Dati bibliografici
Autore: Zygmunt G. Baranski
Tratto da: Lectura Dantis Bononiensis. II
Editore: Bononia University Press, Bologna
Anno: 2012
Pagine: 101-126
Suggellando il nono dell'Inferno con l'epiteto “problematico”, non sto pensando in particolare, come ci si potrebbe ragionevolmente aspettare, alle varie cruces che lo contraddistinguono — dai valori simbolici da assegnare ai monstra classici all’identità del messo celeste e dalla portata «de li versi strani» (v. 63) alle implicazioni della svolta «a la man destra» (v. 132) —, cruces su cui gli esegeti del canto, dal Trecento a oggi, hanno versato i soliti fiumi di inchiostro. “Micro” problemi interpretativi di questo tipo caratterizzano più o meno ogni canto della Commedia. Come categoria, essi si annoverano tra gli elementi di base della retorica profetico-morale che marca profondamente i rapporti che Dante instaura tra il «sacrato poema» (Par. XXIII, 62) e i suoi lettori. In fondo, le cruces servono per coinvolgerci nel testo. Spronano il lettore ad interpretare, a misurarsi direttamente col poema, ad esercitare gli «’ntelletti sani» (v. 60): prima per capire il messaggio celeste, per quanto «buio» (Purg. XXXIII, 46), di cui il poeta si dice «eletto» (Inf. II, 21) portavoce, e poi per applicare alle proprie vite i dettami divini che si apprendono dalla lettura. Siamo cioè nel pieno del pensiero dantesco sui legami tra Iddio e l'umanità, sul dipanarsi della Provvidenza, sulla sua propria provvidenziale responsabilità di assicurare che l’uomo segua la vox Dei e, quindi, sulla natura eccezionale della Commedia quale testo salvifico — vale a dire, su tutto ciò che, secondo l’Alighieri, è «da ciel messo» (v. 85). Come si sa, queste sono le questioni che nutrono e largamente sostengono il grave impegno morale e artistico di Dante, e che perciò si possono riconoscere un po’ ovunque nella Commedia. Lungo il corso della presente lectura, conto di tornare su di esse con regolarità, poiché, per la prima volta nel poema, abbiamo a che fare con un canto deciso ad esaminarle nel loro insieme e in maniera approfondita, oltre che con vigore poetico e con risoluta coerenza intellettuale. Dunque, nell’etichettare Inferzo IX come “problematico”, mi riferisco principalmente al fatto che, in esso, Dante solleva e vaglia problemi di largo respiro che toccano le strutture portanti, ideologiche e letterarie, della Commedia. Inoltre, e più specificamente, egli chiarisce le ragioni della loro imprescindibile importanza e ci istruisce su come meglio prenderli in considerazione. Dato che, nello sviluppo del canto, questa medesima serie di problemi ha la sua origine nei rapporti tra Dante, personaggio e poeta, e Dio — da un punto di vista esemplare questo è l'aspetto cruciale del nono dell'Inferno -, il testo ci offre anche esempi concreti di come comportarci nei riguardi della volontà divina, «quella voglia / a cui non puote il fin mai esser mozzo» (vv. 95-96). C'è poco da controbbattere, Inferno IX vorrebbe insegnarci come vivere da buoni cristiani.
Per adempiere agli obblighi verso Iddio, secondo la sententia scritturale «Videmus nunc per speculum in aenigmitate» (I Cor. XIII 12), è necessario per il credente percepire, cioè decifrare correttamente, quanto di Sé Iddio lascia trasparire. In Inferno IX, il precetto trova il suo correlativo nel pellegrino il quale, per comprendere giustamente l'arrivo miracoloso e l'identità sacra di «tal che per lui ne fia la terra aperta» (Inf. VIII, 130), scruta «ove quel fummo è più acerbo» (v. 75). Dunque, l'ammasso impressionante di cruces nella prima parte di Inferno IX, oltre ai risvolti specifici, locali e macrotestuali, offre un indizio immediato dell’interesse del canto per i modi con cui, di fronte a «question» (v. 19) da risolvere, si può arrivare a buoni accorgimenti (v. 85), evitando così i pericoli di «peggior sentenzie» (v. 15). L'attenzione del nono dell’Inferno per questioni ermeneutiche è poi resa esplicita dal famoso invito a interpretare rettamente — invito, non a caso, strategicamente collocato al centro stesso del canto:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
(Inf. IX, 61-63)
D'altronde, non è questa l’unica istanza ove Dante, nel descrivere gli inquietanti eventi che prendono piede dinnanzi e poi aldilà delle mura di Dite, fa appello all'intelligenza critica del suo «lettor», vale a dire, secondo l’accezione medievale di lector, del suo commentator:
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
(Inf. VIII, 94-96)
È ovvio che, pressappoco dall’inizio del contrasto coi ministri del male, che comincia una decina di terzine prima al verso 65 di Inferno VIII, il poeta insiste sulla centralità dell’esegesi, e perciò dell'intelletto umano, nel momento dello scontro drammatico, in Inferno VIII e IX, tra Iddio e le forze infernale e tra la ragione umana e il male, e, in Inferno X e XI, tra modi contrastanti di pensare. Motivo ulteriormente messo in evidenza dai versi 94-96, ovvero dal Primo appello al lettore nella Commedia, che a partire dall’imperativo «Pensa» indirizzato a noi, la audience per il cui ben il poeta sta scrivendo, conferma immediatamente il bisogno assoluto di usare la ragione correttamente. A prima vita può apparire che il poeta voglia «coinvolgere il lettore, perché tema e si sgomenti con lui». Eppure, non mi pare che questo sia l’effettivo scopo dell’appello. Lo «sconforto» del pellegrino al «suon de le parole maledette», per quanto verosimile e comprensibile, non è semplicemente una reazione emotiva. È qualcosa di molto più grave e pericoloso. Esso indica una seria carenza intellettuale - da questa prospettiva, il verbo credere (v. 96) svolge un ruolo determinante: «ché non credetti ritornarci mai». In particolare, il contegno del pellegrino mette in evidenza la sua incapacità di riflettere appropriatamente su quanto ha già appreso durante le prime ore del percorso ultraterreno. La sua, quindi, è una reazione profondamente irrazionale, poiché rivela che egli si è completamente dimenticato che il suo è un «fatale andare» (Inf. V, 22) — verità riaffermata poco prima da Virgilio nel rivolgersi a Flegiàs (Inf. VIII, 19-21), e che il «dolce padre» (v. 110) ribadisce subito dopo con insistenza per rassicurare il “figlio” demoralizzato (vv. 104-08 e 124-30). L'irragionevolezza del comportamento del viator è resa vividamente esplicita dal momento in cui egli dichiara di voler abbandonare il viaggio e tornarsene indietro, andando così, come i diavoli, contro la volontà divina: «e se ’l passar più oltre ci è negato, / ritroviam l’orme nostre insieme ratto» (vv. 101-02). È impensabile che Dante voglia che noi cadessimo nello stesso errore da lui commesso. Piuttosto, egli ci sprona a pensare e non a credere illogicamente, e quindi a valutare adeguatamente il suo modo di agire, riconoscendo così la sua gravosa manchevolezza.
