Dati bibliografici
Autore: Aldo Ferrabino
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XIX
Anno: 1911
Pagine: 1-22
Al prof. Giuseppe Manacorda.
... Venimmo al pie’ d’una torre al da sezzo
Così il Canto VII s’era chiuso, con la promessa di alcun che di nuovo, mirabile e strano.
Poi Dante dice «seguitando» e prepara al dramma preannunziato lo sfondo e, tranne il protagonista, le persone. Cupa scena (1-31): diabolica, poiché demoni abitano l’alta torre, vi fanno loro segnalazioni, vi conducono lor amara vita di cattivi puniti e ribelli prostrati; poiché molto «suso» s’estende la vetta ardua, molto «lungi» risponde a fiammella, fiammella, più che vista d’uomo soglia comportare e discernere: umana per contro, se poté nell’Evo Medio sovente scorgere il pellegrino fuoco richiedere, in tempi di guerre o di scaramucce, e di spionaggi, risposte concesse da fuoco; se, a dir del Boccaccio, sovente, in agitati tempi bellicosi, avvisò il castello di un pericolo possibile o certo mediante avvertimenti ignei: divina, in fine, perché, là dove appare sembianza di costume terreno, vige, in vece, alta severa infrangibile, legge di Dio; perché, in quel luogo che vede oltracotanze diaboliche e ribellioni impronte di gente cornuta, regge, potente ineluttabile giusto, il volere di Dio; perché quelle mura, che fingono umana opera e servono a opera diabolica, rizzò la «Divina Potestate», fercerle la «Somma Sapienza» e il «Primo Amore», in lor giustizia rigida e in lor infinita misericordia.
Onde, se il «il fummo del pantan», sorgendo su dall’acque sucide, ogni cosa involge e feda, per contro dal cielo più alto e più fulgoroso la parola di Dio regola e governa quegli aspetti terreni d’un mondo infernale.
Sullo sfondo triplice s'adunano via via le persone destinate ad agirvi. Dante in prima, che fissa la sua personalità sin dal principio, affermando «Io» nella parola con cui inizia il Canto; poi specifica e determina sé stesso, fa apprezzamento di sé medesimo: quattro occhi vanno «suso alla cima» della gran torre, ma si due veggono e si due comprendono; Dante scorge, tra il «fummo», e domanda; Vergilio distingue, tra le tenebre, e spiega; Dante ha l'occhio che appena può «tòrre» il cenno lontano della fiamma; Vergilio è il «mar di tutto il senno»; in breve, Dante è il senso, Vergilio è la ragione; onde ha quegli un limite, è questi sconfinato mare. Insieme, son l’uomo, nella sua duplice e diversa essenza, sensitiva e intelligente. Contro ad essi viene il demonio: ha, del sovrannaturale, la prontezza velocissima; ha, del violento, il grido sùbito e inconsulto: «Or se’ giunta, anima fella?»; ha, dell’iroso, il rapido scoronamento e il rammarico accasciato «nell’ira accolta». Fra uomo e demonio, suona un momento Iddio, per bocca di Vergilio che donne beate investirono d’una missione superna e favorirono d’un potentissimo ausilio: «più non avrai, che sol passando il loto» è la recisa ripulsa, simbolo ed espressione di una legge più di ogni altra potente, meglio d’ogni altra intollerante di trasgressioni. Poi, Dio, presente ognora, tace, e per lontano, ma è vicinissimo. Tant’è, che il fatto materiale rivela, chi guardi, il valore intrinseco dei singoli personaggi:
Lo Duca mio discese nella barca,
e poi mi fece entrare appresso lui,
e sol quand’io fui dentro, parve carca.
Certo: perché il senso e la carna pesano, ma la ragione e lo spirito splendono; l’uomo e il suo corpo gravano, ma Dio e la sua potenza sublimano; onde solo Dante – uomo in quanto senso – fa cercar la barca, non Vergilio – uomo in quanto ragione, voce inoltre d’Iddio. – Si badi, s’insista! Perché insiste il Poeta:
Secando se ne va l’antica prora
dell’acqua più che non suol con altrui
Nella scena, adunque, come nei personaggi, non so che umano, non so che demoniaco, pare s’appuntino e convengano insieme a non so che superiore e divino.
