Dati bibliografici
Autore: Ugo Zannoni
Tratto da: Lectura Dantis Scaligera. Volume I
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1967
Pagine: 275-299
Il monito finale ciel canto VIII che Virgilio, vinto dai demoni quando gli chiudono la porta in faccia, rivolge a Dante:
non sbigoitir ch'io vincerò la prova
(monito pieno di significato, espresso dal Maestro senza dissimulare la propria mortificazione e un certo sgomento) non riesce a tranquillizzare Dante. Troppo egli è stato intimidito, meglio direi disfatto, dalle parole maledette di questi demoni, che stizzosamente avevano investito Virgilio:
«Chi è costui che, sanza morte
va per lo regno della morta gente?»
«Vien tu solo, quei sen vada,
che sì ardito entrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi se sa; chè tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Il monito di Virgilio si rinnova nel presente canto IX; in guisa però che il poeta sembra voglia convincere anzitutto se stesso:
«Pur a noi converrà vincer la punga »
detto con perplessità e con reticenza, seguìto da una certa angoscia particolarmente espressiva:
«se non.... Tal ne s’offerse:
oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!»
Che quest’angoscia si rifletta su Dante è cosa naturale; come è naturale che accresca in lui la paura. Paura che la parola tronca, cioè l’aver cambiato improvvisamente discorso, significhi qualche cosa di più grave. La domanda che Dante rivolge a Virgilio:
«In questo fondo della trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?»
non fa che mettere a fuoco questa paura, che diventa di prima grandezza, ansiosa, viva e, direi anche, aggressiva.
Sì: c'è stato egli stesso altra volta, «congiurato» (cioè per gli scongiuri)
da quella Eritòn cruda,
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Questa discesa, e le doti magiche delle quali era stato investito Virgilio nel Medio Evo, hanno fatto pensare a molti che vi sia una certa relazione fra i due fatti. Altri però (come il Comparetti e il D’Ovidio) dissentono e, negando risolutamente la magia di Virgilio, ne nobilitano la figura, considerando la sua discesa nella Giudecca, per togliervi l’anima di un traditore (non ne sappiamo di più), una semplice fantasia poetica, atta a valorizzare, se pure ce n’era bisogno, il grande poeta latino. E la prova si può avere quando si pensi alle fonti: in nessuna delle leggende medievali intorno alla magia virgiliana si parla di Eritone, mentre della maga fa cenno Lucano, nel ben noto episodio di Sesto Pompeo. Anche in questo caso, e con più giustificata sottigliezza di psicologia, il mondo mitologico dona alla suggestiva vicenda del pellegrino medioevale uno sfondo remoto di più solenne, di più oscuro, di più alto mistero: oseremmo quasi dire che Dante muove, nel suo itinerarium mentis in Deum, dalle scaturigini non soltanto della vita, la provata vicenda della sua colpa, ma arche dalla tradizione e dalla storia: di qui egli anela alia luce, e anche da quelle ombre trae incoraggiamento a muoversi verso la luce. L’episodio di Eritone ha quindi un suo valore emblematico che non può essere dimenticato.
Inoltre, Virgilio, che nell’Eneide, sulla scorta dei poemi omerici, cerca di dar rilievo alla fantasia: nel racconto dei fatti, con la forza di ciò che è vivo ed essenziale, sembra messo qui per far grandeggiare l’effetto di questo racconto. La sua Eneide, con gli echi e le testimonianze mitiche riportate al tempo del poeta quasi a rappresentare il trasformarsi delle ideologie pagane in un nuovo aspetto religioso, converge naturalmente al poema della fede, illuminata dal travaglio spirituale che porta alla salvezza.
E troviamo qui l’autore del poema caro a Dante in un aspetto particolarmente suggestivo: vince qui la violenza dei demoni, ma trionfa, nella sofferenza, la dignità morale di Virgilio.
Qui Virgilio porta, come nel suo poema, il senso stupendo del divino e l’idea della predestinazione.
Dante è profondamente imbevuto degli aspetti della tradizione virgiliana, e, nell’ammirazione per lui, che lo scorta, ne rileva la spirituale umanità, diventandone commosso e autorevole interprete: l’affetto con cui Virgilio rassicura il poeta timoroso parve già al Tommaseo uno dei motivi vitalmente poetici del canto, il quale tutto, d’altra parte, prende l’avvio proprio dal giuoco psicologico dei due personaggi, Dante e Virgilio, dai loro silenzi e dalle loro parole, dalle loro ansie e dalle speranze loro, sullo sfondo di quella fantastica e fiammeggiante città infernale.
