‘dar di calcio’ (Buti) e intensifica il semplice ‘calcitrare’ del linguaggio scritturale (Atti, IX, 5; ecc.; ma di Dante vedi anche Epist., V, 14) e ‘dar di cozzo ’, il cui modo dire, nella suggestiva chiosa del Serravalle, si usava a Firenze «quando arietes vel boves se percutiunt cum cornibus». Con questi tocchi all’accusa di improntitudine e di vanità si unisce quella di cieca bestialità. Il ricordo delle passate sconfitte, tante quante sono state le bramosie di resistenza al volere divino, toglie solennità alle parole del Messo del cielo, ma s’intona ai modi dell'invettiva e alla psicologia del vincitore. Per di più avvalora, unico caso in tutta la Commedia in questi modi e in così sorprendenti situazioni, il mito di Cerbero incatenato e schernito da Ercole. Qui nessun personaggio travalica l’ambiente, nemmeno il Messo-Angelo. C'è stata una resistenza e si è debellata. C'è stato un rito e si è compiuto. C'è stato un ordine da eseguire e si è prestata ubbidienza. Il Messo-Angelo è parte di questo rito, entro cui scompare senza assumere personalità e rilievo. Dà solo segni d'intemperanza e di fastidio, disdegna le lordure del cerchio cui è stato inviato, è sfuggente con Dante e Virgilio. Veste i panni del funzionario, destinato di sorpresa ad una missione incomoda e sgradita, cui preme solo il compimento delle consuete pratiche:
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
[…]
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda.
In modo diverso dal Messo agisce Beatrice e ben altro contegno usa verso Dante nella chiara risposta a Virgilio, che proprio su questo aveva fermato la sua attenzione. E il suo è compianto di tutto il paradiso.
Io son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto incendio non m’assale
(II, 91-93)
Si dirà: Beatrice è spinta d'amore; ed è vero. Ma è proprio questo che manca al Messo del cielo. Sul suo volto c’è il «disdegno» che hanno manifestato i diavoli (VIII, 88) all’apparire di Dante (ed è una delle tante corrispondenze!). I Messi del Purgatorio, al loro luogo ed al momento dell’azione, hanno già un altro galateo.
Con l’ingresso in Dite l’impressione truce e guerresca che la città ha dato a Dante fin dal suo apparire, continua. Continua il linguaggio militare come: ‘guerra’, ‘fortezza’, ‘spaldi’, ‘campagna’ stessa per ‘campo’ assettato nel ‘terreno ’ (II, 130) ed irto di preparativi che hanno in sorte e annunciano lutti (VIII, 65), e ‘tormento’. La presentazione terminale dei sepolcri completa e definisce la città di Dite, quasi razionalmente e urbanisticamente. Il ricorso ai sepolcreti di Arles in Provenza e di Pola nel Carnaro non è suggerito soltanto, come sempre accade in Dante, dalla necessità di dar forza concreta e rappresentativa a immagini di fantasia, ma anche dall'impegno di fissare più saldamente struttura e fattura dei sepolcri-sarcofaghi, che perciò, nello sforzo di variare i termini, diventano via via ‘avelli’, ‘arche’, tombe’ e ‘monimenti ’. Si crea nella città dei diavoli una città dei morti, monumentale e superba. Gli ‘eresiarche’, cioè i «prencipi d’eresia» (Ottimo) o «principi dell’eretica gravità» (Boccaccio) ne sono i degni abitatori. A tanta dignità di personaggi si addice la dignità di luoghi. Per di più questi capi di eresie hanno blasone pari ai «piovuti da ciel» (VIII, 83; e poi «cacciati del ciel»); e se gli uni stanno «co’ lor seguaci», gli altri avanzano in fitte coorti e con le «meschine» della comune regina. Anche, nel fondo cupo del Tartaro, Lucifero si presenta circondato dai Giganti, come sovrano assoluto.