Manca, perché prorompa il dramma, il protagonista soltanto. Eccolo! (31-63) Ai tre, che correvano, pregno ciascuno d’un valore suo e d’una sua importanza, la morta gora, significativa essa pure, si fa innanzi a un tratto tal sconosciuto. Pien di fango. Chi? Parla, e si scopre: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». Certo, è un superbo. Perché, a guisa di superiore, non si presenta né spiega, si bene senz’altro interroga; e, a guida d’orgoglioso, vuole in altri il peccato suo proprio, non supponendo migliore e più puro alcuno di sé; e, a guida d’oltracotante, non pensa subito a una grazia, come altri penseranno, che assista l'uomo vivo viaggiante per l’oltretomba, se bene s'accorga della vitalità di lui, ma preferisce aver solo contezza del suo essere. Certo, un offensore. Poiché ingiuria l’uomo, che, senz’altro conoscere, d’un sùbito afferma lordo di peccato e vuole di prim'acchito preveder sozzo del pantano, in cui egli s'intruglia; e ingiuria Dio, trascurando, si come fa, la Potenza di Lui e la sua Grazia, senza le quali non doveva supporre nessuno visitatore «anzi ora» dei morti regni. Ma che cosa offende egli, nell’ uomo? e nel Dio, che cosa? Nell’uomo, non Vergilio, si Dante; non la ragione, si il senso. Nel Dio, non la legge e la giustizia, la misericordia e la grazia trascura più tosto. Così fatto essendosi rivelato al pronto acume di Dante nell’interrogazione improvvisa, ecco il Poeta gli dà risposta dicevole a botta superba. Lascia, all’offensor di Dio misericordioso, balenare una superiore potenza graziosa, e dice:
S’ io vegno, non rimango;
rintuzza la superbia gonfia di sé, e dice:
ma tu chi se’, che sei si fatto BRUTTO?
Da quel momento l’orgoglioso è vinto. Allora, si rivelano in lui due aspetti nuovi. Accenna, prima, al suo pianto («Vedi che son un che piango»), alla sua pena in somma; può sembrare umile e contrito; ma no, più che mai superbisce, ché v’ha l’aria di dire: «non ti curar di me, ma passa oltre!», di ostentare le sue lacrime per celarsene e meglio scomparire e farsene schermo; onde è accortamente che Dante, pronto, lo rimbecca:
Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, ti rimani:...
poiché il pianto è il più adatto contrapasso al ghigno dell’irrisione, il lutto è il contrapposto più degno del tronfio godere di chi
per esser suo vicin soppresso
spera eccellenza
e gli accagiona, a ciò, sia pur con la brama soltanto, sofferenze e doglianze. Ma presto lo spettacolo di lacrime scompare: quegli, furioso, afferra con ambo le mani la barca al bordo, tenta con ogni forza di capovolgerla e trar seco nel limo, sozzo, l’uomo che aveva dato di piglio a sua superbia, le aveva scoperte con pronto polso e atto fermo ambe le guance, e su v’aveva disteso due forti manate, due schiaffi potenti, punitori ben giusti d’un duplice oltraggio. Vuol vendicarsi. È il desiderio di vendetta che si vien lumeggiando, dopo il pianto, quale attributo secondo della superbia di colui.
All’atto insano Vergilio, «accorto», prontamente reagisce e, intervenendo tra i due, del cui vivace contrasto era rimasto spettatore inattivo, impone il comando breve a Filippo:
...Via costà con gli altri cani;
rivolge a Dante la lode parca
Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s’ incinse...
