Dati bibliografici
Autore: Zygmunt G. Baranski
Tratto da: Versi controversi. Letture dantesche
Editore: Edizioni del Rosone, Foggia
Anno: 2008
Pagine: 39-112
È diventato pressappoco di rito, parlando del «disdegno di Guido», osservare che il problema è tra i più spinosi e dibattuti nel campo della dantistica . Dunque, che ci siano, in un volume dedicato alle cruces dantesche, delle pagine riservate alla famosissima replica del pellegrino alle domande un po’ isteriche di Cavalcante Cavalcanti era un obbligo a cui non ci si poteva sottrarre. Che l’amico Domenico Cofano abbia deciso di assegnare proprio a me la responsabilità di adempiere a questo compito delicato, non può che avere a che fare — almeno è ciò che m’immagino — col lavoro che da qualche anno sto svolgendo sulla ricezione, complessa e tutt'altro che uniforme, di Guido Cavalcanti nel Due e nel Trecento . Già, in sé, questo mio interesse scientifico potrebbe sollevare il sospetto che l’approccio con cui conto di affrontare la questione del «disdegno» non sia necessariamente quello con cui il problema è stato di solito preso in esame. Il fatto poi che abbia deliberatamente scelto di non conformarmi alla convenzione, la quale esige che, nel presente contesto, la specificazione «di Guido» segua “sempre” il sostantivo «disdegno» vorrebbe, in verità, confermare che tale sospetto è lungi dall’essere infondato.
Per sciogliere gli enigmi apparentemente nascosti nei versi 61-63 del decimo dell’Inferno la critica ha normalmente fissato l’attenzione sul rapido scambio di domande e battute che caratterizza l’incontro tra Cavalcante e il viator, al massimo integrandole con le successive dichiarazioni di Dante-personaggio a Farinata, il cui scopo è rassicurare il padre di Guido ed elucidare le ragioni del proprio silenzio di fronte alla seconda serie di interrogativi che l’eretico gli aveva così freneticamente lanciato:
Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»
Le sue parole e ’l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facéa dinanzi a la risposta,
supin riccadde e più non parve fora.
[…]
Al Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
e s'i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto»
(vv. 52-72, 109-14) .
L'analisi, sia della crux del verso 63 sia di queste terzine nel loro insieme, è inoltre solitamente integrata ed ampliata con rinvii, non di rado di un certo spessore, alla storia dell’intricata (e intrigante) relazione tra Dante e Guido ed ai loro atteggiamenti contrastanti nei confronti di Virgilio e di Beatrice . La tendenza, dunque, è di isolare non solo la questione specifica del «disdegno», ma anche quella, più ampia, dei rapporti tra Cavalcanti figlio e l’Alighieri. L’episodio cavalcantiano è separato dal resto del canto, come se fosse una micro-narrativa a sé stante — un interludio, malgrado la sua indubbia importanza, che rende più drammatica la figura titanica di Farinata. A dire il vero, trovo difficile leggere l’incontro tra il pellegrino e Cavalcante come se fosse un incastro nell’organizzazione di Inf X; e non solo perché Guido non fu mai un “incastro” per Dante, ma anche, e forse più significativamente, perché la struttura del canto ce lo vieta: l'episodio del «disdegno» è posto al centro di Inf. X, con tutti i risvolti che tale collocazione porta con sé in un autore come l’Alighieri altamente sensibile al rapporto tra forma e significato. Difatti, Cavalcante non si trova unicamente al centro del canto X. L’«ombra» inginocchiata è pure collocata al centro del cerchio dell’eresia che, come raramente è fatto notare, si estende per tre canti: il nono, il decimo e l'undicesimo dell’Inferno .
Partendo dal fatto della “centralità” della vicenda dei due Cavalcanti, mi propongo, anche se solo in maniera preliminare, e quindi spesso cursoria, di iniziare ad esaminare l’episodio , e quindi la questione particolare del «disdegno», sia alla luce delle strutture portanti che determinano i tre canti dell’eresia nel loro insieme, e perciò delle problematiche principali che queste strutture sottendono, sia sullo sfondo dell'ambiente culturale ed ideologico in cui i contatti tra Guido e Dante maturarono — ambiente in cui i nostri poeti godettero di posizioni di spicco e a cui contribuirono in modi decisivi. Il «disdegno» — come tutta la storia intricata delle connessioni tra i due poeti - non può che essere giudicato in termini di indizi “pubblici”, (sia che questi abbiano le loro origini nella Commedia, sia che le abbiano nel mondo medievale, oppure in entrambi simultaneamente), anche perché tali indizi sono le uniche tracce del loro rapporto che ci sono pervenute, e che, in verità, potevano pervenirci.
La crux del «disdegno», che in verità non è principalmente una questione attinente al «disdegno», ma a come qualificare il «cui» («forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»), non è l’unico rompicapo del decimo dell’Inferno. Anzi, problemi esegetici proliferano non solo in Inf. X, ma pure lungo i due canti che lo affiancano; e vale subito la pena di notare che, in virtù di ciò, che abbiamo un nuovo elemento che, assieme all’eresia, accomuna la nostra triade di canti. Nei tre canti, crux si accavalla su crux. Basta pensare all’identità sconcertante del Messo celeste, al valore da attribuire alle figure mitologiche che si affollano alle porte di Dite; ai «versi strani» (Inf. IX, 63), vale a dire alla questione della giurisdizione testuale della frase; alle ragioni per cui i due viandanti, una volta entrati nella città infernale, si muovono «a la man destra» (v. 134) e non, come di solito, a quella sinistra; al problema del rapporto tra la magnanimità e il peccato, oppure a quello del rapporto tra l'eresia e la politica; al dubbio se la punizione di vedere esclusivamente «come quei c'ha mala luce» (Inf. X, 100) sia ristretta agli eretici oppure colpisca anche tutti gli altri peccatori; alle difficoltà e contraddizioni dottrinali che si instaurano tra la «malizia» che abbraccia «forza» e «frode» (Inf. XI, 22 e 24), cioè l’intero Basso Inferno, e quell’altra «malizia» che, assieme alla «matta bestialitade» (vv. 82-83), si spartisce in maniera non specificata gli ultimi tre cerchi dei dannati. Se poi ci ricordiamo che, nel Medioevo, l’eresia fu considerata essenzialmente un fallo ermeneutico — l’accanirsi nel proporre interpretazioni eterodosse, particolarmente delle Sacre Scritture — è chiaro che, in Inf. IX-XI, grazie all’accumulazione dantesca di nodi interpretativi da sciogliere, ci troviamo di fronte ad un dato testuale che si integra senza troppe difficoltà ed in maniera suggestiva con la caratteristica di base del peccato sotto la cui insegna l’episodio si svolge.
Anzi, a questo riguardo, sembrerebbe tutt’altro che di poco peso il fatto che, in vari punti dei tre canti, Dante sottolinei l’importanza dell’esegesi, mettendo a fuoco, e in chiaro contrasto con le pratiche degli eretici, il valore dell’esegesi corretta, non soltanto per ciò che concerne il proprio poema, ma anche in generale. E nel dire questo, non sto pensando particolarmente al ben noto appello ai lettori della Commedia:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani
(Inf. IX, 61-63).
Più rimarchevole e pertinente è il fatto che Dante descriva in maniera diretta, al livello del racconto, situazioni in cui un personaggio si trova a dover interpretare, rivelandosi in seguito più o meno capace di svolgere tale compito. L’esempio più vistoso è naturalmente Cavalcante che travisa — come, in vita, aveva travisato la dottrina della salvezza dell’anima - le parole del pellegrino: «Come? / dicesti ‘elli ebbe’? non viv'elli ancora?”» (Inf. X, 67-68). Cavalcante, che rappresenta la disperazione a cui inesorabilmente porta l’esegesi sbagliata, funziona da emblema dell’eretico, confermando così le ragioni della sua centralità nell'impianto di Inf. X e nell’episodio dell’eterodossia intellettuale . Diversamente da Cavalcanti padre il quale, tanto in morte quanto in vita, non riconosce mai i propri errori ermeneutici, Dantepoeta non perde l’occasione per confessare lo sbaglio interpretativo che ha commesso di fronte a Dite ai tempi del viaggio ultraterreno, non a caso nell’elucidare, anche lui, una serie di parole ambigue:
«Pur a noi converrà vincer la pugna»,
cominciò el, «se non ... Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
I’ vidi ben si com’ ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne
(Inf. IX, 7-15).
E che questo piccolo dramma esegetico sia posto proprio all’incipit dell'episodio dell’eresia è tutt’altro che casuale. Dante immediatamente allude sia ai parametri ideologici e di comportamento che definiscono il nuovo peccato, sia ai nostri doveri di lettori responsabili, obbligati, dunque, in contrapposizione agli eretici, a sforzarci, per mezzo dell’esercizio dei nostri «intelletti sani» (v. 61), di arrivare alla «sentenzia» appropriata non solo del poema ma anche di ogni sistema di segni, con quelli divini ovviamente al primo posto . In verità, grazie a questa calibratissima antitesi, il poeta ci dà in nuce uno degli aspetti essenziali di Inf. IX-XI: la dialettica tra lettori buoni e cattivi; e, in un contesto dominato dall’eresia, leggere bene o male, cioè esercitare la ragione (l'intelletto) sanamente oppure vanamente («tutto è vano / nostro intelletto», Inf. X, 103-4), è lo stesso che salvare o dannare l’anima. Il lettore, Dante-personaggio e Dante-poeta, gli eretici, l'episodio intero sono racchiusi, dunque, entro il medesimo cerchio ermeneutico.
Che l’accumulo di materia esegetica presente nei nostri tre canti possa essere in qualche modo pertinente alle possibili spiegazioni del «cui» non direi che sia un’ipotesi da scartare automaticamente. Però, prima di poter valutare quali siano i possibili rapporti tra il pronome più famoso della letteratura italiana e l'ossessione medievale e dantesca per l’interpretare, ci sono altri problemi, di natura tutt'altro che secondaria, che dovrei trattare. In verità, non ho ancora neanche finito di esaminare la pesante componente ermeneutica che caratterizza Inf. IX-XI. Vorrei, quindi, offrire qualche altro esempio della presenza chiave dell’allegoresi nei nostri tre canti.
L'identità del messo celeste, come quella del «cui», ha affascinato i dantisti (a volte, in entrambi i casi, sfociando persino in qualche eccesso di ostinazione critica) ; e neppure a me sfuggirà l’obbligo di fermarmi brevemente sul problema della personalità del misterioso inviato divino, anche se qui vorrei concentrare l’attenzione su altri suoi aspetti. Poiché il messo è stato inviato in terra dal Paradiso per portare aiuto ad un essere umano in grave pericolo spirituale, egli funziona anzitutto, qualsiasi altro significato gli si voglia appiccare, da esempio emblematico dell’intervento del Cielo nella vita umana, cioè da signum coeleste. Dunque, il messo y si sì fregia delle qualità del vestigium Dei: egli agisce da mezzo attraverso cui Dio si rivela all'uomo, il quale, a sua volta, ha la responsabilità di interpretare i “sensi” che si celano dietro l'apparenza esterna - la lictera - del segno divino. In stretta conformità con le esigenze, nel Medioevo rigorosamente convenzionali, di questo modo di considerare i rapporti tra Iddio e gli uomini in termini traslati, Dante fa precedere l’arrivo del vestigio celeste da un appello al lettore in cui esorta quest’ultimo a trovarsi pronto ad interpretare il nuovo intervento miracoloso , vale a dire il nuovo segno divino, che egli sta per descrivere:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani
(Inf. IX, 61-63).
Allo stesso tempo, riconosciuta la provenienza celeste del messo, la sua precisa identità resta nascosta dietro un velo di punti interrogativi. Ciò, però, non dovrebbe creare sorpresa. Come l’intera tradizione dei commentaria alla Sacra Scrittura insistentemente ribadiva, i segni del Creatore, date le loro origini divine, sono polisemici e soltanto parzialmente interpretabili dalla mente umana. Nell’introdurre i vestigia Dei nella Commedia, Dante si sforzò sempre di plasmare figure simboliche a cui non è facile assegnare valori ovvi e monocordi . Come c’è da aspettarsi, dunque, ciò si verifica anche nel caso del messo, per cui la sua personalità e la «dottrina» da lui veicolata non sono né semplici né di facile decifrazione. A mio parere, la trappola in cui il lettore moderno spesso cade è quella di voler restringere i signa divini foggiati dalla immaginazione dantesca entro una singola rete di significati. Basta dare un’occhiata agli studi che il messo ha generato per rendersi subito conto di tale riduzionismo critico; allo stesso tempo, nel consultare questi lavori, ci accorgiamo pure che non poche delle soluzioni proposte sono del tutto ragionevoli — conferma, direi, della cura con cui il poeta ha creato, seguendo l’esempio del Deus artifex, un essere volutamente polisemico. In effetti, nell’avvicinarci a ciò che Dante segnala come marcatamente divino, dobbiamo muoverci con riguardo, non dimenticando la forma mentis e le aspettative esegetiche e spirituali che, di fronte a Dio, avrebbero condizionato il poeta, come anche il lector ortodosso medievale, cioè il tipo di “lettore” per cui l’Alighieri stava scrivendo.
