Dati bibliografici
Autore: Maria Cristina Meschiari
Tratto da: Italianistica. Rivista di letteratura italiana
Numero: 24
Anno: 1995
Pagine: 9-27
Cosa significa la «sacra rappresentazione» del nono canto dell’Inferno? Dante invita — e quasi sfida — a un’interpretazione che continua a offrire resistenze: ed è difficile ridurre ad uno la ridda delle ipotesi già antiche.
Per Jacopo le Erinni sono pensieri, parole ed opere malvagi e Medusa è l’ostinazione. Per Benvenuto, le une sono «contentiones animi, linguae, manus», l’altra il terrore. In modo nella sostanza assai simile si esprime il Buti, che pure accentua per la Gorgone le valenze, anch'esse ben attestate, di oblio ed ignoranza. Tuttavia, sebbene con una certa frammentarietà e con un tono che può indurre talora il sospetto dell’autoschediasma, quasi tutti i primi commenti della Commedia concordano nel riconoscervi segni del peccato e del turbamento conseguente . Essi, d’altro canto, non fanno che porsi su una linea di continuità con i mitografi e gli integumenta ovidiani — da Fulgenzio al Bersuire — ove le Erinni appaiono come mala cogitatio (Megera), mala locutio (Tisifone), malus actus (Aletto) , mentre le Gorgoni sono le tre forme del terrore, ovvero l’oblio, in una simbologia sempre più complessa man mano che si amplia l’orizzonte a comprendere l’intera storia di Perseo e Andromeda. Certo le stesse allegorie non si esimono dall’esaltare la bellezza di Medusa. che anzi offre in qualche caso l’occasione per interpretazioni evemeristiche ; ma più spesso tale bellezza, anziché immagine di lussuria, diviene segno generale delle attrattive mondane, con l'appoggio della duplice paretimologia che legge Gorgon come ge-orgon (terrae cultrix) e Medusa come me-idousa (colei che non vede).
Anche i moderni commentatori di Dante si sono in gran parte raccolti attorno ad un’identificazione del gruppo Furie-Medusa con il legame rimorsi-disperazione (o ostinazione), sebbene non manchino ipotesi divergenti, la più cospicua delle quali vede nella Gorgone il demone dell’eresia . Si distacca tuttavia, su tale sfondo, lo studio di Freccero , che ricerca in tutta l’opera dantesca i possibili «segnali» di Medusa e, ritrovatili nella donna pietra e nei riferimenti ad essa relativi dei canti finali del Purgatorio, propone di interpretarla come la poesia che, nella lussuria, priva di trascendenza, si esaurisce in sé, ovvero come la lettera vuota in contrasto allo spirito.
Considerare come un sistema non solo l’insieme Gorgone-Furie, ma tutto il complesso di allusioni che le riguardi , può risultare proficuo e non soltanto per la semplice — ma non trascurabile — constatazione del fatto che Dante stesso le unisce strettamente sulla scorta della tradizione, bensì perché esse si ripresentano in canti paralleli, strutturalmente rilevanti e connotati anche da altre serie di segnali ricorrenti.
Il legame affonda le sue radici nella storia delle religioni, per la probabile comune origine ctonia di queste figure infernali , ma è soprattutto discretamente attestato nelle fonti letterarie cui l’Alighieri poteva accedere.
Nell’Eneide, da un lato, Gorgoni appaiono, tra i mostri, all’entrata dell’Ade (VI, v. 289), dall’altro, la furia Tisifone, vendicatrice (VI, v. 570), si erge custode della torre nella parte più oscura di Dite (VI, vv. 554-7), dove nessun giusto può penetrare, e punendo i colpevoli chiama schiere di crudeli sorelle (VI, v. 572) come le Furie dantesche chiamano Medusa. Nella Farsaglia, invece, laddove Erittone invoca con disprezzo le potenze infernali, la più terribile di queste è designata come la sola capace di guardare direttamente la Gorgone (VI, vv. 744-9): in un contesto non solo affine a quello dantesco, per la prefigurazione della punizione delle forze malefiche e per l’allusione a Teseo, ma da lui volutamente richiamato attraverso le parole di Virgilio (Inf. IX, vv. 22-4) :
«Vero è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui».
Stazio soprattutto ricorre in modo quasi ossessivo alle terribili dee nella sua Tebaide: Medusa è costantemente richiamata nella designazione di Atena, sovente in risposta alle manifestazioni delle Furie, mentre queste — e Tisifone in particolare — imperversano quali motrici dell’azione. Esse purificano anche le anime dei morti che devono confessare le proprie colpe (Theb. VIII, vv. 9-10 e 22-5):
... illum aut trunca lustraverat obvia taxo
Eumenis...
dux Erebi populos poscebat crimina vitae,
nil hominum miserans iratusque omnibus umbris.
Stant Furiae circum variaeque ex ordine Mortes,
saevaque multisonas exsertat Poena catenas;
ma assumono per lo più la nota funzione di stimolo alle scelleratezze: valga per tutte l’orribile gesto di Tideo, che chiude il libro VIII, modello dichiarato di Ugolino e di quella Pisa novella Tebe contro cui si scaglierà Dante. D’altro canto, la Psychomachia di Prudenzio designa sovente i vizi nel nome delle Furie.
