Dati bibliografici
Autore: Manfredi Porena
Tratto da: La mia Lectura Dantis
Editore: Alfredo Guida, Napoli
Anno: 1932
Pagine: 29-58
[Conferenza tenuta a Napoli, per la “Dante Alighieri” nell'aprile 1902.]
Il canto si apre con un movimento drammatico pieno di vivacità, di rapidità, di verità, quasi direi di verismo. Giunti all’ entrata della città che ha nome Dite, Dante e Virgilio vi han trovato schierati innanzi più di mille demoni minacciosi che vogliono impedirne loro l’entrata. Virgilio muove fiducioso a parlamentare con essi, ma quelli se ne corrono dentro, sbattendo le porte sul viso al buon maestro ; che tra umiliato, timoroso e confuso, se ne torna a passo lento e con viso dimesso verso il suo alunno, non senza tuttavia assicurarlo d’un prossimo aiuto divino che aprirà loro la chiusa città, Ma Dante (e qui incomincia il nono canto), a vedere il suo duca, sempre sicuro e fiducioso vincitore delle avverse potenze infernali, ridotto ora in quello stato d’ abbattimento, si sente preso da paura, e impallidisce. Virgilio se ne avvede, e tenta mutare il proprio aspetto; e, quasi per darsi un contegno, incomincia a parlare. Ma, bisogna pur dirlo, l’antico savio non riesce a dominare in tutto il proprio turbamento: pronunzia parole, che, poich’egli non sa troppo che dire, gli prendono un’avviata poco fatta per incoraggiare il timido Dante; sì ch’ei s’affretta a troncarle e dare al discorso un’altra piega. Peggio che peggio! Dante è pronto a immaginare che le parole interrotte dovessero suonare Dio sa che cosa, e più che mai si spaventa. E gli balena per fino un'ombra di sfiducia per Virgilio: “Costui che s’è offerto con tanta sicurezza di guidarmi per questi regni bui, conoscerà poi bene la strada?” E non osa dirglielo chiaro, ma racchiude il dubbio in una domanda indiretta: “C'è mai nessuno del Limbo che discenda quaggiù?”; la quale, per altro, ingenuamente improvvisa e maldestra, rivela scopertamente il suo riposto pensiero. E il buon Virgilio, com'è naturale, capisce, Con signorile magnanimità, non istà a fare recriminazioni al discepolo per la sua paura e la sua diffidenza; chè azi lo compatisce, e a dileguare ogni suo timore gli dice chiaro d’ essere stato un’altra volta fin nell'ultimo reparto infernale; ma non può a meno di far capire che ha capito, e ribadisce il tono confortante della risposta con un’esplicita assicurazione finale: Ben so il cammin, però ti fa sicuro! che è insieme un tacito e blando rimprovero d’ aver potuto dubitare.
È tutta una scena di finezza psicologica maravigliosa e di verità sorprendente; di quella verità così vera che giunge fino a una sfumatura di comico. Giacchè, è doloroso per la dignità della nostra specie, ma bisogna pur dirlo: il gran fondo della natura umana è impastato di comico, ed è raro che il comico non spunti, allorchè quel fondo sì scopre senza veli.
Ma sentiamo tutto questo racconto dalla bocca di Dante.
Quel color che viltà di fuor mi pinse
Veggendo il duca mio tornare in volta,
Più tosto dentro il suo nuovo ristrinse.
Attento si fermò com’ uom che ascolta.
E fermiamoci per un poco anche noi. Certo, a noi tutti quest’ultimo verso sembra scultorio, e tutti abbiamo viva davanti agli occhi della fantasia questa figura di Virgilio fermo ad ascoltare. Pure, se ben consideriamo, il poeta non ha messo nella sua espressione il minimo accenno plastico, Poniamo che a un pittore si ingiungesse di raffigurare questo Virgilio secondo le intenzioni di Dante: egli potrebbe benissimo protestare che il poeta non gli dà nessun particolare indizio cui prendere per guida. D'altra parte il verso è di efficacia innegabile. Perché dunque? Perché c’è sottintesa la fine osservazione, che quando un uomo si ferma ad ascoltare prende un particolare atteggiamento. Il quale sarà caduto le mille volte sotto i nostri occhi, ma noi l’abbiamo portato impresso nell’animo, inconsciamente, come una lastra fotografica porta un'immagine invisibile che aspetta il reagente chimico per rivelarsi nella vivacità e precisione de’ suoi contorni. Il reagente è qui la parola del poeta.
Ho richiamato l’attenzione su quel verso, perché esso è caratteristico del modo di descrivere di Dante. Egli, strettamente ossequioso, quattro secoli prima del Lessing, ai limiti della capacità descrittiva della parola, di rado s'impegna a ritrarre in modo diretto linee e forme, ma suscita impressioni che spontaneamente si convertono per noi in forme plastiche. E Dante è sommo descrittore perché, impareggiabile osservatore di sè stesso e degli altri, s'era reso padrone delle corrispondenze che legan fra loro le varie impressioni psicologiche. Il maraviglioso strumento dell’anima umana non aveva più segreti per lui, ed egli sapeva bene quali corde dovesse toccare con la sua penna, perché a cento altre, accessibili direttamente solo al pennello o allo scalpello, si comunicasse rapido e vivace il fremito sonoro.
Dunque Virgilio
Attento si fermò com’ uom che ascolta;
Chè l’occhio nol potea menar a lunga
Per l’aer nero e per la nebbia folta.
“Pure a noi converrà vincer la punga”
Cominciò ei “se non... tal ne s’offerse!...
O quanto tarda a me ch’ altri qui giunga!”
lo vidi ben sì com’ei ricoperse
Lo cominciar con l’altro che poi venne,
Che fur parole alle prime diverse.
Ma nondimen paura il suo dir dienne,
Perch’io traeva la parola tronca
Forse a peggior sentenza ch’ ei non tenne.
La parola tronca, che Dante traeva a un senso di sconforto, è quel se non... E qui si può ben immaginare quale festa per i pigmei dell’ermeneutica quelle parole interrotte, e quale brulichìo intorno a quel verso per riuscire a indovinare con che cosa mai, nell’intenzione di Virgilio, quel se non... avrebbe dovuto continuarsi. Gente che somiglia un po’ a chi, in presenza d’una statua panneggiata, si lambiccasse il cervello per sapere se lo scultore sotto quei panni abbia inteso di far indossare al suo personaggio una maglia di lana o di cotone. Che importa a noi quel che lo scultore abbia, caso mai, potuto pensare? Certo è che fuori di ciò che della statua si vede, egli non ha inteso di rappresentarci proprio niente altro. E così Dante. Fa dire a Virgilio quel se non... che a lui preme; al resto non ha pensato neanche lui, o se un qualunque significato in mente lo ebbe, fece consister l’effetto nel non farlo apparire e nel dare al lettore l’illusione che neanche egli che racconta ne sappia niente di preciso. E lo dice chiaro, del resto:
…traeva la parola tronca
Forse a peggior sentenza ch’ ei non tenne.