Nel Medioevo, dunque, fu assiomatico credere che si potesse sperare di interpretare correttamente solo se l’«’ngegno», anche il più «alto», si fosse conformato alle lezioni dettate dal cielo - questa, poi, non dimentichiamoci, era la lezione essenziale che l’eretico rifiutava. Leggere, per il cristiano dell’età di mezzo, significava, particolarmente quando questo aveva a che fare con la salvezza («il viaggio» delle nostre «vite, Inf. X, 132), lasciarsi umilmente guidare da ciò che «era da ciel messo» (Inf. IX, 85). Dunque, anche il divino è tirato dentro quel cerchio ermeneutico che, come le mura di Dite, racchiude l’episodio dell’eresia. Come il lector “apre” un testo per permettere che si possa vedere ciò che si trova dietro la “porta” della lictera, il messo, spalancando le imposte di Dite, non solo rende accessibili i “sensi” che il “testo” infernale vorrebbe tener nascosti — “testo”, non dimentichiamoci, anche questo, «creato» dalla «divina podestate» (Inf. III, 7 e 5), e che quindi richiede l’impegno di un Vettore divino —, ma, attraverso l’atto dello schiudere, fa propri anche i tratti tipici dell’ interprete, affermando, in entrambi i casi, il ruolo centrale che l’esegesi deve svolgere nella vita del cristiano. Dunque, il messo è non solo un signum, ma anche un interprete dei signa, il quale, tramite il suo operare simbolico-esegetico, rafforza il fedele e sconfigge l’eretico. Nel permettere ai due poeti di procedere col viaggio di salvazione, il quale, come il carattere dottrinale di Inf. XI rivela, è fondamentalmente un viaggio di conoscenza, l’intervento del messo mette a fuoco che è unicamente grazie alla mediazione divina che l’uomo può arrivare ad una piena comprensione del peccato («la condizion», Inf. IX, 108), e, quindi, al suo dominio. Inoltre, egli concentra emblematicamente in sé l’interesse determinante dell’episodio per l’interpretazione — l’interpretazione, che, come sistema intellettuale e spirituale integrante esegesi, etica e conoscenza, conduce l’uomo alla salvezza oppure alla dannazione. Non sorprende quindi che i ben noti lineamenti del messo che lo associano a Mercurio lo situino categoricamente nella sfera dell’ermeneutica, dato che era convenzionale glossare il nome del dio come ‘interprete’: «Hermes autem dicitur graece apo tes hermeneias, latine interpres» .
Collocato in un momento narrativamente di grande risalto nella struttura dei tre canti, e presentato in modi squisitamente drammatici, il messo, se riusciamo a decifrarlo sanamente, ci offre un set di chiavi con cui aprire i nostri tre canti; ci ricorda che l’ermeneutica migliore deve lasciarsi guidare dal Cielo, secondo quel processo straordinario in cui un segno divino illumina altri segni (divini); e, incitando il nostro impegno critico ad esplicitare tanto i suoi valori letterali quanto quelli simbolici, egli, o meglio Dante, ci coinvolge direttamente nell'atmosfera pesantemente esegetica ed intellettuale del mondo dell’eresia, rammentandoci dei nostri obblighi di interpreti ortodossi. In un tale contesto, non dovrebbe sorprendere che Inf. IX, X e XI sovrabbondino di problemi da risolvere. La crux rappresenta un elemento cardine dell'impianto retorico-ideologico dei nostri tre canti. Inoltre, è difficile immaginare che le diverse cruces, quali che siano le loro soluzioni individuali, non funzionino anche, e probabilmente in primo luogo, come un solo sistema; e che quindi debbano essere prese e considerate insieme. La debolezza del modo in cui gli studiosi si sono sinora avvicinati a Inf. IX-XI, e in particolare ai passi controversi, è che essi hanno preferito trattare ciascun problema in sé, isolandolo da tutti gli altri. Se, da un lato, non c’è dubbio che ogni crux solleva le proprie difficoltà, e dunque esige le proprie soluzioni, dall’altro, è pur vero, almeno a mio parere, che non si può cercare di risolvere un problema senza pensare anche agli altri che lo circondano. La soluzione ad una singola crux è anche da ricercarsi sia nelle soluzioni di tutti gli altri rompicapi, sia in quegli elementi generali, con l’eresia in testa, che finiscono per costituirli in sistema — sistema che non solo ha l’esegesi, e quindi l'applicazione dell’intelligenza, come punto focale, ma che, come il messo, è anche un appello ad interpretare. Asserire tutto questo non vuol dire negare che alcuni problemi sono di maggior peso di altri — tra i primi annovero ovviamente il «cui» e l’intera questione dei rapporti tra Dante e Guido —, ma, unicamente, che, nel districare il nodo del «disdegno», non dobbiamo restringere l’attenzione esclusivamente ai versi 61-63 del decimo dell’Infermo, oppure all’incontro con Cavalcanti. Nel decifrare il «cui», come spero di poter dimostrare, indizi utili ci arrivano da tutti e tre i canti.
Che Dante intendesse che Inf. IX, X e XI dovessero essere letti in chiave unitaria è chiaro da una serie di elementi che servono ad accomunarli . La prova più appariscente di questo fatto, come si è già detto, è che, da un punto di vista narrativo, l’eresia si allunga attraverso i confini dei tre canti. A questo elemento, che potremmo chiamare di ordine macrostrutturale, si allacciano dei dati microstrutturali. Per esempio, l’explicit di Inf. IX si unisce in maniera così stretta coll’incipit di Inf. X da far quasi pensare all’effetto delle coblas capfinidas:
E poi ch’a la man destra si fu volto,
passammo tra i martiri e li alti spaldi
(vv. 132-33);
una chiusura da mettere a raffronto con i primi versi del canto che sussegue:
Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martiri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi» [...]
(vv. 1-5).
Non ritroviamo un collegamento similmente rigoroso tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo. Allo stesso tempo, però, tra i due canti, come anche tra Inf. IX e X, esiste perfetta continuità narrativa. Abbiamo, insomma, a che fare con un caso esemplare di transizione ininterrotta, per cui gli elementi diegetici dei due canti si integrano e si completano coerentemente:
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che ’nfin la si facea spiacer suo lezzo.
In su l’estremità d’un alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta
(Inf. X, 133-36 e XI, 1-5).
Il tanfo, poi, simbolo tradizionale del peccato, era già presente in Inf. IX: «Questa palude che ’l gran puzzo spira» (v. 31) . In verità, le riprese verbali tra i canti - come la ripetizione di puzzo - , le quali spesso coinvolgono preoccupazioni decisive, costituiscono l’elemento più vistoso della strategia unificatrice che Dante sviluppa in questa occasione. Basta pensare al disdegno che caratterizza entrambi, il messo (Inf. IX, 88) e Guido (Inf. X, 63); oppure al dispetto che avvicina i «cacciati del ciel» (Inf. IX, 91) e Farinata (Inf. X, 36). Ritornando alla congiunzione tra Inf. IX e X di natura capfinida, notiamo che l’Alighieri stringe ulteriormente i legami fra i due passi, ricorrendo tanto per l’explicit quanto per l'incipit alla medesima fonte virgiliana:
Hic locus est, partis ubi se via findit in ambas:
Dextera, quae Ditis magni sub moenia tendit,
Hac iter Elysium nobis: at laeva malorum
Exercet poenas et ad impia Tartara mittit
(Aen. VI, 540-43).
Come accade in questo caso, non di rado anche le scelte intertestuali dantesche in Inf. IX-XI servono a consolidare l’identità unitaria dei canti. I prestiti all’Alighieri — e questo in un episodio ricco di echi testuali - vengono da un numero abbastanza limitato di fonti classiche e cristiane. Lungo i tre canti, Dante ricorre con regolarità calcolata a questo fondo ben definito di testi, i quali, di seguito, danno una stretta in più ai vincoli che legano le parti diverse dell’episodio. Tra queste fonti quella a cui il poeta attinge in maniera più frequente ed esplicita è il libro vi dell’Eneide, lo segue, a breve distanza, il Vangelo di Matteo. Altri testi adoperati con simili funzioni integranti sono le Metamorfosi ovidiane, i Salmi, l’Ecclesiaste, il Vangelo di San Giovanni, gli Atti ed alcune delle lettere paoline .
Per quanto interessanti, i mezzi con cui Dante ravvicina i tre canti elencati sin qui, sono, in generale, di natura “esteriore”, cioè di carattere formale, e toccano solo di sfuggita problemi di un certo spessore ideologico. Tuttavia, benché più difficili da riconoscere a causa del loro rapporto “interno” col testo, anche questioni di questo tipo associano Inf. IX, X e XI; e forse rappresentano il vero movente della loro amalgamazione. Per esempio, come si è visto, i tre canti sviluppano un'analisi abbastanza approfondita della centralità dell’esegesi nella vita dell’uomo — analisi che Dante integra ed arricchisce con tutta una serie di questioni connesse, che vanno dai contatti tra Dio e l'umanità all’efficacia conoscitiva di diversi sistemi epistemologici, e dall’eresia all’uso appropriato dell’intelligenza, sviluppando così un esame totalizzante del ruolo dei processi intellettivi umani. In fin dei conti, è l'intelletto umano, piuttosto che l’esegesi — l’eresia funziona da metonimia appropriatissima per il nostro ragionare —, che costituisce il principale fulcro organizzativo, ideologico ed unificatore dei tre canti. Dunque, essi sono colmi di rinvii diretti alle attività mentali dell’uomo, specificamente alla «mente», alla «conoscenza», all’«intelletto», all’«ingegno», al pensiero, al ragionare, ecc . Né sarà accaduto per caso che, concludendo l’episodio, ai tanti esempi dell’affannarsi mentale umano, Dante abbia deciso di opporre il «divino ’ntelletto e la sua arte» (Inf. XI, 100); oppure che, con fini ugualmente strategici, nell’undicesimo dell'Inferno egli abbia presentato la prima grande lezione dottrinale della Commedia — lezione che non ha mancato di allestire con precisi riferimenti all’opera del «maestro di color che sanno» (Inf. IV, 131). Il ragionare umano — con tutto quello che gli appartiene e che lo delimita — è il cuore che batte al centro dell’episodio dell’eresia.
È chiaro, quindi, che il poeta ha piegato abilmente i diversi elementi — formali, narrativi, culturali, simbolici ed intellettuali — che costituiscono i tre canti ai bisogni della problematica dominante dell’«intelletto», fondendo così la lictera, la «polisemia - per dirla con Contini — che si svolge interamente entro la lettera, per molteplicità di richiami interni e di allusioni culturali» , e l’allegoria. Eppoi, dal punto di vista dell’organizzazione della Commedia, e particolarmente dell’Inferno, sarebbe stato difficile per Dante collocare l’indagine sulla ragione umana in una parte più adeguata del poema: da un lato, l’eresia è un peccato quintessenzialmente intellettuale; dall’altro, i due viandanti stanno per attraversare la soglia che separa i peccati dei sensi da quelli dell’intelligenza — evento chiave la cui importanza e le cui implicazioni sono chiaramente messe a fuoco dall’intervento dottrinale di Virgilio in Inf. XI. Inoltre, in termini generali, la lezione virgiliana complementa e aiuta a portare in superfice il discorso più ampio, ma “sommerso”, sulla ragione. L'analisi dantesca del ruolo e del funzionamento dell’intelletto umano in Inf. IX-XI è di largo respiro. Essa va da allusioni e rilievi piuttosto generici ed astratti a questioni particolareggiate. E un discorso articolato con cura e rigore, anche se, del tutto appropriatamente, è poi la responsabilità del lettore-esegeta, interpellato dal poeta quasi in apertura dell’episodio, a districarne i vari fili. Tuttavia, l’enfasi principale del trattamento dantesco della ragione, conforme alle ambizioni di un testo scritto «in pro del mondo che mal vive» (Purg. XXXII, 103), è di evidente stampo, pratico, come è immediatamente ovvio dal peso dato all’allegoresi. Le speculazioni filosofico-teologiche della scolastica attorno alla mente e alla conoscenza, spesso di natura altamente teorica , trovano pochissimo spazio in questo primo sondaggio dantesco della ragione . La lezione virgiliana di Inf. XI, tramite i rinvii all’Etica ed alla Fisica di Aristotele (vv. 80 e 101), sottolinea in termini convenzionali che il nostro ragionare ha fini concreti. Il pensiero per Dante non può essere distolto dalle esigenze della nostra vita terrena, cioè dalle nostre responsabilità verso Dio e verso gli altri — ecco una delle cause principali per cui il poeta associa politica, etica ed eresia in questi canti. Pensare, per l’Alighieri, ha sempre anche implicazioni e limiti storici e sociali. Da questo punto di vista, le speculazioni disdegnose degli eretici rappresentano l’apice di un pensare astorico fine a se stesso. Ed è difficile immaginare, per il Medioevo ortodosso, una speculazione più “inutile”, perché priva di fondamenta nel reale, di quella che, negando l’immortalità dell'anima individuale, smentiva che tra Iddio e l’umanità esistessero legami che la ragione poteva percepire, illuminare e rafforzare.
Dato tutto questo, non dovrebbe sorprendere, quindi, che, in Inf. IX-XI, Dante si sforzi di esaminare il nesso tra la storia e l’intelletto. Il poeta si concentra su due problemi storici in particolare. L'uno, di ampia estensione, e che va al centro stesso della visione provvidenziale della storia, concerne le potenzialità intellettuali umane prima e dopo l’Incarnazione, come anche, per estensione, i rapporti tra il pensiero pagano e quello cristiano. L'altro, di carattere ristretto, e che agisce da contrappunto al discorso politico di Inf. X, affronta la situazione intellettuale contemporanea.
Nell’analizzare la prima delle due questioni, Dante fa ricorso a quella sottile rete di riprese intertestuali a cui si è accennato in precedenza. Nei tre canti, però, gli echi non sono distribuiti casualmente, ma si dispiegano in maniera accuratamente calcolata. Quindi, Inf. IX si distingue dagli altri due canti a causa del numero alto di prestiti classici. Al livello della diegesi, basta pensare all’aggregarsi, davanti alle mura della città infernale, di mostri, di personaggi, di luoghi e di eventi tolti dalla mitografia pagana: Eritone, le tre Furie, Proserpina (oppure Ecate) , Medusa, Teseo, Cerbero, Ercole, Stige e, naturalmente, Dite stessa. Inoltre, come i commenti al canto documentano, tutto l’ambiente in cui si svolge l’azione è calcato non solo sul sesto dell’Eneide, ma anche su passi della Farsalia e delle Metamorfosi che trattano dell’oltretomba. Persino il protagonista dell’episodio, il messo celeste, per quanto. messaggero del Dio cristiano, è adornato di tratti classici che lo associano con Mercurio, con descrizioni epiche di boschi e venti, con la famosa rappresentazione ovidiana delle rane e con Enea . Ed è questo accumulo impressionante di materiale pagano che, ovviamente assieme alla dimensione ortodossa del messo, Dante ci i istiga ad interpretare in attirando la nostra attenzione sui «versi strani» (v. 63): Dunque, non mi pare il caso, come fanno alcuni, di restringere la portata dell'appello unicamente all’arrivo ed alle azioni dell’inviato dal cielo, dal momento che he il valore principale dell’eredità classica per i cristiani fu precisamente la «dottrina» che il «velame» della lictera pagana «ascondeva» (vv. 62-63).