L'invito a pensare rappresenta soltanto il primo caso di tutta una serie di istanze in cui, nel corso dell’episodio, e specialmente in Inferno IX, Dante sottolinea l’impellente bisogno di «ben conoscere» (Inf. IX, 43) le cose, particolarmente se si vuole arrivare alla verità, e quindi agire correttamente. Di fatto, nell’elaborare il canto, il poeta evidenzia strutturalmente tale esigenza e la rende narrativamente concreta in più punti. Glossando il comportamento irrazionale del viator e spronandoci a riflettere sulla sua condotta, ad esempio, Dante non perde tempo, in apertura di Inferno IX, a sottolineare l’insufficienza intellettuale ed ermeneutica del suo protagonista:
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne
(Inf. IX, 13-15)
La frase trarre sentenzia è tecnica e traduce il latino sententiam trahere, sintagma usato per riferirsi al lavoro interpretativo intrapreso dal commentatore. Come si vedrà, Inferno IX drammatizza l'evoluzione delle capacità esegetiche dell’agers — sviluppo esemplare, sia ex dono che ex malo, di rilevanza fondamentale per ciascun lector, le cui responsabilità intellettuali ed ermeneutiche, tanto nella vita quanto nel valutare la Commedia, sono direttamente e memorabilmente chiamate in causa:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
(Inf. IX, 61-63)
Dante conferma immediatamente che l'appello non ha funzioni semplicemente esornative, ma che esso impone a noi, gli interpellati, responsabilità reali e immediate. Dunque, è dirimente che la terzina racchiuda in sé un problema interpretativo preliminare da risolvere prima che si possa eseguire l’esortazione del poeta di «mirare la dottrina». Il problema ovviamente concerne il valore da assegnare ai misteriosi «versi strani» con cui l’invito si chiude strategicamente. Come al solito, glossando la frase, i critici si sono piuttosto irrigiditi nel sostenere le soluzioni preferite e nel rifiutare quelle da loro giudicate insoddisfacenti. Le interpretazioni principali sono tre: i «versi strani» si riferiscono a ciò che è già accaduto (le furie, Medusa), a ciò che accadrà (il messo) e, forse un po’ meglio, tanto ai personaggi pagani quanto a quello cristiano, «perché si tratta di un unico avvenimento allegorico». Anche se ho or ora suggerito che, tra le tre soluzioni, la terza mi pare preferibile, la verità è che non esistono nel testo prove determinanti in favore di nessuna delle tre proposte. Secondo me, questo è l'aspetto chiave dei «versi strani», la sua programmatica indeterminatezza. Quindi, se mi è permessa la presunzione, l’esegesi “giusta” della frase è che una sua interpretazione univoca non è possibile. Nel Medioevo, come anche per noi oggi, questa è una lezione generale di enorme importanza per chiunque volesse esercitare criticamente la ragione. L'idea che un signum potesse avere significati diversi era nozione profondamente radicata nella teoria e nella pratica esegetica classica e cristiana. Ciò non voleva dire, come accade con certe tendenze ermeneutiche odierne, che il lettore avesse libertà assoluta d’interpretazione. Tutt'altro. L'esegeta di testi sacri doveva restare entro i confini della fede; mentre quello di testi secolari entro i limiti della tradizione culturale e etica e della coerenza testuale. Al tempo stesso, la ricchezza connotativa di un signum additava sia la complessità dell’atto interpretativo sia le responsabilità che tale situazione imponeva a ogni interprete, il quale doveva trovare il proprio percorso esegetico tra le diverse possibilità semantiche che un testo gli palesava. Attirando la nostra attenzione sui «versi strani», Dante non solo ci invita a interpretare, ma, come accade lungo tutto il canto, ci offre anche una guida all’interpretazione. L’inafferrabilità dei «versi strani», cioè “inconsueti”, e quindi “nuovi”, “originali”, ha poi anche tutta una serie di riverberi sulla Commedia che vanno ben oltre i limiti del nostro canto. Per quanto riguarda Inferno IX, ciascun lector deve decidere su quali aspetti del canto egli preferisca concentrarsi. Ciò che è importante narrativi in termini allegorico-morali non sono i versi in sé — anche se in termini prettamente narrativi abbiamo certamente a che fare con «un unico avvenimento» — ma arrivare a «dottrine» eticamente e spiritualmente opportune. Da una prospettiva più ampia, però, la frase è applicabile al poema intero. «Versi strani» è definizione più che appropriata per la Commedia. Come Durling e Martinez hanno giustamente notato, «[t]he entire episode focuses sharply on the nature of Dante poem as a text». Dunque, il poeta ci invita non soltanto a trarre le appropriate lezioni morali e religiose nascoste dietro la lictera della sua poesia — lezioni utilissime per la nostra salvezza —, ma anche a considerare il carattere letterario del suo poema — testo, come la frase «versi strani» immediatamente suggerisce, riccamente connotato e profondamente originale, e, quindi, signum più che degno di interpretazione. Inferno IX, il quale, come si è già accennato, funziona da microcosmo del «sacrato poema», reitera di volta in volta che vivere bene significa anche leggere bene.
Per ciò che riguarda la giusta operazione delle nostre capacità critiche e razionali il termine chiave dell’appello è ovviamente l’epiteto sano. Dante ne offre una spiegazione “filosofica” nel Convivio:
Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir sano e infermo: e dico “intelletto” per la nobile parte dell’anima nostra che con uno vocabulo “mente” si può chiamare. Sano dire si può quando per malizia d’animo e do corpo impedito non è nella sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì come vuole Aristotile nel terzo dell’Anima. (Conv. IV xv 11)
Il pellegrino che perde speranza nell’esito felice del suo viaggio e che fraintende il discorso di Virgilio rappresenta un esempio classico di «mente» afflitta da «malizia d'animo»; e, di nuovo, come per Inferno VIII, il lettore «sano» è colui che, avendo pesato e riconosciuto gli errori di Dante-personaggio, si distingue volutamente dai modi “insani” del viator. Sanus, poi, conformemente al contesto marcatamente “celeste” (vv. 85 e 91) di Inferno IX — troppo spesso, concentrandoci sugli abitanti infernali, ci dimentichiamo che il nostro è tra i canti della prima cantica in cui la potenza divina è più enfatizzata —, è termine squisitamente scritturale, e specialmente paolino. L'aggettivo, collegato a doctrina e a sermones, è posto in opposizione, come in Inferno IX, a comportamenti peccaminosi e irrazionali: «sciens hoc quia iusto lex non est posita, sed iniustis, et non subditis, impiis, et peccatoribus, sceleratis, et contaminatis, patricidis, et matricidis, homicidis, fornicariis, masculorum concubitoribus, plagiariis, mendacibus, periuris, et si quid aliud sanae doctrinae adversatur» (I Tim. 1 9-10), e «Si quis aliter docet, et non adquiescit sanis sermonibus Domini nostri Iesu Christi, et ci, quae secundum pietatem est, doctrinae: superbus est, nihil sciens, sed languens circa quaestiones, et pugnas verborum: ex quibus oriuntur invidiae, contentiones, blasphemiae, suspiciones malae, conflictationes hominum mente corruptorum, et qui veritate privati sunt, existimantium quaestum esse pietatem» (I Tim. VI 3-5). Come spiega Tommaso d'Aquino, glossando un famoso passo giovanneo — «Et statim sanus factus est homo ille» (V 9) —, «sanus iste significat fideles per gratiam Christi sanatos», vale a dire salvati. Gli «ntelletti sani», dunque, sono quelli che, sì, funzionano aristotelicamente senza impedimento, ma, più crucialmente, si lasciano guidare nelle loro attività mentali dalla grazia divina; e, come vedremo nel quarto paragrafo, in Inferno IX, Dante plasma una potente rappresentazione di come, grazie all’intervento del cielo, l’uomo può ragionare sanamente. Dunque, per accedere alla salvezza non basta non essere «per malizia d’animo o di corpo impedito», come dimostra chiaramente l’esempio di Virgilio. Contrariamente al pellegrino, il poeta classico, anche nei momenti di maggior tensione e inquietudine, continua infatti ad esercitare la ragione: «“Pur a noi converrà vincer la pugna”, / cominciò el, “se non... Tal ne s'offerse”» (Inf. IX, 7-8). Eppure, i suoi ragionamenti aristotelicamente sari non riescono a sconfiggere l’«oltracotanza» (v. 93) irrazionale del male. E privilegio unicamente del cristiano, dopo aver lasciato, come il viator, la mente soccombere all’infermità, risanarla affidandosi alle cure salvifiche che gli arrivano dall’alto, per poi riacquistare la strada aperta (v. 90) verso la beatitudine eterna.
