Dati bibliografici
Autore: Veronica Albi
Tratto da: La letteratura italiana e le arti. Atti del XX Congresso dell'ADI - Associazione degli Italianisti, Napoli, 7-10 settembre 2016
Editore: ADI Editore, Roma
Anno: 2018
L’ingresso nella città di Dite, a cavaliere fra i canti VIII e IX dell’Inferno, ha da sempre colpito l’immaginazione dei lettori per il fascino e la complessità della scena, ancora non del tutto illuminata dalle pur numerosissime letture dedicatele nel corso dei secoli. Nonostante l’abbondanza della letteratura critica in merito, alcune cruces sembrano destinate a rimanere tali, in particolare la minaccia rappresentata da Medusa. Per tentare di indagare i punti meno perspicui del IX canto, i commentatori antichi hanno spesso chiamato in causa, seppure in modo piuttosto cursorio, le opere dei mitografi, mentre la critica moderna ha fatto ricorso prioritariamente all’epica di Virgilio e di Lucano. A ragione, certamente, giacché a questi due ipotesti Dante fa esplicito e frequente riferimento. È ben noto come, nel suo complesso, la scena dell’ingresso entro Dite riprenda il brano del sesto libro dell’Eneide, in cui Enea descrive le soglie del Tartaro (Aen. VI 384-410, 548-56 e 570-75): entrambe le città infere sono circondate dall’acqua (lo Stige) e, per essere raggiunte, richiedono l’intervento di un nocchiero (Flegiàs per Dante, Caronte per Enea); inoltre sono cinte da mura ferree e infuocate, su cui si eleva una torre. Da questa, sorveglia la soglia la furia Tisifone, che nell’Eneide appare solitaria (Aen. VI 374-5), mentre nella Commedia – forse per contaminazione con le Metamorfosi di Ovidio (Met. IV 453-4) – è in compagnia delle sorelle Aletto e Megera. È alle Furie che Dante attribuisce il rimorso per non aver impedito l’ingresso di Teseo ed Ercole nell’Ade (Inf. IX 54), mentre il medesimo rimprovero (con tanto di riferimento alle stesse catabasi eroiche) è da Virgilio destinato a Caronte (Aen. VI 386-97): rilievo che dimostra come Dante assegni alle Furie, coadiuvate dai diavoli di vedetta sulle mura, il ruolo di guardiane e di garanti dell’ordine del basso inferno, impedendone l’accesso ai vivi.
Accanto alla presenza del basso continuo virgiliano si coglie anche la ripresa del sesto libro della Pharsalia (VI 423-749), evocata sia attraverso la menzione della maga Erittone (nel poema lucaneo protagonista di un episodio di sciomanzia e da Dante coinvolta in un’inedita operazione necromantica di cui Virgilio è lo strumento), sia nella descrizione del messo celeste, assai vicina a quella della misteriosa divinità ctonia evocata dalla maga tessala per sollecitare l’intervento degli dèi inferi (VI 744-9).
Come notato da Barański in una sua bella lettura dei canti IX-XI, le figure mitiche evocate da Dante non sono legate specificamente a un testo o a un autore, ciò che spinge lo studioso a considerarle sostanzialmente come emblemi della cultura pagana. È vero in effetti che un’interrogazione dei principali testi classici compulsati da Dante non offre chiavi esegetiche risolutive, soprattutto per quanto concerne la Gorgone. Nei volumi presenti sul suo scrittoio, in primis appunto i poemi di Virgilio, Lucano e Ovidio, Dante leggeva la storia dell’avvenente fanciulla dai bellissimi capelli, posseduta da Nettuno entro un tempio consacrato a Minerva e punita dalla dea per l’oltraggio subìto con la metamorfosi in mostro anguicrinito e dotato di uno sguardo pietrificante (Met. IV 794-803). Vi apprendeva anche della collocazione liminare infera del mostro: Enea afferma di averlo visto nel vestibolo dell’Orco, insieme alle altre due Gorgoni, ai Centauri, alle Scille, a Briareo, all’Idra e alla Chimera (Aen. VI 285- 9). Anche da Lucano si poteva desumere che Medusa avesse sede infera (Phars. VI 744-9): se infatti il misterioso dio evocato da Erittone era in grado di guardare in volto la Gorgone senza subirne l’effetto mortifero − e dunque rappresentava una formidabile minaccia per gli dèi ctonii −, se ne arguisce che proprio tra questi risiedesse Medusa.