Benché abbia indicato fonti precise per l’infrastruttura classica di Inf. IX, è pur vero che ciò che immediatamente dà all'occhio per quanto riguarda la galleria pagana evocata nel canto è che questa è costituita di figure e luoghi che non sono legati specificamente ad un singolo testo oppure ad un autore particolare: per esempio, le Furie sono presenti nella poesia epica e lirica, nelle opere mitografiche e nella tradizione enciclopedica e di compilazione. Quindi, per Dante e per l’età di mezzo, elementi di questo tipo funzionavano da emblemi della cultura pagana — in particolare, come le allusioni intertestuali confermano, sono rappresentanti della poesia epica, dell’«alta [...] tragedia» (Inf. XX, 113), cioè della più raffinata invenzione artistica che la cultura classica aveva trasmesso all’era cristiana. E se, grazie alle proprie originalissime tecniche “imitative”, nel nono dell'Inferno e altrove, Dante conferma la vitalità di questa tradizione per il poeta “moderno”, sono, in ultima analisi, l’utilitas e le valenze ideologiche del mondo antico, e specificamente della poesia latina (e greca), che, nel presente contesto “razionale”, lo preoccupano di più.
Quali sono, dunque, almeno in termini generali, la lectio e la «dottrina» trasmesse dalle fabulae che possono giovare al cristiano? La risposta che Dante ci offre è altamente convenzionale. Come tutta la tradizione dei commenti trecenteschi alla Commedia riconobbe glossando gli elementi classici di Inf. IX, la letteratura antica era fonte di insegnamenti etici. I monstra, per esempio, simboleggiavano diverse manifestazioni del male; e, in Inf. IX, Dante sfrutta questi significati per offrire una prima idea totalizzante della natura e della varietà del peccato. In effetti, senza voler negare le funzioni drammatiche e narrative, per non parlare di quelle letterarie, della turba di mirabilia che popolano il nono dell’Inferno, la logica principale che sembra aver guidato le scelte dantesche è precisamente il fatto che, come ci si aspetterebbe da luoghi comuni, tutti i miti evocati godevano di una ricca e ben diffusa fortuna critica. Nel loro insieme, quindi, essi si stagliano come emblemi delle acquisizioni etiche del paganesimo — acquisizioni che, da un punto di vista della storia della salvezza, rappresentano ciò che di meglio il mondo antico poteva offrire al cristianesimo. E Inf. XI, così fermamente radicato in Aristotele e Cicerone ethici, non lascia dubbi sulla verità di questo assunto, sottolineando, inoltre, che, da una prospettiva morale, tra la poesia e la scientia classica, e quindi tra la fictio e la philosophia antiche, non esistevano divergenze di fondo. I modi in cui gli elementi classicheggianti del nono e dell’undicesimo dell'Inferno si complementano presentano una prova concreta di questa simbiosi. Dante non esita a riconoscere e a celebrare la solidarietà dell’intelligenza pagana attorno alle questioni etiche. Al tempo stesso, però, colpisce che, nell'ottica di Inf. IX-XI, le lezioni morali degli antichi hanno molto più da dire circa la realtà del male piuttosto che del bene — un primo indizio dei limiti ideologici e storici di un pensiero cui manca l'illuminazione divina. In più, persino per quanto riguarda il peccato, come le lacune e gli errori della disquisizione virgiliana sulla struttura dell’Inferno rivelano , le riflessioni dei pagani non erano senza difetti. Tutto ciò, come si sa, è confermato, al livello del racconto (e non si può che ammirare l’abilità con cui Dante integra e armonizza i diversi livelli del suo discorso), dall’incapacità di Virgilio di sconfiggere la tracotanza intransigente degli abitanti infernali.
Come è anche sottolineato dal Limbo dantesco, il pensiero degli antichi non può portare alla salvezza; nel migliore dei casi, può servire al credente come una sorta di appoggio secondario. Eppure, Dante non manca di riconoscere che, malgrado i loro indubbi limiti conoscitivi — limiti naturalmente imposti dalla Provvidenza —, ci furono pagani che si avvicinarono alle verità divine più di non pochi intellettuali cristiani. Tramite rinvii ai passi sull'altro mondo presenti nelle tragedie di Virgilio, Ovidio e Lucano, l’Alighieri enfatizza che, diversamente dai cristiani disdegnosi, i quali «l’anima col corpo morta fanno» (Inf. X, 15), gli antichi, sollecitati dalle loro auctoritates, credevano nell’oltretomba e nella sopravvivenza dell’anima. Inoltre, per mezzo dell’allusione alla Fisica aristotelica in chiusura di Inf. XI, il poeta mette pure in risalto la capacità della scientia classica di intuire verità circa la natura del creato e dei rapporti tra Iddio e l’uomo:
«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ‘l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote»
(Inf. XI, 97-105).
Ed è precisamente questo ordine di problema che gli eretici, gonfi di arroganza intellettuale e con gli occhi fissi unicamente alle cose terrene, si rifiutavano di prendere in considerazione.
Eppure, grazie all'avvento di Cristo, era possibile agli eretici arrivare ad un grado d’intendimento di questi problemi che sarebbe rimasto molto al di sopra delle possibilità intellettive delle stesse principali auctoritates pagane. L’assurdità del comportamento ereticale è da riconoscersi in quest’atto autolesionistico di cecità ostinata. L'Incarnazione aveva portato con sé il potenziamento delle capacità raziocinative umane, particolarmente per ciò che riguarda la sfera del divino, ma unicamente se l’uomo, diversamente da quanto avviene nell’egocentrica inflessibilità del «magnanimo» (Inf. X, 73) peccaminoso, si fosse atteggiato da magnanimus cristiano, vale a dire da umile . Com'è simboleggiato dall’apparizione e dalle azioni del messo celeste e dal comportamento dei due viandanti, la ragione umana deve subordinarsi alla rivelazione divina, affidandosi alla guida e all’illuminazione che le viene dall'alto. Dopo il predominio, in apertura di Inf. IX, di materiale classico, e conforme alla logica storica della presentazione dantesca, l’arrivo del «da ciel messo» (v. 85) rappresenta anche il primo grande ingresso di intertesti e di valori esplicitamente cristiani nelle strutture re poetiche ed esegetiche che controllano il nostro episodio — valori i quali, con il tocco di una «verghetta» (v. 89), riescono a sbloccare l’intoppo in cui la cultura e l’etica pagana erano cadute di fronte all’ottusità del male. Si è già parlato dei risvolti ideologicamente ortodossi del messo, e in particolare dei suoi connotati semiotici; tuttavia, il modo più appariscente c con cui Dante annuncia, nelle maglie della sua poesia, l’entrata del divino e i suoi effetti è un aumento repentino delle allusioni scritturali che accompagnano il mirabile celeste. Dunque, il messo ricorda Mosè, l’uomo vestito di lino in Daniele, Cristo che cammina sulle acque e che. discende nell’Inferno, e lo Spirito Santo . Inoltre, un accumulo notevole. di altre citazioni bibliche circonda l’inviato dal Paradiso . L’apparizione di un signum divino evoca una turba di altri signa — processo che calca le convenzioni dell’esegesi scritturale, per cui un passo era spiegato alla luce di altri passi tolti dal libro sacro. In tali circostanze, ed in un contesto in cui intertesti classici e scritturali si susseguono, il richiamo a «mirare la dottrina» (v. 62) è anche un appello a discriminare tra testi di natura e di formazione diverse, e, quindi, ad applicare le forme ermeneutiche appropriate alle opere sotto scrutinio. Pertanto, le norme dell’allegoria in verbis, adatte per la letteratura classica, non potevano essere trasferite alla Bibbia, la quale doveva essere letta secondo gli statuti dell’allegoria in factis . I versi 61-63, che strategicamente si intromettono, separandole e unendole, tra la parte “pagana” di Inf. IX e quella “cristiana”, e la cui portata, come si è accennato, si estende lungo tutto il canto e l'episodio, sottolineano la distinzione chiave tra libri sacri e umani che controllava l’esegesi medievale — distinzione attorno alla quale ruota non solo il discorso esegetico, ma anche quello storico dei nostri canti. La «dottrina» che si cela dietro la lictera scritturale si distingue per il fatto che non si limita a rivelare verità morali e scientifiche, ma lascia percepire, per quanto oscuramente, verità divine.
Come nella storia, così anche nella Commedia, la Bibbia ha il sopravvento sul “tragico” pagano; e, di nuovo, Dante si muove in maniera rigorosamente convenzionale, come è giusto in un ambiente in cui sono nettamente prevalenti e al tempo stesso contrastanti questioni di ortodossia da un lato e questioni di anticonformismo dall’altro. Eppure, per quanto ne riconosca le differenze, il poeta sente tuttavia il bisogno di ammorbidire le durezze ed i contrasti che separano il mondo prima e dopo l’Incarnazione. Benché da secoli pensatori cristiani avessero tentato di riconciliare il meglio dell’eredità pagana con il cristianesimo, tali ambizioni sincretiche sembrano avere una particolare urgenza in Dante. La figura del messo offre una prova immediata di questo. Come si è visto, la figura dell’inviato di Dio fonde armoniosamente in sé elementi classici e cristiani, sottolineando in questo modo non solo le rispettive conquiste delle due ere e la possibilità della loro interazione, ma anche, e più significativamente, la presenza del divino lungo il corso intero della storia. Dunque, se da un lato Dante spiega la liceità dell’associazione tra il paganesimo e la cristianità alla luce della presenza costante della Provvidenza nella vita dell’uomo, dall’altro egli riconosce nella ragione umana l’altro elemento di continuità che unisce F epoca pagana a quella redenta. Volendo parlare di “umanesimo” dantesco, direi che si dovrebbe partire da questa fede nelle possibilità della mente umana — fede, però, più che conscia, diversamente da quel che avviene nei disdegnosi, anche dei nostri limiti intellettuali.
Inf. IX funge quasi da “prologo” ai due canti che seguono, e quindi all’episodio nel suo complesso, poiché solleva e sintetizza i problemi — circa la ragione, l’esegesi, i rapporti fra Iddio e l’umanità, i punti di contatto e di divergenza tra l’epoca classica e quella cristiana — che i canti X e XI considerano in modi più specifici ed approfonditi. Dunque, il decimo si concentra sull’intelligenza ai tempi del cristianesimo, mentre l'undicesimo sul ruolo di questa nel mondo pagano, come è subito ovvio in virtù dell’interesse del primo per l’eresia, e del secondo per l’etica e per la scientia aristotelica. Lasciando da parte l'immediato contesto narrativo, popolato da eretici “moderni”, il meccanismo principale con cui il poeta sottolinea il carattere cristiano di Inf. X è, di nuovo, come in Inf. IX, affidato alle scelte intertestuali. Il canto è ricolmo di echi scritturali . Interpretando le citazioni ortodossamente, oppure prendendo per nostre soluzioni ermeneutiche ufficiali, Dante ci offre la possibilità di adoperare l’intelligenza in modi che l’eretico rigetta. I passi biblici e la loro glossa servono come mezzo con cui riconoscere, giudicare e condannare il comportamento degli eretici. La presenza massiccia del libro sacro nel tessuto poetico di Inf. X costituisce una sorta di “contrapasso esterno”, di natura testuale, imposto ai trasgressori, i quali, in vita, avevano ignorato, rifiutato o, nel peggior dei casi, deliberatamente frainteso le verità che vi erano presenti. Nell’ambiente pesantemente esegetico dei nostri canti, le sententiae scritturali funzionano da “glosse” al peccato.
Per lo più, al livello della diegesi, cioè come parte della loro punizione effettiva, i miscredenti, lectores caparbi della “sacra pagina”, si trovano «serrati» (Inf. X, 10), come lo sono dai «sepulcri» (Inf. IX, 115), dalla memoria di citazioni bibliche e di elementi provenienti dalla tradizione canonica dei relativi commenti. In questo modo, per tutta l’eternità, gli eretici sono costretti a rammentare e a contemplare i testi che, in vita, avrebbero potuto salvare loro l’anima. Basta pensare soltanto all’ascendenza scritturale delle «tombe» (v. 129). La fonte biblica più appariscente per il luogo ed il tormento dei dannati macchiati di epicureismo è Sal. XLVIII, 12: «Et sepulchra eorum domus illorum in aeternum». Il pronome personale «eorum» rinvia all’«insipiens et stultus», il quale è messo in contrasto coi «sapientes» (v. 11), le cui anime Dio salva «de manu inferi» (v. 16). Dunque, abbiamo qui in nuce non solo la situazione di base del sesto cerchio dantesco, ma anche un accenno all’esperienza del pellegrino, la quale, come abbiamo iniziato a vedere, è posta, tanto spiritualmente quanto intellettualmente, in opposizione diretta agli atteggiamenti degli eretici. Quindi, la spiegazione più ovvia per la direzione inaspettata — «a la man destra» — in cui Virgilio si «vòlge per «passare tra i martiri e li alti spaldi» (Inf. IX, 132-33) è da ricercarsi nella tradizione secolare che vedeva nel sinister l'errore e nel dexter l’uso corretto della ragione: i due viandanti, nel momento stesso in cui cominciano a muoversi nel regno dell’eresia, sono simbolicamente distinti dagli abitanti del luogo. Inoltre, altri elementi del salmo XLVIII esercitano un influsso su Inf. X; per esempio, non è difficile riconoscere nei miscredenti dell’Alighieri coloro «qui confidunt in virtute sua / et in multitudine divitiarum suarum gloriantur / frater non redimit redimet homo / non dabit Deo placationem suam / et pretium redemptionis animae suae / et laboravit in aeternum et vivet adhuc in finem» (vv. 7-10); mentre la chiusa del salmo ha legami suggestivi con Farinata e col suo dramma personale: «nec timueris cum dives factus fuerit homo / et cum multiplicata fuerit gloria domus eius / quoniam cum interierit non sumet omnia / neque descendet cum eo pone gloria eius / quia anima eius in vita ipsius benedicetur / confitebitur tibi cum benefeceris ei / introibit usque in progenies patrum suorum / usque in aeternum non videbit lumen / homo in honore cum esset non intellexit / conparatus est iumentis et insipientibus / et similis factus est illis» (vv. 17-21).