Ad ogni modo, sebbene non manchino le «fonti di ispirazione», è tuttavia evidente che, nel folgorante ritratto dei canti VIII e IX, l’elaborazione degli spunti classici è tale che è quasi impossibile sceverarne uno dall’altro o leggerli con chiarezza in filigrana. Quel che conta rilevare, però, è che, come accade in altre circostanze nella Commedia, la trama allusiva riemerge anche a notevoli distanze e che quindi tali mostri ricompaiono in forma mediata nel basso inferno e nell’Eden, quasi a saldare in una struttura circolare ed oppositiva i due estremi della città di Dite e lo spazio dell’innocenza. Il canto XXX della prima cantica si apre infatti, come è già stato notato, con ricercate descrizioni dei devastanti effetti delle Furie ripresi da Ovidio , l’incontro di Dante con Alberigo nel canto XXXIII è esemplato sul racconto ovidiano (Met. V, vv. 1-235) dello scontro fra Fineo e Perseo, vincitore di Medusa, mentre nel Purgatorio (XXX, v. 68), al suo riapparire, Beatrice è coronata della fronda di Minerva, antagonista della Gorgone ed alleata, appunto, di Perseo.
Nel primo caso il riferimento all’ipotesto è aperto e culmina nell’iperbole (vv. 22-3):
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
nell’ultimo è più generico ed interpretabile piuttosto come segnale in una rete che esamineremo in seguito, nel secondo è rilevante ma dissimulato.
In primo luogo, sia il tradimento rappresentato nell’Inferno XXXII che quello del poema latino hanno luogo durante una cena, momento centrale ed emblematico della liturgia cristiana, già evocato e terribilmente parodiato dal «fiero pasto» di Ugolino, quindi è analoga la struttura della scena. Il protagonista è supplicato da un altro personaggio (Met. V, vv. 216-8 cfr. Inf. XXXII, vv. 112, 148):
… «Remove tua monstra tuaeque
saxificos vultus, quaecumque ea tolle Medusae:
tolle precor»...
«levatemi dal viso i duri veli»
«Ma distendi oggimai in qua la mano»;
offre una risposta che apparentemente promette soddisfazione, ma si rivela poi ironica (Met. V, vv. 226-8 cfr. Inf. XXXIII, vv. 116-7):
... «Nullo violabere ferro;
quin etiam mansura dabo monimenta per aevum,
inque domo soceri semper spectabere nostri»
... «e s'io non ti disbrigo,
al fondo della ghiaccia ir mi convegna»;
commette infine sul rivale un atto di violenza connesso all’impietrire (Met. V, vv. 230-1 cfr. Inf. XXXIII, vv. 149-50):
Dixit et in partem Phorcinida transtulit illam,
ad quam se trepido Phineus obverterat ore.
... E io non lil’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
La raffigurazione delle lacrime che si solidificano è particolarmente elaborata ed accentua con il pathos la disumanizzazione (Met. V, vv. 232-5 cfr. Inf. XXXIII, vv. 93-9) :
Tum quoque conanti sua vertere lumina cervix
deriguit saxoque oculorum induruit umor;
sed tamen os timidum vultusque in marmore supplex
submissaeque manus faciesque obnoxia mansit;
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che trova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
In fondo Dante sembra giocare su un’espressione ovidiana, piegandone il termine chiave, anima, al valore cristiano , probabilmente sostenuto dall’allegoria che faceva di Perseo il virtuoso che difende l’anima — Andromeda — dall’assalto dei vizi (vv. 221-2) :
... «nihil, o fortissime, praeter
hanc animam concede mihi: tua cetera sunto».
I passi coinvolti nella trama intertestuale vertono infatti sulla dialettica morte/vita. Tuttavia nel personaggio mitologico la vita fisica e la vita spirituale sono annullate contemporaneamente, mentre nel traditore Alberigo è morta l’anima quando il corpo appare ancora vivo. Tale dialettica, d’altra parte, è la stessa che sottende a tutto il viaggio dantesco, trovando soluzione proprio sulla cima del purgatorio, ed è la stessa che si ritrova nel canto IX dell’Inferno. Qui il poeta, corporalmente disceso fra i morti, rischia di non poter più risalire alla vita (vv. 56-7):
«ché se il Gorgòn si mostra e tu’ l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso»,
mentre Virgilio rammemora il proprio coinvolgimento nell’evocazione di un morto del cerchio di Giuda — cerchio contiguo a questo di Alberigo . Là, invece, Beatrice afferma di aver salvato dalla morte l’amico suo conducendolo nel regno della morte (XXX, vv. 133-41) e lo ammonisce ad istruire i vivi «del viver ch’è un correre alla morte» (XXXIII, v. 54). Il medesimo sistema di parole-rima, «giuso»: «suso»: «(rac)chiuso», sancisce, con ritorno puntuale, questa complicata dinamica alto/basso, salvezza/perdizione (Inf. IX, vv. 53:55:57; Inf. XXXIII, vv. 134: 136: 138; Purg. XXXI, vv. 56:58:60) .