Non mi soffermo sugli episodi del mito che non hanno particolare rilevanza in vista dell’episodio qui in esame, dunque ometto i brani sull’eziologia dei serpenti africani o sulla mostruosa progenie di Medusa. Mi concentrerò piuttosto su un altro elemento fondamentale, ampiamente presente nei classici, e cioè l’associazione del capo di Medusa all’egida di Atena (Met. IV 802-3). Come noto, Perseo, dopo aver mozzato il capo del mostro (che continuò a possedere il suo potere pietrificante), ne fece dono a Minerva (che lo aveva favorito munendolo del clipeo riflettente) e la dea lo appose sulla propria egida – simbolo di sapientia e prudentia − per scoraggiare l’avvicinamento degli insipienti. Questa nozione e la sua rielaborazione mitografica sono centrali per la comprensione del ruolo di Medusa nella Commedia. La mia ipotesi è che il poeta, attraverso il riferimento al Gorgone, stia alludendo al pericolo della superbia intellettuale e stia dunque rappresentando – per via allegorica – l’impasse che, giunto al confine tra la zona dell’inferno riservata ai peccati d’incontinenza e quella riservata ai peccati di malizia (dunque perseguiti razionalmente), potrebbe paralizzare Dante-agens, di per sé piuttosto indulgente e confidente nelle possibilità della ratio umana. Una ratio, però, suscettibile di errare fatalmente, come dimostrano le vicende degli eretici e soprattutto quella, emblematica, di Ulisse. Del resto, che i canti IX-XI siano incentrati sul problema del più o meno corretto uso delle facoltà intellettive e in particolare sul tema dell’ermeneutica (che rinvia direttamente al vicino canto degli eretici) era stato già notato almeno da Franke e da Barański. È proprio in quest’ottica, io ritengo, che la scena e i suoi mitici attanti vadano collocati in una zona autonoma, in cui Dante decide di porre l’ostacolo che, giunto proprio a quel punto del suo viaggio, poteva inficiare il proseguimento dell’iter sapienziale (giacché, come noto, tale è la catabasi dantesca); pertanto mi sembrerebbe riduttivo tentare di assimilare Medusa ai peccati topograficamente limitrofi, cioè ira ed eresia (con decisa preferenza dei critici per l’annessione al sesto cerchio).
Ripercorro brevemente la scena. I diavoli negano l’accesso a Dante e a Virgilio, quest’ultimo doppiamente deluso per il fallito abboccamento da lui tentato con i «piovuti da’ ciel»; le Furie si accorgono della presenza dei due viatores, uno dei quali ancora vivo, e, temendo di non riuscire a impedirne l’accesso entro Dite (come già accadde con Teseo ed Ercole), invocano l’accorrere di Medusa, al cui solo nome Dante viene còlto dal terrore. Come si è detto, nulla di simile s’incontra nei poemi della latinità. Giovanni Cerri ha proposto d’identificare il sottotesto di riferimento nell’episodio omerico del finale della Nèkyia di Ulisse (Od., XI 627-37), in cui l’eroe, sceso nell’Ade per incontrare Tiresia e sapere del proprio destino, vorrebbe trattenersi ancora per parlare con Teseo e Piritoo, ma la minaccia dell’arrivo di Medusa lo terrorizza e lo spinge alla fuga. Nonostante il tentativo di Cerri di rendere plausibile il riscontro intertestuale omerico, ipotizzando una conoscenza mediata da florilegi e antologie (di cui però non abbiamo alcuna traccia) o dalla viva voce di qualche intellettuale edotto del greco, l’ipotesi è troppo debole per essere sostenuta. Inoltre l’idea che Medusa fosse una sorta di terrifico dissuasore rispetto ad un illegittimo desiderio di conoscenza – rappresentato appunto nella scena omerica – poteva giungere a Dante attraverso molti altri testi.