Però, anziché la lictera della Bibbia, è l’allegoresi ortodossa di questa che, più che legittimamente, da un lato serve per opprimere i peccatori, e dall’altro per illuminare la loro peccaminosità. Innanzi tutto, il verso 12 di Sal. XLVIII era comunemente associato proprio con il comportamento degli epicuri — prova, se non ce ne fossero già a sufficienza, della centralità dell’esegesi nei nostri canti e della cura con cui il poeta si lascia guidare, volta dopo volta, da strutture ed intuizioni ermeneutiche. Più generalmente, la glossa al salmo XLVIII esamina alcune delle stesse questioni sollevate da Dante in Inf. IX-XI: la critica degli stulti; la celebrazione del dono dell’intelletto; i pericoli del materialismo e dell’interesse esagerato per le cose di questo mondo; e l’incapacità del peccatore di capire chi è veramente saggio . Questi erano precisamente i problemi che gli eretici avevano completamente malinteso. Per la tradizione scritturale, che Dante qui segue da vicino, lo stultus e l’eretico sono dei razionalisti estremi, i quali, come Farinata e Cavalcante, indirizzano la ragione unicamente alle cose di questo mondo, ed il cui estremismo è marchio di superbia. Ed è interessante che, in Inf. IX-XI, essi siano condannati non solo dalla cultura cristiana, ma anche da quella pagana. I virtuosi intellettuali antichi, benché dipendessero completamente dalla loro ragione non illuminata, avevano però riconosciuto i propri limiti raziocinativi e accettato le implicazioni dell’esistenza di intelligenze superiori. E, di nuovo, Dante enfatizza i legami che uniscono il meglio del paganesimo e del cristianesimo, sicché le due grandi ere storiche si incontrano nel riprovare l'arroganza intellettuale che le imbratta dai tempi di Epicuro sino ad oggi.
La Commedia stessa è frutto di questa collaborazione storica; e “imitando” simultaneamente le forme della Sacra Scrittura e della tragedia classica, anche il poema dantesco, integrando eccezionalmente l’ allegoria in factis con quella in verbis, trasmette una «dottrina» complessa, la quale, in Inf. IX-XI, mette a fuoco non solo le conquiste e i pericoli della ragione, ma anche, grazie ad una strategia che si potrebbe chiamare metaesegetica, l’operare e le responsabilità dell'intelligenza ermeneutica tanto lungo il corso della storia quanto in singoli momenti, come quello evocato nel nostro episodio. Se, nel Limbo, Dante si era fermato principalmente sull’eccellenza in sé del mondo pagano, in Inf. IX-XI egli contestualizza tale grandezza. Da un lato, la ridimensiona sulla base delle conquiste del cristianesimo; dall’altro, però, la esalta non soltanto alla luce degli errori commessi da cristiani e pagani, ma anche ravvisando i limiti entro i quali fu stretta. Ed è importante notare come, nel presentare le maggiori conquiste della cristianità in Inf IX e X, Dante in primo luogo enfatizzi la Sacra Scrittura, il che, in un contesto che indaga la ragione umana, significa enfatizzare l’impegno degli scribae Dei nel comporre la lictera biblica, mettendo a fuoco le loro capacità letterarie, e come, in secondo luogo, egli ponga l’accento sulla grande opera di decifrazione esegetica del patrimonio simbolico che Iddio ci ha lasciato in eredità. Queste due tradizioni, quella degli scribae dei e quella della interpretazione dei testi sacri, mutatis mutandis, possono allinearsi a quelle attività poetico-critiche che l’Alighieri aveva segnalato come le cime a cui la mente pagana era arrivata. Dante non lascia dubbi, quindi, su ciò che, secondo lui, è da considerarsi come il massimo invariabile delle potenzialità intellettive umane. Al tempo stesso, il poeta non sente l'obbligo di menzionare il lavoro intellettuale che costituiva la punta nuova e più avanzata del pensiero contemporaneo; e, in un resoconto della ragione scritto ai primi del Trecento, tale omissione non poteva che rappresentare una scelta altamente pregnante. Dunque, mancano del tutto allusioni esplicite a quella logica e a quelle forme raziocinative che avevano fortemente affascinato un numero notevole di intellettuali due e trecenteschi. Né si dovrebbe concludere in base a questo che Dante si stia atteggiando polemicamente di fronte all’intera Scolastica. Basta ricordare che, ricorrendo in maniera rispettosa all’Etica e alla Fisica di Aristotele, l’Alighieri rammentava con riguardo anche la ricca e recente tradizione esegetica e dottrinale che l’opera dello Stagirita aveva ispirato. In particolare, Dante alludeva a quei filoni della tradizione che avevano chiarito la compatibilità del filosofo antico con il cristianesimo — filoni che, ovviamente, legittimano la propria “cristianizzazione” di Aristotele in Inf. XI.
Com'è evidentissimo da Inf. IX-XI, Dante non era contrario al razionalismo in sé. Fra contro, però, qualsiasi tipo di razionalismo, egoista e sfacciato; e l’eretico, che rifiuta di sottomettere la ragione alla fede, mentre formula ipotesi ed interpretazioni sballate, rappresenta l'esempio estremo di tale razionalismo falsamente autosufficiente. L'eretico è colui che usa l'intelligenza non per il bene della comunità, ma soltanto per scopi di autocompiacimento, quindi piuttosto che contribuire alla somma del sapere umano frantuma la coerenza della sapientia. È un settario (Inf. IX, 128) che fomenta la lotta di parte; e, accomunando la discordia intellettuale con quella politica, Dante sottilmente afferma che le tensioni e le violenze politiche contemporanee hanno profonde e complesse radici ideologiche. Pensar male, per l’Alighieri, equivale ad agir male. Le implicazioni “pratiche” del ragionare, come si è notato in precedenza, costituiscono un punto fisso del pensiero dantesco. Non è lecito all'uomo speculare a vuoto. Il dono della ragione e le responsabilità verso Iddio e verso gli altri che susseguono a questo dono non possono essere ridotte ad un trastullo “privato” ed astratto.
Nei termini della logica evolutiva dei nostri canti, la controbilancia principale al fanatismo e al pensare disdegnoso degli eretici è offerta da Inf. XI. Aristotele funziona da contromodello non solo a pensatori pagani eccentrici come Epicuro, ma anche, e più significativamente, a intellettuali cristiani e “moderni” eterodossi. Mentre questi ultimi negano l’esistenza stessa dell’oltretomba, lo Stagirita presenta dati con cui comprendere la realtà dell’aldilà. Inf. XI chiude “l’episodio della ragione” celebrando le possibilità della mente umana; ed è indicativo che, con Aristotele, abbiamo a che fare con un'intelligenza autosufficiente, cioè un’intelligenza che, benché non illuminata divinamente, è capace di discriminare tra il lecito e l’illecito — un’intelligenza “indipendente”, ma “ortodossa”, quindi. In evidente opposizione agli eretici, razionalisti cattivi, Aristotele rappresenta il razionalista buono. Al tempo stesso, il canto, e dunque l’episodio intero, non si conclude esaltando il pensatore antico e il razionalismo; in verità, nel parlare dello Stagirita, Dante frammischia toni laudativi con accenti critici. Inf. XI termina con un’allusione alla Sacra Scrittura, a «lo Genesi dal principio». (v. 107), vale a dire al fatto che la ragione umana, per pienamente realizzare le sue potenzialità, ha molto più bisogno dei signa divini che dei meccanismi raziocinativi dell’intelligenza. Ove Aristotele non riesce ad arrivare, la Bibbia penetra senza s difficoltà. Dunque, per delucidare in profondo le ragioni specifiche per cui l’«usura offende / la divina bontade» (vv. 95-96), Virgilio abbandona lo Stagirita e si richiama alla lezione del libro divino:
Da queste due [Natura ed arte], se tu ti rechi a mente
Lo Genesi dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poich’in altro pon la spene
(vv. 106-11).
Nella delucidazione virgiliana, Aristotele e la Sacra Scrittura, cioè il razionalismo e l’esegesi simbolica, si incontrano. In più, incontrandosi, nessun dubbio è sollevato circa quale delle due tradizioni epistemologiche sia la più efficace. In uno scrittore religioso di chiaro stampo conformista come Dante, che la “lettura” della Bibbia sia vista come il modo migliore per arrivare alla verità non dovrebbe suscitare sorprese. Eppure, agli inizi del Trecento, e in particolare se si stesse parlando di questioni legate alla ragione ed alla conoscenza umana, tale posizione non era né ovvia né senza risvolti polemici.
La seconda metà del Duecento ei primi decenni del Trecento furono anni contrassegnati da feroci conflitti ideologici . Uno degli effetti principali del recupero medievale di Aristotele fu un interesse rinnovato per la ragione umana e per le sue possibilità, specialmente per la sua autonomia. L'analisi dantesca di Inf. IX-XI non può essere separata da questo conflitto, il quale coinvolgeva precisamente i meriti relativi del simbolismo e del razionalismo come mezzi conoscitivi. All’idea tradizionale di un'intelligenza umana sottomessa all’illuminazione divina, si oppose la nozione di una ragione. autosufficiente, fiduciosa nelle proprie strutture raziocinative, e convinta che «il sapere può rendere pienamente felici, anche se di quella felicità finita e limitata che è possibile in terra» . Questa era la sfera in cui padroneggiava quella logica a cui si è già fatto qualche accenno. Diversamente da quello che troviamo in Inf. XI, ma anche in tutta la Commedia, nel tardo Medioevo il simbolismo e il razionalismo generalmente funzionavano come due sistemi intellettuali in opposizione. Le polemiche tra i due schieramenti furono spesso feroci ed intransigenti. Sempre nemico nella Commedia di qualsiasi faziosità, Dante, in Inf. IX-XI, sottolinea che non esistono ragioni per cui il simbolismo ed il razionalismo non possano collaborare effettivamente. L’antichità ne offriva illustre conferma. Secondo l’Alighieri, la scissione si era manifestata unicamente nel mondo contemporaneo — situazione veramente riprovevole, dato che i cristiani del suo tempo erano lontani dal trovarsi nelle condizioni sfortunate di colui che «nasce a la riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva» (Par. XIX, 70-72). Non esistevano ostacoli che vietassero loro di concentrare la mente (ragionare) sull’interpretazione e sulla disseminazione (leggere e scrivere) della Bibbia. L'uso qui dei tre verbi è tecnico, e sottolinea che la causa principale per cui Iddio ci ha provveduto della ragione è quella di permetterci di decifrare i Suoi signa. Eppure, i «terreni animali» ignorano «la Scrittura» che Dio ha posto «sovra» loro perché possano consuonarsi alla «prima volontà»; le «menti grosse» preferiscono piuttosto sciupare la ragione nell’assottigliarsi vanamente (vv. 82-83, 85-86, 88).
La condanna che l’aquila divina lancia nel cielo di Giove ha antecedenti lontani nella Commedia, tra cui il più distante, direi, ma anche tra i più importanti, è da riconoscersi nei nostri tre canti. Benché, in termini generali, le critiche dantesche colpiscano un po’ tutti gli ambienti intellettuali dei suoi giorni e lamentino una situazione di diffusa disarmonia dottrinale, è pur evidentissimo che, per quanto riguarda la situazione contemporanea, l’Alighieri assegna la colpa principale ad uno dei due grandi schieramenti ideologici. Gli eretici danteschi, che, negando l’immortalità dell'anima, rifiutano di indirizzare l'intelligenza verso le cose divine, rappresentano dei razionalisti e materialisti estremi, degli “epicurei”, dunque ; e, nel presente contesto, è cruciale ricordare che, in Inf. X, all'infuori del rinvio ad Epicuro, gli altri peccatori (Farinata, Cavalcante, «’l secondo Federico / e ’l Cardinale», vv. 119-20) appartengono tutti al mondo contemporaneo. Poi se esistessero ancora delle incertezze circa la liceità di vedere negli abitanti del sesto cerchio dei rappresentati delle punte più avanzate del razionalismo medievale, basti riconoscere che le due questioni dottrinali che l’Alighieri ha collocato al centro del decimo canto — l’anima e la nobiltà — costituivano i temi più notevoli e più scottanti negli ambienti filosofici agli albori del Trecento. Che, in Inf. X, il problema dell’anima sia cruciale è lapalissiano . Specificamente, per mezzo dei “suoi” eretici, Dante sembrerebbe prendere di mira quegli intellettuali contemporanei, i quali, sulla scia della teoria dell’intelletto possibile di Averroé, vale a dire i cosiddetti neoaverroisti o aristotelici radicali, ponevano in dubbio la sopravvivenza dell’anima individuale. Dagli stessi circoli “radicali” emergeva anche l’idea della nobiltà filosofica, dei «quidam homines contemplativi bene nati ad scientias ex parte corporis sui et animae» , come, tra tanti, ebbe da scrivere Boezio di Dacia. In termini medievali — ed ecco la via per cui il poeta fa entrare il secondo dei temi portanti del pensiero medievale —, si tratterebbe della magnanimità intellettuale. «La nozione aristotelica di “bene nasci” — spiega Andrea Robiglio — indica nell’ordine: un talento intellettuale, anzitutto logico; un equilibrio “genetico” tra ragione e sensibilità, una sorta di continenza ereditaria, tale da favorire il talento suddetto; il perfezionamento intellettuale legato allo studio della filosofia e, finalmente, alla contemplazione delle sostanze nobilissime. [...] Codesto nucleo si può, a sua volta, combinare con altre caratteristiche “nobili” (capacità di governo, antichità di casato, ma anche possesso di ricchezze o notorietà)» ; un atteggiamento “scientifico” ed una serie di valori squisitamente terreni centrati sul dene natus piuttosto che sui bisogni della comunità. Si ha a che fare con una élite, il cui senso di sé e della propria “nobiltà” in senso lato sono perfettamente colti nella figura «sdegnosa» (Inf. X, 41) di Farinata, «quell’altro magnanimo» (v. 73), intellettuale materialista fallito, ossessionato dai problemi di discendenza, dalle sorti della sua famiglia e dalla propria reputazione.