Inferno IX trasforma queste verità dottrinali e astratte in esempi plastici e concreti che chiariscono sia la natura dell’«intelletto sano» sia le modalità attraverso cui la mente può arrivare a tale condizione ideale che consentono a ciascun lettore della Commedia la possibilità di trovarsi tra quella élite spirituale e intellettuale che Dante interpella al centro del canto. Tuttavia, il poeta non limita la sua lezione su come adoperare correttamente il dono della ragione alla rappresentazione allegorico-drammatica della narratio. Facendo sì che i primi dannati che i viandanti incontrano dentro le mura di Dite siano «li eresiarche / con lor seguaci, d’ogne setta» (vv. 127-28), Dante enfatizza ulteriormente, con un esempio che ricorre esplicitamente alle esperienze vissute del suo pubblico contemporaneo, l’importanza di applicare la mente, particolarmente nell’atto esegetico, a fini spiritualmente e moralmente convenienti. Nel Medioevo, l’eresia, che agli inizi del Trecento era ritenuta un pericolo immediato e pressante, fu giudicata essenzialmente come un fallo ermeneutico dovuto all’accanirsi nel proporre interpretazioni eterodosse, particolarmente delle Sacre Scritture. L’eretico fu lo stultus per definizione, le cui trouvailles furono i deliri di una mente malata, e il quale, come i difensori di Dite, faceva ostacolo inutilmente alla verità divina. «[L]i eresiarche» rappresentano l'opposto diretto degli «intelletti sani», come l’influente luogo classico paolino dichiarava: «Nam oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis» (I Cor. XI 19). È stato notato come l’antitesi sia la figura che retoricamente, narrativamente, strutturalmente e ideologicamente domina il nostro canto. Per quel che ci concerne è dunque interessante notare come «le tombe carche» (v. 129) dentro le quali gli eretici sono puniti costituiscano il polo contrario del sepolcro vuoto di Cristo risorto:
Vespere autem sabbati, quae lucescit in primam sabbati, venit Maria Magdalene, et altera Maria, videre sepulchrum. Et ecce terraemotus factus est magnus. Angelus enim Domini descendit de caelo: er accedens revolvit lapidem, et sedebat super eum: erat autem aspectus eius sicut fulgur: et vestimentum eius sicut nix. Prae timore autem eius exterriti sunt custodes, et facti sunt velut mortui. (Mt XXVIII 1-4)
Ed è quasi sicuro che Dante avesse questo passo in mente quando componeva Inferno IX, poiché il suo messo celeste è in parte modellato sul «angelus [...] Domini»: basta ricordare il «trema» delle «sponde» (v. 66), il comportamento delle «anime distrutte» (v. 79) e la facilità con cui l'angelo che «descendit de caelo» e l'inviato «da ciel messo» (v. 85) spalancano rispettivamente l’accesso al sepolcro e alla città dei morti. Naturalmente, e con calzante ironia morale e teologica, l’antitesi tombale ha implicazioni spiccatamente pesanti per «Epicuro» e «tutti suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X, 14-15), la «setta» (Inf. IX, 128) su cui il poeta principalmente concentrerà l’attenzione. Inoltre, l’uso nella prima cantica del passo di Matteo in un contesto che evoca pure gli epicurei ha funzioni correttive rispetto al Convivio, ove Dante, citando il medesimo brano, aveva trattato i discepoli di Epicuro con rispetto, uguagliandoli alle altre scuole filosofiche pagane:
Dice Marco che Maria Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al monimento [...] Per queste tre donne si possono intendere le tre sette della vita attiva, cioè li Epicurî, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, c domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non lo truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Mateo e anche delli altri [Evangelisti], era angelo di Dio. E però Mateo disse: «L'angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa. E ’l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come neve». (Conv. IV xxii 14-15)
Il poeta sembra proprio voler ritrattare ciò che nel «quasi comento» (I iii 2) aveva dichiarato circa le credenze escatologiche degli epicurei: «se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de’ filosofi come delli altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale» (II vu 8).
Anche il Convivio quindi fa parte del sistema antitetico di Inferno IX. Al tempo stesso, non bisogna esagerare il ruolo contrastivo che l’antitesi svolge nel canto. Basta ricordare l'epiteto sano che abbraccia in modo armonioso connotati pagani e cristiani. Per quanto Dante distingua tra il mondo prima e dopo l’Incarnazione — distinzione che svolge un ruolo centrale nel contrasto tra Virgilio e il messo —, egli si preoccupa pure di dimostrare le continuità importanti che uniscono paganesimo e cristianità. Quindi, sia il poeta antico sia il «da ciel messo» (v. 85) eseguono, mutatis mutandis, i dettami della volontà divina. È unicamente il conflitto tra il bene e il male che è insanabile; per il resto, l’antitesi può essere risolta in maniera coerente e positiva. Inferno IX, come in chiave minore il lemma sano, dimostrano la concretezza e l'efficacia del sincretismo — visione del reale che si trova alla base del pensiero e dell’arte dantesca e che coincide perfettamente con la sua comprensione del fare divino.
L’antitesi, quindi, non è tanto importante in sé ma piuttosto come mezzo con cui arrivare ad un'intuizione dell'armonia e del potere celeste. Al livello della narratio è indubbio che un'atmosfera di minaccia e di violenta opposizione — «vincer la pugna» (v. 7), «la città dolente / u non potemo intrare omai sanz’ ira» (vv. 32-33), «mal non vengiammo in Teseo l'assalto» (v. 54), ecc. — domina per gran parte di Inferno IX; tuttavia mi pare che si abbia a che fare con un'opposizione del tutto illusoria, come mostrano i versi 94-95 — «Perché recalcitrate a quella voglia / a cui non puote il fin mai esser mozzo» (vv. 94-95) —, e che gli effetti contrastivi dell’antitesi nel canto siano particolarmente diluiti. D'altra parte, al livello formale e ideologico, Inferno IX offre un esempio calzante dei vantaggi e della validità della consonanza e dell’integrazione. L'azione, i temi e le questioni ideologiche del nono dell’Inferno richiamano infatti deliberatamente gli otto canti precedenti, mettendo in risalto la coerenza artistica, ideologica e organizzativa della Commedia, i cui singoli canti, seppur strutture indipendenti, fanno parte organica e vitale di una realtà testuale più ampia, modellata a sua volta, nel rispetto di quella celebrazione profondamente religiosa dell’autorità e della provvidenza di Iddio condotta in Inferno IX, sull'ordine armonioso dei due “libri” celesti: il creato e la Bibbia. Non è per puro caso, direi, che il poeta sollevi la questione della funzione e della natura del canto e, più estesamente, il problema dell’organizzazione e del carattere della Commedia precisamente in un canto che, a differenza del rapporto di grossomodo stretta correlazione tra i limiti strutturali dei canti e i confini geografici dei diversi cerchi dell'Inferno che sin qui aveva grossomodo marcato l'andamento della cantica, non soltanto sta a cavallo tra due delle zone principali dell’oltretomba, ma che anche dà il via, col verso 105, a un nuovo cerchio di peccatori che si dilungarerà per altri due canti interi.