Analogamente un altro elemento ritorna e sembra quasi farsi icona dell’effetto di Medusa: il ghiaccio, che non solo è il più evidente e comune esempio di cristallizzazione, ma ha un chiaro valore negativo nella tradizione cristiana e, per di più, in alcune interpretazioni riprese da Dante nelle petrose è all’origine del cristallo, cioè di una pietra. E la pietra può simboleggiare, da una parte, Cristo, ma dall’altra, la durezza di cuore .
Freccero ha ricondotto la Pargoletta della rampogna di Beatrice alla donna Pietra e quindi a Medusa, riconoscendo nei versi 53-60 della canzone C i «versi strani» del canto IX dell’Inferno (vv. 49-54) grazie al ritorno delle stesse rime: «smalto»: «alto»: «assalto», ed ha pertanto collegato la, Gorgone alla grave colpa che Dante espierà a chiusura del Purgatorio. Ma anche l’immagine invernale, la stessa icona del gelo, che caratterizza il passo della poesia citata e si ripete in tutto il ciclo in cui essa è inserita , annoda un filo ulteriore, intrecciato con questo, calando dall’Eden al fondo della Caina.
Il paesaggio in cui sono immersi i traditori ricalca, infatti, con identità quasi perito quello delle petrose (Rime, C, vv. 53-60 cfr. Inf. XXXII, vv. 22-4) :
Versan le vene le fummifere acque
per il vapor’ che la terra ha nel ventre,
che d’abisso li tira suso in alto;
onde cammino al bel giorno mi piacque
che ora è fatto rivo, e sarà mentre
che durerà del verno il grande assalto;
la terra fa un suol che par di smalto,
e l’acqua morta si converte in vetro
per la freddura che di fuor la serra:
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
L’evocato «cammino» del «bel giorno» diviene percorso sul ghiaccio definito dalla medesima metafora del vetro; né sarà trascurabile che la strofa riportata culmini sull’attesa di una dolce morte — d’amore — riconducibile alle variazioni su vita e morte intrecciate nella Commedia. In più, anche Dante è gelato, non solo nel basso inferno, ove diventa quasi insensibile per la freddura (XXXIII, vv. 100-2) e pertanto, simbolicamente, quasi morto per l'angoscia del peccato («Io non morì’, e non rimasi vivo», XXXIV, v. 25), bensì alle ‘soglie del purgatorio, di fronte alla rappresentazione della tentazione demoniaca (VIII, v. 42); sicché i riferimenti al freddo manifestano gli stati del percorso interiore compiuto dall’agens, dal crescente terrore alla confidenza . Dinanzi a Beatrice (Purg. XXX, vv. 85-99), infatti, il pentimento si esprime attraverso la similitudine del disgelo:
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta dalli venti schiavi,
poi, liquefatta, in se stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lacrime e sospiri
anzi’ l cantar di quei che notan sempre
dietro alle note delli etterni giri;
ma poi ch’i’ntesi nelle dolci tempre
lor compartire a me, più che se detto
avesser: «Donna, perché sì lo stempre?»,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
della bocca e delli occhi uscì del petto.
Il dolore è chiuso nel cuore e solo la percezione della misericordia spezza la sua gelida scorza consentendo il pianto liberatorio. Per contro, in una precisa, simmetrica antitesi, i dannati del Cocito invocano la cortesia (XXXIII, v. 150) che, liberandoli dai duri veri delle lacrime, lasci sfogare il duol che impregna il cuore (XXXIII, v. 112), ma sono frustrati nelle loro aspettative e, privi essi stessi di pietà, sono condannati al rifiuto della compassione: il loro pianto è vano perché, come quello di Lucifero, è solo ghiaccio e nuovo tormento (Inf. XXXIV, vv. 53-4). Sono esattamente seguiti i dettami dei Padri della Chiesa secondo i quali il pianto è un momento fondamentale ed imprescindibile della contrizione e la sua assenza denota, in genere, il cor impoenitens, la durezza dell'animo. L'immagine usata, invece, è sostanzialmente un topos classico: quello della petrificazione conseguente a un dolore insopportabile, ascrivibile ai modelli ovidiani di Niobe o Fineo. In Dante tutto sembra, però, saldarsi con assoluta coerenza interna: nella Commedia si passa dal pianto vano, cristallizzato e negato dei dannati, alle lacrime purificatrici dell'Eden; e già nella Vita nuova al pianto per la morte di Beatrice fanno seguito, dapprima, l’impossibilità di piangere, nata dalla disperazione e sfociante nel traviamento, poi, il finale pentimento risolto nelle lacrime .
La simbologia di Medusa sembra insomma alludere ad angoscia e renitenza al pentimento: dove essa si mostra, ci sono pietra, ghiaccio; dove si nega, un disgelo del cuore si fa confessione, prima, e quindi pace. Essa configura, dunque, per così dire, le tappe principali del percorso stesso del poema, presentandosi in luoghi strutturalmente importanti: l’inizio e la fine di Dite, il paradiso terrestre. Le parti conclusive delle due cantiche, mentre realizzano una netta opposizione concettuale, risultano, per di più, in corrispondenza numerica. Ma anche i canti VIII e IX dell’Inferno, che sembrano restare un prologo irrelato, ad una osservazione più minuziosa rivelano corrispondenze interessanti proprio con i canti paralleli del Purgatorio: i quali rappresentano l’ultima e fondamentale tessera del complesso mosaico della Gorgone.