La scelta dell’eretico come emblema per la figura generica del razionalista arrogante e miscredente, come anche per quella specifica del filosofo “moderno”, pago della propria bravura e delle proprie elucubrazioni, è ben calibrata. Inoltre, il fatto che l’eretico fosse da tempo anche colui che fraintendeva i sensi della Sacra Scrittura — e, da questa prospettiva, la presenza “da parte” di «Anastasio papa [...] | lo qual trasse Fotin de la via dritta» (Inf. XI, 8-9) svolge un ruolo esemplare — permette all’Alighieri, nello spirito antifazioso che gli è proprio, di lanciare qualche frecciatina anche contro la tradizione simbolica. Eppure, tanto la fede dantesca nei signa divini ed umani e nel valore della loro esegesi, quanto il fatto che la Commedia stessa, «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2), costituisce uno di quei spazi privilegiati dove i due sistemi semiotici si incontrano, vieta a Dante di essere troppo negativo nei riguardi della tradizione esegetico-simbolica, la quale, come l’arrivo del messo rivela, è l’unica che può portare l’anima immortale alla salvezza.
Lotte ideologiche tra intellettuali tradizionalisti sicuri della parola di Dio e filosofi nuovi fiduciosi nelle capacità della ragione e della logica; la storia provvidenziale; i rapporti ideologici tra il paganesimo e la cristianità. Non visti riduttivamente come due mondi in opposizione, ma valutati ciascuno ex bono e ex malo, cosicché i meriti ed i demeriti di entrambi, come anche i loro punti di contatto, possano emergere; i legami e le tensioni tra le due grandi epistemologie umane, il simbolismo ed il razionalismo; e, al centro di questo accumulo imponente di questioni chiave, la ragione umana, dono divino che esige dall’uomo responsabilità personali, comunitarie e verso il Datore di fondamentale importanza: ecco le problematiche che, grazie all’allegoresi, è forse non del tutto sbagliato riconoscere dietro il «velame» (Inf. IX, 63) del nostro episodio. E, come si è tentato di elucidare, il discorso ambizioso sulla ragione che Dante sviluppa lungo i tre canti è costruito con rigore ferreo — marchio delle proprie abilità intellettuali, della capacità della poesia di trasmettere la «dottrina» (v. 62), e della serietà didattico-morale della Commedia. Al tempo stesso, data la sua identità dichiaratamente filosofica, cade principalmente su Inf. XI la responsabilità di portare in superficie e di contestualizzare il discorso storico-dottrinale presente nei due canti precedenti. Arrivati al terzo atto del grande dramma dell’eresia, Dante ci invita a riconsiderare i non pochi riferimenti all’intelletto ed al suo operare già presenti nel resto dell’episodio. Inf XI è tutt'altro che una meccanicistica digressione strutturale — come troppi hanno sostenuto —, “necessaria” unicamente ad illustrare l’organizzazione morale dell’Inferno. Piuttosto, il canto non offre soltanto il primo segnale lampante della dimensione dottrinale della Commedia, ma, e forse più significativamente, calando tale dimensione nella storia, tanto provvidenziale quanto intellettuale, offre anche l’avviso della sofisticazione con cui la scientia sarà trattata. L’Inferno, al contrario di ciò che pure è stato troppo spesso riduttivamente asserito, è lontanissimo dall’essere una cantica senza ambizioni sapienziali.
Un ultimo problema di carattere generale prima di tornare, finalmente, a Guido, al «cui» ed al «disdegno»: come mai Dante, se veramente vuole rinviare alla situazione intellettuale contemporanea, designa gli eretici “epicurei” e non, come ci si potrebbe aspettare, “aristotelici”?
Cominciamo con un dato di fatto: nel tardo Medioevo, il termine “epicureo” non equivaleva ad “averroista”, come tra gli italianisti si è a lungo ed erroneamente sostenuto senza prove documentarie. I filosofi pagani, i cui nomi offrivano lo spunto alle due designazioni, malgrado le idee eccentriche che ciascuno aveva espresso circa l’eternità dell’anima, e che, almeno superficialmente, li accomunavano, erano sempre presentati e giudicati separatamente nei testi medievali — basta ricordare che, nella Commedia, Averroé si trova nel Limbo, mentre Epicuro soffre le pene del sesto cerchio. E anche i loro «seguaci» (Inf. X, 14) erano distinti alla stessa maniera. Dunque, presa in sé, l’etichetta “epicureo” non includeva anche quella di “aristotelico”, come infatti è subito confermato dalla distinzione popolarissima, adoperata anche da Dante nel Convivio, secondo la quale il mondo antico aveva prodotto tre grandi scuole filosofiche: l’epicurea, la stoica e la peripatetica .
Al tempo stesso, come emerge, per esempio, dai commenti ai Salmi ed all’Ecclesiaste, epicuri era utilizzato come termine generico col quale riferirsi non solo agli eretici (e, per i cristiani medievali, eretico era colui le cui credenze, senza badare a quando visse, non si conformavano ai principi della fede ), ma anche a chiunque adoperasse l’intelligenza erroneamente, in particolare per fini esclusivamente materialisti . In altre parole, Epicuro e la sua «setta» (Inf. IX, 128) rappresentavano il peggio della filosofia: come accade nell’Inferno, essi erano degli oltranzisti della ragione, coloro che, interessandosi soltanto delle cose terrene, dimostravano disdegno per tutto il resto — abito mentale che, per molti, incluso il Dante della Commedia, aveva poco o nulla a che fare col filosofare nel senso vero della parola . Che Epicuro e i suoi potessero effettivamente incarnare l’“antifilosofo” (ir)razionalista era nozione profondamente radicata nella cultura medievale. La loro reputazione di edonisti sfrenati, scettici sugli dei e con una visione pessimistica delle condizioni dell’esistenza era luogo comune. Nei nostri canti, il rifiuto dell'immortalità dell’anima funge “emblematica mente come una sorta di sineddoche per tutto l'accumulo degli errori epicurei - ove «Epicuro [e] tutti suoi seguaci» (Inf. X, 14) stanno, sì, per se stessi, ma anche per tutti coloro che abusino della ragione. E, come dovrebbe essere chiaro persino da questo scarnissimo resoconto, epicurus fu termine altamente elastico, sì da poter essere applicato ad un ampio raggio di comportamenti peccaminosi e di atteggiamenti ideologici sospetti (anche se, come si è accennato, non pare che fosse attribuito ad Averroé e ad agli averroisti). Ed è precisamente grazie a questo ricco e flessibile ventaglio di connotati che Dante si sentì sicuro nell’ eleggere gli epicurei, in primo luogo, a simbolo generico dell’eretico e del pensatore traviato. Inoltre, Epicuro, in forte opposizione a Virgilio e ad Aristotele, poteva facilmente rappresentare i pericoli, inerenti al paganesimo, da cui il cristiano aveva la responsabilità di schermirsi. Ugualmente, gli epicurei “moderni”, quali sono gli abitanti di Inf. X, equivalgono a quei cristiani che fraintendono o sfruttano la cultura classica — diversamente, si capisce, da Dante — per fini sbagliati e immorali. Poi, e più specificamente, il legame stretto tra il filosofo antico e la questione della sopravvivenza dell’anima permetteva a Dante di introdurre un tema di grandissima rilevanza per il suo tempo, senza, però, attaccare in maniera diretta quei filoni dell’aristotelismo radicale che mettevano in dubbio l'immortalità dell’anima individuale. Celebrare, ma anche “proteggere”, lo Stagirita e la sua eredità intellettuale è quasi sicuramente uno degli scopi principali dei nostri canti. L'operazione in cui il poeta era coinvolto era delicata. Come ho tentato di spiegare, piuttosto che soffermarsi su singole questioni specifiche, Dante esaminò la ragione umana da una prospettiva larga che riusciva ad abbracciare il problema nelle sue grandi linee essenziali. Per ciò che riguardava l’epoca contemporanea, all’Alighieri premeva “principalmente, alludere allo scontro tra le due maggiori epistemologie dei suoi giorni, senza però condannare in modi assoluti né l’uno né l’altro schieramento. Per lui, l’errore sostanziale si connetteva non coi due sistemi intellettuali, ma con il loro scontro. Esplicitamente, associare la morte dell’anima ai neo-averroisti voleva dire non soltanto concentrare l’attenzione su un singolo momento dello svolgersi della “storia della ragione”, ma pure, e in maniera più inquietante, criticare pesantemente anche Aristotele, il cui De anima stava alla base di tutta la controversia, e, quindi, mettere in crisi quella presentazione positiva del «maestro di color che sanno» (Inf. IV, 131), della cultura pagana e del razionalismo che il poeta stava costruendo con tantissima cura. La responsabilità circa la credenza nel decesso dell'anima è quindi trasferita esclusivamente sul conto di Epicuro e degli epicurei, i quali, per l’età di mezzo erano indiscutibilmente colpevoli dell’errore, ma i quali, grazie all’ampiezza ed elasticità dei loro connotati culturali ed ideologici, potevano anche fungere da indicatori di tutta una serie di altri problemi intellettuali a cui Dante voleva accennare. Dunque, colpisce il fatto che, nel presentare gli eretici, il poeta ometta di includere quasi tutti gli elementi descrittivi che nel Medioevo normalmente accompagnavano l'eresia: per esempio, le metafore della malattia, l’immagine del veleno, i rinvii alla perversione sessuale e l’elencare insieme, con effetti associativi e cumulativi, varie sette eterodosse . Lo scopo. dell’Alighieri non era quello di trattenersi esclusivamente sull’eresia, cioè sul l'epicureismo in senso stretto, ma quello di passare anche, come fanno i due viandanti in Inf. XI, a questioni di maggior respiro. Ecco perché abbiamo a che fare con epicurei e non con aristotelici.
E, come al solito, in Dante, le cose si complicano ulteriormente. Conformemente all’atteggiamento di “oggettività”, cioè di applicazione equilibrata dell’intelligenza, con cui l’Alighieri svolge la sua indagine sulla ragione, persino gli epicuri non sono rappresentati unicamente in termini negativi. Com'è evidente dal Convivio, ove Epicuro e la sua filosofia sono sempre trattati con rispetto (III.XIV, 15; IV.VI, 11-13; XXII, 4, 14-15), circolava dai tempi classici — basta pensare alle Epistole a Lucilio senechiane — anche una tradizione che sottolineava gli aspetti positivi della morale epicurea (prova di nuovo della cedevolezza del concetto dell’epicureismo medievale). Quindi, nel cerchio dell’eresia, troviamo anche un magistrale epicureo, che non solo non nega l’immortalità dell'anima, ma può addirittura servire da guida ai cristiani. L'idea che Epicuro avesse creduto nell’eternità dell’anima l'aveva accolta, indirettamente, Dante stesso, probabilmente sulla scia di Alberto Magno, nel Convivio . Persino vari apologeti avevano riconosciuto punti di contatto tra l’ascetismo epicureo e la sobrietà cristiana . Questo grande epicurus buono è naturalmente Virgilio, il quale — ma i dantisti se ne sono quasi completamente dimenticati — aveva fama, tanto nelle vitae quanto nei commenti, di simpatie epicuree ; e, dato che questo fu un luogo comune, è difficile immaginare che, parlando dell’epicureismo, Dante non rammentasse anche che il suo maestro era vissuto «pluribus annis... liberali in otio secutus Epicuri sectam» . Poi, che l’Alighieri stesse in effetti pensando a questo aspetto della figura di Virgilio emerge dal fatto che, in Inf. IX e X, egli allude ad almeno due dei passi che Servio glossava come segni dell’epicureismo virgiliano ; di nuovo, dunque, il sistema intertestuale dell’episodio svela le vie sottili del pensiero dell’Alighieri, il quale, nello spirito del sincretismo provvidenziale e dell’antifaziosità intellettuale, volle “salvare” addirittura le frange estreme del paganesimo. Al tempo stesso, come si vedrà fra non molto, nel microsistema del “disdegno di Guido”, Virgilio epicureo ha degli effetti locali accuratamente calibrati per fini polemici. Tuttavia, come dovrebbe essere più che manifesto dal tipo di soluzione proposta rapidamente in precedenza per alcune delle altre cruces, chi scrive è più che convinto che il modo migliore per cominciare a capire la portata ideologica e culturale del nodo di problemi attorcigliato attorno a «Guido vostro» (Inf. X, 63) è quello di provare a scioglierlo coll’aiuto del macrosistema dei nostri tre canti — quel macrosistema, ovviamente, che, sin qui, è stato l’oggetto principale della nostra analisi.