Inferno IX, dunque, guarda sia in avanti che indietro. Comunque, nella struttura della Commedia, è il suo aspetto “riflessivo” che più colpisce. Stabilendo legami illuminanti con ciò che è venuto prima, il canto offre un esempio di retrocessione valida che contrasta nettamente con il desiderio erroneo del viaTor di tornarsene indietro: «ritroviam l’orme nostre insieme ratto» (Inf. VIII, 102). L'errore del pellegrino, come si è notato in precedenza, è frutto di riflessioni sbagliate; e, in Inferno IX, tanto la gravità dell'errore quanto il fatto che esso fosse facilmente evitabile sono specialmente messi a fuoco dai rinvii a momenti chiave che avevano preceduto l’arrivo a Dite — momenti non solo di cui il viator avrebbe dovuto ricordarsi, ma anche da cui egli avrebbe dovuto trarre le debite conclusioni, come, per esempio, il discorso di Beatrice che Virgilio gli aveva eloquentemente riferito. Da parte sua, il poeta, grazie agli aspetti di ricapitolazione del canto, sottolinea il controllo intellettuale e artistico che egli ora, tornatosene in terra, riesce ad esercitare sul proprio fare. In particolare, Dante conferma che, in seguito alle sue esperienze nell’oltretomba, egli ha appreso a riflettere sanamente: «o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate» (Inf. II, 8-9). La Commedia è la prova concreta di tale successo. E il lettore che «pensa», edotto dall’esempio del poeta e dalle lezioni del «poema sacro», ha l'obbligo pure lui, come Inferno IX ci insegna, di riflettere sanamente sulla propria vita, sulla natura del bene e del male, sulle vie della salvezza e, naturalmente, sulla novitas dei «versi strani». Tra le tantissime conquiste della Commedia, forse la più impressionante è la capacità rimarchevole di intrecciare continuamente etica e letteratura, e quindi di invitarci a soppesare contemporaneamente il bene delle nostre anime e la natura singolare del testo che ci sprona a pensare.
L'importanza di riflettere sanamente è al centro della narrazione e dell'esecuzione formale di Inferno IX; e lungo il corso della mia lectura mi soffermerò su qualche altro esempio notevole di questa preoccupazione. Per ora, vorrei continuare a concentrarmi su come il poeta, in evidente opposizione al suo io precedente sconcertato dalla «viltà» (v. 1), crei l’immagine di sé come qualcuno fermamente capace di riflettere con sagacia sul proprio passato, e poi di agire conformemente. Come John Freccero ha dimostrato, la presentazione altamente negativa della Medusa coinvolge anche un rifiuto delle petrose, le quali sono esplicitamente chiamate in causa nel tessuto poetico del canto. Ma, per Dante, rigettare le rime per la donna petra significava anche rigettare il tirocinio di Guido Cavalcanti — siamo qui ad un sottile anticipo della severa critica del «primo amico» che Dante lancerà nel canto susseguente. L'immagine, poi, di femminilità negativa che domina nelle petrose ritorna in Inferzo IX non soltanto tramite la figura di «1 Gorgon» (v. 56), ma anche per mezzo di «Eriton cruda» (v. 23) e delle «feroci Erine» (v. 45). A loro, nel racconto, si oppone la memoria di Beatrice — «Tal ne s’offerse» (v. 8) —; mentre, a livello poetico, come Denise Heilbronn ha documentato con acutezza, Dante le condanna introducendo ortodossamente una serie di allusioni intertestuali a Maria. Il pellegrino, da parte sua, si dimentica irrazionalmente di entrambe le sue mediatrices, sebbene Virgilio gliene avesse parlato poco prima per incoraggiarlo a intraprendere il «viaggio» ultraterreno. Come si vedrà, sarà soltanto coll’intervento diretto del divino che il viator ricomincerà a ragionare, e quindi a interpretare correttamente.
Leggere sanamente costituisce, come gli avvenimenti di fronte e subito dentro la città infernale dimostrano, una responsabilità fondamentale che determina i rapporti di ciascun essere umano verso gli altri, verso il mondo e, più ancora, verso Iddio. Leggere — pensare, riflettere, interpretare — sanamente, quindi, ha ripercussioni profonde non solo sulle nostre possibilità di salvare l’anima, ma anche su ogni aspetto della nostra esistenza terrena. Dunque, non è affatto di poco peso che, in vari punti di Inferno VII-IX, Dante metta a fuoco (e in chiaro contrasto con le pratiche degli eretici) il valore dell’esegesi corretta. E nel dire questo, non sto pensando particolarmente, malgrado la sua indubbia importanza, al ben noto appello, su cui mi sono già soffermato, di Inferno IX, 61-63. Ugualmente pertinente è il fatto che Dante descriva in maniera diretta, al livello del racconto, situazioni in cui un personaggio si trova a dover interpretare, rivelandosi di seguito più o meno capace nell’effettuare tale compito. L'esempio più vistoso è naturalmente Cavalcante che travisa — come, in vita, aveva travisato la dottrina della salvezza dell'anima — le parole del pellegrino: «Come? / dicesti ‘elli ebbe’? non viv’ elli ancora?”» (Inf. X, 67-68). Cavalcante rappresenta la disperazione a cui inesorabilmente porta l'esegesi sbagliata. Diversamente da Cavalcanti padre il quale, tanto in morte quanto in vita, non riconosce mai i propri errori ermeneutici, Dante-poeta — come si è accennato in precedenza — non perde l'occasione per confessare lo sbaglio interpretativo che aveva commesso di fronte a Dite ai tempi del viaggio ultraterreno, non a caso nell’elucidare, anche lui, una serie di parole ambigue:
«Pur a noi converrà vincer la pugna»,
cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga».
I’ vidi ben si com ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
(Inf. IX, 7-15)
Che questo piccolo dramma esegetico sia posto proprio all’incipit del nostro canto è tutt'altro che casuale. Dante immediatamente allude sia ai parametri ideologici e di comportamento che definiscono il nuovo peccato con cui Inferno IX si chiuderà, sia ai nostri doveri di lettori responsabili, obbligati, dunque, in opposizione agli eretici a sforzarci, per mezzo dell'esercizio dei nostri «ntelletti sani» (v. 61), di arrivare alla «sentenzia» appropriata non solo del poema ma anche di ogni sistema di segni, con quelli divini ovviamente al primo posto. In verità, grazie a questa ulteriore calibratissima antitesi, il poeta ci dà in nuce uno degli aspetti essenziali di Inferno IX (come anche degli altri quattro canti che lo circondano): la dialettica tra lettori buoni e cattivi; e, in un contesto dominato dall’eresia e dalla recalcitranza alla «voglia» divina (v. 94), leggere bene o male, cioè esercitare la ragione (l'intelletto) sanamente oppure vanamente («tutto è vano / nostro intelletto», Inf. X, 103-04), è lo stesso che salvare o dannare l’anima. Il lettore, Dante-personaggio e Dante-poeta, i difensori di Dite, gli eretici, l'episodio intero sono racchiusi, dunque, entro le medesime mura ermeneutiche.