Non crediamo che il canto, anche se non è dei «più noti e più comunemente ammirati», possa considerarsi costituito da parti distinte e varie, come pensano i critici d’oggi. Al contrario: l’unità è saldissima. Eccezionalmente presente e costante è lo spirito animatore. La stessa mancanza di un personaggio-protagonista che assorba l'impegno creativo ed escluda l’attenzione del lettore da altri aspetti, giova alla costanza della fantasia volta alle cose e ai modi in egual misura. Il Messo-Angelo, che Dante non intende come personaggio-protagonista, cui non dà volto o individualità d’azione né aderisce al travalicante biografismo di questo primo Inferno, si muove all'altezza delle altre cose poste nel canto. Un realismo, che qualifica e non descrive, pur con l'aggettivo, in isolate espressioni («triste conca» v. p. 16; «gran puzzo», v. 31; «aere grasso», v. 82; «strada lorda», v. 100), e in versi interi («con l’unghie si fendea ciascuna il petto», v. 49; «ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo», vv. 99), serpeggia per tutto il canto. La stessa lingua è varia e ricca come in pochi canti finora: arcaismi («stessi», v. 58; «eresiarche», v. 127), francesismi («vengiammo», v. 54, che ricorre in due altri luoghi della Commedia: Inf., XXVI, 24 e Par., VII, 51: sempre in tempi passati), latinismi molti e arabismi (« meschine», v. 43; di cui nel XXVII, 45 registrerà il maschile), espressioni caratteristiche («battiensi a palme», v. 50; «dar di cozzo», v. 97; ecc.), che balzano dal popolaresco al proverbioso, sommuovono la superficie della poesia. L'esperienza militare e guerresca infine, di cui Dante dà prova ovunque nella figurazione delle scene e nel linguaggio (ancor più che nel XXI), presta il fondo alla struttura del canto. D'ora in poi un nuovo acquisto è assunto dalla poesia.
Presentiamo per utili riscontri il canto IX di Trifone Gabriele tratto dalle inedite Annotazioni nel Dante fatte con M. Trifone in Bassano (Biblioteca Vaticana, Barb. Lat. 3938, cc. 317-357; teniamo presente anche il Vat. Lat. 3193, cc. 11v-12v). Per T.G. rinviamo al nostro Aspetti della esegesi dantesca nei secoli XVI e XVII attraverso testi inediti, Lecce, Milella, 1966 (Collana di studi e testi diretta da M. Marti e A. Vallone).
Quel color che viltà di fuor mi pinse. Viltà chiama paura, perché la vita vien dalla paura. Quel color cioè il pallido. Tornar in volta, in fuga et senza l’intento suo: translato da combattersi. Più tosto dentro...: Virgilio per essergli stato vietata l’entrata, s'era acceso per ira, del che Dante per paura n'era palido diventato, et vedendo ciò Virgilio su (subito 12a) il suo nuovo color dentro ristrinse, cioè tenne celata l'ira et mostrò bon volere per consolar Dante. Che l'occhio non potea menare a lunga: translato da piedi a l'occhio. Pur a noi converrà vincere la pugna, cominciò ei, se non tal ne s'offerse: s'inganna il Landino nel expositione di questi dui versi, perciò construssi così et il senso fie piano: ei cominciò a noi converrà pur vincer la pugna, tal ne s'offerse cioè Beatrice: se non ci converrà tornar adietro. O quanto tarda a me; segnatamente a me; in danno mio et contra il mio sperar. Ch'altri qui giunga, ch'è l’angelo. Io vidi ben si com'ei ricoverse lo cominciare, il cominciar fu se non et ricoperselo con altro che poi venne. Con quelle parole o quanto tarda a me, ch’altri qui giunga, Forse a peggior sententia ch'èi non tenne: Virgilio havea tenuto che, se non gli convenia tornar adietro et Dante trageva che detto havesse se non ci converrà rimanere qui. Che sol per pena ha la speranza cionca, mozza et manca; et questi sono quelli che sono nel Limbo, che come disse Virgilio: che vivemo in disio, fuor di speranza. Ver è ch’altra fiata qua giù fui, con poca gravità di Virgilio; finge qui il Poeta per certo questa fiata; ma lo fece prima per mostrar d’haver veduto Lucano che dice questa cosa di Erittone; poi per assicurar Dante, come di sotto dirò: Ben so il camin, perciò ti fa sicuro. El più lontan del Ciel, che tutto gira: questa clausola che tutto gira, non è a proposito della materia; ma solo ad ornato del Cielo, et viene da grande abondantia. Sallo il Petrarca in molti luoghi. Vidi quel che ho notato, Nel dolce tempo de la prima etade, ivi, che per fredda stagion foglia non perde. Omai senz’ira: senza dispetto di coloro, che entro vi sono. Tutto tratto agnominatio est. A la cima rovente, anchor tra nostri contadini è questo vocabolo rimasto: rovente vale quanto affocato. Dritte