Opportuno intervento: perché Dante — uomo in quanto senso — s'era, si, saputo levare nella vampa dello sdegno incontro all’ anima superba, ma sarebbe rimasto soccombente, senza l’aiuto della ragione, calma regolatrice. Filippo aveva offeso Dante. Dante con Vergilio lo ricaccia tra i cani. E fa giustizia. Non completa, st bene. A. completarla, occorre altramente ancora venga punito l’oltracotante, si come quegli, il quale, per traviato errore di coscienza maligna, sconobbe e finse ignorare l'assistenza della misericordiosa grazia divina. Or a quella guisa per cui quei che fu al mondo persona d’orgoglio s'è, in ombra là giù, furioso, perpetuando con la pena il peccato; medesimamente I offensore della grazia di Dio è dalla grazia istessa privo dei suoi benefizi. Come? Per un primo, più semplice, modo: giacché può la grazia concedere, così può ritenere, e come dì, nega del pari: a Filippo degli Argenti a punto non piovono doni misericordiosi, quale dannato egli è. Ma ancora per un secondo modo è punito: la grazia di Dio, che gli si nega brusca, si concede per contro larga al nemico di lui, Allighieri fiorentino, e si concede, peggio, a danno tutto e a grande scorno dell’avverso Adimari! Dante:
Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda...
E Vergilio, espressione del superiore volere!
Di tal disio converrà che tu goda.
E ne gode il Poeta di fatto. Si, che
Dio ancor ne loda e ne ringrazia.
Compiuta ora la più piena vendetta, il dramma sta per chiudersi e finire; ma Dante, perfetto sempre, non trascura, né deve, un altro aspetto, il terzo, del superbioso Filippo. Ah, malvagia iddia superbia che dilani i petti e a brani gli sconci! che strappi i cuori e gli tormenti! A’ diletti tuoi più male arrechi; il tuo amore è fatale e pregno di sofferenze acutissime. Vero:
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volgea co’ denti:
atto, questo, del furore supremo, cui la superbia traligna di facile, e di più, atto espressivo efficacemente del male che ridonda al cattivo.
Se non che, continua Dante:
quivi il lasciammo, ché più non ne narro.
Perché, in verità, è finito, ora, il dramma della superbia. Dirò più preciso: ha avuto termine il dramma della superbia umana; la quale fu mostrata: avere per suoi effetti l’offesa all’uomo, nella parte sua men nobile, o sia nel senso ; l’ingiuria al Dio, in uno degli aspetti suoi, o sia nella misericordia graziosa: presentare per suoi caratteri il pianto, degno contrasto d’ un ignobile ghigno, simbolo d’ altra parte d'un arrecato dolore altrui; la bramosia di vendetta, impetuosa tanto da tradursi facilmente in atto delittuoso; l’ira in sé medesima, lo sfogo virulento e insensato contro sé stessa, la sofferenza in sé conversa: punirsi in fine dagli altri, sia con il sussidio della ragione che, temperando il ribellarsi pronto e ruvido del senso, lo mantiene nei dovuti termini e limiti «di quel dritto zelo Che misuratamente in core avvampa», di quel sano sdegno, cioè, «che non è peccato ad averlo, ma è merito a saperlo usare», sia con l’ausilio della divina Grazia, che, negando i suoi provvidi doni al superbo, gli concede a quelli che più tra gli avversari egli odia.
Ma superbia è duplice peccato, come quello che fu è sarà di uomini, fu anche, pur troppo, di creature angeliche. Quale stupore, dopo ciò, se, appresso al dramma della superbia umana, si svolge quello della diabolica? Stupore sarebbe ove ciò non fosse.