Il «cui» presenta ordini diversi, anche se connessi tra loro, di problemi esegetici da risolvere. In generale, la critica si è concentrata sul significato del pronome, vale a dire, sull'identità dell’essere al quale questo si riferisce . Una questione di “contenuto”, si potrebbe dire; e i tre candidati principali proposti, com'è risaputo, sono Iddio, Beatrice e Virgilio. Minore attenzione è stata dedicata alle implicazioni della forma della frase in cui il pronome è calato: «colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (vv. 62-63). Si è normalmente accettato che il «cui» debba essere letto come oggetto, diretto oppure indiretto: “«colui ch’attende là» [...] che «Guido vostro ebbe a disdegno»”; “a colui/colei che «Guido vostro ebbe a disdegno»”; e “a colui/colei al/alla quale Guido disdegnò d’andare”. Come per l’identità del personaggio disdegnato, nessuna soluzione monocorde. Al tempo stesso, anche se, ovviamente, non tutte le soluzioni si adattano ugualmente bene a ciascuno dei nostri candidati, resta pur vero che la sintassi della frase permette tutte e tre le interpretazioni. In verità, la struttura sintattico-grammaticale dei versi offre la possibilità di un’ulteriore lettura: si può, senza nessuna difficoltà, prendere il «cui» come soggetto: “colui/colei che disdegnò Guido” . Le alternative grammaticali e denotative tra le quali possiamo scegliere sono impressionanti. Data la finezza scritturale di Dante, è difficile pensare che egli non abbia deliberatamente costruito la frase cosicché fosse circondata da un alone di ambiguità. Il fatto, poi, che essa si trovi in un contesto centrato sull’esegesi rende la probabilità di tale operazione ancora più alta. L'ambiguità è voluta dal poeta per stimolare le nostre capacità ermeneutiche, coinvolgendoci così nelle problematiche centrali di Inf. IX-XI. È un appello rinnovato ad esercitare i nostri «’ntelletti sani» (Inf. IX, 61); e non mi pare puro caso che il passo “misterioso” concernente Guido abbia la stessa lunghezza (di una terzina) e la stessa collocazione (ai versi 61-63 del canto) del fondamentale appello ad interpretare rettamente di Inf IX. E la complessità. esegetica della terzina si complica ulteriormente, se pensiamo a come sì debbano intendere. il «forse» e l’«ebbe». I versi 61- 63 rappresentano l’essenza stessa della crux!
L’aggiunta dell’ambiguità a quel sistema, coinvolgente crux ed esegesi, che è stato indagato in precedenza confermerebbe il ruolo vitale che il connubio dei tre elementi svolge nell’episodio dell’eresia. Difatti, l'interazione tra l’ambiguità, la crux e l’esegesi offre la chiave con cui “aprire la porta” attraverso la quale entrare nelle grandi problematiche dei tre canti. E che l'ambiguità contribuisca in maniera cruciale a questo processo è evidente dal fatto che Dante ripete la strategia adoperata nei versi di Guido per presentare l’altro grande problema interpretativo di Inf. X, vale a dire, il peso da dare alla magnanimità di Farinata. Di nuovo, non sembra casuale che l’Alighieri abbia precisamente avvolto nell’incertezza le due figure che più avrebbero attratto l’attenzione dei lettori contemporanei, garantendo in questo modo che anche l’importanza dell’esegesi, quale effetto necessario dell'incertezza, fosse posta in evidenza. Dunque, la frase “scioccante”, «Ma quell’ altro magnanimo» (v. 73), può essere interpretata in almeno tre modi. Si può prende- re come se fosse in apposizione a «quell’ altro», e quindi si riferirebbe soltanto a Farinata; come se si volesse distinguere Farinata dall’altro «magnanimo», cioè Cavalcante dei Cavalcanti; e come se lo scopo fosse quello di differenziare Farinata da tutti gli altri magnanimi che lo circondano, vale a dire, da tutti gli altri eretici. Non mira questo studio a concentrarsi sul problema della magnanimitas, anche perché il problema è stato largamente risolto da studiosi del calibro di Forti e di Scott , i quali hanno autorevolmente chiarito i risvolti negativi (per non dire ambigui), specialmente nel mondo cristiano, della designazione. Ciò che mi preme sottolineare qui è che, per quanto riguarda le problematiche principali dell’episodio, quale che sia l’interpretazione di «quell’ altro magnanimo» che si voglia privilegiare, si finisce coll’enfatizzare il rapporto tra l'arroganza intellettuale, la quale, come si è visto, si può riportare a forme non cristiane della magnanimità, e il pensiero eterodosso. E, come apparirà fra un momento, anche per quanto concerne il «cui», le strutture ideologiche profonde di Inf. IX-XI sono lasciate intatte, a prescindere dal fatto che si prenda il pronome come soggetto oppure oggetto. In verità, persino scegliere tra i tre concorrenti quello cui conferire il privilegio di incarnare il «cui» non significa, in fin dei conti, fondalmente disturbare la logica, nelle sue grandi linee, del discorso dantesco, anche se, in questo ultimo caso, bisogna muoversi con una certa cautela.
Dunque, con la solita acribia e finezza stilistica, Dante sembra aver elaborato e posto Inf. X, 61-63, come pure gli altri elementi individuali che costituiscono l’episodio, in posizione sussidaria al tema principale dei tre canti. E la ragione umana, con tutti i suoi risvolti, piuttosto che la qualificazione del «cui», che principalmente interessa all’Alighieri. Ciò non significa che il «cui», Guido Cavalcanti, il «disdegno» non siano importanti. Lo sono, e come. Allo stesso tempo, però, quali che siano i connotati e le implicazioni dei singoli momenti che caratterizzano Inf. IX-XI, resta pur sempre vero che il loro significato particolareggiato è di natura secondaria. Per dirla in maniera lievemente diversa: Inf. X, 61-63 è al servizio dell’episodio dell’eresia e non viceversa — prospettiva che capovolge quella con cui il dantismo si è non raramente avvicinato ai nostri tre canti. Le cruces e la loro risoluzione non sono la fine dell’episodio, come spesso può apparire leggendo la critica, ma, prima di tutto, il mezzo attraverso cui arrivare al cuore ideologico di Inf. IX-XI. Che, quando siano considerate individualmente, le cruces diano poi luogo ad una quantità di vedute diverse € persino divergenti è prova della ricchezza, della suggestività e della singolarità del capolavoro dantesco, di fronte al quale ogni forma di dogmatismo è sconsigliabile. Piuttosto, la responsabilità del lector, ben conscio di trovarsi di fronte ad un'opera fondamentalmente polisemica, è quella di calibrare accuratamente il peso e il valore relativo di ciascuno degli elementi che la costituiscono.
Ecco dunque il contesto generale (e grammaticale) entro il quale valutare il «cui». Ripeto, tre sono i candidati con cui sciogliere l'enigma del pronome: Iddio, Beatrice e Virgilio. Dato che l’intero episodio è centrato sulla ragione quale dono celeste, sui rapporti tra l’umanità e il Creatore e, in particolare, sull’eresia, la quale, come si sa, rappresenta un'offesa contro Dio, un atto di ribellione presuntuosa e un uso errato dell’intelligenza, viene facile pensare che, logicamente, l’obiettivo più ovvio del disdegno di Guido non può essere stato che Iddio. Inoltre, il fatto che, come doveva essere risaputo agli albori del Trecento, Cavalcanti figlio avesse avuto legami abbastanza buoni con gli ambienti neo-averroistici, e che quindi sostenesse posizioni raziona- liste e materialistiche, con ciò accordandosi bene con gli abitanti del sesto cerchio, offrirebbe un ulteriore dato importante in sostegno di tale interpretazione. La terzina stessa, rivelando ascendenze bibliche per i due elementi chiave, vale a dire il modo dell’andare e il disdegno — nella Sacra Scrittura quest’ultimo è, come è del tutto evidente, disdegno per Dio — affermerebbe la liceità di riconoscere dietro al «cui» il Padre Eterno. Se poi prendessimo il pronome come soggetto, l’attribuzione divina sembrerebbe diventare pressappoco schiacciante. Come Michelangelo Picone ha recentissimamente dimostrato , esiste una notevole tradizione scritturale secondo la quale Iddio, ab aeterno, si dimostra disdegnoso nei riguardi di certi individui. Il luogo classico è costituito dalla storia di Giacobbe e Esaù; e, per quanto riguarda i due fratelli, Dio dichiara che «Iacob dilexi, Esau autem odio habui» (Mal. I, 2-3; Rom. IX, 13). Sulla scia di san Paolo, gli esegeti vedevano in questa affermazione «il mistero della predestinazione divina» . In particolare, «la lotta dei due fratelli nel seno della madre in qualche modo annuncia la lotta che caratterizzerà le loro vite future: lotta che Giacobbe è destinato a vincere e Esaù a perdere; l’uno scelto da Dio a guidare il Suo popolo verso la salvazione, l’altro categoricamente escluso da tale storia salvifica» . Leggere il «cui» come soggetto, diversamente da ciò che accade se lo si tratta da oggetto, ha anche il vantaggio di attenuare i problemi interpretativi associati col preterito «ebbe» (v. 63). Se si considera il pronome come oggetto, il verbo non può che riferirsi ad un particolare, ma non specificato, momento cruciale, noto sia al pellegrino sia a Cavalcante; quello in cui Guido definitivamente disdegnò Iddio — allusione, a dir poco, aggrovigliata e che si riferirebbe ad una serie di presupposti difficile, anche se non impossibile, da immaginare. Al contrario, «se il soggetto del disdegno è Dio [...] allora il ricorso ad una forma perfettiva del verbo diventa obbligatorio. Dio infatti ha stabilito ad aeterno che il titolare del privilegio di compiere il viaggio della cristianità moderna fosse Dante e non Guido». Le implicazioni di tale interpretazione per la storia dei rapporti tra i due poeti, o meglio, per la storia della strumentalizzazione di Cavalcanti da parte di Dante, sono pesanti. E, una volta che abbia finito di fare i conti col «cui», mi riprometto, nel prossimo paragrafo, di ritornare sulla questione spinosa del “Guido di Dante”. Per ora è sufficiente notare che qualsiasi valore grammaticale si voglia dare al pronome, l’associarlo con Iddio ha degli effetti estremamente gravi per Guido. Egli rappresenta l’archetipico intellettuale (moderno) arrogante e peccaminoso, oppure colui per il quale Dio «ha odio», oppure un misto dei due tipi. Ancora più significativo è il fatto che ciascuna delle tre immagini di Cavalcanti che si nascondono dietro la risposta del viator rientra pienamente a far parte delle problematiche sollevate dalla “storia della ragione” che controlla l’andamento dei nostri tre canti. Il dominio di Dante sopra la propria materia poetica è veramente straordinario.
E tale padronanza artistica viene di nuovo alla ribalta se continuiamo a scavare nei versi 61-63. Non c’è dubbio che, attribuendo al «cui» il valore di oggetto e lasciandosi guidare dall'andamento sintattico più ovvio della terzina, viene piuttosto spontaneo leggere le parole del pellegrino — «Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» - come se il pronome si riferisse a Virgilio. Tale, infatti, fu il modo in cui i lettori trecenteschi della Commedia reagirono di fronte al «cui»; e, nel far questo, potevano contare non soltanto sull’appoggio di solide ragioni sintattico-grammaticali. L’elemento forse decisivo del ritratto medievale di Cavalcanti lo rappresentava non come poeta — l’immagine di Guido che a noi viene spontanea — ma come filosofo; e, come tale, lo mostrava disdegnoso nei riguardi della poesia a causa dei limiti conoscitivi di questa — la poesia, di cui Virgilio simboleggiava l’espressione più alta ed autorevole . Inoltre, circolava anche l’idea che Cavalcanti dispregiasse il latino come lingua letteraria (Vn XXX, 3). Ecco, di nuovo, che ci troviamo alle prese coll’intellettuale arrogante, fiducioso unicamente nella nobiltà e nella felicità filosofica. Se, da un lato, uguagliando il «cui» con Virgilio, si restringe il pronome alla sua funzione oggettuale e, in più, si lascia irrisolto il problema, di cui si è detto prima, di come interpretare il preterito in maniera soddisfacente, dall’altro, un Guido che tratti Virgilio con disdegno è lontano dall’essere una figura improbabile, in particolare poiché non disturberebbe gli interessi principali dell’episodio. Non solo: è Dante stesso che, rafforzando la logica della sintassi, apparentemente indirizza il nostro sguardo verso il maestro, plasmando le domande di Cavalcante su quelle lanciate da Andromaca ad Enea:
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?»
(Inf. X, 58-60).
«[...] vivisne? Aut, si lux alma recessit,
Hector ubi est?» dixit, lacrimasque effudit et ominem
implevit clamore locum
(Aen. III, 311-13).