Virgilio dunque giù nel profondo c’è stato. E non è stata poca cosa. Perché
Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
Virgilio dunque sa il cammino, e incuora Dante ad aver fiducia. Ma la sicurezza non si addice all'Inferno, e tanto meno allo spirito sconvolto di Dante, perché, nel momento in cui par qualche poco riprendersi, appariranno «dritte ratto» tre Furie sulla cima della torre, di cui all’ultimo verso del canto VII.
Ma torniamo alla perplessità di Virgilio, al momento di quell’imbarazzo sul quale i commentatori si soffermano ad abundantiam.
Quella reticenza «se non...» forse è stata sopravvalutata, e il dubbio virgiliano potrebbe considerarsi, a mio modesto modo di vedere, se non dissipato, in un certo senso concluso con le parole «Tal ne s’offerse».
Comunque, penso che anche queste apprensioni e questi dubbi siano meravigliosamente utilizzati come parte notevole di un meccanismo infernale, che si muove e procede, nel suo fatale andare, con essi, sia pure tra difficoltà che mostrano di diventare sempre più ardue a superarsi.
Vedremo come la forza di Virgilio, duca, signore e maestro, sia per trascinare nel suo crescendo la debolezza e la impressionabilità di Dante, che ne beneficiano a poco a poco, man mano che il poeta sconta i suoi peccati, tra gli orrori dei peccati altrui, sempre più gravi.
Non pare, comunque, debba preoccuparci ulteriormente il senso di quel «se non…». Perché, infine, quale sia per essere l’interpretazione (se forse non intesi male le parole di Beatrice, se forse è impossibile procedere oltre), ci lascerà probabilmente in quella dubbiosità (più se ne discute più il dubbio potrebbe consolidarsi), la quale non si esclude p far parte del mistero o dell’indefinibilità di certa poesia.
Perché non considerarla, ad esempio, una sospensione, una sosta involontaria, un intervallo musicale magari, che anche nella sua inspiegabilità, può avere il suo fascino, la sua luce segreta, utile ad illuminare cose che vengono dopo? Tanto più se dopo viene una buona parola di speranza?
Il canto IX dell’Inferno è un canto profondamente drammatico.
Siamo nel quinto cerchio: alla fine dell’alto Inferno, in procinto di entrare nel basso. Siamo davanti alle porte della città di Dite.
È logico quindi che gli ostacoli più torvi si frappongano in progressione di difficoltà e di spavento. E che tutto concorra a rendere più intenso ed espressivo il ritmo, respiro lirico e mosso di una poesia chiara, potente, fervida e colorita.
È il canto della tragica perplessità, e costituisce (come nota il Momigliano) insieme col canto precedente e con altri due che verranno (XXI e XXII dell'Inferno) due nuclei di canti che contengono «le pagine del poema dove meglio si manifestano le qualità drammatiche di Dante... Il viaggio di Dante, che di solito è una esplorazione e un colloquio, qui diventa una peripezia, richiamandosi vagamente al suo inizio». Tutto ciò «mostra l’ingegno poetico di Dante sotto una luce un po’ diversa dalla solita, inteso ad un àmbito più largo, eccitato da un interesse più mobile, pronto a tener le fila di un intreccio, a colorire insieme scenario, personaggi ed azione».
In questa poesia Dante è perennemente presente, con i suoi tremori, con i suoi crucci, con i suoi moniti, in una meravigliosa partecipazione al dramma, che egli canta e ricanta nell’effusione dell'anima alta e tormentata.
Qui si cammina in asprezza, attraverso il tenebrore e il dolore, dove al senso della vista che si offusca,
per l’aere nero e per la nebbia folta
fa sostegno quello dell’udito, che ferma il Maestro in ascolto.
Anche qui la verità drammatica corrisponde alla concezione astratta. Anche qui realtà, moralità e allegoria «insieme vanno», tragiche o meno, verso gli approdi ultimi dell’arte.
Tutti gli elementi drammatici della poesia dantesca sono qui presenti: azione, parola e descrizione paurosa delle pene; immaginazione, talora brutale, talora romanzesca, secondo il gusto del Medio Evo, con terrifiche presenze e con atteggiamenti talora grotteschi, talora angosciosi di dannati.