Data la funzione capitale del messo celeste nel canto e nella vicenda intera, l’importanza dell’esegesi sana è principalmente confermata dalla figura e dal comportamento del misterioso emissario divino. Poiché il messo è stato inviato in terra dal Paradiso per portare aiuto ad un essere umano in grave pericolo spirituale, egli funziona anzitutto, aldilà di qualsiasi altro significato gli si voglia dare, da esempio emblematico dell'intervento del Cielo nella vita umana, cioè da signum coeleste. Dunque, il messo si fregia delle qualità del vestigium Dei: egli agisce da mezzo attraverso cui Dio si rivela all’uomo, il quale, a sua volta, ha la responsabilità di interpretare i “sensi” che si celano dietro l'apparenza esterna — la lictera — del segno divino. In stretta conformità con le esigenze, nel Medioevo rigorosamente convenzionali, di questo modo di considerare i rapporti tra Iddio e gli uomini in termini traslati, Dante fa precedere l’arrivo del vestigio celeste da un appello al lettore, i soliti versi 61-63 del nostro canto, in cui esorta quest’ultimo a trovarsi pronto a interpretare il nuovo intervento miracoloso, vale a dire il nuovo segno divino, che egli sta per descrivere. Allo stesso tempo, riconosceva la provenienza celeste del messo, la sua precisa identità, come la portata dei «versi strani», resta nascosta dietro un velo di punti interrogativi. Come tutta la tradizione dei commentaria delle Sacra Scrittura insistentemente ribadiva, i segni del Creatore, date le loro origini divine, sono polisemici e soltanto parzialmente interpretabili dalla mente umana. Nell'introdurre i vestigia Dei nella Commedia, Dante si sforzò sempre di pene figure simboliche a cui non è facile assegnare valori ovvi e monocordi. Come c'è da aspettarsi, dunque, ciò si verifica anche nel caso del messo, per cui la personalità e la «dottrina» da lui veicolata non sono né semplici né di facile decifrazione. A mio parere, la trappola in cui il lettore moderno spesso cade è voler restringere i signa divini foggiati dalla immaginazione dantesca entro una singola rete di significati. Basta dare un'occhiata agli studi che il messo ha generato per rendersi subito conto di tale riduzionismo critico; allo stesso tempo, nel consultare questi lavori, ci accorgiamo pure che non poche delle soluzioni proposte sono del tutto ragionevoli — conferma, direi, della cura con cui il poeta ha creato, seguendo l’esempio del Deus artifex, un essere volutamente polisemico. In effetti, nell’avvicinarci a ciò che Dante segnala come marcatamente divino, dobbiamo muoverci con riguardo, non dimenticando la forma mentis e le aspettative esegetiche e spirituali che, di fronte a Dio, avrebbero condizionato il poeta, come anche il lector ortodosso medievale, cioè il tipo di “lettore” sano per cui l’Alighieri stava scrivendo.
Nel Medioevo, dunque, fu assiomatico credere che si potesse interpretare correttamente i vestigia Dei solo se l'«’ngegno» si fosse conformato alle lezioni dettate dal cielo. Leggere, per il cristiano dell’età di mezzo, significava, particolarmente quando questa attività aveva a che fare con la salvezza, lasciarsi umilmente guidare da ciò che «era da ciel messo» (v. 85). Come il lector apre (v. 90) un testo per permettere che si possa vedere ciò che si trova dietro la «porta» (v. 89) della lictera, il messo, spalancando le imposte di Dite, non solo rende accessibili i “sensi” che il “testo” infernale vorrebbe tener nascosti — “testo”, non dimentichiamoci, anche questo, «creato» dalla «divina podestate» (Inf. III, 7 e 5), e che quindi richiede l'impegno di un lettore divino – ma, attraverso l’atto dello schiudere, si appropria anche dei tratti tipici dell’interprete, affermando, in entrambi i casi, il ruolo centrale che l'esegesi deve svolgere nella vita del cristiano. La metafora dell'apertura per descrivere l’operazione esplicativa fu luogo comune del linguaggio critico medievale; basta ricordare l’uso fattone da Dante: «Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia» (Vn XIV, 13). Nel suo magistrale commento alla Vita nova, Domenico De Robertis presenta una ricca messe di esempi della figura nell’opera dell’Alighieri e nella tradizione retorico-esegetica; l’immagine, però, è anche biblica, e, avendo a che fare con un inviato celeste, è probabilissimo che in questo caso l’ascendenza scritturale della metafora sia di maggior rilevanza: «Et dixerunt ad invicem: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis dum loqueretur in via, et aperiret nobis Scripturas? […] Tunc aperuit illis sensum ut itelligerent Scripturas» (Lc XXIV 32 e 45). Che, col messo che sbarra le porte di Dite, Dante volesse rappresentare il processo di illuminazione intellettuale, e, in particolare, il processo di illuminazione divina e di carattere esegetico, è confermato da vari elementi. Il poeta riutilizza la metafora della porta della «conoscenza» nel canto che segue, ma, in questa occasione, con valenza opposta: «Però comprender puoi che tutta morta / fia nostra conoscenza da quel punto / che del futuro fia chiusa la porta» (Inf. X, 106-08). Parimenti, i ben noti lineamenti del messo che lo associano a Mercurio lo situano categoricamente nella sfera dell’ermeneutica, dato che era convenzionale glossare il nome del dio come “interprete”: «Hermes autem dicitur graece apo tes hermeneias, latine interpres». Poi, se ci fossero ancora dubbi circa il fatto che dietro il simbolismo del messo si celi una problematica esegetica, basterebbe citare un passo ripreso da uno dei più influenti commentatori biblici del Medio Evo, Ruperto di Deutz, il quale, in un resoconto di chiaro stampo metaforico, evoca potenti che, aiutati da Dio, «aprono» coi loro «bastoni» le verità delle Sacre Scritture per sconfiggere le menzogne degli eretici:
Nam revera contentionibus haereticorum excitati, principes ac duces nostra fidei, orthodoxi atque catholici viri, altius profunda Scripturarum scrutati sunt, et ita puteum aquae vivae «foderunt atque paraverunt in baculis suis». [...] Baculi ducum vel principum nostrae multitudinis quibus foderunt puteum «in datore legis», fortes ac perseverantes animi fuerunt, quibus pugnando magistri Ecclesiae contra blasphemias haereticorum veritatem nobis aperuerunt Scripturarum «in datore legis», id est, cooperante gratia Dei [...] Quia duces et principes foderunt, quia Scripturas sacras fideliter exponendo, nobis intelligibiles fecerunt.
Dunque, il messo è non solo un signum, ma anche un interprete dei signa, il quale, tramite il suo operare simbolico-esegetico, rafforza il fedele e sconfigge l’eretico. Nel permettere ai due poeti di procedere nel viaggio di salvezza, che, come il carattere prettamente dottrinale di Inferno XI conferma, è fondamentalmente un viaggio di conoscenza, l'intervento del messo mette a fuoco quanto sia unicamente grazie alla mediazione divina che l'uomo può arrivare a una piena comprensione del peccato («la condizion», Inf. IX, 108) e, quindi, al dominio di esso. Inoltre, egli incarna emblematicamente l’attenzione che l'episodio mostra verso l’interpretazione — l’interpretazione, che, come dicevamo, conduce l’uomo alla salvezza oppure alla dannazione in quanto sistema intellettuale e spirituale integrante esegesi, etica e conoscenza. Dunque, da questa prospettiva, il rapporto che i diversi protagonisti del nostro canto stabiliscono col messo è altamente istruttivo. I dannati gli «fuggoro [...] dinanzi» (v. 80) e non reagiscono alle sue domande (vv. 91-99); mentre Virgilio, da bravo pagano, capisce soltanto che l’emissario merita riverenza: «e quei fé segno / ch'i’ stessi queto ed inchinassi ad esso» (vv. 86-87). È Unicamente il viator cristiano che lo interpreta correttamente e, quindi, lo tratta in maniera appropriata: «ben m'accorsi ch’elli era da ciel messo» (v. 85). Poi, pure l’avverbio ben svolge una funzione chiave nello stabilire le capacità e i limiti intellettuali dei vari personaggi. Le «anime distrutte» (v. 79), come l’inciso sarcastico del messo mette a fuoco - «Cerbero vostro, se ben vi ricorda» (v. 98) -, hanno perso del tutto le abilità raziocinative. Da parte sua, Virgilio arriva ad apprezzare esclusivamente quanto ha esperito di persona - «ben so ’l cammin» (v. 30) - e ciò che appartiene al suo mondo - «ben conobbe le meschine» (v. 43). Dante-personaggio, però, riesce a «accorgersi [...] ben» di verità molto più significative. Al tempo stesso, il privilegio di poter pensare da cristiano richiede continua vigilanza intellettuale. Cadere nell’errore costituisce un pericolo continuo. Nonostante il pellegrino veda «ben» (v. 10) che Virgilio voglia rassicurarlo, egli stravolge il significato della «parola tronca» (14). Ripetendo al verso 85 l’avverbio ben, in questa istanza per indicare l’uso appropriato della ragione da parte del viator, Dante enfatizza il fatto che, fidandoci dell'intelletto e, cosa più importante, dell’aiuto divino, si può passare dall’errore alla verità. È impossibile per l’uomo non sbagliare. Dante-personaggio passa dall’interpretazione giusta di Filippo Argenti al fraintendimento delle parole di Virgilio, per poi apprezzare la realtà divina del messo. Interpretare correttamente è uno sforzo. L'essenziale, come il pellegrino paradigmaticamente dimostra, è non insistere nell'errore, come fa l’eretico, ma sforzarsi di tornare a leggere sanamente.