La spiegazione del «cui» che da circa un secolo ha il sopravvento nel dantismo è quella che, dietro il pronome, riconosce Beatrice. Mettendo subito le carte in tavola, devo dichiarare che tra le diverse proposte questa è quella che mi convince di meno. In uno studio che uno dei nostri dottorandi di Cambridge, George Corbett, sta preparando, si parte dal presupposto, che mi pare miratissimo, che la risposta del pellegrino sia data onestamente, vale a dire che non ci sia tentativo, da parte del viator, di confondere o ingannare Cavalcante. Se tale non fosse il caso, Dante-personaggio si comporterebbe in una maniera così intellettualmente disonesta e presuntuosa che lo avvicinerebbe pericolosamente agli eretici. Che tale atteggiamento sia del tutto estraneo al pellegrino a questo punto del viaggio è evidente dalla cura con cui il poeta lo distanzia dai peccatori del sesto cerchio. A dirla diversamente, sembrerebbe logico partire dal presupposto che l’agens s'immagina che la risposta che sta profferendo sia intellegibile al suo interlocutore - fatto confermato dalla «colpa» (v. 108) che sentirà di seguito. Che Cavalcante si riveli poi completamente incapace di seguire quanto gli è stato detto non è colpa del pellegrino, ma della confusione intellettuale in cui l’errore e la presunzione l’hanno intrappolato, cosicché interpretare rettamente gli diventa quasi d’impossibile. Accettando che, almeno in termini generali, questa sia l’ottica giusta con cui esaminare i versi 61-63, diventa difficilissimo difendere la posizione che vorrebbe che Guido abbia disdegnato Beatrice. Se, in fin dei conti, non sembrano esserci problemi particolari nel pensare che Dante-personaggio potesse sperare che Cavalcante sarebbe stato capace di captare un’allusione a Iddio oppure a Virgilio, lo stesso non si può dire per la donna amata.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: che il presente sia ignoto a Cavalcante non ha nessun peso al momento in cui il pellegrino gli parla, poiché il viator non ha la minima idea che i peccatori soffrano anche questa pena. E procediamo con un altro fatto sicuro, anche se spesso ignorato dai critici: qui, come altrove nella Commedia, Dante vuole che si tratti la lictera del suo poema come se fosse storicamente vera, cioè non dobbiamo mai dimenticarci la data del viaggio e i limiti li storici che costringono tutti i suoi personaggi. Il “senso letterale”, come dettavano le convenzioni di lettura del Medioevo, è il punto da cui deve partire qualsiasi interpretazione di un testo. Quindi, non dobbiamo dimenticare che, e, rispondendo a Cavalcante dei Cavalcanti, il pellegrino doveva essere più che ben conscio della data della morte, attorno al 1280, del dannato — anno in cui Beatrice avrebbe avuto quattordici anni. Parlargli, dunque, e allusivamente i in più, di una giovane donna che, nel miglior dei casi, date le convenzioni sociali del tempo, Cavalcante avrebbe potuto conosce e di sfuggita sembra avere pochissimo senso. Per un fiorentino morto nel 1280, Beatrice, diversamente da Dio e da Virgilio, era figura di nessun peso. È soltanto con la stesura della Vita nova, più di dieci anni dopo, che la natura miracolosa della donna è resa pubblica. Dunque, se I il pellegrino stesse difatti rinviando a Beatrice, dovremmo ammettere che, mentre subiva le pene infernali, Cavalcante avesse trovato anche il tempo, di perlustrare le pagine del «libello» dantesco — situazione, a dir poco, implausibile, e, in sostegno della quale, non troviamo appoggio nella Commedia. Per dirla senza mezzi termini, nell’Inferno, non esistono prove né che i dannati conoscano la Vita nova né che essi abbiano una idea dei tratti celesti di Beatrice. I dantisti, come c’era d’aspettarsi, si sono subito resi conto delle difficoltà che l’identificazione beatriciana crea per la “lettera” del racconto. Quindi hanno insistito sul fatto che, rinviando a Beatrice, Dante-personaggio allude unicamente ai suoi valori simbolici quale rappresentante divina; e che, quindi, la frase non dovrebbe essere presa letteralmente. La proposta è difficile da accettare, dato che, come è evidentissimo, metterebbe in crisi la coerenza della lictera del poema. In più, una tale noncuranza per la lictera costituirebbe un caso unico nella Commedia; né si capirebbero le ragioni per una tale divergenza dalla norma, particolarmente in un episodio in cui l’allegoresi è al centro degli interessi dell’Alighieri.
Per quanto, dalla prospettiva qui offerta, pare poco probabile che, rispondendo a Cavalcante, il pellegrino stia alludendo alla donna amata, resta pur sempre il fatto che, come sappiamo dall’inizio del viaggio (Inf. I, 121-23), la persona a cui Virgilio sta effettivamente menando l’agens non è altra che Beatrice... Ambiguità s’accumula su ambiguità; e se non c'è, come credo, tentativo da parte del viator di confondere o di ingannare Cavalcante, è anche vero che, nei dettagli, la replica è lontano dall’essere trasparente. AI tempo stesso, la sostanza generale delle parole del pellegrino non solo è chiara, ma anche non cambia nei suoi significati essenziali quale che sia dei tre il candidato che il «cui» designa (ovviamente, in questo rispetto, per Beatrice, signum coeleste, e se interpretata come soggetto oppure oggetto, vale quanto è già stato detto per Iddio). Dunque, il viator dichiara, e in questa circostanza senza nessuna sfumatura ambigua, che Guido ha peccato gravemente, abusando del dono della ragione, dell’«altezza d’ingegno» (v. 59), e of fendendo in questo modo un essere verso il quale aveva l'obbligo di comportarsi con umiltà. Il contesto non lascia dubbi che il fallo cavalcantiano sia un peccato dell’intelligenza; e, se leggessimo il pronome come soggetto, ciò spiegherebbe come mai Dio (o possibilmente Beatrice) «l’avrebbe in odio» ab aeterno; mentre, leggendo il «cui» come oggetto, l’attenzione è attirata sull’azione peccaminosa di Guido — azione ai danni di Dio, ma anche di Virgilio (e forse persino di Beatrice) - piuttosto che sull’atteggiamento della persona da lui offesa. Questa dialettica semantica, tra ciò che resta irrisolto e ciò su cui non possono esistere dubbi, costituisce, direi, l'aspetto più vistoso e cruciale dei versi 61-63.
Sono ben conscio che la mia proposta va contro l’esegesi secolare del passo, la quale si è sforzata di restringere la portata delle parole del pellegrino. Al tempo stesso, è difficile sfuggire al fatto che la frase non lascia che la si rinchiuda entro una spiegazione singola e pacifica. E, stando così le cose, la nostra responsabilità di lettori «sani» (Inf rx, 61) è di riconoscere l'ambiguità e le tensioni che circondano la frase, e poi di trarne le debite conclusioni. Come i versi “gemelli” del canto nono, Inf X, 61-63, i versi 62-63 di Inf. IX, anche se indirettamente, sono anzitutto, data la loro oscurità, un appello a «mirare la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani» (Inf. IX, 62-63). Non mi pare irragionevole, quindi, sostenere che la risposta di Dante-personaggio funziona da emblema del ruolo chiave svolto dalla crux — una sorta di crux crucum — e dall’allegoresi nel cerchio dell’eresia, in particolare alla luce dei legami che i versi istituiscono con la questione dei rapporti tra Iddio e l’uomo e con quella interconnessa della ragione. Difatti, la centralità strutturale, sia nel canto sia nell’episodio intero, dell’incontro tra il viator e Cavalcante dei Cavalcanti militerebbe a favore di tale interpretazione. Ci sarebbero anche ragioni di natura narrativa, cioè ragioni che si collegherebbero con la lictera, per il tenore della risposta del pellegrino. Come è chiaro dal «forse» (v. 63) — su cui era tempo che mi soffermassi —, le parole dell’agens sono caratterizzate da un grado importante di reticentia. Tale effetto, di nuovo, non cambia se si associa l’avverbio col verbo menare o con la subordinata che sussegue ad esso. In entrambi i casi, Dante- personaggio esplicita la propria umiltà (la quale, come non detto, è da opporre al «disdegno» di Guido) — il senso chiaroveggente della propria insufficienza che, debitamente, o lo porta a parlare con circospezione della propria missione, anche se questa è stata sanzionata «ne la corte del cielo» (Inf. II, 125), o gli vieta di giudicare in maniera assoluta i falli altrui. Il viator ha tutti i tratti del magnanimus cristiano; tratti che lo contraddistinguono dalla “magnanimità” dell’eretico. E rispondendo a Cavalcante in modo tale che, da un lato riesce a rendere apparente al dannato il comportamento problematico del figlio, il quale aveva abu- sato del proprio «alto ingegno» (Inf X, 59) - spiegazione che quindi non lascia dubbi circa la ragione per cui Guido non poteva accompagnato il pellegrino nel viaggio ultraterreno —, mentre, dall’altro fa sì che non si entri nei dettagli del peccato, egli afferma che il suo comportamento costituisce un caso esemplare di quella reticenza, umile e sensibile, ma pure onesta, che dovrebbe distinguere il cristiano. La risposta del viator è un modello, tanto nella forma (e non si dimentichi la forte patina biblica dell’espressione) quanto nel contenuto, di come adoperare l’«ingegno» rettamente.
Dunque, ci sarebbero buone ragioni per il carattere polisemico della replica dantesca. Tale dimensione semantica arricchisce non solo il contesto narrativo, ma anche quello ideologico. Inoltre, anche se in questo caso proporrei di muovermi con cautela, la polisemia e gli risvolti scritturali della frase, almeno a me, fanno venire in mente i “sensi” della “lettera” sacra. Dall'inizio della cantica , il poeta sottolinea il fatto che la lictera della Commedia deve essere interpretata secondo le convenzioni dell’allegoria in factis, dato che il viaggio, come gli eventi registrati nella Bibbia, fa parte della storia provvidenziale. Quindi, non è infondato pensare che ci siano momenti in cui, come accade in Inf. XIX, ove il viator ricorda un profeta veterotestamentario , la sua vox, particolarmente se vicina a quella scritturale, possa avere qualcosa di sacro. Come ho detto, non vorrei insistere su questo punto. Tuttavia, in un episodio in cui l’esegesi ha un certo predominio, non sarebbe fuori posto se Dante volesse anche accennare alla natura allegorica del proprio poema e ai rapporti del viator col divino, cioè al proprio ruolo di signum coeleste.
Ovviamente, nell’attirare l’attenzione sull’unicità della Commedia e sull’aspetto miracoloso della sua esperienza dell’oltremondo, l’Alighieri corre il pericolo di distruggere quell’alone di umiltà con cui vorrebbe circondare il viator (anche se questo è un pericolo che ricorre lungo tutto il poema). E gli azzardi potenziali aumentano nel momento in cui, dovendo «tutta sua vision far manifesta» (Par. XVII, 128), egli si atteggia a scriba Dei. Al tempo stesso, insistendo che il viaggio e il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2) sono stati sanciti da Dio, e che l’agens e l’auctor fanno del loro meglio per comportarsi da humiles cristiani, Dante riesce ad allontanare da sé possibili accuse di alterigia. Tra i tanti elementi cruciali che emergono dall'episodio dell’eresia, e specificamente dall’incontro con Cavalcante, c’è, quindi, anche quello di dimostrare che, in contrasto con la condotta di Guido, l’atteggiamento dantesco verso Iddio (e Beatrice), ma anche verso Virgilio, non ha nulla di disdegnoso. Eppure, poiché nell’immaginario tardomedievale, come è evidente dagli interrogativi di Cavalcante, Dante e Guido erano spesso associati e celebrati insieme , quanto più l’Alighieri avesse criticato l’amico degli anni della gioventù tanto più avrebbe esposto il fianco ad accuse di arroganza, di egoismo e di «disdegno». Dunque, per ciò che riguarda Guido Cavalcanti, tra gli scopi principali dei nostri canti sembra esserci anche quello di non lasciare dubbi sul fatto che, malgrado la communis opinio, in realtà, poco o niente legava Dante all’altro lumen fiorentino; e che, perciò, gli attacchi al «primo amico» erano motivati da ineccepibili criteri morali e religiosi, e non da sfoghi di cattiveria, di gelosia e di presunzione. E, chiaramente, il modo migliore per dimostrare la verità di tutto questo era stabilire che le critiche dirette contro Guido si potevano giustificare.
Come si è iniziato a vedere, l’operazione di smontaggio etico, culturale, storico ed intellettuale, e quindi di condanna, che Dante intraprende rispetto a Guido è altamente calcolata e coinvolge ogni aspetto della “carriera” di quest'ultimo. Dunque, un altro effetto della polisemia della risposta del pellegrino a Cavalcante è di concedere tratti emblematici a Guido. Quindi, come risultato della complessa indeterminatezza del «cui», la quale lascia che, dietro le parole dantesche, diverse figure maestose coesistano, Cavalcanti figlio finisce coll’incarnare vari esempi di superbia intellettuale: quasi di sicuro colui che disdegna Iddio, ma ugualmente colui che disprezza le cose divine oppure le auctoritates. Egli è poi anche quello che, a causa della vanità intellettuale («tutto è vano / nostro intelletto», Inf. X, 103- 4), si merita il disdegno celeste. E l’immagine di Guido si complica maggiormente per essere associata coll’eresia e col razionalismo contemporaneo. Inoltre, il rilievo strutturale che Dante accorda allo scambio con Cavalcante non può che arricchire ancora di più l’emblematicità di Guido. Contro lo sfondo della storia della ragione schizzata in Inf. IX-XI, e in conseguenza della varietà di peccati dell’intelligenza con cui è collegato, Guido acquisisce i lineamenti del peccatore intellettuale per eccellenza. E Dante rafforza questo aspetto della presentazione del compagno degli anni giovanili facendo in modo che Guido sembri “assorbire” in sé le altre due figure principali del decimo canto. E abbastanza incontroverso, direi, considerare che la ragione principale per cui Cavalcanti padre è introdotto nella Commedia è per permettere a Dante di far apparire il figlio nel cerchio dell’eresia. Cavalcante funziona da cifra per Guido, il quale, come si sa, nella settimana di Pasqua del 1300 (ecco, di nuovo, un esempio della sensibilità dantesca per la lictera del suo racconto) era ancora in vita. Malgrado la reticentia, l’umiltà e i risvolti dubitativi del «forse» con i quali il poeta attenua il biasimo, è difficile sfuggire alla conclusione che, per un disdegnoso emblematico come Guido, l'etichetta di «seguace» di Epicuro (v. 14) è tutt’altro che inadatta. Alla luce delle censure dantesche, il «primo amico» è, a tutti gli effetti, “dannato”. Molto più problematica, però, almeno per noi, è l’idea che Farinata possa trovarsi “subordinato” a Guido.