La materia con che Dante scolpisce le sue figurazioni è vibrante e plastica. E il movimento drammatico dell’episodio si articola qui non solo sulla plasticità delle singole figurazioni, la città di Dite, le Furie, il Messo, i sepolcri sparsi per la buia campagna, o sul singolare rilievo degli atteggiamenti psicologici, la «viltà» di Dante, la fermezza che Virgilio prima si impone e poi si conquista, bensì anche sull’intrecciarsi dell'uno e dell’altro motivo in un dramma sacro che al Vossler parve diviso in quattro tempi — sconfitta di Dante, sconfitta di Virgilio, le Furie, il Messo — ma che in realtà si sviluppa con la serrata concretezza di un dialogo, battuta con battuta.
Ed è inoltre questa singolare naturalezza di atteggiamenti e di sviluppi che si apprende e si fa corpo vivo con i motivi reali e allegorici, sino a riscattarli da ogni opaca astrattezza razionalistica.
Proprio qui possiamo ripetere che ogni rappresentazione del poeta è (come dice il De Sanctis) conformata «al concetto morale che preesiste nella sua mente e di cui diviene immagine. Ella è un luogo destinato a premio o a pena, ed il suo significato traluce visibilmente di sotto al particolare; l’arte vi è trasparente; il velo si è assottigliato. La natura dunque non è più colta nel suo immediato, nella irriflessa visione; vi è una logica prestabilita e visibile, secondo la quale ella è ordinata in conformità del mondo morale».
Quindi non azione «che gradatamente si snodi fra con- trasti, ma quadri staccati, ciascuno compiuto per sè; e come un personaggio ti desta interesse, ed eccotelo sparire davanti per dar luogo a un altro, rapida fantasmagoria, dove succedono paesi a paesi, figure a figure... E l’uomo vi è nudo».
Nella teatralità delle scene Dante campeggia... Creatore, attore, spettatore, guida, maestro. Ma sul piano del- l’arte sempre vittorioso.
Qui abbiamo dunque le Furie. I richiami all'Eneide, alle Metamorfosi, alla Tebaide, alla Farsalia sono chiari.
Che cosa simboleggiano queste Furie?
Il male in genere? Oppure, come vuole so Scartazzini, l’impietramento della coscienza? O l’accecamento e la bestialità, come crede il Pascoli? O la malizia, la frode, il tradimento, la disperazione, il tormento del rimorso? O il piacere dei sensi? Forse rappresentano tutto questo.
Le Erinni, Aletto, Tisifone e Megera: sono i nomi che compaiono in Virgilio. Originariamente le Erinni (antichissima creazione della religiosa fantasia dei greci) personificavano la nuvola tempestosa che procede nella nebbia oscura. Queste Furie si addicono al tartareo regno, di cui richiamano l’oscurità o gli abissi, dove sempre, secondo Virgilio, cacciano e precipitano i condannati. Il pensiero va alle «tede delle Furie anguicrinite» di pariniana memoria. E nel terrore della scena risuona la voce:
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto!».
Benvenuto da Imola trae motivo dalle Furie per soffermarsi sulle caratteristiche della loro irosa femminilità, in cui vede l’eccesso dei sentimenti tutto proprio della donna. La donna (sempre secondo l’imolese) se odia, odia immensamente e non vi è ira che superi la sua. «Sicut foemina infuriatur et indemoniatur et irascitur...». Ma è osservazione che risente della satira antifemminista tanto diffusa nel Medio Evo. Con ben più concreta analisi al contrario il Grabher ha messo in rilievo lo straordinario valore scenografico di questa apparizione, da quel levarsi improvviso sull’alta torre a la cima rovente, con quel colore di sangue che contrasta con il colore verdissimo delle idre da cui sono cinte, e infine con quelle loro imprecazioni sonanti: da un motivo plastico ad uno coloristico, ad uno musicale. Una sinfonia di ottoni nella orchestratura piena di questo canto. E non sarà ragione di meraviglia pensare che proprio il colorismo, il plasticismo, la musicalità sonante di questa apparizione, in quanto ha di orrido e di barocco, di romanticamente infernale, abbia potuto ispirare suggestive rappresentazioni nell’iconografia dantesca, e particolarmente abbia colpito la fantasia di un artista contemporaneo come Campigli: il che può essere non soltanto una indicazione utile sul gusto del pittore, ma anche un suggerimento alla valutazione artistica di questa raffigurazione dantesca possente e barocca nel medesimo tempo. Certo tocchiamo qui un punto delicato di quest’arte, che si ricollega d’altra parte ai dubbi della critica più frequenti, dopo il saggio del Croce, e dopo che il Vossler aveva, un poco frettolosamente, definito il mondo infernale una «ganz papierne schenerie», uno scenario di cartapesta. Dante