Innanzitutto l’associazione, di marca pseudo-etimologica, tra Gorgone e terrore è decisamente comune nei mitografi (semmai l’unica differenza è nell’attribuzione del terrore a tutt’e tre le Gorgoni o alla sola Medusa). Come già ricordato dallo stesso Cerri, si trova ad esempio in Fulgenzio (Mith. I 21: «Gorgonas dici voluerunt tres, id est tria terroris genera; primus quippe terror est qui mentem debilitat, secundus qui profundo quodam terrore mentem spargit, tertius qui non solum mentis intentum, uerum etiam caliginem ingerat uisus – unde et nomina tres Gorgones acceperunt» e III 1: «Gorgona enim pro terrore ponitur»); nel Primo Mitografo Vaticano (130: «unde et Gorgones dictae a terrore: gorgo namque Graece terror dicitur […] Gorgon terror interpretatur»); in Arnolfo d’Orléans (v. 1: «Gorgon siquidem terrorem signat»); in Remigio di Auxerre (In Mart. 153.9: «Unde et Gorgonae a terrore dictae sunt, Gorgo namque terror dicitur»); nel Secondo Mitografo Vaticano (113 «Gorgo terror est. […] Haec omnia terrorem faciunt in hominibus»); in Bernardo Silvestre («tercia [sc. delle Gorgoni] est mali operatio que Greco vocabulo Medusa, id est terror, dicitur»); in Giovanni del Virgilio («nam Gorgon id est terror»).
Parimenti diffusa è l’idea del Gorgoneion come dissuasore rispetto ad un indebito accostamento alla sapienza di Minerva. Se ne registrano occorrenze in Servio (In Verg. «Aen.» VIII 438: «hoc autem caput ideo Minerva fingitur habere in pectore, quod illic est omnis prudentia, quae confundit alios et imperitos ac saxeos comprobat»); in Marziano Capella (De nuptiis VI 572: «Pectore saxificam dicunt horrere Medusam, / quod pavidum stupidet sapiens sollertia vulgum»); in Fulgenzio (Mith. II 1: «Gorgonam etiam huic addunt in pectore quasi terroris imaginem, ut vir sapiens terrorem contra adversarios gestet in pectore»); in Isidoro (Etym. VIII 11.73: «In cuius pectore ideo caput Gorgonis fingitur, quod illic est omnis prudentia, quae confundit alios, et imperitos ac saxeos comprobat: quod et in antiquis imperatorum statuis cernimus in medio pectore loricae, propter insinuandam sapientiam et virtutem»); nel Secondo Mitografo Vaticano (50: «ideo [Minerva] fingitur armata quia sapientia sit munita; Gorgonem huic addunt in pectore ut vir sapiens terrorem contra adversarios gestet in mente» e 113: «Hujus [Medusae] autem caput fingitur in pectore Medusa habere, quod illic est omnis prudentia, quae confundit alios, et saxeos et imperitos probat»).
È però solo in Fulgenzio che il quadro sapienziale si articola ulteriormente attraverso la descrizione dei due ostacoli da superare per accedere alla conoscenza. Il Gorgoneion è, sì, il terrore che protegge la prudentia, ma ha una funzione propedeutica, esso cioè coincide con l’inizio della sapienza. Questa nozione chiave s’incontra nelle Mithologiae, laddove Fulgenzio afferma esplicitamente la necessità di sconfiggere Medusa-terrore per accedere ad un percorso sapienziale. Si tratta della fabula Bellerofontis, cioè della storia dell’eroe che, cavalcando Pegaso, nato dalle gocce di sangue della Gorgone, uccise la Chimera. Intento a spiegare il significato riposto di questo mito, Fulgenzio individua in Bellerofonte il buon consiglio, in Pegaso – alato perché «percorre la natura intera del mondo attraverso la speculazione rapida del suo pensiero» − scorge l’emblema della fonte eterna, giacché «la saggezza in effetti è la fonte eterna del buon consiglio». Soffermandosi ancora sull’origine mitica del cavallo alato, inscindibilmente legato al mito meduseo, Fulgenzio spiega:
Ob hac re etiam sanguine Gorgonae nascitur; Gorgona enim pro terrore ponitur; ideo et in Mineruae pectore fixa est, sicut Homerus in tertio decimo ait […]. Ergo hic duplex assertio est; aut enim terrore finito sapientia nascitur, sicut de sanguine id est de morte Gorgonae Pegasus, quia stultitia semper est timida, aut initium sapientiae timor est, quia et magistri timore sapientia crescit et dum quis famam timuerit sapiens erit.