Non sa dunque che cosa Virgilio volesse dire: sa solo che, con quella paura che lui, Dante, aveva in corpo, molto probabilmente quel che allora immaginò riuscì intonato a pessimismo. Riempiamo la lacuna dal poeta appositamente lasciata, e avremo distrutto ogni effetto.
Ed ecco ora la domanda che la paura spinge sulle labbra di Dante:
“In questo fondo della trista conca
Discende mai alcun del primo grado,
Che sol per pena ha la speranza cionca?”
La trista conca è l’Inferno, cavo sotterraneo della forma d’un gigantesco anfiteatro, il cui fondo, e precisamente i quattro scaglioni inferiori, sono appunto occupati dalla città di Dite dove ora i poeti son pervenuti, Il primo grado (primo cominciando dall’alto) di esso anfiteatro è il Limbo, sede di Virgilio, in cui le anime, com’è noto, hanno per pena la perdita d’ogni speranza di veder mai il Sommo Bene.
Questa question fec'io, e quei: “Di rado
incontra” mi rispose “che di nui
Faccia il cammino alcun pel quale io vado.
Ver è ch'altra fiata quaggiù fui,
Congiurato da quella Eriton cruda
Che richiamava l’ombre ai corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
Ch’ella mi fece entrar dentro a quel muro,
Per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è il più basso loco e il più oscuro,
E il più lontan dal ciel che tutto gira:
Ben so il cammin, però ti fa sicuro”
La cruda Eritone nominata qui da Virgilio, era una maga tessala di cui Lucano parla a lungo nel VI della Farsaglia, e di cui racconta, fra le altre, com’ella costrinse l’anima d’un soldato, morto di fresco combattendo, a tornar per poco nel corpo, e predire a Sesto Pompeo l’esito dell’imminente battaglia di Farsalo. Su questa favola di Lucano Dante ordisce il suo artificio. Immagina che la maga, con un altro scongiuro della specie di quello narrato dal poeta latino, traesse fuori uno spirito dal cerchio di Giuda: sia poi così significata proprio la Giudecca, usandosi cerchio in un senso più parziale dell’ordinario, o vi sia indicato alla buona il cerchio nono in genere (cfr. XXXI, 142-43), mercè il nome del più celebre traditore, che del resto, nel tempo a cui il racconto si riferisce, non v'era ancora disceso. Ma per far ciò la maga ebbe bi. sogno di mandare laggiù lo spirito di Virgilio, giunto da poco tra le ombre.
Come poi Dante abbia inteso che il suo Duca fosse necessario a quella fattura, è questione di. battuta. C'è chi suppone aver il nostro poeta sottinteso una specie di legge infernale, per cui non possa uno spirito abbandonare sia pure temporaneamente la propria sede, senza che un altro vada a sostituirlo, quasi in ostaggio. Ma più generalmente si ritiene che Virgilio fosse mandato dalla maga a prender l’ombra che a lei serviva, quasi per fare a questa da scorta attraverso il viaggio inferno. E parrebbe anche naturale che a tali servizii fossero destinati i peccatori mero neri, quelli che in un certo senso non sono neanche peccatori. Proprio come nelle case di pena i superiori, nelle loro relazioni con gli altri detenuti, si servono talvolta de’ carcerati di migliore condotta.
Sia quel che si voglia, certo è che col suo artificio Dante può far la sua guida pienamente consapevole della topografia infernale, imitando in ciò Virgilio che, nell’Eneide, alla Sibilla Cumana, guida del suo eroe nella discesa all’Inferno, aveva fatto acquistar l’esperienza del mondo de’ morti in un viaggio precedente a quello da lui narrato. E certo è pure che con l’artificio stesso il nostro poeta crea una bella antitetica simmetria tra l'antico viaggio virgiliano ch’egli immagina, e l’attuale; facendo che il saggio maestro abbia intrapreso quello per esorcismi d’una strega crudele, questo per preghiere d’una santa pietosa. Ma un altro significato, ben più profondo, è poi racchiuso in questa immaginazione dantesca. La quale, soprattutto, ci parla con viva eloquenza dell'amore, dell’ardore, dell’entusiasmo, della venerazione, dell’incanto che l’antichità classica aveva suscitato nell'animo del nostro poeta. Chè non solo, quasi maestro d’oreficeria che incastoni nel metallo prezioso d’una gran croce d'altare i più bei cammei e le più preziose gemme dell’antichità, incise di figure mitologiche; non solo egli attira così nel mondo della sua poesia cristiana alcune delle più belle fantasie del paganesimo; ma egli indugia sui motivi della poesia latina, vi riflette sù, li svolge liberamente, ne trae deduzioni, ne conia di simili; tutto felice di mettere un po’ le mani per conto suo nella materia del sacro mondo classico, come se solo così ei si rendesse in tutto degno d’entrar nella schiera di quei grandi poeti, al modo da lui arditamente figurato presso il nobile castello del Limbo. È un po’ un giocare, se vogliamo; è un po’ un bamboleggiare! Ma poiché chi bamboleggia è Dante, e poiché ciò che lo muove è un amore infinito per la più nobile gloria della nostra stirpe, quel giuoco non solo si fa perdonare, ma parla all'anima un linguaggio commoventissimo. Poiché poche cose al mondo hanno un più profondo e commovente significato morale e poetico, che il vedere una forza titanica piegarsi a bamboleggiare in nome d’un’altissima idealità.
Per rassicurare Dante, e per mostrargli col fatto ch'ei conosce benissimo i luoghi, Virgilio incomincia a fare un po’ di topografia.
“Questa palude che il gran puzzo spira,
Cinge dintorno la città dolente,
U’ non potemo entrare omai senz’ira”
Ed altro disse, ma non l'ho a mente;
Perocchè l'occhio m'avea tutto tratto
Ver l’alta torre alla cima rovente,
Dove in un punto furon dritte ratto
Tre Furie infernal, di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto;
E con idre verdissime eran cinte;
Serpentelli ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
Della regina dell’eterno pianto, “Guarda”
mi disse “le feroci Erine.
Quest’è Megera, dal sinistro canto;
Quella che piange dal destro, è Aletto;
Tesifone è nel mezzo”. E tacque a tanto,
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansi a palme, e gridavan sì alto,
Ch’io mi strinsi al poeta per sospetto.
“Venga Medusa, sì il farem di smalto”
Gridavan tutte riguardando in giuso;
“Mal non vengiammo in Teseo l’assalto”.
“Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso;
Chè se il Gorgon si mostra e tu il vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso”.
Così disse il maestro; ed egli stessi
Mi volse, e non si tenne alle mie mani,
Che con le sue ancor non mi chiudessi.
Sono versi piani e semplici nel loro significato letterale, in cui poco o nulla troviamo che abbia bisogno di spiegazione, La torre su cui le tre Furie si eran dritte ratto (si noti l’efficacissimo verso che par proprio lo scatto rabbioso d’una forza maligna, e viene a rincalzare e spiegare l’impressione d’un qualcosa d’improvviso, già suscitata dal tutto tratto precedente), quella torre Dante la nomina come cosa già nota; ma il vero è che non ne ha fatto ancor cenno. È forse quella che corrispondeva per segnali di fuoco con l’alta torre dell'altra sponda Stigia, dato che il poeta abbia inteso di far dare da un’altra torre il segnale di risposta? Non lo credo, ché i poeti sono arrivati innanzi alla porta di Dite e a questa torre delle Furie, solo dopo aver fatto nei fossati che ricingono la città grande aggirata (c. VIII, v. 79); e non sono più, quindi, di rimpetto alla torre dell’altra sponda.
Le tre Furie, o Erine, erano, e tutti lo sanno, nella mitologia pagana tre donne anguicrinite, persecutrici dei delinquenti, ispiratrici di insania, e, nell’ Inferno, tormentatrici dei peccatori. Nella Commedia, sono particolare reminiscenza dell’Eneide, ove, sulla porta del Tartaro, che per tanti rispetti corrisponde alla città di Dite dantesca, presso un'alta torre di ferro sta la fiera Tesifone a tormentare i dannati ed aizzare al tormento le sue sorelle. Reminiscenza mitologica è l’allusione delle Furie a Teseo, che tentò rapire Proserpina e fu preso e incatenato da Plutone. E figura mitologica, giunta a Dante più specialmente per la trafila ovidiana, è Medusa, la più famosa e la più terribile di quelle tre Gorgoni, figlie di Forco, che avevan il potere di impietrare chi le guardasse. Donde lo spavento di Virgilio e il suo zelo di tener gli occhi ben serrati al povero Dante.
Facile episodio adunque nella sua interpretazione letterale.
E ben avremmo potuto illuderci di non aver altro da fare, per intender qui Dante, che attenerci a tale senso letterale; ben avremmo potuto affermare che, se pure nell’intenzione del poeta un certo senso allegorico ci fu, non era nostro dovere di rintracciarlo, poiché infine, nell’ arte medievale, il vedere o no un tale senso in un brano di poesia, o il vedercene uno piuttosto che un altro, fu cosa fino a un certo segno arbitraria; ben avremmo potuto fare delle considerazioni sul. l’esiguo valore che il significato allegorico d’uno squarcio poetico ha in fondo per noi moderni, e sulla venia che ci si potrebbe accordare se volessimo fare a meno di ricercarlo; ben avremmo potuto, insomma, rivestire la mostra ripugnanza a entrare in un terreno assai spinoso, di tante belle ragioni estetiche e critiche, da mascherare interamente ciò che in essa potrebbe esservi di pigrizia. Sennonchè, qui è Dante stesso che viene a scompigliarci ogni cosa, Arrivato a quel punto del racconto, con tono insolitamente grave egli si rivolge ai lettori per invitarli a penetrare oltre il velo del senso proprio:
O voi ch’ avete gl’ intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’ asconde
Sotto il velame degli versi strani.
Siamo dunque senza dubbio alcuno in piena allegoria, e in tale allegoria che Dante vuole ad ogni costo penetrata dagl’intelletti sani. Trascurare l’ammonizione del poeta sarebbe per il povero chiosatore prendersi da lui la patente d'intelletto insano, e bisogna pur ch’egli tenti di menare i remi sull’infido mare allegorico.
Per disgrazia siamo giusto nel luogo del poema più stranamente intricato sotto questo rispetto. E in primo luogo, quale allegoria particolare si cela ne’ personaggi mitologici che prendon parte alla scena, in quelle Furie, cioè, che minacciano sì orribilmente Dante, e in quella Medusa che esse invocano a far di smalto il poeta? Se volessi qui esaminare e discutere tutte le interpretazioni allegoriche che delle Furie e di Medusa sono state proposte, la Medusa diverrei io, e di smalto farei diventare chi mi segue. Tanto per enumerarle, dirò che alle Furie è stata attribuita dai varii commentatori la rappresentazione simbolica del peccato in generale, dell’ira, della superbia, del. l’eresia, del pentimento, del rimorso, della punizione, della mala coscienza. E da chi ha veduto in ognuna di esse un significato diverso, sono state volta a volta fatte simboli o del cattivo pensiero, cattiva parola e cattiva opera in generale, o del cattivo pensiero, parola e opera del superbo, o del cattivo pensiero, parola e opera dell’ eretico ; o del cattivo pensiero, parola e opera dell’iracondo; o dell’ incontinenza, malizia e bestialità ; o della superbia, invidia e malizia; o dell’eresia, violenza e frode; o della superbia, avarizia e invidia; o della superbia, avarizia e lussuria. Senza dire che alcuni chiosatori, consenzienti in una di queste triplici interpretazioni per la qualità de’ tre simboli, li distribuiscono poi diversamente fra le tre sorelle. Per Medusa, poi, abbiamo la scelta fra l’insensibilità del peccatore, la durezza del superbo, il terrore, la dimenticanza, l’appetito di peccato, i beni mondani, l’ostinazione, il diletto sensuale, il dubbio ereticale, l’orrore della ribellione, la disperazione del peccatore. È una disperazione del commentatore, come si vede! Pure, in tanto e così intricato arruffio, un filo pare offrirsi alla nostra ermeneutica.
È noto che tutti i cerchi dell’Inferno, tranne l’Antinferno ed il Limbo ne’ quali non si scontano peccati nel vero senso della parola, hanno a guardia un essere mitologico che simboleggia la colpa punita nel cerchio stesso. Per il sesto cerchio, quello degli eretici, che vien subito dopo le mura di Dite, quel simbolico guardiano non è chiaramente indicato. D'altronde la sua mancanza sarebbe troppo contraria alle leggi di simmetria che regolano in ogni sua parte lo schematismo del poema. Ora se quell’ ufficio potesse credersi assegnato alle Furie, le quali si mostrano sulle mura che ricingono immediatamente il sesto cerchio, o a Medusa, che invocata da quelle su quelle mura medesime, potrebbe benissimo dimorare nel cerchio stesso, avremmo nel chiaro significato simbolico delle une o dell’altra — l’eresia — un bell’ avviamento all’interpretazione allegorica di tutto l’episodio. Ma il patronato delle Furie o di Medusa sul cerchio degli eretici, è cosa tutt'altro che certa. Altri pretendenti glielo contrastano.