certo, nell’intraprendere il sacro viaggio, ha dovuto affrontare l’ostacolo sì del cammino sì de la pietate: ma l’ostacolo che più ha impegnato la sua potenza d’artista è proprio nella rappresentazione dell’orrido infernale e dell’ineffabile paradisiaco. Quanto al Paradiso, già si è dimostrato come quell’ineffabile sia stato reso attraverso la ricchezza dei sentimenti e l’artificio tecnico della visione nell’uso della luce, della musica, delle prospettive spaziali, delle similitudini, né qui il problema tocca il nostro argomento; quanto all’Inferno, ha saputo rendere negli scenari di stupenda suggestione il mistero di una natura deforme e, attraverso i suggerimenti giuntigli dalla letteratura classica e cristiana, nei custodi e nei mostri infernali ha saputo oggettivare, conforme al canone più vivo della sua poetica, tutta la sua ripugnanza verso il male: ma ora questa ripugnanza ha cristallizzato nelle forme statuarie delle figure demoniache. E qui per l'appunto le Furie, di là dal loro discusso ma sostanzialmente unitario significato allegorico, assumono quella concreta visualizzazione di forme, di colori, di suoni, per cui arricchiscono con dovizia di particolari il generico sfondo pauroso di quella città di Dite davanti alla quale Dante e Virgilio si erano arrestati in un variamente dissimulato ma sempre angoscioso timore. Ora che il male invece assume una sua materializzazione più concreta, il pericolo si fa più forte, ma anche maggiori sono le possibilità di una decisa reazione. Con l’apparizione delle Furie siamo al momento culminante del canto, e già si presenta il motivo della sua seconda parte, che segnerà la definitiva vittoria, sia pure per l’aiuto del cielo, di Virgilio e del pellegrino poeta.
È questo il naturale sviluppo della situazione. Virgilio, davanti alla feroce minaccia delle Furie («Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto!») invita Dante a volgersi indietro, a tener «lo viso chiuso», coprendogli egli stesso gli occhi con le mani.
chè se il Gorgòn si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso.
Dante è sull’orlo dell’abisso. Ma ecco che viene
su per le torbid’onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per che tremavan ambedue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
È una terribile bufera che ci richiama quella che fece tremare «l’alta valle feda», accompagnandosi al terremoto avvenuto nel momento della morte di Cristo.
È il segno dell’ira divina che si oppone alla prepotenza diabolica; ma è anche uno spavento che prelude alla protezione e alla salvezza, così come è avvenuto al passaggio dell’Acheronte.
L’accento della poesia esprime tutta la rapida grandiosità della descrizione.
Virgilio toglie le mani dagli occhi di Dante perché possa guardare. E Dante, attraverso la foschia che pesa sulla palude, vede gli spiriti degli iracondi, che, all’apparire del messo celeste, si dileguano, come le rane all’apparire della «nimica biscia». Ma per vederli ha dovuto drizzare il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo.
Ha dovuto cioè dare ai suoi occhi il massimo della potenza visiva; fare lo sforzo che si richiede per penetrare nel valore reale delle cose difficili; così come bisogna aguzzare l’intelletto per la penetrazione della sapienza.
A proposito della quale sapienza, acquisita attraverso l'intelletto e, qui nel nostro caso, attraverso l’arte di Dante, mi sia concesso soffermarmi sul concetto che il Medio Evo aveva del bello artistico che non era affatto fine a se stesso, ma faceva parte integrante di una funzione, di una finalità, legate all’oggetto stesso dell’arte.
C'era un finalismo morale dell’arte, insito nella qualità estetica. Anagogico era il termine ultimo dell’arte. Dalla bellezza reale si passava alla bellezza allegorica, per cui avveniva quello che Dante afferma nel Convivio, essere cioè il senso allegorico forma del senso letterale.
«Possiamo dire» nota Rosario Assunto in uno scritto sull'argomento «che le qualità dell’opera d’arte (sempre adoperando questa parola nel senso moderno, ignoto al vocabolario medioevale) consisteva nella unità organica della contemplabilità della materia, della contemplabilità del sopramondo. L’opera d’arte dunque era più o meno bella secondo che questi vari aspetti della sua contemplabilità oggettiva risultassero fra di loro coerenti nella manifattura dell’oggetto che essi dovevano qualificare. Ma per intendere bene questa coerenza in cui consisteva la bellezza speciale dell’arte, dobbiamo metterla in relazione con la bellezza universale di cui essa è solo una parte».