Alcune cesure sono particolarmente marcate nel primo e nel secondo regno : la porta scardinata dell’inferno (III) rimanda da un lato alla porta serrata di Dite (VIII-IX), dall’altro alla porta aperta del purgatorio (IX), mentre il rituale di lustrazione compiuto per ordine di Catone (Purg. I) si rispecchia nelle abluzioni nei fiumi sacri effettuate nel paradiso terrestre (XXXI, XXXIII). Dante stesso sottolinea, attraverso diretti riferimenti e parallelismi strutturali, il legame esistente fra tali passaggi.
Alle soglie della città infernale (Inf. VIII, vv. 124-6) Virgilio menziona espressamente la prima porta divelta, per insistere sull’arroganza dei demoni tesi ad ostacolare il cammino di Cristo così come quello dei due poeti, che non possono entrare «sanz’ira» (IX, v. 33):
«Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova».
E frequenti sono le metafore belliche che ripetono il tema della rixa christiana, ovvero della psicomachia, risolta solo dall’intervento divino . Per contro, l’entrata in purgatorio (vv. 107-10) si realizza semplicemente con la piena umiltà sia del pellegrino che del custode , così che, pur nella analogia delle situazioni, si assiste ad un ribaltamento speculare:
… «Chiedi
umilemente che’ l serrame scioglia.»
Divoto mi gittai a’ santi piedi:
misericordia chiesi che m’aprisse.
Segue subito un’implicita allusione alla petrificazione, quindi a Medusa. Sono infatti compresenti, quali modelli degli ammonimenti dell’angelo ai viandanti in procinto di varcare la porta, il racconto biblico di Sodoma e Gomorra ed il mito di Orfeo ed Euridice, entrambi allegoricamente interpretati come esortazioni a non ricadere nella tentazione . Di questo, in effetti, si tratta dal momento che inizia qui una sorta di espiazione dopo una simbolica confessione.
È generalmente riconosciuto che il colore cinereo della veste dell’angelo (vv. 115-6) indica l’umiltà necessaria al confessore, le chiavi (vv. 117-29) sono quelle della confessione, che i gradini ne sono le fasi: contritio cordis, confessio oris, satisfactio operis (vv. 93-102). Essa si presenta dunque come un rituale di passaggio scandito in tre parti (gli scaglioni) e coronato da un quarto (l’attraversamento della soglia di diamante). Il momento è preparato e reso solenne dall’apparizione della «mala striscia», figura emblematica della tentazione (VIII, vv. 94-108), e dal benefico intervento di Lucia (IX, vv. 13-63), che immediatamente lo precedono come parti di una sacra rappresentazione. Ben due appelli al lettore richiamano l’attenzione sull’altezza della materia e sulla sua valenza allegorica (Purg. VIII, vv. 19-21; Purg. IX, vv. 70-2):
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ’l trapassar dentro è leggero;
Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.
Le medesime caratteristiche si ritrovano nei canti numericamente corrispondenti dell’Inferno: tre sono le Furie che invocano Medusa e puntualmente ostacolano i gradi del pentimento. Già nel Convivio, d’altra parte, a commento di versi la cui movenza è affatto simile a quella dell’appello ai lettori del canto IX dell’Inferno :
Per che a’ntelletti sani
è manifesto lor diri esser vani,
Dante presenta una triade di vizi che impediscono gli animi sulla via della verità, che altro non sono se non una versione più laica ed estensiva, se così si può dire, degli atteggiamenti contrari alla conversione: la superbia di chi antepone il proprio giudizio a quello divino, la viltà di chi non sa guardare nel proprio animo senza disperare, la leggerezza di chi trascorre di colpa in colpa sentendosi sempre giustificato:
«L’una (infermitade ne la mente) è di naturale iattanza causata: ché sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe; [...]
L’altra è di naturale pusillanimitade causata: ché sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere; […]
La terza è la levitade di natura causata: ché sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le loro cagioni transvanno» .
L’apparizione della Gorgone figura la negazione assoluta della redenzione, laddove la soglia di diamante è la parte estrema della conversione. Il tono è di sacro mistero e un messo del cielo giunge in soccorso ai pellegrini , così come Lucia muove ancora una volta in aiuto del poeta e soprattutto così come gli angeli vincono, nella valletta dei principi, il serpente, «biscia» (v. 98), come biscia è, quasi in antifrasi, nel paragone, anche il messo del cielo (Inf. IX, vv. 76-81).