In vece è. La scena nuova della nuova azione, mutata alquanto nel suo aspetto esteriore, riesce nel suo significato e nella sua importanza quella che notai pur dianzi prospettarsi a lumeggiare il dramma finito or ora. Ancor qui l'elemento umano predomina: vi è una valle, e vi son «meschite», e v'è una città, e cittadini in essa, e vi son fosse, e vi son mura, e in queste un’entrata. Ma il foco che l’affoca è l’eterno e diabolico, il luogo è il Basso inferno, la terra è la sconsolata, la città ha nome Dite, i cittadini sono gravi di doglianze: sicché in breve dura ancor qui l’elemento, che dissi, demoniaco. Né ancor qui è assente quello, che notai, divino: parso, al solito, più sentito che espresso, più immanente che supereminente, più afflato che materia, più astratto che concreto; presente e sensibilissimo a ogni modo. Lecito è quindi, dalla somiglianza innegabile degli sfondi, arguire somiglianza di drammi. Se non che qui calza opportuna un'osservazione notevole. Se ci facciamo a notare qual relazione mai corra tra ambiente e scena nel dramma, come lo definii, della superbia umana; notiamo in primo luogo che nello sfondo preparatogli dal Poeta I’ umano e il diabolico parevano appuntarsi, come lati d’ angolo in vertice, nel divino; in secondo luogo osserviamo che nella scena svoltavi dal Poeta fu evidente il contrasto tra l'umano e il divino, in relazione a Filippo degli Adimari, o la consonanza tra l'umano e il divino, in relazione a Dante stesso; fu insomma rilevata e fatta spiccare la relazione vicendevole tra Dio e uomo; in terzo luogo ci accorgiamo che l'elemento diabolico tacque al contrario e fu con Flegias silenzioso, rimanendo nell’ombra e quindi dell’oblio; ne concludiamo in fine che nell’ ambiente fu lumeggiato un aspetto soltanto, fu rischiarato, per riprendere la metafora già usata, un lato dell’angolo, dimenticato l’altro; fu mantenuta la promessa, in riguardo alle relazioni correnti tra il divino e l’umano; non lo fu, in riguardo ai legami tra il diabolico e il divino. Quello fu, in vero, il dramma della superbia umana. Ora è la superbia, dissi, diabolica: e del ripetuto ambiente sarà fatto risaltare l’altro aspetto, sarà vivificato l’altro lato dell'angolo, sarà mantenuta la seconda promessa: vedremo cioè il contrasto tra il diabolico e l’elemento divino. Onde l’artista non si ripeté, in realtà; si completò invece: colorendo volta a volta con efficacia e vivacità maggiore ora l'una ora l’altra parte del quadro.
Vediamo adesso che sieno i personaggi. Non ripeterò di Vergilio e Dante: di quegli che, buon Maestro, dice e spiega l’occulta cagione del rosso esteriore; di questi che cere nella valle o avanti intento l’occhio sbarra. Più tosto, ecco i diavoli. Erano più di mille in sulle porte DA’ CIEL PIOVUTI. Dicevano, stizzosamente,
Chi è costui, che senza morte
va per lo regno della morta gente?
È la prima offesa. Consueta, giacché altri demoni l’usarono, per ogni cerchio, a cominciar da Caronte e fino a Pluto. Nuova, se si pensa che la stizza ond’era improntata la voce di quelli non doveva essere simigliante né alla bestiale violenza di Cerbero il gran vermo, né alla rabbia consumatrice di Pluto male detto lupo, dacché Vergilio non ai diavoli rispose come a quest'ultimi, si fe’ cenno
di voler lor parlar segretamente:
era senza dubbio già nel tono della domanda espressa la tracotanza loro e la superbia, la loro più ferma intenzione di resistenza. Offesa, tuttavia, limitata a Dante: da Vergilio non divisa, ché gli concedono «Vien tu solo»; purché quei sen vada. L’ Allighieri ne trema; lo conforta il Poeta latino.
Ma ecco Vergilio
non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a prova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio Signor...
È la seconda offesa. Fatta, questa, alla ragione. La quale, pacata, aveva cercato con più vicinanza di sedare l’irritato moto dell'animo di quelli; calma, aveva forse (ché non poté Dante lontano udire) pòrto loro ragioni, e valide, e sode; ma in vano. Fu sprezzata; se ne scorò.
Ma è, a un tempo, la terza offesa. Perché Vergilio deve, fra l’altro, aver detto: — Dio, solo mi manda, è il voler suo. — E quelli negarono adito libero al volere di Dio: a quel volere che non è se non se giusto. S'opposero quindi alla divina giustizia, oltre che alla umana ragione.