Aveva detto precedentemente Dante:
O voi ch’avete li intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
Ebbene, soffermiamoci su questo motivo. E domandandoci anzitutto: È possibile mirarla questa dottrina?... O non è invece talvolta tanto astrusa da lasciarci perplessi?...
È certo, anzitutto, che questi invocati intelletti devono essere sani. E nel Convivio Dante stesso scrive: «È da sapere che lo vostro intelletto si può dire sano, quando per malizia d’animo o di corpo impedito non è nella sua operazione, che è conoscere quello, che le cose sono».
Ma sembra anche che il poeta si compiaccia di nascondere la dottrina sotto i versi strani, perché, una volta scoperta anche con l’aiuto del nostro intelletto, questa dottrina possa riuscire più gradita, proprio in quanto da noi conquistata.
Nella scoperta nostra, la dottrina sembra espandersi ancor più nei regni dell’anima, per mezzo di una rafforzata ascensione nel pensiero, nella convinzione della vita morale, nelle ardue verità della scienza e della filosofia.
Anche l’allegoria, dunque, quell’allegoria che al Croce sembra talora elemento impoetico, il più delle volte costituisce autentica poesia; che, secondo il Chimenz, ci trasporta «dalla contemplazione dell’oggetto o del sentimento concretamente espressi in una sfera di visioni e di sentimenti inespressi, da un mondo sensibile in un mondo di mistero».
L’oscurità di Dante non offende e la fatica dell’interpretazione non pesa.
«Bisogna pur credere» sottolinea il Pascoli «che sì con l’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e la sottilità degli argomenti Dante si proponesse più di essere alto che chiaro, secreto più che accessibile, autorevole più che persuasivo...».
Ciò in parte può essere vero, ma non è del tutto convincente.
Anche perché tra i lettori di Dante vi sono quelli «in piccioletta barca»; e sia pure che il Poeta saviamente li consigli a non mettersi in pelago, che è detto tuttavia per il Paradiso. Ma è logico pensare che anche l’Inferno e il Purgatorio non fossero, secondo lui, immuni da oscurità, proprio per quell’alta e profonda unità che caratterizza il divino Poeta.
Dicevo che la fatica della interpretazione non pesa. Forse anche perché da sette secoli ormai questo lavoro di interpretazione si sbizzarrisce, e in nome della libertà dà a molti la gioia di scoperte sempre nuove.
Può essere ad esempio significativo ricordare quali e quanti significati si siano attribuiti a Medusa: il Lana vi scorgeva il simbolo dell’eresia, e tale interpretazione accettarono il Filalete, il Blanc, e il Galanti; l’Ottimo, l’Anonimo fiorentino e il Buti, il simbolo della dimenticanza del male, che il penitente deve troncare nettamente, così come Perseo, l’uomo savio, troncò il capo della Gorgone; Jacopo di Dante il simbolo dell’operare contro ragione, il Boccaccio della libidine, e fu tesi cara ai vari commentatori moralisti dell'Ottocento, dal Costa al Bianchi, dal Fraticelli al Tommaseo, dal Poletto al Fornaciari; per lo Scartazzini è il simbolo del dubbio, per altri commentatori trecentisti, il Bambagliuoli, Pietro di Dante, Benvenuto, il simbolo del terrore col quale le Furie, simbolo dei rimorsi, cercano di respingere il poeta. Sarebbe assai facile illustrare come ognuna di queste interpretazioni tenga un poco del carattere e dell’affetto del commentatore, e poco si attenga al testo dantesco: non possiamo pensare all’eresia, che nella città di Dite ha un suo posto, direi, marginale, ed è tesi suggerita al commentatore antico dal suo intento di una oculata difesa di Dante; non alla dimenticanza, che è astruseria accolta dall’interpretazione di gusto medioevale data da Fabio Fulgenzio al mito di Medusa; non all’irrazionalismo, che avrebbe trovato in Virgilio una ben più energica e non così passiva contrapposizione; non alla libidine, che è peccato punito tra gli incontinenti e che Dante ormai ha superato; non, infine, al dubbio, che è sottigliezza teologica quale la nuda e umana essenzialità di Dante avrebbe difficilmente accolto e mai avrebbe sottilineato in così chiare note come in questi suoi versi. Ben più convincente mi sembra l’opinione del Pietrobono, accolta anche dallo Steiner. Si può più facilmente convenire, infatti, che le Furie rappresentino le tre male disposizioni contenute nella città di Dite: violenza, frode, tradimento, col conseguente rimorso dei peccati che a quelle disposizioni si riferiscono.