Affatto trascurabile, a parer mio, è l’ostacolo che ci oppone Flegias, il nocchiero dello Stige, che un egregio letterato fa guardiano del sesto cerchio, dando invece il protettorato della palude alle Furie. Questo scambio di sedi, questo chassez-croisez infernale, anche per ragioni topografiche appare subito stranissimo: tanto più che le Furie son salite sulla torre solo per far paura a Dante, e quindi di solito la palude non la vedono neppure. Eppoi Dante dà a Flegias tutto un contegno da iracondo, parla esplicitamente dell’ira da lui accolta; e sarebbe davvero un tradimento del poeta il parlare dell’ira d’un uomo iroso, in mezzo ad un cerchio ove all’ occhio non appaiono che iracondi, per farci intendere che egli simboleggi l'eresia!
Formidabile invece è l’ostacolo che ci vien da Proserpina. Costei nell’Inferno non solo non si vede, ma non è neppure dal poeta nominata. Egli però, sulle mura di Dite, fa comparire le meschine (cioè le ancelle) della regina dell’eterno pianto. Se ci sono le ancelle dev’esser prossima la signora; e la signora, Proserpina, regina dell’Inferno come nella mitologia classica, sarà anch’ ella nel sesto cerchio e ne sarà la patrona diretta. E sembrano confermare validamente questa supposizione le parole di Farinata che, stando nel sesto cerchio, dice la donna che qui regge, per indicar la Luna. Ora la Luna era la personalità celeste di quella stessa dea che come personalità infernale era Proserpina; € d’ altra parte il qui regge riaccostato al quivi regge del primo canto (In tutte parti impera e quivi regge) pare, come questo, prestarsi a un particolare significato di qui ha sede. Proserpina adunque ha sede nel cerchio degli eretici e lo governa. Né mancherebbe un appiglio alla corrispondenza allegorica tra la dea e il peccato di eresia. Ché la Luna, nella simbolistica cristiana medievale, raffigurava la conoscenza umana, di fronte al Sole, che raffigurava il lume divino; e l’eresia, in fondo, proviene dall’ abuso del lume di ragione non aiutato e guidato dalla rivelazione. Ed anche materialmente si avrebbe una bella simmetria, trovandosi, nella città di Dite, all’ingresso la regina circondata dalle Furie, al fondo il re circondato dai Giganti.
È un’ipotesi tutt'altro che infondata, quantunque, a rifletterci sopra, non poche obiezioni venga pur fatto di muoverle. P. es. il dover Proserpina cumulare in sè i due ufficii di regina dell’Inferno e signora particolare del sesto cerchio ; la sede direi quasi provinciale di questa regina che non sarebbe nella sua capitale, come invece ci sta Lucifero ; il velo di cui senza un plausibile motivo sarebbe da Dante ricoperta non solo la sua figura materiale, ma perfino il suo nome, E alla fin dei conti, l'ipotesi favorevole a Proserpina si fonda tutta sopra una perifrasi che accenna a un pensiero di Virgilio, le meschine della regina dell’eterno pianto, per dir le furie, e su un' altra perifrasi, di Farinata, la donna che qui regge, per dir la luna; e questa fa parte d’una predizione, forma di discorso quasi sempre singolarmente involuta e contorta nella Divina Commedia, piena di traslati o figure in cui l’espressione immediata ha talora lontanissime relazioni col senso proprio ch'essa riveste. Potrebbe quindi la doppia allusione a Proserpina essere nell’un caso come nell’ altro un semplice richiamo mitologico senza alcun valore d’indicazione attuale: voluto da Dante per una convenienza personale e per colorito storico ed erudito, a proposito di Virgilio, per convenienza stilistica, nella predizione di Farinata.
Ma insomma, pur ammettendo la legittimità di queste obiezioni, e pur ritenendo l’ipotesi favorevole a Proserpina come dubbia, basta il dubbio per non consentirci di procedere oltre sulla via dell’esclusione; e bisogna piuttosto vedere se le Furie o Medusa non presentino in loro stesse un qualche determinato appiglio per quell’attribuzione allegorica da noi cercata. Ora le prime mi pare che non ne offrano proprio nessuno. Esse nella mitologia classica, se incarnavano un simbolo, incarnavano quello saldamente stabilito dei rimorsi. Tali apparivano, p. es., nel mito di Oreste, che Dante conosceva benissimo; e una sovrapposizione, una sostituzione, anzi, d'un nuovo simbolo tutto soggettivo all’ antico, non so se il nostro poeta l’avrebbe osata, senza almeno accennarvi chiaramente.
Ben diverso è il caso di Medusa. Essa, invece, nella mitologia non aveva alcun significato simbolico preciso ed evidente. Pare che in origine personificasse le forze maligne della natura, i fenomeni atmosferici paurosi e dannosi all’ uomo, e più particolarmente la nuvola temporalesca. Ma questa nuvola col tempo andò dileguandosi, e alla favola non restò che il suo significato letterale. Era dunque Medusa un personaggio docile a ricevere quella qualunque destinazione simbolica che al poeta fosse piaciuta, Che ad essa convenga il simbolo dell’eresia, e in generale del dubbio, dell’ incredulità, una certa ragione materiale potrebbe trovarsene anche in ciò, che la fede è allegoricamente raffigurata dal fuoco, dall’ ardore; e il nostro poeta rappresenta quella virtù teologale appunto coì rosso di fiamma, e nella personificazione simbolica del paradiso terrestre, e nel vestito di Beatrice. Ora all’ ardore si oppone il freddo, e la pietra è la materia a cui pare che per eccellenza spetti la frigidità: onde Medusa che impietra ha un carattere che si presta a rappresentare il dubbio ereticale, l’incredulità, che si oppone alla fede.
E non mancano, poi, argomenti di maggior peso. P. es. i governatori simbolici delle varie regioni infernali sono protagonisti tutti quanti di speciali episodietti drammatici con Virgilio; il quale sull’ Acheronte e nel secondo, terzo, quarto, quinto e settimo cerchio, interviene a rintuzzare le loro minacce verso Dante, nell’ottavo e nono le previene, e piega a servigio suo e del suo alunno la potenza di quei mostri. Ora nel sesto cerchio l’intervento Virgiliano, che compirebbe la serie, ha luogo appunto quando si minaccia l’apparizione di Medusa, e a frustrare il potere malefico di questa egli volge indietro Dante e gli tiene chiusi gli occhi. Ché se Medusa, a differenza degli altri guardiani simbolici, è invisibile, la ragione ne sarebbe chiarissima: se Dante la vedeva diveniva di pietra, e non starebbe a raccontare al lettore le sue avventure.