Tuttavia, leggere sanamente non dipende soltanto dal nostro impegno intellettuale ed etico, ma è anche profondamente condizionato dalla storia; e quindi, in Inferno IX, come anche nei due canti che seguono, Dante cerca di sondare il nesso tra la storia e la ragione. Egli si concentra sulle potenzialità intellettuali umane prima e dopo l’Incarnazione, e, per estensione, sui rapporti tra il pensiero pagano e quello cristiano — problemi che stanno al centro stesso della sua visione provvidenziale della storia. Nell’analizzare le due questioni, Dante fa particolare ricorso alla sottile rete di riprese intertestuali con cui il canto è costruito. Gli echi, crucialmente, non sono distribuiti casualmente ma si dispiegano in maniera accuratamente calcolata. Quindi, Inferno IX si distingue infatti dati canti che lo circondano a causa dell’alto numero di prestiti classici. Al livello della diegesi, basta pensare all’aggregarsi di mostri, di personaggi, di luoghi e di eventi tolti dalla mitografia pagana: Eritone, le tre Furie, Proserpina (oppure Ecate), Medusa, Teseo, Cerbero, Ercole, Stige e, naturalmente, Dite stessa. Inoltre, come i commenti al canto documentano, tutto l’ambiente in cui si svolge l’azione ricalca non solo il sesto dell’Eneide ma anche i passi della Farsalia e delle Metamorfosi che trattano dell’oltretomba. Persino il protagonista chiave dell’episodio, il messo celeste, per quanto messaggero del Dio cristiano, è adornato di tratti classici che lo associano a Mercurio, a descrizioni epiche di boschi e venti, alla famosa rappresentazione ovidiana delle rane e ad Enea. Ed è con questo accumulo impressionante di materiale classico, assieme alla dimensione ortodossa del messo, che Dante ci istiga ad interpretare attirando la nostra attenzione sui «versi strani» (v. 63), dal momento che il valore principale dell’eredità classica per i cristiani fu precisamente la «dottrina» che il «velame» della lictera pagana «ascondeva» (vv. 62-63).
Benché mi sia spinto ad indicare fonti precise per l'infrastruttura classica di Inferno IX, è pur vero che ciò che immediatamente dà all'occhio per quanto riguarda la galleria pagana evocata nel canto, è che questa è costituita di figure e luoghi che non sono legati specificamente ad un singolo testo oppure ad un autore particolare: per esempio, le Furie sono presenti nella poesia epica e lirica, nelle opere mitografiche e nella tradizione enciclopedica e di compilazione. Quindi, per Dante e per l'età di mezzo, elementi di questo tipo funzionavano da emblemi della cultura pagana — in particolare, come le allusioni intertestuali confermano, essi sono rappresentanti della poesia epica, dell’«alta [...] tragedia» (Inf. XX, 113), cioè della più raffinata invenzione artistica che la cultura classica aveva trasmesso all’era cristiana. E se, grazie alle proprie originalissime tecniche “imitative”, nel nono dell’Inferzo e altrove, Dante conferma la vitalità di questa tradizione per il poeta “moderno”, sono, in ultima analisi, l’utilitas e le valenze ideologiche del mondo antico, e specificamente della poesia latina (e greca), che, nel presente contesto “razionale”, lo preoccupano di più.
Quali sono, dunque, almeno in termini generali, la lectio e la «dottrina» trasmesse dalle fabulae che possano giovare al cristiano? La risposta che Dante ci offre è altamente convenzionale. Come tutta la tradizione dei commenti trecenteschi alla Commedia riconobbe, glossando gli elementi classici di Inferno IX, la letteratura antica era fonte di insegnamenti etici. I monstra, per esempio, simboleggiavano diverse manifestazioni del male; e, in Inferno IX, Dante sfrutta questi significati per proporre una prima idea totalizzante della natura e della varietà del peccato. In effetti, senza voler negare le funzioni drammatiche e narrative, per non parlare di quelle letterarie, della turba di mirabilia che popolano il nono dell'Inferno, la logica principale che sembra aver guidato le scelte dantesche è precisamente il fatto che, come ci si aspetterebbe da luoghi comuni, tutti i miti evocati godevano di una ricca e ben diffusa fortuna critica. Nel loro insieme, quindi, essi si stagliano come emblemi delle conquiste etiche del paganesimo — conquiste che, da un punto di vista della storia della salvezza, rappresentano ciò che di meglio il mondo antico poteva offrire al cristianesimo. Dante non esita a riconoscere e a celebrare l’intelligenza pagana su questioni di carattere etico. Al tempo stesso, però, colpisce che, nell’ottica di Inferno IX, le lezioni morali degli antichi abbiano molto più da dire circa la realtà del male piuttosto che del bene – siamo dinanzi al primo indizio dei limiti ideologici e storici di un pensiero cui manca l’illuminazione divina. Inoltre interessa che, persino per quanto riguarda il peccato, come rivelano le lacune e gli errori della disquisizione virgiliana sulla struttura dell'Inferno, le riflessioni dei pagani non appaiono senza difetti. Tutto ciò, come si sa, è confermato, al livello del racconto (e non si può che ammirare l'abilità con cui Dante integra e armonizza diversi i livelli del suo discorso), dall’incapacità di Virgilio di sconfiggere la tracotanza intransigente degli abitanti infernali.
Il pensiero degli antichi non può portare alla salvezza; nel migliore dei casi, può servire al credente come una sorta di appoggio secondario. Com'è simboleggiato dall’apparizione e dalle azioni del messo celeste e dal comportamento dei due viandanti, la ragione umana deve subordinarsi alla rivelazione divina, affidandosi alla guida e all’illuminazione che le viene dall’alto. Dopo il predominio, in apertura di Inferno IX, del materiale classico, e conformemente alla logica storica della presentazione dantesca, l’arrivo del «da ciel messo» (v. 85) rappresenta anche il primo grande ingresso di intertesti e di valori esplicitamente cristiani nelle strutture poetiche ed esegetiche che controllano il nostro canto — valori che, con il tocco di una «verghetta» (v. 89), riescono a sbloccare l’intoppo di fronte all’ottusità del male in cui la cultura e l’etica pagana erano cadute. Si è già parlato dei risvolti ideologicamente ortodossi del messo, e in particolare dei suoi connotati semiotici; tuttavia, il modo più appariscente con cui Dante annuncia, nelle maglie della sua poesia, l’entrata del divino ed i suoi effetti è un aumento repentino delle allusioni scritturali che accompagnano il mirabile celeste. Dunque, il messo ricorda Mosè, l’uomo vestito di lino in Daniele, Cristo, che cammina sulle acque e che discende nell’Inferno, e lo Spirito Santo. Inoltre, un accumulo notevole di altre citazioni bibliche circonda l'inviato dal Paradiso. L’apparizione di un signum divino evoca una turba di altri signa – processo che calca le convenzioni dell’esegesi scritturale, per cui un passo era spiegato alla luce di altri passi tolti dal libro scaro. In tali circostanze, e in un contesto in cui intertesti classici e scritturale si susseguono, il richiamo a «mirare la dottrina» (v. 62), è anche un appello a discriminare tra testi di natura e di formazione diverse, e, quindi, ad applicare le forme ermeneutiche appropriate alle opere sotto scrutinio. Le norme dell’allegoria in verbis, adatte per la letteratura classica, non potevano infatti essere trasferite alla Bibbia, la quale doveva essere letta invece secondo gli statuti dell’allegoria in factis. I versi 61-63, che strategicamente si intromettono, separandole e unendole, tra la parte “pagana” di Inferno IX e quella “cristiana”, e la cui ombra, come si è accennato, si estende lungo tutto il canto e ben oltre, sottolineano la distinzione chiave tra libri sacri e umani che controllava l’esegesi medievale — distinzione attorno alla quale ruota non solo il discorso esegetico, ma anche quello storico del nostro canto. La «dottrina» che si cela dietro la lictera scritturale si distingue per il fatto che non si limita a rivelare verità morali e scientifiche ma lascia percepire, per quanto oscuramente, verità divine.