Ora «è questo appunto», nota lo Steiner, «che i demoni vogliono: destare nel cuore di Dante il rimorso vano che lo spaventi e gli procacci quella che San Paolo chiama saeculi tristitia, in quanto induce l’animo dell’uomo alla disperazione, cioè alla sfiducia in Dio, che è peccato contro lo Spirito Santo». «Le Furie, i rimorsi, condurrebbero Dante a guardare la testa di Medusa, cioè ad impietrarsi nello stato della disperazione. Virgilio, la ragione sorretta dalla fede, vuole che Dante guardi le Erinni, cioè che ascolti la voce del rimorso, ma non guardi la Gorgone, cioè non vuole che cada per questo nella indifferenza del disperato, che poi ricade nuovamente, secondo la sentenza di San Paolo, nella vita sensuale, senza riscattarsi mai più».
Ma, a liberare Dante dalle Furie, viene, come abbiamo visto, uno «da ciel messo». Viene la potenza del cielo, a cui basta una verghetta ad aprire la porta della città di Dite. Riguardo a questo Messo, c'è chi pensa, come per esempio il Caetani, a Enea, o come il Fornaciari e il Federzoni, addirittura a Cristo stesso. Pietro di Dante e Benvenuto vi vogliono vedere Mercurio per influsso di alcuni versi di Stazio in cui il dio si dice essere stato inviato a introdurre nel mondo infernale l’ombra di Laio: ma si tratta di una malintesa fedeltà al mito classico. Quanto a Cristo, scrisse acutamente il Porena: «che Gesù ridiscenda all'Inferno per Dante, e che Dante lo chiami messo del cielo, sono due assurdi di diverso genere che bastano a escludere questa supposizione».
L’interpretazione del Caetani poi si identifica in sostanza con quella del Rossetti, il quale vide nell’episodio un simbolo dell’esilio di Dante: a lui i Fiorentini chiusero le porte, e solo Arrigo con la sua venuta gliele poteva aprire. Ma si tratta di quelle interpretazioni rigorosamente politiche che troppo tolgono di respiro al vasto impegno che Dante sente verso la vita, e che non è soltanto di natura politica, e che la politica subordina a ben più universali motivi di natura morale e spirituale. A vedervi Enea, a dire il vero, non sono però soltanto questi autori; ve n'è uno molto vicino a noi, perchè è stato impegnato con noi in queste Lecturae Dantis, cioè Giuseppe Toffanin, che nel commento del canto VIII del’Inferno ha sostenuto la stessa tesi. E l’ha sostenuta conl tanta convinzione che non è cosa facile dargli torto.
Certo che il vedervi l’Angelo è la più comune e più facile, e direi anche, la più naturale interpretazione, sostenuta d’altra parte dai più antichi commentatori, il Lana, l’Ottimo,cil Buti, anche se il primo «Angel di Dio» lo vedremo con la massima sicurezza nel Purgatorio, all’apparire appunto dell’Angelo nocchiero. E non può fare molto abbaglio il fatto che in questa occasione Dante dica:
omai vedrai di sì fatti officiali
perché quell’omai probabilmente ha il significato: di qui in avanti vedrai solo di questi angeli. Ufficiali, cioè ministri di natura angelica.
Il Messo celeste appare «pien di disdegno»:
«O cacciati del ciel, gente dispetta,»
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?»
L’ira non si addice agli angeli, può pensare qualcuno. Io aggiungerei che non si addice neanche al pius Enea. Ma c’è l’ira santa; che davanti all’alterigia dei demoni l’angelo irato o chi per esso trasforma in una logica e alta e sublime espressione di giustizia.
Del resto nell’Inferno è logico che vi sia lo stato perenne di cruccio. Quindi la poesia dell’Inferno è spesso tempestosa ed epica. Lo dicono anche le invettive che fanno sussultare le anime. Invettive che però ricorrono anche nel Purgatorio e nel Paradiso, e sono messe in bocca ai personaggi più significativi, e anche ai Santi.