E con Medusa simbolo di eresia tutta la scena allegorica che il poeta ci esorta a penetrare parrebbe animarsi d’un significato morale e religioso. L’eresia, in molti e molti luoghi del poema, è esplicitamente o tacitamente considerata quale conseguenza del voler l’uomo troppo vedere col lume della ragione, e del non saper chiudere l’occhio dell’intelletto su certi problemi insolubili per lui. E l’esortazione a non voler vedere troppo, e il contrasto tra la corta vista dei mortali e la profonda visione di Dio e dei beati, che in Dio aguzzano lo sguardo, è un motivo che nel poema si ripete con grande frequenza. E nella pena stessa degli eretici potrebbe vedersi anche una specie di contrappasso al peccato loro, considerato giusto sotto quel punto di vista: l’eretico, che ha voluto troppo vedere, è messo in una tomba, rinchiuso in una scatola che preclude al suo sguardo ogni visione. Se Medusa simboleggiasse l'eresia, avremmo la chiave di tutta la scena. Per salvarsi da quel peccato non ce’ è che chiuder gli occhi dell'intelletto ed accettare ciecamente quei dogmi che la fede impone; a non frenare lo sguardo si sdrucciola nel dubbio, nell’incredulità, e la perdita dell'anima è irreparabile.
“Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso;
Chè se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi,
Nulla sarebbe del tornar mai suso”.
Ed è Virgilio stesso che lo raccomanda: è lui stesso che concorre a tener chiusi gli occhi del poeta. Dunque non solo il limitare l’esercizio del proprio intelletto di fronte alla fede non è andare contro la ragione, ma la ragione stessa, se è veramente sana, consiglia di limitarlo. Ragion vuole che si rinunzi alla ragione.
Sarà questa la dottrina che il poeta ravvolgeva nel velame delli versi strani? L'ipotesi è lusinghiera, e vorrei crederlo con quella cecità di fede di cui pur ora andavo trattando; ma non posso tenere il viso chiuso a una formidabilissima obiezione che mi sorge incontro, e che, per quanto faccia, come la invidiosa lonza dantesca, non mi si parte dinanzi al volto. E mi dice: ma quando Dante, descritta la paurosa scena, si rivolge al lettore con la sua apostrofe solenne, di eretici e di eresia il lettore non sa ancor nulla, proprio nulla. Come dunque, con tutta la sanità dell’intelletto, avrebbe egli potuto penetrare quel velame onde il poeta ravvolgeva la sua dottrina? Di mezze risposte potrei darne molte, risposta vera nessuna; preferisco quindi non darne e restare nel dubbio.
E così dunque, l’unico filo che pareva offrircisi in quel caos allegorico, invece di trarci fuori dal laberinto ci si è arruffato anch’ esso nelle mani in una nuova matassa.
E allora? Pagato il nostro debito alla volontà di Dante, riabbassiamolo finalmente quel velame, sotto cui del nostro meglio abbiamo tentato di guardare, e abbandoniamoci senz’altro pensiero a contemplarlo ; poich’esso è intessuto di una delle più potenti figurazioni dell’arte dantesca, Quel crescendo d’infernale orrore incominciato allo sbarco dei poeti presso le porte di Dite con gli scherni e le minacce dei diavoli, col grido delle Furie che invocano Medusa è giunto al suo parossismo, Immaginate il momento e la scena. Una palude oscura, fangosa e fumosa, da un lato, in cui si assannano e si dilaniano migliaia di spiriti iracondi; dall’altro, le ferree mura della città, rosseggianti sinistramente nel buio, sulle quali urlano orribilmente le Furie. Oltre quelle mura, il precipizio verso il fondo dell’Inferno: un’immensità d’abisso, d’orrore, d’ignoto. Oltre quella palude, l’altra immensità dell’abisso già percorso, i cui terrori si ridestano tutti nell’ animo, e sembrano ergersi minacciosi a precludere ogni via d’uscita e di ritorno. La selva oscura, lassù, infinitamente lontana, che or sorride alla mente poiché almeno la luna vi penetrava, già era più amara che morte a chi vi entrava dal dolce mondo. E di qua da essa fiammeggiano sulle acque oscure d’Acheronte gli occhi di fuoco di Caron dimonio, si stende l’eterna tenebra del Limbo echeggiante di sospiri, ulula la bufera del secondo cerchio, latrano assordantemente le tre gole di Cerbero, scroscia la pioggia gelata sui golosi, freme la rabbia compressa di Pluto, minaccia l’ira di Flegias. E tra queste due immensità, l’una più misteriosamente paurosa perché ancora ignota, l’altra più determinatamente terribile perché già nota, quel piccolo essere umano debole e smarrito, offeso in tutti i suoi sensi, gravato il respiro dall’aer grasso e fumoso di Stige, nauseato dal puzzo della palude, assordato dagli urli delle Furie, privo perfino del conforto che unico resta nel terrore, di potersi guardare attorno, perché se aprisse gli occhi resterebbe là impietrato e ogni speranza di salvezza sarebbe finita per sempre. E le mani che frementi gli coprono gli occhi, e la voce che piena di terrore gli raccomanda di non guardare, pena la rovina di tutto, son di Virgilio, del confidente Virgilio che tante volte è passato impavido avanti alle minacce infernali, ed or grave, ora sprezzante, ne ha frustrato senza stento i rabbiosi eonati.
Questa preparazione d’ inarrivabile terrore ha premesso Dante all'intervento dell’onnipotenza divina, affinché essa abbia campo di spiegarsi in tutta la sua magnificenza, E l’aiuto celeste già annunziato da Virgilio arriva.
E già venia su per le torbid’onde
Un fracasso d'un suon pien di spavento,
Perché tremavano ambedue le sponde;
Non altrimenti fatto che d’un vento
Impetuoso per avversi ardori,
Che fier la selva e senza alcun rattento
Li rami schianta, abbatte e porta fuori;
Dinanzi polveroso va superbo,
E fa fuggir le fiere e li pastori.
Ecco dunque che, improvvisamente, tutto quell’agitarsi, tutto quel fremere del mondo inferno cambia d’intonazione. Era tutto minaccia, diviene tutto terrore. (Qualche cosa di strapotente deve aver operato. Si direbbe l’avanzarsi impetuoso d’un uragano estivo: e di quest’uragano, richiamato per similitudine, con tocchi magistrali il poeta ci dà una sensazione di efficacia mirabile. Tale è quel. l’impetuoso che irrompe violentemente nel verso, come un soffio di bufera; quei rami svelti e trasportati fuori, che ne dipingono la forza materiale; quel polveroso che ce ne dà un'immagine sensibile, visiva; quel superbo che riproduce stupendamente l’impressione direi quasi morale che deriva da quella terribile forza della natura; quella fuga di bestie e di pastori insieme che parla d’un terrore sconfinato, che fa fuggire insieme col gregge (si ricordi che fiera nel linguaggio dantesco non implica punto la ferocia dell'animale) anche il pastore, che di solito frena invece la fuga irragionevolmente paurosa delle sue pecore. La nostra fantasia si dilata a impressioni di straordinaria potenza e vastità, le misure di forza e di grandezza a cui essa s'intuona sono quelle d’una violenta procella. E che cosa si presenta a così grandiosa aspettazione?