Triplice ingiuria adunque. Ma onde mossa? perché originata? Anzi tutto, dalla violenza: quel presentarsi in più di mille là sulla porta a contrastare il passo, quel comune gridio stizzoso, quel chiudersi un poco soltanto del disdegno grande, quel volere unanime la perdizione e lo smarrimento di Dante, son segni non dubbi d’ una collera presto accesa, prestissimo divenuta violenta, eccitata, furiosa. Tant'è che breve tengon essi il colloquio insieme con Vergilio, non badano d’ ascoltarne la loquela e la parola ornata, di comprenderne le ragioni, per persuadersene: al contrario, nel cieco furore, già convinti a priori d’ esser nel giusto non pur lo ascoltano, ma lo piantano subito in sulla soglia deserta. Rabidi! Si, e invidiosi. Perché l’invidia, d' essi peccatori e ribelli privi della luce divina, contro I’ uomo che si redime e si pascerà di Dio, è il segreto stimolo della loro collera, è la occulta favilla che ne accese l’incendio, è il movente primo del grande odio loro. Inoltre è lor deplorevole superbia nata e caratterizzata da desiderio forte di vendetta: — Ah, costui è vivo? e vuol varcare il regno della gente morta? e Flegias non l’ebbe che sol passando il loto? e non l’avrem noi che sol passando Dite? E bene! si perda egli, sen stia la guida! si confonda tra queste tenebre che volle varcare, per questi cerchi che scese, per queste valli che mirò, tra questo mondo che non è il suo e, audace temerario, volle abitare e trascorrere! si perda!
Mal non vengiammo, un tempo, in Cristo l’assalto! Or si provveda. È urgente necessaria vendetta. —
Sarà vana. Ma non senza effetto, ché non è mai senza tracce il male. Dante ha tremato, or è poco: non mi lasciar, ha detto al duca savio, così disfatto! Dante ha, or è poco, desiderato rifare il cammino e riuscir di lì, più tosto che affrontare quel migliaio di grugni duri, di fronti cornute, di negre pelli ruvide. Dante ha dubitato di sé, che non gli bastasser le forze; di sua guida, che stesse per abbandonarlo; di Dio, delle Donne celesti, che gli negassero la loro grazia e permettessero l’iniquo sormontare dei demoni. Con Dante, Vergilio ha pure esitato; dopo la resistenza dei diavoli, i suoi passi son rari, gli occhi stan chini alla terra, le ciglia son rase d° ogni bar danza, Mormora: chi m’ ha negate le dolenti case? È inutile: a lui pure, che Beatrice pregò, i l'umanità venera, Dante onora duca signore maestro, designa mare di senno, il dubbio s'è insinuato nel petto: — E se fosse impedito più oltre l’accesso?... — La superbia diabolica ha atterrito, spingendole al sospetto, le menti dei due pellegrini, e si della guida come del minor seguace.
Ad entrambi però — fortuna! — arride poco appresso vittoria. Perché di qua dalla porta infernale discende pronto Tal che per Iui... fia la terra aperta; messo in ausilio valido dal cielo provvido e attento, a vincer l’oltracotanza, non nuova, dei diavoli e a fugarne l’ardire, non ultimo. Perché Vergilio, ragione umana qual’ è, già lo presente e arguisce, se ne conforta e muta il dubbio in ira (v. 121), i sospiri in parole, le parole imprime di coraggio e d' esortazione, afferma ch’ ei vincerà la prova. Perché infine Dante, senso umano qual’ è, si sente attratto dalla bella certezza e sicurezza di lui, se ne rianima un poco, ne ritrae alquanto conforto. La battaglia è vinta.
Ed è, ho detto, la battaglia della superbia diabolica. La quale quindi, per tal guisa, riassumendo, si svolge: nasce da rapida e impronta invidia, come da insana concupiscenza di vendetta: si concreta in offesa all’ uomo ragionevole e al giusto Iddio: genera il dubbio dell’uomo in sé stesso e nella divina potenza, lo scoraggiamento del suo ardire, la prostrazione delle sue forze: è vinta pel rigore della Giustizia superna, presagita e preavvertita come necessaria e immancabile dall’intelletto sagace della creatura: procaccia male a sé stessa.
Rifacciamoci un po’ lontani, a contemplare nell’insieme il Canto VIII a quel modo che sogliono i pittori, finito il quadro, che colorirono nei particolari. Il concetto che lo anima e lo informa è la superbia: quella umana nella prima metà (vv. 1-66); quella diabolica nella seconda (vv- 67-130): della prima è mostrato il pianto e il lutto (vv. 36); della seconda l’invidia violenta (vv. 83, 81, passim): dell’una e dell’altra è narrato rimedio l’intervento e della umana ragione, sia a moderare lo sdegno che a presagire la salvezza, e della potenza divina, tanto espressa qual grazia quanto intesa come giustizia: entrambe danneggiano sé medesime e in sé medesime ritorcono il male: d’entrambe è propria la bramosia di vendetta: ma l’umana è men grave che la diabolica, meno esiziale nei suoi effetti; giacché, se di quella si può tacere in breve (v. 64), di questa invece è tristissima conseguenza il dubbio tormentoso accecante pietrificante (vv. 96, 118-120).