Vi passano naturalmente per la voce di Dante, che le ordina e le colloca in funzione dei suoi sentimenti, morali o politici, non scevri da risentimenti. Sono, in generale, invettive irate, perché mosse il più delle volte da nobile sdegno; ma sono anche irose o stizzose o infiammate o violente. In bocca ai demoni o ai dannati poi sono ringhiose.
La poesia le vigila sempre però. Poiché è sempre la poesia che dà vita e movimento alla materia del dramma infernale. Poesia realistica che dalla forza del male coglie la visione più spaventosa, non domata, anzi accresciuta dai tormenti.
Nell’Inferno, il dannato è connaturato alla sua pena, che ha un carattere meramente terreno. Nell’Inferno c’è spesso la deturpazione della natura, ma fatta in modo da ricavarne più espressione, più fantasia, più forza morale, più arte, come già abbiamo avuto modo di osservare.
Dante porta nell’Inferno i moti violenti e perturbati della natura, sfruttandone o frantumandone gli elementi più adatti a renderne viva e vitale la tragicità. Ne nasce anche la poesia dell’orrore.
Il brutto diventa poesia. Lo afferma anche il De Sanctis: «Il brutto può divenire oggetto di poesia per rispetto all’idea che vuole rappresentare il poeta».
Si giustificano così, come abbiamo visto, quelle paurose ipostatizzazioni del rimorso e della pervicacia nel peccato che sono le Furie e la Gorgone. Ma queste plastiche e mosse personificazioni del male si stagliano pur sempre sulla suggestione viva di uno sfondo: ed ora lo sfondo muta. Non è più la rosseggiante città di Dite, è la nera palude stigia che viene percossa quasi da un turbine impetuoso, come da un turbine primaverile: e le anime si fuggono e si nascondono, come un disperso fuggire di ranocchi davanti alla biscia nemica. Due paragoni concreti e realistici, in cui il realismo stesso tuttavia ha un suo valore pregnante, perché rende in forma visiva la volgarità di quelle anime e la potenza del Messo divino: quelle rane che fuggono «sinchè alla terra ciascuna si abbica», e quel messo che rimuove con ribrezzo l’aere grasso, ripetono con modulazione diversa la sdegnosa condanna dell’episodio di Filippo Argenti, e insieme contrastano a rilievo, con un dosatissimo giuoco angolare di lucie ombre, con il senso di travolgente potenza di quel vento che
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
È vero, il dramma dell’Inferno è il dramma di Dante; ma è dramma vissuto, accentrato ed estrinsecato in azione, narrata e rappresentata. È un dramma che vive e sopravvive nelle parole, nelle figurazioni che contengono ed esprimono, incisivamente, il pensiero di Dante.
Così nella galleria delle pitture dantesche questo ambiente che inquadra l’ingresso della città di Dite ha il suo fascino misterioso e terribile, che comincia a svilupparsi nella prima visione delle arche degli eretici.
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepuleri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogni parte,
salvo che ’l modo v'era più amaro;
Come sapete il poeta allude alle molte arche funerarie che rendevano, ai suoi tempi, vario il terreno ad Arles in Provenza ed a Pola.
È inutile riportare qui la discussione se Dante sia stato o no in quei luoghi, anche se nel Convivio afferma di essere andato «per le parti quasi tutte alle quali questa lingua (l’italiano) si stende, peregrino, quasi mendicando» e di essersi «quasi a tutti gli Italici appresentato» e quindi forse anche a Pola, dato che della parlata istriana si fa cenno nel De vulgari eloquentia.
Credo però doveroso rendere omaggio a un eminente studioso istriano, da non molto tempo scomparso, Camillo De Franceschi, il quale, in un pregevole lavoro, poco conosciuto, su Dante e Pola, sostiene la tesi che Dante abbia fatto un sia pur breve soggiorno in quella città, e forse anche ad Arles. «Non si descrive — nota il De Franceschi — con frase incisiva e non si fa oggetto di artistica similitudine ciò che non passò, immagine reale e viva, dinanzi agli occhi.... La singolarità della pena dei peccatori contro Dio, bruciati entro innumeri avelli marmorei in forma di cassoni, sparsi per un'immensa landa desolata, non poteva sorgere nella mente del Poeta che dall’aspetto di un simile caratteristico campo di morte, come si presentava ad Arles ed a Pola, le due città da lui espressamente nominate... Si potrebbe sofisticare che all’ispirazione del Poeta bastasse la vista di uno solo dei cimiteri da lui nominati; rimane però sempre incerto quale dei due fosse stato da lui osservato. Giacché anche per Arles rimane il dubbio della visita dell’Alighieri, basata, come per Pola, su congetture, quantunque connessa col supposto suo viaggio a Parigi per la via della Provenza, che i moderni critici tornano ad ammettere per vero, dando ragione al Villani e al Boccaccio, che ne parlano con tanta sicurezza.