Due appelli al lettore punteggiano il racconto (Inf. VIII, vv. 94-6; Inf. IX, vv. 61-3), evidenziandone anche in questo caso il valore allegorico attraverso la stessa metafora del velo :
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
Per di più si ripropone in Purg. VIII, vv. 110-4 lo stesso sistema di parolerima di Inf. IX, vv. 50-4: «alto»: «smalto»: «assalto» ; mentre il motivo dello sguardo assume uno sviluppo più complesso. L’assoluto divieto di guardare Medusa trova, infatti, riscontro nella proibizione di rivolgersi indietro verso la porta del purgatorio, ma si oppone parzialmente — e si integra — sia al rispecchiamento dell’immagine del pellegrino nello «scaglion primaio» di pulito e terso marmo (Purg. IX, vv. 94-6), figura del più sofferto riconoscimento e della più personale confessione del paradiso terrestre (Purg. XXX, vv. 76-8), sia all’ordine di Beatrice (Purg. XXX, v. 73):
«Guardaci ben!»...
Proprio nelle parti conclusive della seconda cantica si riflettono nuovamente, per altro verso, i canti VIII e IX, perché vi si compiono definitivamente tutti i momenti della conversione nella personale confessione del poeta. Egli è indotto ad ammettere le proprie colpe a viva voce (Purg. XXXI, vv. 1-5, 37-42) e a piangerne (Purg. XXX, vv. 55-7, 108, 142-5), dopo aver vista riflessa la propria immagine ed averne provato vergogna e compunzione, ma anche speranza (Purg. XXX, vv. 74-99; XXXI, vv. 43-4, 46). E quindi guidato dalla riflessione sulla caducità delle cose umane ad una più profonda fede e ritorna finalmente puro, spiritualmente rinnovato (Purg. XXXI, vv. 47-63, 85 segg.), così come i salmi citati corrono dal pentimento e dalla speranza individuali al comune giudizio invocato sull’umanità traviata .
Gli occhi, inizialmente bassi, come erano di fronte a Medusa, devono ora, in chiaro contrasto, rialzarsi. Allo stesso modo la dinamica degli sguardi era fondamentale nella Vita nuova, laddove Dante narrava il proprio traviamento, e nel Convivio, dove si scioglieva l’allegoria della donna gentile .
L’immersione nei fiumi ricorda emblematicamente il battesimo, ritorno alla vera vita: lo confermano le immagini primaverili, antitetiche al gelo dell’inferno e dell’animo stesso del penitente. Le parallele rinascite dell’albero del bene e del male e del poeta, «rifatto sì come piante novelle/rinovellate di novella fronda» (Purg. XXXIII, vv. 143-4), stabilendo una perfetta corrispondenza fra dimensione individuale e universale già implicita nel giunco del canto I del Purgatorio, sanciscono la conquista dell’uomo nuovo.
Si dimostra, in conclusione, l’esistenza di un «sistema» che coinvolge i canti iniziali, indirettamente, VIII-IX e conclusivi, direttamente, delle prime due cantiche della Commedia, nella raffigurazione delle tappe più importanti del cammino della redenzione umana. Alla simbologia battesimale e di rinnovamento (canti iniziali ripresi in quelli finali) se ne affianca una allusiva all’espiazione e più precisamente alla confessione (canti VIII e IX ripresi in quelli conclusivi), caratterizzata dal superamento di una crisi e dall’attraversamento di una soglia . Nei rituali più antichi, proprio dal portale della chiesa partiva il cammino penitenziale ed anche ai tempi di Dante il periodo pasquale — periodo in cui egli colloca il proprio viaggio — era destinato al sacramento della riconciliazione.
La concezione della confessione e della penitenza subì un’evoluzione nella storia della Chiesa, nel senso di una classificazione vieppiù precisa dei peccati, dell’elaborazione di formulari relativi alle opere penitenziali, di modifiche nell’ordine e nell’importanza reciproca delle parti del rituale. È tuttavia documentata sin dalle origini una omologia fra la riconciliazione del penitente ed il battesimo quale è quella proposta da Dante, nonché una tripartizione della penitenza: pre-battesimale, «seconda» per i peccati mortali e quotidiana. Agostino si occupa ampiamente del problema, rappresentando senza dubbio un riferimento fondamentale: abbondantissime sono in merito le sue riflessioni e sensibile la sua influenza sempre riemergente, tanto che lo stesso Tommaso, ritornando su questa centralissima questione teologica, sia nella Summa (III,84 segg.) che nell’opuscolo De formula absolutionis non si discosta sostanzialmente da lui, in una formidabile sintesi per tutta la cristianità. Iter e modi della penitenza, tra l’altro, erano tornati di attualità anche perché il IV Concilio lateranense del 1215 li aveva riesaminati stabilendo che almeno una volta l’anno il peccatore dovesse accostarsi a tale sacramento, cosa che aveva stimolato una nuova fioritura di summe ad uso del confessore, mentre già la questione era stata variamente riproposta nei commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo, che all’argomento dedica diverse pagine (4, dd 14-22).