Come le rane innanzi alla nimica
Biscia per l’acqua si dileguan tutte,
Fin ch’'alla terra ciascuna s’'abbica;
Vid’io più di mille anime distrutte
Fuggir così dinanzi ad un, che al passo
Passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aer grasso,
Menando la sinistra innanzi spesso;
E sol di quell’angoscia parea lasso.
Si aspettava un uragano, è una figura d'uomo. Appare quest’essere divino, e riempie immediatamente di sè tutta la capacità della nostra fantasia, portata ad un'ampiezza straordinaria dalla rappresentazione precedente. È un’impressione immediata di potenza di cui non so se mai poeta abbia saputo suscitare l’uguale. Da un lato i mille, dall’altro l’uno, di qua il più incomposto spavento, di là la calma più solenne, di qua la fuga precipitosa, di là il passo. Ed il solo gesto che di quell’uno c’è rappresentato, quella mano agitata innanzi al volto per rimuovere l’aere mefitico dello Stige, di quanta poesia non è pieno, e come ci parla d’ un aere più spirabile, d’ un aere chiaro, fresco, sereno, allietato dal dolce lume di Paradiso!
Ben m’accorsi ch'egli era del ciel messo,
E volsimi al maestro; e quei fe’ segno
Ch'io stessi cheto, ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!...
un altro verso che da se solo, senza alcun elemento plastico, vale più di qualunque descrizione.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne ‘alla porta, e con una verghetta
L’aperse, chè non v'ebbe alcun ritegno.
La rappresentazione della disfatta delle potenze infernali non poteva chiudersi con maggiore efficacia che con quella verghetta, piccola in mezzo a tante cose grandi, al cui tocco, senza sforzo, s’apre una porta di ferro così protervamente chiusa e negata da più di mille demonii.
E poi che ha operato, parla quell’essere divino. La parola prima del fatto ha un che di vanteria e di iattanza, e pare attenuare la potenza di chi opera; la parola che segue il fatto è rampogna che ribadisce la vittoria, e suona acerba e dura in bocca del vincitore.
“O cacciati del ciel, gente dispetta”
Cominciò egli in su l’orribil soglia,
“Ond'esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché ricalcitrate a quella voglia,
A cui non puote il fin mai esser mozzo,
E che più volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo”.
Allude alla discesa di Ercole nell’ Inferno per liberar Teseo, prigioniero di Plutone: l’eroe greco incatenò Cerbero e lo trascinò fuori recalcitrante, onde il collo restò pelato dall’attrito della catena.
Poi si rivolse per la strada lorda,
E non fe’ motto a noi; ma fe’ sembiante
D'uomo cui altra cura stringa e morda
Che quella di colui che gli è davante.
Così questo messo celeste se ne va, grandioso e sublime com’è venuto, senza neanche guardare in faccia i due poeti per cui pure si è mosso dal cielo: tutto assorto in una cura maggiore. Venne, vide, vinse; compiè la volontà divina, tutto il rimanente per lui non esiste.
Uscito dalle tenebre infernali e salito in cielo dopo aver espiato i suoi peccati su pei gironi del sacro monte, a migliaia nella luce e nella beatitudine eterna del terzo regno si mostreranno a Dante gli esseri di Paradiso; ed il poeta, rapito, vorrà compartire ai suoi lettori l'impressione dei divini aspetti. E toglierà il candore alle nevi, i fremiti sonori alla lira, i fiori alla primavera, i raggi alle stelle del cielo, per comporne immagini di divina bellezza. Ma nessuna mai raggiungerà per noi la sublime efficacia di questa figura celeste apparsa nel fumo della palude Stigia. Poiché, lasciando la terra, Dante vuole abbandonare tutto ciò che materialmente è terreno, e rinunzia quindi anche a quella forma che pure è per noi indissolubilmente associata all’espressione del sentimento in ogni sua movenza, e ne è sempre la più vivace, la più immediata traduzione plastica: la forma del corpo umano, Ma ai dannati un essere di Paradiso non poteva apparire nell’aspetto beato e beatifico onde gli spiriti si rivestono in cielo; non poteva, discendendo ad annullare la tracotanza infernale, dare ai dannati un saggio delle gioie care e belle del regno di Dio. O forse, a prescindere da ciò, Dante non volle darlo al lettore un tale saggio, e preferì riserbarsi i trascendentali spettacoli della beatitudine per le altre due cantiche; e fece discendere quel primo cittadino del cielo che nel suo poema s' incontri, nell’umile veste del corpo umano! Per il poeta era una menomazione; per noi, esteticamente parlando, è una sublimazione. Per noi il più bel fiore di Paradiso è questo, maturato e schiuso dal fuoco dell’Inferno.
Il fascino che quest’essere strapotente emana da sè è così forte, che mentre egli resta davanti ai nostri occhi ci vien fatto di assumere spontaneamente quel contegno che al suo approssimarsi Virgilio suggeriva a Dante: stiamo quieti e c’inchiniamo ad esso. Ma poi che, rivoltosi per la strada lorda, ei s'è dileguato, sorge a poco a poco nell'animo la domanda: e chi era mai quel potente? Alla quale, peraltro, troviamo subito come risposta una certa impressione determinatasi spontaneamente dentro noi stessi, e, quasi direi, già rivestita d’un’immagine plastica: quel potente era un angelo. E tale infatti è l’interpretazione più comune sulla natura del misterioso personaggio. E Dante stesso che lo ha chiamato messo del cielo, sembra darne un’esplicita conferma. Messaggieri di Dio sono gli angeli, e il loro nome lo dice.
Ma la naturalezza stessa di questa spiegazione, invece che sembrare una buona ragione per attenervisi, è parsa a taluni critici un eccellente motivo per distaccarsene. Giacché nella critica come in tutte le altre cose c’è una forma di grossolanità più comune, più dozzinale, più manifesta, che consiste nell’abbandono spensierato alla prima impressione. Ma ce n'è pure un’altra forma più aristocratica, più dotta, travestita da finezza, che consiste nel ribrezzo sistematico per ciò che la prima impressione suggerisce. Ad essa dobbiamo se per quel posto, che sarebbe tanto naturale lasciar incontrastato a un angelo, sono state messe innanzi, ch'io sappia, nientemeno che altre cinque candidature: Mercurio, Ercole, Enea, Giulio Cesare, e il Redentore in persona.