«Va però notato che la grande necropoli di Arles si trova rammentata più volte nella letteratura medioevale.... Invece della necropoli di Pola non è fatta menzione in nessun libro a noi noto anteriore a Dante; il quale fu il primo a ricordarla.... Basterebbe questa sola considerazione ad ammettere quasi certa la presenza di Dante a Pola, come ad Arles». Della stessa opinione è anche Francesco Semi che si basa su pregevoli documenti riguardanti gli esuli toscani in Istria, di cui altri studiosi giuliani si sono occupati ampiamente.
Comunque, con questa similitudine, Dante vuol dare il senso di una realtà la quale però è nella sua descrizione ben più squallida ed orrenda
chè tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.
L’eresia è un peccato non tanto contro la morale quanto contro la fede; quindi Dante lo esclude dai cerchi degli incontinenti (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi) e lo distingue d’altra parte dalla violenza che vien dopo. Lo punisce nella città di Dite, ma a sè stante.
Questi eresiarchi nelle tombe sono i morti nel regno dei morti. Ma, essendo morti che vivono e soffrono (come tutti i dannati del resto), il loro soffrire si distingue per un senso di sconcertante tristezza. Qui c’è qualche cosa di più vivo e di più vibrato di quello che può essere l’atteggiamento dei «morti vivi» precedenti, cioè degli ignavi.
Per questi eretici,
che l’anima col corpo morta fanno,
come si dirà nel canto seguente, non basta più il
non ti curar di lor, ma guarda e passa,
detto dei primi. Qui siamo ormai nel basso Inferno; siamo in piena spaventosa progressione di colpa e di pena, e si richiede una sempre più valida attenzione, perché questa pena acquista sempre più di dolore e di angoscia, man mano che si discende.
Ma il compito di affrontare la città di Dite, che darà corso a un nuovo ciclo di letture dantesche, sarà svolto da altri studiosi, di me più autorevoli. Io vorrei solo soffermarmi, a mo’ di conclusione del mio dire, sui due versi che hanno acquistato un inconfondibile diritto di popolarità:
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna.
Mi pare un dovere sottolinearli.
Sì, signori: sono i confini d’Italia, portativi da Ottaviano Augusto, difesi probabilmente dalle fortificazioni di Costantino, riconosciuti da Plinio e da Paolo Orosio, dimostrati nei secoli successivi dalla dipendenza ecclesiastica e civile del versamento liburnico del Monte Maggiore sopra Fiume, dalla chiesa polese, che la stessa Austria fino al 1787 riconobbe territorialmente distaccata dalla sua Croazia.
Mi pare un dovere sottolinearli, come perennemente ricorrenti nel nostro spirito. Ricorrenti specialmente ora, in chiave di malinconia, in questa nostra Italia alla quale è stato chiesto un doloroso sacrificio; in questa nostra Italia da Dante affermata solennemente nei suoi limiti naturali, da Dante severamente e spietatamente richiamata al dovere di «donna di province». Né spiaccia ch'io ricordi qui la coscienza che Dante ebbe della Patria italiana, coscienza che si accompagnò a sette secoli di storia, e che anche da noi, e da voi soprattutto giovani che mi ascoltate, va difesa, come fu difesa con toccante e geloso amore nell’ultima gloriosa guerra del nostro Risorgimento, quando, per raggiungere la storica mèta del Quarnaro, il sangue di Giosuè Borsi ingemmò in una tasca segreta la piccola Divina Commedia, che anche nell’ultimo e fatale assalto egli volle portare con sè.
E difesa, intendo, non con lo sciovinismo nazionalistico delle guerre aggressive, ma con la costante, affettuosa presenza di certe care memorie; con una più fedele e interessata frequenza di rapporti; con la stessa saggezza dei nostri accordi internazionali.
Se ritorniamo alla chiusa del nostro canto, dobbiamo confessare che ancora una volta, e con un pur fuggevole accenno, l’arte dantesca ci si dimostra creata per piegarci l’anima sui palpiti profondi della vita.