Due discorsi agostiniani, in particolare, simili ed omonimi, De utilitate agendae poenitantiae, CCCLI e CCCLII , si diffondono sul tema con toni suggestivi. Illustrata la ripartizione citata, ribadiscono la gravità della seconda penitenza, ma esortano a non cedere alla disperazione. L’anima deve farsi tribunale di se stessa e, senza presumere un perdono continuo che la giustifichi nella perseveranza nel peccato, abbandonare fiduciosamente il passato. Disperare significa, infatti, sostituire il proprio giudizio a quello di Dio, sottovalutando la sua misericordia ed ostinandosi nel peccato. È questo un principio imprescindibile che ritorna in tutta la trattatistica sull'argomento e che lo stesso Pietro di Dante, citando proprio Agostino, utilizzerà per motivare la dannazione in vita dei traditori della Tolomea . Quindi il primo sermone, CCCLI, di tradizione manoscritta piuttosto ampia, sviluppa principalmente il tema dell’umiltà; il secondo, CCCLII, più raro, ma comunque presente a Firenze — e non solo — nel fermento delle scuole dei religiosi e dei predicatori , si dedica maggiormente agli exempla. Sulla base di un uso esegetico che si rafforzerà fino a tradursi nell’iconografia , Giuda rappresenta il disperato, Lazzaro, invece, la grazia divina che vince anche un peccato mortale inveterato (quadriduanus). Mosé, allora, quasi medio fra questi due estremi, è assunto quale immagine del momento della crisi (I, iv-v, coll. 1554-5), come accade in forma più schematica, scevra da ulteriori elementi, nelle famose e certamente note a Dante Enarrationes in Psalmos (105, 28).
«Evidenter, charissimi, costringit nos ipse Deus, non passim reprehendere, sed intelligere dubitationem Moysi. Figura petra iacens, figura virga percutiens, figura aqua fluens, figura et Moyses dubitans. Et ibi dubitavit, ubi percussit. Hinc facta est dubitatio Moysi, quando lignum accessit ad petram. Tam veloces praevolant, immo tardos patienter exspectent. Dubitavit Moyses quando lignum accessit ad petram: dubitaverunt discipuli quando viderunt Dominum crucifixum. Horum figura gerebat Moyses. Figura erat Petri illius ter negantis. Quare Petrus dubitavit? Quia lignum petrae propinquavit. Cum mortis suae genus, id est, crucem ipsam praenuntiaret Dominus, ipse Petrus expavit: «Absit a te, Domine, non erit hoc» (Matth. XVI, 22). Dubitas, quia petrae imminere virgam vides. Ideo spem suam, quam gerebant de Domino discipuli, tunc perdiderunt: quodam modo intercepta est, quando crucifixum viderunt, quando planxerunt occisum. Invenit eos post resurrectionem loquentes inter se de hac re, tristi colloquio; et tenens oculos eorum ne ab eis agnosceretur, non se auferens credentibus, sed differens dubitantes, se tamquam tertium collocutorem sermoni commiscuit, et quaesivit ab eis unde loquerentur. Mirantur illi, quia solus ignorat quod in eo factum fuerat qui quaerebat. «Tu, solus», inquiunt, «peregrinaris in Jerusalem?» Et commemorant quae gesta sint de Jesu. Et continuo iam desperationis suae medullas aperiunt, et vulnus medico licet nescientes ostendunt: «Nos autem», inquiunt, «sperabamus quod in illo redemptio esset Israel» (Luc. XXIV, 13-21). Ecce facta est dubitatio, quia lignum accessit ad petram: impleta est figura Moysi.
5. Moyses in monte moriens, quid adumbravit.
Videamus et hanc: «Ascende in montem, et morere». Per mortem corporalem Moysi figurata est mors ipsius dubitationis; sed in monte. O mira mysteria! Hoc certe expositum et intellectum, quanto dulcius quam manna? Ad petram nata est dubitatio, in monte mortua est. Quando fuit humilis Christus in passione, quasi petra iacebat ante oculos: merito in illo dubitabatur, humilitas illa nihil magnum praetendebat. Merito ipsa humilitate factus est lapis offensionis: resurrectione autem clarificatus magnus apparuit, iam mons est. Iam ergo illa dubitatio, quae nata erat ad petram, in monte moriatur. Agnoscant discipuli salutem suam, revocent spem suam».
Il consueto metodo di lettura figurale associa l’episodio di Mosè, incerto in procinto di far scaturire l’acqua dalla pietra, alla negazione di Pietro, al dubbio degli apostoli dinanzi al Crocifisso e considera l’ordine di morire in cima al monte impartito al patriarca per punire la sua esitazione come morte del dubbio stesso per una nuova certezza. I segni sono i medesimi della Commedia dantesca: la pietra si oppone al monte. La pietra indica la morte di Cristo, il monte la sua glorificazione. La pietra è il momento del dubbio, il monte la sua risoluzione. Medusa — la pietra — è la minaccia alla fede nata dalla disperazione; Beatrice trasfigurata nell’Eden — il monte — è speranza e salvezza. L’una è terrore che obnubila, l’altra certezza.
La dialettica speranza/disperazione, che si manifesta sovente come dubbio, pervade le prime due cantiche, soprattutto in corrispondenza delle porte e delle parti conclusive. Nel II canto dell’Inferno, Dante incerto chiede a Virgilio un esame della propria idoneità al viaggio; nell’ottavo, allorché spaventato e dubbioso propone di ritornare indietro, egli risponde (vv. 106-7):
«... m’attendi e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza bona».
Nel nono, ancor più timoroso, è confortato dalla guida (v. 30):
«... però ti fa sicuro».