È pur vero che Fulgenzio parla qui, molto prosaicamente, del «magistri timore» − concordemente con la destinazione scolastica dello scritto – ma, trattandosi di un’opera il cui proposito era disvelare la spontanea convergenza della mitologia pagana con la verità cristiana, non sarà affatto arbitrario individuarvi un principio della gnosi cristiana: «Timor Domini principium sapientiae [est]» (vd. Sir. 1.16; Ps. 110.10 e Prov. 1.7). Il cristiano Fulgenzio doveva essere ben consapevole della necessità di un perseguimento moderato della sapienza, costantemente guidato dalla parola divina e soprattutto non eccessivamente confidente nelle possibilità della ratio umana, la quale, priva della fede, diviene uno strumento pericoloso, paradossalmente tanto più pericoloso quanto maggiori sono le risorse razionali del soggetto. È dunque ben possibile che Dante debba affrontare ed esorcizzare il rischio di fidarsi solo delle proprie capacità intellettive, tanto più che sta per entrare in contatto con quei peccatori che hanno meritato la dannazione proprio in conseguenza di un uso spregiudicato e perverso della ragione.
Egualmente importante ai fini del progresso conoscitivo è anche la mortificazione della superbia, più precisamente della superbia intellettuale. È ancora una volta Fulgenzio a soccorrerci, con il brano della Virgiliana continentia in cui interpreta allegorice la sfida di Miseno a Tritone. Ciò che mi preme, di questo passo, è il riferimento pseudo-etimologico a Tritone come derivato dal greco tetrimmenon, ‘sbriciolare’, da cui deriverebbe a Minerva l’attributo di Tritonia in quanto distruggitrice della superbia:
Ergo nisi vanae laudis pompam orrueris, numquam secreta sapientiae penetrabis; vanae enim laudis appetitus numquam veritatem inquirit, sed falsa in se adulanter ingesta velut propria reputat. Denique etiam cum Tritone bucino atque conca certatur. Vides enim quam fixa proprietas; vanae enim laudis tumor ventosa voce turgescit, quem quidem Triton interimit quasi tetrimmenon quod nos Latine contritum dicimus; omnis ergo contritio omnem vanam laudem extinguit. Ideo et Tritona dicta est dea sapientiae; omnis enim contritio sapientem facit.
Non si dimentichi inoltre che esisteva una tradizione medievale secondo cui Minerva avrebbe trasformato Medusa in mostro per punirla della sua superbia (Mit. Vat. II 112), dunque è possibile che, nella mente dei lettori medievali e quindi anche di Dante, i rischi rappresentati da timore e superbia si saldassero nella sola figura di Medusa. Ne consegue che timore e umiltà, per i pagani come per i cristiani, presiedono all’iniziazione sapienziale e si prospettano quali valori cardinali per il proseguimento del viaggio dantesco nel regno della frode.
A confermare la verosimiglianza di un discorso dantesco incentrato sul pericolo della superbia intellettuale concorrono anche i riferimenti alla superbia generale disseminati nei canti VIII-IX. Del resto Dante doveva ben sapere che anche la descrizione virgiliana delle porte del Tartaro era stata commentata da Fulgenzio e da Bernardo Silvestre proprio con riferimento alla superbia. Nella Continentia Fulgenzio spiega come l’immagine virgiliana delle mura infere rappresenti con evidenza «la figura della superbia e della presunzione», ulteriormente rafforzata dalle colonne adamantine, simbolo della superbia che né Dio né la forza umana riescono a far recedere. Bernardo Silvestre, commentando gli stessi versi virgiliani e attardandosi in particolare sulla sorveglianza perenne dell’insonne Tisifone, afferma che «la scienza o l’ignoranza si associano ad una mente presuntuosa, i sapienti divengono superbi per le nobili imprese così come gli insipienti per quelle immorali» e che «la cattiva parola è sempre presente sulla bocca depravata del superbo».
Dunque mi sembra piuttosto verosimile che i testi mitografici – ancor più dei classici − abbiano nutrito l’immaginazione creatrice di Dante nell’atto di comporre questi canti, ricordandogli come le soglie dell’Erebo e alcune delle mostruose figure ivi accolte venissero interpretate come allegoria del peccato che, più di tutti, sembrava assillare la mente del poeta