Come nella storia, così anche nella Commedia, la Bibbia ha sopravvento sul “tragico” pagano; e, di nuovo, Dante si muove in maniera rigorosamente convenzionale, come è giusto in un ambiente in cui sono nettamente prevalenti, e al tempo stesso contrastanti, questioni di ortodossia da un lato e questioni di anticonformismo dall'altro. Eppure, per quanto ne riconosca le differenze, il poeta sente tuttavia il bisogno di ammorbidire le durezze ed i contrasti che separano il mondo prima e dopo l’Incarnazione. Benché da secoli pensatori cristiani avessero tentato di riconciliare il meglio dell'eredità pagana con il cristianesimo, tali ambizioni sincretiche sembrano avere una speciale urgenza in Dante. La figura del messo offre una prova immediata di questo. Come si è visto, questa figura fonde armoniosamente in sé elementi classici e cristiani, sottolineando in questo modo non solo le rispettive conquiste delle due ere e la possibilità della loro interazione, ma anche, e più significativamente, la presenza del divino lungo il corso intero della storia. Dunque, se da un lato Dante spiega la liceità dell’associazione tra il paganesimo e la cristianità alla luce della presenza costante della Provvidenza nella vita dell’uomo, dall’altro egli riconosce nella ragione umana l’altro elemento di continuità che unisce l'epoca pagana a quella redenta. Volendo parlare di “umanesimo” dantesco, direi che si dovrebbe partire da questa fede nelle possibilità della mente umana — fede, però, più che conscia, diversamente dagli eretici, anche dei nostri limiti intellettuali.
La Commedia stessa, non dimentichiamoci, è frutto di questa collaborazione storica; e “imitando” simultaneamente le forme della Sacra Scrittura e della “tragedia” classica, e integrando eccezionalmente l’allegoria in factis con quella in verbis, anche il poema dantesco trasmette una «dottrina» complessa, che, in Inferno IX, mette a fuoco non solo le conquiste e i pericoli della ragione ma anche, grazie ad una strategia che si potrebbe chiamare metaesegetica, l’operare e le responsabilità dell’intelligenza ermeneutica tanto nel corso della storia quanto in singoli momenti, come quello evocato nel nostro episodio. Se, nel Limbo, Dante si era fermato principalmente sull’eccellenza in sé del mondo pagano, in Inferno IX, egli contestualizza tale grandezza. Da un lato, la ridimensiona alla stregua delle conquiste del cristianesimo; dall’altro, però, la esalta non soltanto alla luce degli errori commessi da cristiani e pagani, ma anche ravvisando i confini entro i quali fu stretta.
Il giudizio storico-teologico sulle acquisizioni e sui limiti della cultura pagana ha anche, come è solito nella Commedia, risvolti metaletterari. Malgrado l’indubbia sofisticazione della poesia pagana, e in particolare dell’epica “tragica”, confermata culturalmente e socialmente nel Medioevo dall’elevazione dei suoi auctores al rango di auctoritates, la presentazione dantesca dei suoi difetti ideologici, anche se debitamente accompagnata dalla ricognizione dei suoi pregi, mette in discussione il suo valore per il mondo “moderno”. In particolare, Dante si sofferma sulle restrizioni non soltanto intellettuali ma anche “stilistiche”, cioè di genere, persino dell’epica “tragica” — restrizioni che inevitabilmente sminuiscono la sua utilità quale forma letteraria per il cristiano. Dunque, in evidente contrasto con la vittoria assoluta sull’Inferno di Cristo risorto, gli eroi epici pagani, vale a dire le figure fondamentali delle tragedie, che l’Alighieri evoca in modi diretti e indiretti lungo il corso del canto, da Teseo a Enea per poi arrivare a Ercole, i quali viaggiarono nell’oltretomba e sconfissero le forze del male grazie al loro coraggio e alle loro prodezze fisiche, godettero unicamente di successi brevi e sfuggenti — segno definitivo della forza ingannevole e della fugacità del mondo antico. Da questa prospettiva, le difficoltà che Virgilio, il tragicus per eccellenza, affronta davanti a Dite funzionano anche da simbolo dei limiti del genus “tragico”. Dante sottolinea che ai cristiani serve una letteratura differente e degli eroi di altro stampo di quelli classici: una letteratura che riflette valori cristiani, cioè, che pone al centro Iddio e i Suoi messi, che si dimostra sensibile alla complessità del creato e della storia provvidenziale, che, come la Sacra Scrittura, proclama la verità e i misteri della fede e che documenta le esperienze di un nuovo tipo di eroe umile e fiducioso nell’amorevole permanenza del potere divino. Soltanto una letteratura che riesce a smontare le barriere artificiose erette dai genera dicendi tra problematiche e registri diversi può sperare di poter «manifestare» almeno l’«ombra» (Par. I, 23-24) della realtà divina e della Sua opera. Tale letteratura è ovviamente costituita dai «versi strani» della Commedia, testo grazie al quale il “comico” cristiano riesce ad avere il sopravvento sul “tragico” pagano. Però, nel momento stesso in cui Dante, imitando i modi flessibilissimi e onnicomprensivi del sermo humilis biblico, si lascia alle spalle la vecchia letteratura, egli recupera — come si è visto — quanto di meglio di quest'ultima per sviluppare un nuovo stilus sincretico e par dar forma al «sacrato poema». A ogni livello di Inferno IX, il poeta ripete il medesimo punto: per comprendere il fare divino è necessario abbracciare una visione organica del reale che metta a fuoco i rapporti e le continuità tra il Creatore e il creato, tra paganesimo e cristianesimo e tra tragedie e la nuova «comedia». Il poema, poi, nello stile, nella struttura e nell’andamento narrativo, per non dire ideologicamente, incarna e conferma la concretezza e l’efficacia del sincretismo come mezzo con cui indicarci le vie della salvezza. «Sotto il velame de li versi strani» — «strani» proprio perché composti — Dante ci permette di intravedere vestigia della volontà divina a cui la nostra ragione può essere sicura di poter accedere. Come il misterioso messaggero celeste, anche la Commedia è «da ciel messa».
L'importanza del nostro canto nell’organizzazione della Commedia è palese. Inferno IX raccoglie, sintetizza e sviluppa con rigore e coerenza le lezioni distinte dei canti precedenti. Al tempo stesso, esso guarda verso ciò che è ancora da venire. Per la prima volta nella Commedia, Dante sembra voler farci capire tanto la straordinaria portata spirituale e intellettiva quanto l'ambizione artistica del suo poema; ed è per questo che il poeta ci interpella in maniera diretta. Tra i vari elementi in Inferno IX che confermano il ruolo cruciale del sincretismo, sia in termini ideologici che letterari, vorrei prendere in esame, nel porre fine alla mia lectura, un motivo narrativo che forse non sarebbe del tutto sbagliato vagliare come il fulcro creativo e simbolico attorno al quale il canto è stato ideato. Tale motivo non è il descensus ad inferos; anche se, con ragione, la discesa dell’eroe — Cristo, Enea, il messo, ecc — nell’oltretomba è spesso visto dalla critica come elemento di un certo peso nell’andamento di Inferno IX, poiché riesce a collegare diversi suoi aspetti.