Raggiunge la massima angoscia nel fondo dell’inferno, ma essa appare quasi smorzata, mentre è intensa, simile a quella della prima cantica, ma subito superata, alle soglie del purgatorio (VIII, vv. 41-2; IX, vv. 41-2, 46-8 e 64-5):
mi volsi intorno, e stretto m'accostai,
tutto gelato. alle fidate spalle,
... e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia,
«Non aver tema» disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto:
non stringer, ma rallarga ogni vigore»,
A guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta,
e che muta in conforto sua paura.
Il vero vertice drammatico, tuttavia, si tocca nel paradiso terrestre, ove il poeta rivive, giudicandola, la propria esperienza nel dialogo con Beatrice, per giungere finalmente alla riconciliazione. La voce quasi non esce per l’angoscia; la speranza sembra caduta (XXXI, vv. 25-7 e 34-6):
«quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar le spene?»
... «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose».
La pietra ha già quasi sopraffatto la coscienza, se la colpa rende l’animo ottuso persino dopo il perdono (XXXIII, vv. 73-5), perché non è conoscenza ove sia durezza di cuore :
«ma perch’io vedo te nello ’ntelletto
fatto di pietra, ed impietrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto».
E lo svenimento prima (XXXI, vv. 88-90), il sonno poi (XXXII, vv. 64-9) sono una morte. Ma una morte al peccato è, invero, una rinascita. Né è casuale che il protagonista sia risvegliato dalla stessa parola dell’appello di Lazzaro, «surgi» (XXXII, v. 72): la sua anima libera e pura torna alla vita, morendo sul monte il dubbio destatosi innanzi alla pietra.
La struttura risulta perfettamente equilibrata, dall’aversio infernale attraversata e vinta alla conversio completamente attinta là dove «è l’uom felice» (Purg. XXX,75) e la grazia costituisce il fondamento della limpida costruzione. Essa non è soltanto il presupposto di tutto il cammino di redenzione narrato, come mostra la digressione di Virgilio sull’intervento di Beatrice (Inf. II, vv. 43-140), ma accorre puntualmente in aiuto delle facoltà umane, prima attraverso il «messo del cielo» nell’inferno (IX, vv. 64-105), poi attraverso gli angeli e Lucia nel purgatorio (VIII, vv. 25-39, 94-108; IX, vv. 52-69), con perfetta corrispondenza delle funzioni. Non esiste, infatti, salvezza per sola volontà umana. All’uomo tocca l’assenso, la cooperazione con il divino soccorso e la fede che la misericordia non viene mai meno a chi è davvero pentito. Così la confessione di Dante (Purg. XXX) è preparata dal salmo XXX, In te Domine speravi (vv. 82-4), ed egli riesce finalmente a piangere solo quando percepisce, proprio in quelle parole, la compassione degli angeli (vv. 94-5):
ma poi ch’intesi nelle dolci tempre
lor compartire a me...
L’aderenza alla patristica è piena, dal momento che essa, se si escludono posizioni particolarmente rigide come quella di Tertulliano, sottolinea sempre che il peccatore può dannarsi solo se persevera nel male, disperando della remissione delle sue colpe con una scelta di folle rifiuto, laddove Dio opera in tutto e per tutto per la salvezza.
Lo chiarisce definitivamente Agostino esaminando nel Sermone LXXI la problematica ed apparentemente contraddittoria affermazione di Cristo che tutte le colpe saranno perdonate, ma non la bestemmia contro lo Spirito santo . Egli, con un'intuizione ripresa anche da San Bernardo e ridiscussa da Tommaso , giunge a definire tale bestemmia come il disconoscimento di quel legame d’amore che sussiste tra il Padre ed il Figlio (lo Spirito santo, appunto), amore che costituisce il principio stesso della grazia e della comunità dei fedeli. Bestemmiare lo Spirito santo significa dunque negare la possibilità del perdono da parte di Dio e della Chiesa che ne è interprete e manifestazione, svelando la letale durezza del cuore (LXXI, xx, col. 45):
«Ipse secundum duritiam cordis sui et cor impoenitens
thesaurizat sibi iram in die irae».