Nelle candidature, in quelle letterarie almeno, il candore, di solito, c’entra per qualche cosa; ed è a credere che i varii sostenitori di quei varii personaggi abbian pensato in buona fede di poter far valere ognuno le sue ragioni. Ma certo è che i loro cinque protetti han tutti qualcosa di molto strano, e alcuni di peggio che strano. Intanto un’obiezione pregiudiziale v’è per tutti e cinque: non si capisce perché il poeta, dato che il suo possente ausiliatore fosse stato un personaggio storico o mitologico, non avrebbe detto chi egli era. Nella Commedia non c’è personaggio di tal fatta che non sia apertamente designato; e se talvolta noi non ci vediamo chiaro, gli è perché allo scrittore non soccorse un’espressione perspicua, ma non certo per un suo proposito di non farsi capire. Per l’appunto un tale proposito si verrebbe ad attribuire a Dante per l'essere misterioso del quinto cerchio.
Ed altre assurdità speciali troviamo poi, se prendiamo a esaminare quei cinque candidati uno per uno. Mercurio nella mitologia pagana era, è vero, l'ambasciatore degli Dei; ma giusto perché era il messo del cielo non può essere un messo. Ché l’espressione di Dante, egli era del ciel messo, non ha proprio nulla di antonomastico ma designa senza determinazione alcuna, un qualunque messaggiero divino. Eppoi, è vero che nella Divina Commedia di creature mitologiche se ne incontrano molte, ma sono tutte personalità infernali, cioè di debellati e di vinti, ravvicinati, in gran parte, ai demonii, e che — se ne togliamo Pluto, € al più, dato che vi sia, Proserpina, i quali abitando l'Inferno restavano a casa loro — non avevano nulla di divino neanche nella mitologia classica. Dèi veri e proprii nel poema non appaiono o balenano qua e là come pallidi fantasmi di trapassati. Dante, il grande innamorato del mondo pagano, non ha avuto, è vero, il coraggio d’incatenarli addirittura nel suo Inferno a servire il nuovo Dio, e se nella sua ragione son morti, nella sua fantasia in parte regnano ancora. Ma è per l’appunto un regno di ombre, da poveri rois en exil, senza sede e senza potere; regno da Regia Parnassi più che da Almanacco di Gotha. E Dante stesso è pronto a farli chiamar da Virgilio Dèi falsi e bugiardi. Come dunque da questo generale crepuscolo degli Dei dovrebbe il poeta salvare il solo Mercurio, conservandogli un potere realmente divino? Giusto lui che, in fondo, era il monello degli Dei maggiori, e che, pur ammessa la nobiltà di alcune sue attribuzioni secondarie, aveva però come sua principale quella di proteggere una certo tra le più proficue, ma anche tra le più prosaiche manifestazioni dell’attività umana, il commercio; e insieme col commercio, vedete bizzarria dei nostri padri antichi, anche i ladri?
E ragioni suppergiù di questo genere valgono pure contro l’altro pretendente mitologico, Ercole, i cui diritti mi paiono tanto deboli, per lo meno quanto egli era forte. E alle sue mani poi, in luogo della tradizionale e rituale clava, non converrebbe menomamente quella verghetta, che trattandosi di Mercurio poteva almeno rappresentare il caduceo.
Enea e Cesare, Dante li ha già visti: nel Limbo. E nessun inchino, nessun atto conveniente alla presenza d’un personaggio divino gli fu allora suggerito dal suo duce. Come ora non li ravvisa? O come non si maraviglierebbe di tanta nuova dignità che il suo maestro parrebbe riconoscere in loro? E perché poi Iddio avrebbe dovuto conferire un potere eccedente di tanto quello di Virgilio a un suo compagno del Limbo? E come, dato il caso, con un tale potere tutto momentaneo e provvisorio, sia Enea, sia Cesare, avrebbero alzato quel po’ po’ di superbia verso il loro uguale Virgilio, da non rivolgergli né una parola né uno sguardo né un cenno? E converrebbe quella grandiosità di rappresentazione, quell’ aspetto d’onnipotenza, di superiorità infinita, a spiriti che in fine, se non sono in totale disgrazia, non sono però certo neanche in grazia di Dio?
A tale incoerenza sfugge chi ritenga che il divin personaggio sia lo stesso Gesù. Ma la correzione è eccessiva per un altro verso, ché se la grandezza dell’Uomo-Dio è adeguata a qualunque grandiosità di rappresentazione, essa è però tanta che si cade in una sconvenienza di situazione. Gesù Cristo mosso dal Paradiso e disceso una seconda volta all’ Inferno per agevolare la salvazione di Dante, via, è un tale eccesso che non dovremmo proprio risolverci ad attribuirlo al nostro poeta. E poi, non ha questi detto che il potente disceso ad aiutarlo era un messo del cielo? Ma se domani si leggesse in un giornale che il nostro re ha intenzione di spedire un’ambasceria presso un qualche sovrano straniero, a chi passerebbe per il capo d’ intendere che da quel sovrano si recherà Sua Maestà in persona?
Angelo, dunque. E quest’ angelo ha dischiuso ai poeti la porta fatale, ed è tornato al più spirabile aere dei cieli. Ed i poeti s’ avviano verso la città.
E noi movemmo i piedi inver la terra,
Sicuri appresso le parole sante,
Dentro v’entrammo senza alcuna guerra;
Ed io, ch’avea di riguardar disio
La condizion che tal fortezza serra,
Com’ io fui dentro l’occhio intorno invio,
E veggio ad ogni man grande campagna,
Piena di duolo e di tormento rio.