Nell’ammettere subito la natura controversa della mia proposta, vorrei anche sottolineare due punti. Primo, la ragione principale per cui, in questo studio, mi pare giusto avanzare ipotesi fuori del comune è da ricercarsi non nel fascino dell’insolito, ma nella speranza di poter gettare un minimo di luce su un contesto non solo altamente sfumato, ma anche di respiro molto ampio. È la complessità dei nostri canti, per non parlare delle complicazioni delle loro terzine centrali, che mi incoraggia, spero con le debite cautele, a tentare soluzioni tutt'altro che piane. Secondo, suggerire che ci possano essere circostanze in cui Farinata si trova “sottomesso” a Guido non vuol dire negare il ruolo chiave che il grande ghibellino svolge nella Commedia. L’effetto inevitabile della polisemia è che il valore relativo dei singoli elementi cambia. Da una prospettiva politica, Farinata è sicuramente più significativo di Guido; però, dal punto di vista della storia della ragione, il filosofo ha il sopravvento sull'uomo di parte. Inoltre, è tutt’altro che ovvio che, per un lettore trecentesco, Farinata sarebbe stato di maggior peso di Guido. Non ci sono dubbi che quest’ultimo fu considerato, particolarmente a Firenze, ma anche altrove, una notevole auctoritas moderna . Se, da un lato, Dante sta mettendo in forse la natura dell’“autorevolezza” di Guido — questione su cui tornerò fra non molto —, dall’altro, assegnandoli il ruolo di peccatore emblematico, il poeta sfrutta la sua condizione di «anima [...] di fama nota» (Par. XVII, 138). Dunque, che Farinata possa trovarsi in una posizione secondaria quanto a Guido sembrerebbe andar contro le aspettative non dei lettori medievali, ma unicamente dei critici post-romantici.
In che modo, quindi, in Inf. X, si può pensare a Farinata “assoggettato” a Guido? La risposta, in verità, è sorprendentemente semplice: la rappresentazione dantesca di Farinata ripete alcune delle caratteristiche chiave del ritratto medievale di Guido. Anche dietro la figura di Farinata, come dietro quella di Cavalcante, non è difficile riconoscere i lineamenti del poeta-filosofo. Il «disdegno», come Gorni ha giustamente notato, è «contrassegno» di Guido ; quindi, è altamente suggestivo che anche Farinata sia definito come «quasi sdegnoso» (Inf X, 41) e presentato «com’ avesse l’inferno a gran dispitto» (v. 36). Di conseguenza, entrambi sono caratterizzati dall’arroganza e dall’altezzosità — tratti che li portarono ad isolarsi egocentricamente dagli altri. Poi, tanto Farinata quanto Guido parteciparono alle lotte di parte, sospinti da una lealtà esagerata verso il proprio casato . Dante aggiunge persino a Farinata una dimensione intellettuale che non si accorda facilmente coll’uomo d’azione, ma che si adatta benissimo a Guido, sommo intellettuale moderno. Dunque, il ghibellino non solo è un pensatore epicureo, ma, come Cavalcanti figlio (Vn XXX, 3), rivela pure un interesse per il proprio volgare (Inf. X, 22-23) e, in veste di «magnanimo», per la nobiltà e la felicità filosofica. Se non si può negare che Farinata svolge un ruolo di spicco nella Commedia, non mi sembra eccessivo anche sostenere che parte della sua importanza nel poema gli proviene dall’associazione con Guido. Né, in fin dei conti, mi pare esagerato ipotizzare che, accanto alle due «ombre» (v. 53), nell’«arca» (v. 29), ce ne sia una terza. Il fantasma di Guido Cavalcanti si muove tra le anime dell’Inferno.
Che, in Inf. X, Dante pronunci una condanna terribile contro colui che un tempo aveva considerato «amico», è qualcosa di lampante; e la polemica anti-cavalcantiana si allunga lungo tutta l’opera del Nostro, dalla Vita nova (per non dire dal Fiore) sino ai cieli più alti del Paradiso, anche se non di rado con enfasi diversa da quella del nostro canto. Tuttavia, resta il problema di perché l’Alighieri si sia accanito così ferocemente contro Guido. Non è mia intenzione costruire ipotesi psicologizzanti legate a possibili scontri tra i due in vita. Prove in sostegno di tali interpretazioni, stranamente tutt'altro che impopolari tra i dantisti, mancano in maniera assoluta. Non mancano, però, indizi di natura culturale che potrebbero aiutarci a capire le ragioni per cui Dante ha sommerso l’ex compagno sotto una valanga di rimproveri ed accuse.
Non occorre dire che i modi in cui Dante reagì di fronte a Cavalcanti furono del tutto diversi dalle reazioni dei suoi contemporanei, i quali si avvicinarono a Guido con grandissimo rispetto e approvazione; anche se, come ho accennato, gli atteggiamenti danteschi erano profondamente marcati dalle immagini comuni del «primo amico». L’aspetto che emerge più vistosamente dal modo in cui Guido è trattato da Dante nella Commedia è che l’Alighieri sta demolendo sistematicamente le fondamenta su cui l’auctoritas cavalcantiana era stata costruita, mentre, allo stesso tempo, si impegna di dimostrare la propria superiore “autorevolezza”: Dante-Giacobbe contro Guido-Esaù. L'antagonismo dell’Alighieri verso Cavalcanti non nasce semplicemente da un disaccordo “privato” sulla natura dell'amore, come frequentemente è asserito, ma proviene anche dalle implicazioni dell’immagine che si aveva nel mondo, non solo di lui stesso, ma anche di Guido. Per dirla bruscamente, Dante non sembra aver voluto condividere con nessuno, e particolarmente non con Cavalcanti, i benefici dell’auctoritas. Dunque, qualsiasi altra connotazione Inferno X possa avere, e in particolare qualunque sia la soluzione ai versi 61-63, sono convinto che una delle funzioni basilari del canto e della terzina sia quella di sollevare dubbi circa gli elementi chiave dell'immagine contemporanea di Cavalcanti — immagine, non dobbiamo dimenticare, che cominciò ad essere codificata vari anni prima che Dante iniziasse a comporre la Commedia. Associando, quindi, Guido coll’epicureismo, generalmente giudicato tra gli errori più gravi e respinto da «tutti li savi e li filosofi» , Dante contestava le abilità filosofiche dell’ex amico, la sua «altezza d’ingegno» (Inf. X, 59). Poi, connettendo esplicitamente questo peccato intellettuale al temperamento arrogante e disdegnoso di Cavalcanti, e accusandolo non per caso di epicureismo, dottrina che il Medioevo — ripeto le parole dell’Ottimo — condannava per la credenza irrazionale che «la felicità delli uomini fosse nella delettazione della carne» , l’Alighieri finisce col sovvertire in maniera effettiva e deliberata i tanti attributi positivi, filosofici, sociali e personali, di cui era adornata la figura di Guido come auctoritas.
La stroncatura dantesca è ben calibrata, e non lascia spazio a dubbi circa la peccaminosità cavalcantiana. Eppure, grazie alla potenza e alla popolarità dei miti alla base della costruzione dell’auctoritas cavalcantiana, la strategia dell’Alighieri rimase largamente incompresa lungo il corso del Trecento . Se, nell’Inferno, Dante si sforza di screditare la comune immagine pubblica di Cavalcanti, vale a dire di filosofo eccezionale e di individuo fuori del solito, è, comunque, in Purg. XXV, al momento in cui egli considera il problema dell'immortalità dell'individuo (vv. 61-75), possibilità che Guido — quale seguace di Averroè e autore di una famosa canzone averroistica — avrebbe negato, che l’attacco dantesco contro Cavalcanti è scagliato in termini molto più per- sonali. Per ciò che riguardava Dante, e nonostante la communis opinio, la reputazione di Guido come pensatore non mise mai in ombra i suoi successi poetici. Difatti, il primo scontro nella Commedia tra l’Alighieri e il «primo amico», che emerge dalla tensione che Dante istituisce tra il tessuto linguistico-allusivo di Inf. II e il contesto narrativo del canto, immediatamente mette in dubbio, in apertura del poema, le capacità artistiche, assieme alla probità morale, di Guido . Persino, nell'episodio dell’eresia, il cui scopo primario è distruggere la reputazione di dotto di cui Cavalcanti godeva, Dante non dimentica il poeta. Conforme al ruolo emblematico che l’Alighieri assegna al rivale, Inf. IX si apre con un’eco pesante della quarta stanza di Donna me prega, cosicché, dall’inizio dell’episodio, la poesia di Guido è strettamente associata col peccato . Inoltre, come Freccero ha sottilmente chiarito, alludendo alla Medusa (Inf. IX, 52-57), Dante evoca, per condannarle, le canzoni petrose, cioè il momento più esplicitamente cavalcantiano della sua esperienza letteraria . Per l’Alighieri, anche se non per il Medioevo, Cavalcanti poeta e Cavalcanti filosofo erano tutt'uno. Nel comporre la propria poesia dottrinale in Purg. XXV su un tema che lo divideva fondamentalmente da Guido, Dante lanciò una sfida non solo contro le convinzioni ideologiche dello scrittore più anziano, ma anche contro le sue capacità di poeta filosofico. Si potrebbe dire che, nel far questo, egli integrò Inf. II con Inf. X. Purg. XXV costituisce una risposta diretta a Donna me prega; anzi, esso si struttura in parte secondo le convenzioni “per le rime” della tradizione delle tenzoni, dato che più di un quarto delle sue rime sono riprese dalla canzone .
Però, prima di poter arrivare alla sintesi di Purg. XXV, Dante non solo doveva smontare diversi aspetti dell’auctoritas cavalcantiana, ma anche stabilire che la propria “autorevolezza” era voluta dal cielo e si conformava a criteri ortodossi e di umiltà. L'episodio dell’eresia gli permette anzitutto di condannare le abilità intellettuali di Guido, mettendo a fuoco come, dietro l’apparente sembianza del dotto, si celi l’eretico. E indubbiamente ironico che l’unico epicureo del tutto negativo che appaia in Inf. IX-XI non è il filosofo antico, ma il fiorentino moderno. Se solo Guido avesse seguito e non disdegnato Virgilio, anche perché il poeta antico aveva saputo trarre il meglio da Epicuro, «forse» avrebbe potuto anche lui salvare l’anima. Poi, contro lo stesso sfondo universalizzante che serve per storicizzare e legittimare la censura dell’ex amico, Dante sottolinea che, nel suo caso, non aver disdegnato l’autorità divina ma essersi sottomesso ad essa, gli ha permesso di arrivare alla vera auctoritas. Le loro esperienze personali, sul modello della storia dei due figli di Isacco, sono presentate come assolutamente antitetiche. Benché avessero origini comuni entro le mura di Firenze, i due “fratelli” finiscono coll’incarnare due esempi di vita, di cultura e di sapienza completamente contrastanti. Nulla unisce i due. «Guido» è letteralmente «vostro» (Inf. X, 63): non ha niente a che fare con Dante, ma molto a che fare col mondo dei peccatori. Secondo l’Alighieri, la responsabilità dei fiorentini contemporanei era scegliere tra le alternative che egli e Guido rappresentavano — tra l’auctoritas divinamente sancita e l’eretico disdegnoso. E la tragedia della città, come del mondo “moderno” intero, era non solo di aver confuso i due, ma anche di aver scelto male: «calcando i buoni e sollevando i pravi» (Inf. XX, 105).
Il lector della Commedia ha la responsabilità di non imitare i fiorentini, di reagire positivamente agli sproni che il poeta ha lasciato nel testo — sproni a “leggere” rettamente, e poi a comportarsi appropriatamente. La crux, come si è visto, costituisce uno sprone acuto di grande raffinatezza. Il sistema di cruces che controlla l'andamento dei canti dell’eresia ci coinvolge direttamente nel testo, rendendoci personal mente responsabili dell’elucidazione dei vestigia Dei ivi presenti. E, come è vero per ogni signum divino, anche i “sensi” della «comedîa» sono plurimi. Interpretando — come Agostino e, dopo di lui, molti altri asserirono — l’importante è restare entro i limiti imposti dalla fede, cioè non lasciarsi sedurre dall’esempio dell’eretico gonfio di «disdegno». Quindi, dobbiamo aver cura di non restringere inappropriatamente, e perciò inutilmente, la portata ortodossa del «sacrato poema» (Par. XXIII, 62); piuttosto abbiamo il dovere di riconoscere le implicazioni della polisemia — religiosa, intellettuale e poetica - del capolavoro dantesco, e di trarne le debite conseguenze. Che, da secoli, il «cui» abbia attirato l’attenzione in maniera così travolgente è più che comprensibile: Dante e Guido sono figure affascinanti; e lo sono maggiormente se presi insieme. Al tempo stesso, l'enigma del «cui» e il ritratto del “Guido di Dante” sono impoveriti se isolati dal sistema delle cruces di Inf. IX, X e XI e dalla «dottrina» (Inf. IX, 62), cioè dalla storia della ragione, che si cela dietro «’l velame» delle loro terzine. E la Provvidenza divina che dà il peso giusto e il tenore ideologico appropriato all’azzardatissima presentazione dantesca di sé e dell’arcirivale. Se i giudizi espressi nella Commedia non fossero divinamente legittimati, il poeta finirebbe coll’eguagliarsi a Guido nel disdegnare Iddio. A noi, oggi, può sembrare che, sospinto da un orgoglio luciferino, Dante abbia fatto proprio questo. Tuttavia, “leggendo” con occhi medievali, è più che evidente che, aderendo strettamente a posizioni ufficiali, l’Alighieri riesce non soltanto ad offrire un autoritratto di sé che lo vede fregiarsi dei tratti dell’humilis, dello scriba Dei e di un’auctoritas, ma anche, simultaneamente, a condannare Cavalcanti. La grandezza di Dante, ahimé, è anche da riconoscersi nell’abilità di manipolare ortodossamente credenze. religiose per fini discutibili. La Commedia è un poema che pretende. il nostro totale coinvolgimento, e persino le nostre reazioni negative possono quindi avere degli esiti “positivi”. In Dante, la crux è uno dei meccanismi chiave con cui arrivare allo scopo di immedesimare il lettore nel testo. Il «verso controverso» non è, come può apprarire dai contributi di una certa critica, un difetto che sfigura il capolavoro dantesco, e che lo studioso ha l’obbligo e il privilegio di sanare. Le cruces sono atti altamente deliberati e pregni di possibilità connotative — ecco, dunque, l’importanza fondamentale della presente raccolta -, per mezzo dei quali Dante prima ci affascina e poi ci “apre” le porte che portano ai tesori artistici e dottrinali del suo poema. «O voi ch’avete li ’ntelletti sani»...