Se non mi sbaglio, malgrado la sua ovvietà, il motivo a cui sto pensando è stato del tutto trascurato dal dantismo moderno. Per illustrarlo, vorrei partire da due citazioni neotestamentarie: «Intravit Jesus in quoddam castellum» (Lc X 38) e «Ite in castellum quod contra vos est» (Mt XXI 2). La rilevanza narrativo-ideologica dei due passi per Inferno IX, direi, è indiscutibile. Nel Medioevo, entrambi erano delle sententiae di larga circolazione e con connotazioni molto specifiche e altamente suggestive per il nostro canto. I brani venivano strettamente associati in primo luogo alla popolarissima tradizione dell'assedio dell'anima, secondo la quale il corpo è il castello che difende l’anima dagli assalti del demonio. In più, i passi erano legati all’Incarnazione — l’evento chiave che organizza la visione provvidenziale del canto — giacché nel castello si individuava il ventre della Vergine in cui Gesù entrò per farsi uomo. Le sententiae poi ebbero anche altri risvolti che possono dimostrarsi significativi per Inferno IX. Qui vorrei concentrarmi sul motivo dell'assedio, dato che l’intero episodio fuori le mura di Dite è rappresentato come se fosse un assedio, secondo quanto Dante rende esplicito, primo, adoperando termini quali «torre» (Inf. VII, 130; VIII, 2; IX, 36), «grande stuolo» (VIII, 69), «difension» (VIII, 123); «pugna» (IX, 7), «fortezza» (IX, 108), poi, descrivendo il momento in cui
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
(VIII, 76-78)
Lo stesso motivo emerge pure in versi come «Chiuser le porte que’ nostri avversari» (VIII, 116) oppure come «Dentro li ntrammo sanz’'alcuna guerra» (IX, 106), e, ultimamente, nelle parole di Virgilio che si rammarica che
Questa palude che ‘l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz'ra.
(IX, 31-33)
Al tempo stesso, è evidente che abbiamo a che fare con un assalto ad una città, a dir poco, inusitato. Che un grandissimo esercito chiuda le porte di fronte a due viandanti disarmati è palesemente assurdo. Le ragioni di questa situazione ridicola sono, di nuovo, lapalissiane: mettono a fuoco, da un lato, l’irrazionalità del male e, dall’altra, la sua impotenza di fronte al potere divino. Abbiamo a che fare, quindi, con un rovesciamento grottesco dello sviluppo usuale di un assedio; e, come si sa, Dante spesso capovolge l'ordine normale delle cose per evocare e definire il regno infernale. In particolare, come accade anche in questo caso, egli crea parodie dell'immaginario sacro stabilito. Dunque, tornando all’assedio dell'anima, in Inferno IX troviamo non le armate demoniache che attaccano l’anima, ma due pellegrini solitari che vorrebbero entrare nella città infernale, siccome uno di loro vorrebbe salvare l’anima e l’altro è deciso ad aiutarlo. Poi, in un contesto in cui l’anima svolge un ruolo così fondamentale, il comportamento di coloro «che l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X, 15) è smascherato, come gli altri aspetti del male, in tutta la sua assurdità.
Per quanto, in Inferno IX, la dimensione religiosa dell’assedio sia importante, sono i suoi valori sincretici che, come ci si può aspettare, hanno una funzione determinante. Per la cultura medievale come quella classica, l'assedio è un grande motivo letterario — forse persino tra i più grandi. Esso trova un posto di spicco nell’epica classica (da Omero a Virgilio a Stazio), cristiana (in particolare la tradizione psicomachica con l’opera di Prudenzio in testa) e medievale, sia latina che volgare (basta pensare alla ricchissima messe di opere legate al nome di Alessandro Magno oppure all’epica cavalleresca romanza) — e per inciso si noti di nuovo come il nostro “comico” prenda di mira le tragedie. Poi, l'assedio si ritrova nella letteratura omiletica (un esempio illustre è costituito dai Sermones e dalle Sententiae di San Bernardo), nelle cronache cittadine (da Tebe a Gerusalemma ad Ancona), negli scritti sulle crociate e nella letteratura erotica (l'assalto alla virtù della donna nel Roman de la rose e nel Fiore). Ultimo e non meno importante, l'assedio è anche motivo biblico. Il topos dell’obsidium, che tira insieme mondo pagano e cristiano e che trascende i confini dei singoli gerera dicendi, funge da microcosmo non soltanto della visione del reale che l’Alighieri si sforza di presentare in Inferno IX (e un po’ ovunque nella Commedia), ma anche del nuovo “comico” dantesco — forma letteraria, la quale, come l’assedio, non può essere ristretta entro un singolo genere, ma che ha l’obbligo di spaziare attraverso i linguaggi, gli “stili” e la molteplicità del creato. Nell’evocare, come in parte si è tentato di fare qui, le diverse tradizioni in cui l’assedio è presente, Dante mette a fuoco la debolezza di una poetica, che poi era quella che aveva dominato nell’Occidente dai tempi di Aristotile, che si fondava sull’idea che la realtà potesse essere ripartita ordinatamente tra generi diversi. L’assedio, dal cuore stesso del sistema letterario, palesava l’assurdità di tale assunto. Unicamente, la Commedia, ben conscia dei propri limiti, ma anche delle proprie capacità sincretiche, poteva sperare, sulla scia della Bibbia, di portare l’umanità alla salvezza rivelando la complessità organica del reale.
Che, in Inferno IX, Dante abbia creato un assedio senza precedenti a un castellum è anche prova dell’unicità della Commedia; e il canto non soltanto elucida i tratti di un nuovo tipo di letteratura e le ragioni per cui essa è necessaria per il mondo cristiano “moderno”, ma chiarisce pure come Dante, malgrado i suoi difetti e le sue debolezze, fidandosi di Dio e del proprio intelletto — anch'esso, come la Sacra Scrittura e il messo, dono divino —, è riuscito ad adempiere le responsabilità onerose dell’eletto e dello scriba Dei. Allo stesso modo in cui, lungo il corso del viaggio ultraterreno, Dante è istruito dalle sue guide pagane e cristiane, umane e divine, così, a sua volta, egli ci istruisce a vivere secondo i dettami della «voglia» (v. 94) celeste, incoraggiandoci a esercitare sanamente i nostri intelletti. In fondo, il lector della Commedia ha l'obbligo di non imitare gli eretici, né il viator che cade nell’errore, ma di reagire positivamente agli sproni che il poeta ha lasciato nel testo — sproni a “leggere” rettamente, e poi a comportarsi appropriatamente. Per la prima volta nel poema, il lettore è coinvolto direttamente nel testo e reso conscio delle sue responsabilità verso Iddio, e quindi verso i suoi signa. Che, tra questi, la Commedia abbia una posizione di spicco è come non detto; e il dovere che abbiamo verso il poema è riconoscere sia la sua sacralità sia la sua rimarchevole stranezza letteraria. Quale microcosmo della Commedia, il nostro canto gode di una complessità intellettuale e di un’organicità artistica rigorosissime — aspetti accresciuti dalla sua collocazione strategica nella struttura del poema. A causa di ciò che è stato giudicato un eccessivo allegorismo, non direi che i lettori moderni abbiano sempre riconosciuto l’importanza e la sofisticazione di Inferno IX. Eppure, è precisamente la sua natura “allegorica”, vale a dire di testo degno d’interpretazione, e la sua profonda preoccupazione su come apprendere giustamente la «dottrina», cioè le verità che si celano «sotto ’l velame» di quanto è «da ciel messo», che lo rendono, tanto per l’agers quanto per noi, uno dei momenti chiave della Commedia.