Una differenza essenziale, per quanto non troppo apparente, passa tra la buona e da grande poesia. Quella che è semplicemente buona, ha bisogno di tutto dire, di tutto descrivere, di tutto narrare; fa consistere ogni sua efficacia in procedimenti ed operazioni positive; ogni sua bellezza, ogni sua forza, sta in ciò che essa esprime con parole. La grande poesia invece sa anche tacere, sa porre la sua forza anche nel non dire, sa che ci sono dei mezzi d’arte puramente negativi, capaci di effetti sublimi, sa che la voce più eloquente è in certi casi il silenzio. Ne abbiamo un esempio in questo ingresso de’ poeti nella città di Dite. Poniamo la situazione in mano a chi fosse stato soltanto un buon poeta, ed egli avrebbe certamente colto l’ occasione per fare un quadro delle potenze infernali debellate dall’ angelo: demonii abbattuti, demonii fuggenti, demonii nascosti, ringhi e fremiti di rabbia impotente contro i poeti, sguardi torvi e minacciosi, le Furie rannicchiate in un canto, verdi di rancore e di odio represso, ma non ose più di gridare, e in mezzo a questo spettacolo di vinti, Dante e Virgilio che passano trionfalmente. Grande poesia è invece quella di Dante, che quelle potenze infernali non le nomina neanche più, e le ricorda solo indirettamente col dire che nella città egli e Virgilio v’entrarono senza alcuna guerra. Del resto così totale è stata la disfatta, che di esse non resta più la benché minima traccia. Dove i mille demonii? Spariti. Dove le Furie? Sparite. Dove Medusa? Non se ne parla più. La proterva opposizione, manifestatasi a poco a poco, cresciuta grado a grado in violenza, lungamente fremente e minacciosa nel suo terribile parossismo, è stata fiaccata e distrutta in un solo istante. Quella città tutta gravida di minacce, tutta intronata di grida, s' è aperta al tocco della verghetta divina, i poeti v’ entrano e non trovano che una scena di desolazione, un cimitero di peccatori, il cui deserto silenzio è rotto solo da fiochi gemiti di dolore degl’invisibili sepolti: d’ ogni man grande campagna. Piena di duolo e di tormento rio!
Sì come ad Arli ove Rodano stagna,
Sì com’a Pola presso del Carnaro,
Che Italia chiude e suoi termini bagna,
Fanno i sepoleri tutto il loco varo;
Così facevan quivi d’ogni parte,
Salvo che il modo v'era più amaro;
Chè tra gli avelli fiamme erano sparte,
Per le quali eran sì del tutto accesi,
Che ferro più non chiede verun’arte.
Tutti gli lor coperchi eran sospesi,
E fuor n’uscivan sì duri lamenti,
Che ben parean di miseri e d’offesi.
Ad Arles, che il poeta chiama Arli, in Provenza, e a Pola nell’Istria, sul golfo del Quarnaro, o, come oggi si dice, Quarnero, erano due antiche necropoli che facevano il suolo tutto varo, cioè vario, variato, scabro ; e forse Dante aveva visto co’ suoi occhi l’uno o l’altro luogo o tutti e due. Il che, del resto, sia o non sia, poco o nulla importa per l’intelligenza del passo. In sostanza si capisce benissimo che nel sesto cerchio erano tombe infocate, tanto infocate che ferro più non chiede verun’arte; cioè che all’esercizio di nessun mestiere è necessario un ferro più rovente. E questo terribile ardore sprigiona i duri lamenti che feriscono l’orecchio del poeta.
Ed io: “Maestro, quai son quelle genti,
Che seppellite dentro da quell’arche
Si fan sentir con gli sospir dolenti?”
Ed egli a me: “Qui son gli eresiarche,
Co’ lor seguaci d’ogni setta, e molto
Più che non credi son le tombe carche”.
Accenna al fatto che il peccato d’eresia può essere tutto intimo, senza alcuna manifestazione esteriore, o magari anzi ha bisogno di nascondersi altrui.
“Simile qui con simile è sepolto:
E i monimenti son più e men caldi”
E poi ch’ alla man destra si fu vòlto,
Passammo tra i martiri e gli alti spaldi.
I peccatori dello stesso gruppo ereticale sono dunque tutti quanti insieme nella stessa tomba, e le varie tombe sono più o meno infocate, certo a proporzione della gravità del peccato. Se quei gruppi costituiscano ognuno un’eresia diversa, o possano essere invece le varie suddivisioni d’una stessa eresia, non è detto esplicitamente. Ma certo è che la suddivisione degli eretici in tanti sepolcri che separano nettamente un gruppo dall’altro, e dividono tutto il cerchio in tante celle, quasi gigantesco alveare dove invece di miele si distillino amare lagrime, è un bel richiamo alla divisione e suddivisione dell’eresia in tante forme d’eresia nemiche e discordanti fra di loro . Né questa, che è la principale, è però la sola rispondenza che potrebbe trovarsi tra la pena e il peccato. Come caratteristica di quella osservammo già la limitazione visiva in contrapposto al voler vedere troppo, da cui questo derivava; il fuoco richiama tristamente quei roghi di cui Dante, come appare altrove nel poema, qualcuno doveva averne pur visto; e infine la tomba, in quanto è tomba, s’attaglia in modo speciale agli epicurei, che tra gli eretici sono nel cerchio i più in vista; i quali vollero l’anima morta col corpo, e dopo morti hanno l’anima sotterrata!
Un'altra corrispondenza col peccato d’eresia si è cercato di vederla nel fatto che i due poeti, contro il modo tenuto in tutti i cerchi precedenti e seguenti, in questo cerchio sesto fanno cammino non già volgendosi a sinistra, ma a destra: E poi che alla man destra si fu volto, Passammo tra i martiri e gli alti spaldi. Ma la ricerca di tale riscontro, in cui è ben difficile d’imbarcarsi senza approdare a qualche stiracchiatura, mi par che sia resa vana da una sodisfacente spiegazione che altri ha dato. Alla città di Dite Dante volle in tutto e per tutto dar l’aspetto di fortezza; e come nelle fortezze de’ suoi tempi una volta entrati per la porta si prendeva appunto a mano destra, così Dante, volgendo a mano destra, passa tra i martirii, cioè i peccatori martirizzati, e gli alti spaldi della città.
E così, arrivati al punto in cui dobbiamo lasciare il poeta, noi lo vediamo avviarsi pensieroso per il nuovo cerchio, tra un muro di fuoco da un lato e un sepolcreto di fuoco dall'altro. Alla sua fantasia, tra i lugubri riflessi di quel chiarore infernale, forse già si disegna l’immagine del gran. de concittadino eretico ch’egli aspetta e desidera di vedere; e così anche nella nostra immaginazione già si leva grandiosa la superba figura di Farinata, già i maschi e robusti versi del prossimo canto risuonano nella nostra memoria e un fuoco di patriottismo ci serpe già nelle vene. È a ridestar fin d’ora più che mai questo fuoco, in sul finire di questo canto nono, delle parole magiche sono discese nel più profondo della nostr'anima d’italiani. Il Quarnaro, Che Italia chiude e i suoi termini bagna, ha detto il poeta. E a questo verso una stretta dolorosa ci ha serrato il cuore, e abbiamo pensato per un momento che la parola del vate nostro suona oggi per noi menzogna o ironia, poiché nelle acque del Quarnaro i tre colori del nostro vessillo non si rispecchiano ancora! Ma vate non è solo poeta, bensì anche profeta! Ricordiamolo, raccogliamo fiducioso il suo verso, e salutiamo il gran padre Alighieri, che al termine di questo canto ci lascia col fuoco del più atroce martirio davanti agli occhi, ma con un raggio della più dolce speranza nel cuore!