Ora, se le Furie, nella loro qualità di demoni della malvagità e del rimorso, tanto per la cultura classica, quanto nella reinterpretazione cristiana, si sono prestate bene all’inserimento in una più complessa simbologia della conversione, divenendo segni degli atteggiamenti e delle operazioni contrari a quelli necessari alla confessione stessa, Medusa, già in parte ad esse legata dalla tradizione e presentata da Dante come loro coronamento grazie al recupero della topica metafora biblica del cuore di pietra, non può che rappresentare tale negazione dello Spirito santo, che rende impossibile il perdono; e la misteriosa dannazione in vita di alcune anime della Tolomea, proprio a Medusa connesse da diverse corrispondenze, non può che essere la conseguenza di tale peccaminosa attitudine. La contiguità con il cerchio degli eretici della prima menzione della Gorgone enfatizza il diniego nei confronti della comunità cristiana come unità insolubile; mentre, d’altro canto, l’epilogo nella palude gelata rimarca al sommo grado la perversa azione del crimine che, distruggendo «non pur lo vinco d’amor che fa natura» (Inf. XI, v. 56), ma quello «ch’è poi aggiunto / di che la fede spezial sia cria» (ibid. vv. 62-3), contrasta l’essenza stessa dell'amore. Non è trascurabile, in questo senso, che gli atroci tradimenti e le pene del Cocito risultino crudeli parodie del sommo momento di comunione dell’agape: Ugolino, ucciso per fame, rode il capo dell’arcivescovo Ruggieri; frate Alberigo tradisce nel corso di un banchetto, così come il suo archetipo mitico Fineo; Giuda, infine, traditore di Cristo nell’ultima cena, è masticato in una delle bocche di Lucifero . D’altronde, la vendetta di Dante su Filippo Argenti, vendetta non dissimile dalla «villania» riservata ad Alberigo, è sorprendentemente commentata da Virgilio, come è stato notato, con parole evangeliche (Inf. VIII, vv. 44-5): le quali, però, provengono da un capitolo relativo alla cacciata dei demoni (Luc. 11, 27) e di poco precedono proprio il passo inerente la bestemmia contro lo Spirito (Luc. 12, 8-10; Matth. 3, 28-9).
Dante, attraverso Medusa e la sua complessa trama di allusioni e valenze, ha quindi chiaramente rimarcato le difficoltà che ogni uomo incontra sulla via della redenzione, perché è facile cedere non solo alla tentazione, ma anche alla convinzione che le proprie colpe siano imperdonabili. Ha altresì dimostrato, e con le anime del purgatorio, e con la stessa eccezionalità del suo viaggio, che la salvezza è un miracolo sempre possibile.
Eppure egli non si limita a «trascrivere»; la sua individualità è sempre presente: scende nel mondo dei morti e non solo corre il pericolo di non riemergere, ma compie personalmente un rituale penitenziale dall’accusa particolarmente aspra e sofferta. Non è, insomma, uno spettatore neutro, ma l’attore di una terribile esperienza vissuta e superata, che inscena nel dramma universale della perdizione e della redenzione la propria storia personale. Non si tratta più, però, semplicemente, della vicenda biografica, narrata nella Vita nuova e nel Convivio, in cui egli, inizialmente fedele amante di Beatrice, alla sua morte cadde perché, sopraffatto dall’angoscia e dal dubbio, si volse a falsi beni e poté essere salvato perché al gratuito intervento della donna seppe rispondere con il pentimento e la speranza, vincendo l’insidia di una disperata ostinazione, ma di un messaggio ben più forte. Attraverso un’audace rilettura figurale della propria temperie umana e letteraria, infatti, la fase di disperazione dinanzi alla morte di Beatrice si assimila al dubbio degli apostoli dinanzi alla morte di Cristo, e l'abbandono dell’amata, con la conseguente immersione in una dimensione prettamente terrena, si sovrappone al tradimento della fede stessa. Pertanto, se già dalla Vita nuova Beatrice mostrava qualche allusione cristologica, e morte, disperazione, tradimento, pentimento, e ritorno all’amata costituivano il drammatico epilogo della vicenda, ora la disperazione al suo trapasso è la fine della speranza oggettiva della trascendenza, soggettiva della salvezza, e l’infedeltà nei confronti di lei è rinnegamento della fede in se stessa. Per questo il tradimento della sua me- moria è comparabile al più grave dei tradimenti dell’ultimo cerchio infernale e pone veramente a repentaglio la salute dell’anima con lo spettro di Medusa. Per questo il rimprovero può trascorrere così agevolmente dalla passione per la Pargoletta (Purg. XXXI, vv. 58-60) alla dottrina della scola (Purg. XXXII, vv. 85-6). La caduta in un amore terreno è anche il rifiuto della beatrice, cioè l’estremo diniego di quanto ella rappresenta. Ma appunto per tale motivo il cammino del poeta è il cammino dell’Everyman, la sua contri- zione è quella di ognuno, e i suoi ostacoli sono comuni con tutta la Chiesa: la superbia, il timore, l’incostanza, sterili esiti del rimorso, come le Furie, portano all’impenitenza, alla bestemmia contro lo Spirito, se non sopraggiunge, accolta con umiltà, la grazia, la quale consente di passare inferno e purgatorio per ritrovare nel paradiso terrestre l’innocenza.
Ecco che, durante il viaggio del pellegrino, si svolge un rito di penitenza che del viaggio stesso è presupposto. I luoghi deputati ne sono i canti VIII e IX e quelli finali di Inferno e Purgatorio, scelti a rappresentare rispettivamente aversio e conversio; i «ministri» ne sono, da un lato, le Furie e Medusa, dall’altro, l’angelo «portinaio» e Beatrice; la grazia ne è la garanzia. Così, il terribile sguardo della Gorgone si distende ampiamente, in via diretta oppure attraverso l’icona del gelo, scomparendo definitivamente solo al riapparire di Beatrice, sua nemica ed antitesi, secondo una formula che consente al poeta di sovrapporre perfettamente il proprio traviamento a quello dell’umanità intera nei confronti della fede.