ratto, pur agnominatione. Onde: dalle quali. Avinte, incinte legate, da vincire latino. Battensi a palme; come adverbio: palmatim. Mal non: mal in detrimento et danno nostro, Non vengiammo: vendicammo per sincopa. Lo viso: la veduta. Nulla sarebbe: modo di dire: nulla sarebbe; ogni cosa che si adoperasse, in danno sarebbe. E egli stessi: il dritto sarebbe, stesso; ma ha fatto del plurale stessi un singulare. Mirate la dottrina che s'asconde: non può fare il Poeta che non avvertisca alla alegoria di Medusa, et del chiudere degli occhi; la quale sta così, et non come disse il Landino. Vuole il Poeta adesso entrare ne’ peccati, che si commettono per malitia et per ingiuria; e perché pare che chi vi pecchi per una volta subito habbia fatto in quello habito; perché se uno accide un homo, o rubba, ha fatto si efferato animo che vi ucciderebbe mille et mille volte involerebbe; et perciò Virgilio, ch’è la philosophia morale, chiude gli occhi che non veda il Gorgon ch'è questo peccato che ch’il commette una volta fa tale habito che non se ne può più astenersi se non per miracolo; sì come chi vedeva il Gorgone, ch'è ’l volto di Medusa, si convertia in smalto, il quale smalto è posto qui per l’habito del peccato. Per gli aversi ardori: che sono gli humori secci (secchi, c. 12e), dallo impulso de’ quali si generano i venti. È da notare che questo empito di vento descriveva per grado, prima ferisce l’insensate così, che sono selva rami et fiori: et fa fuggir le Fiere che sono le sensate, ei gli pastori che sono quelli che hanno l’intelletto. Hor drizza il nerbo del viso .i. la potentia del vedere, in tutto il tuo veder. Su per quella schiuma antica: schiuma che faccia quel lago. Acerbo, translato; più crudo et duro. Si dileguan tutte, dileguare proprio è sparire. S'abbica, bica è una sommità di monte; et bica un cumulo .i. in fin che s’abica, che si rappigano per andare alla bica, alla sommità .i. alla tera per fuggir la biscia. Et inchinassi ad esso: inchinassi è qui posto assolutamente. Despetta: .i. dispettosa. In voi si alletta: allettare è quello che i Latini dicono allicere: dove togliete tanta arroganza! Mai esser mozzo, poiché quello che vole Dio, commise che sia. Ne li fata dar di cozzo: .i. urtare contra le dispositioni fatali, et chi urta contrasta: perciò dar di cozzo .i. contrastare. El gozzo: la gola et tocca la cosa d’Hercole. Et non si fa motto a noi, finge qui il Poeta che l’angelo qui non gli fa motto, perché non è anchor purgato de’ peccati; ma farà poi che in Paradiso gli farà gran feste. Si come ad Arli ove il Rhodano stagna: Arli è citta della Provenza appresso la marina: hoggi è chiamato Orliens. Ove i Rodano stagna .i. allaga et inonda; et perciò il Petrarca disse di ciò parlando, et circondati da stagnanti fiumi, i quali stagni chiamano i cosmografi aqua sestia overo fossa Mariana: ivi è grandissima copia di sepolchri: la cagion vede il Landino. Si come a Pola presso del Carnaro, ch’Italia.... Pola è antica città nella Schiavonia. Carnaro è dove gli antichi chiamavano Sinus Rinzonius, è molto pericoloso: detto Carnaro perché in lingua francese Carnaro vuol dire ripositério di corpi et carne morta; et perché come dirà, lì a Pola, ove è questo sepolchro è una campagna piena de sepolchri il chiamarno Carnaro; et hoggi dì ne l’Alpi che si passan al andare in Francia v'è una chiesetta ove si mettono l’ossa di quelli che l’inverno andando per viaggio sono affogati da la neve, che sono moltissimi; et questa chiesetta chiamano Carnaro. È gran cosa che non vi sia memoria alcuna di quelle sepolture che sono in numero infinito, et sono al modo christiano et hanno croci di sopra. Varo .i. vario che tra gli avelli: questa è la ragione che quivi era il modo più amaro. Variava in questo nome Sepolchri et hor dice Avelli et di sotto dirà Arche poi tombe, monimento et martiri, ponendo il contenente che son l’arche per il contenuto ch'è martiri. Li heresiarche, giusta pena agli heretici che han tenuto l’anima esser mortale; che hora essa anima stanzi in quel luogo, dove sta il corpo mortale. Et molto più ha separato in dui versi. Simile qui con simile, perché tutti d’una setta erano in uno stesso avello, et così d’un’altra tutti un altro. Fra martiri, che sono, com’ho detto, i sepolchri et gli spaldi i. le mura della terra; et che spaldo voglia dir muro si dichiara il Poeta stesso nel 2° verso del cap. che seguita, dove ripigliando queste due cose et martiri et spaldi disse: tra'1 muro della terra et gli martiri.