Sintetizzato così, nel suo più recondito significato e nel più intimo valore suo, il Canto VIII, passiamo a leggere, senz’altro, il X.
Ora sen va per un secreto calle
tra il muro della terra e li martiri
Dove siamo? Fra gli eretici. Va bene: ma come ci si venne? Per quali vie? Inoltre: perché gli eretici qui, dopo i superbi, prima dei violenti, tra il muro della terra e li martiri? In somma: quali vicende materiali di viaggio e cammino han condotto i due poeti, e noi lettori fantasiosi insieme con essi, fin qui? Qual processo, per contro, ideologico e teologale seguì il cervello dell’Autore nella disposizione dei nuovi dannati, e quale figurazione la giustifica agli occhi nostri d’ignari e di curiosi? C’è un vuoto, che le domande riempiono; c’è un distacco, che i punti interrogativi colmano, ma non saziano mai,
A saziarci rende propizio ufficio il Canto IX di cui intendiamo ora il valore, la necessità e, quindi, la efficacia. Giacché ne vediamo il duplice ufficio. Narrare, anzi tutto, i passi che i Poeti compierono nel proseguimento del cammin alto e silvestro, seguirli negli ostacoli nuovi superati, dire degli atti successivi, dei diversi colloqui, delle vicende strane. Svolgere, inoltre, quel discorso intellettivo, quel nesso di concetti, in virtù del quale si trascorra senza interruzioni dalla superbia alla eresia. Entrambi gli uffici (si riconosce presto) hanno una loro necessità. A quella guida che il primo è inevitabile, per un’ovvia ragione artistica, la quale nega, si possa lasciar lacuna nel compiersi del viaggio o pellegrinaggio oltremondano; come per una semplice causa psicologica, che afferma doversi soddisfare la eccitata curiosità del lettore ed evitagli passi troppo lunghi e troppo bruschi: nella guida istessa, il secondo è imprescindibile e ineluttabile, perché, la dove la distribuzione dei dannati è stata fin’ora informata a un evidente concetto aristotelico (più tardi espresso nell’XI Canto), là dove lo sarà anche in seguito per gli altri colpevoli o violenti o frodolenti o traditori, non lo è altrettanto qui, mentre bisogna sia; di maniera che è facile intendere come, se fu possibile il brusco passare dai golosi (faccio un esempio casuale) agli avari, lasciar Cerbero per dir di Pluto, senz’altro senza sfumature che attenuassero agli occhi il rapido susseguirsi delle tinte diverse, senza note di legame, che favorissero all’orecchio il trascorso da un tono a un diverso, non è per contro possibile ora procedimento sì fatto, perché manca qui ciò che non là, voglio dire un preordinato comune e riconosciuto piano concettuale e ideale che, facile e palese al lettore, accettato dal Poeta e da chi si ciba di lui, ponga quest’ultimo nella favorevole condizione di aspettarsi in precedenza la categoria di peccatori che realmente gli verrà descritta. Chi nel Medioevo fece lettura della Commedia, avendo fresche nella memoria le parole di Aristotele attorno alla tre disposizioni che il Ciel non vuole, ricordando le comuni in allora suddivisioni dei peccati, non poté maravigliare, se scorse dopo Francesca Ciacco o dopo Ciacco i tonduti o dopo questi Filippo Argenti delli Adimari; sì più tosto, stupire, più che poté, dové, in leggere degli eretici e del luogo loro, ché nulla gli farebbe, là dove sono, arguire.
Nulla, se non fosse come s’è detto, il Canto IX. Il quale, come potrebbe soddisfare al suo compito doppio e necessario? Il tema ha certe sue esigenze che costringono a modo loro l’Autore, impotente a differirle e a variarle; la materia per l’artefice, sia pur plastica e morbida, e vi s’affondi il pollice, e vi s’adoperino gl’istrumenti, è tutta via sempre dura tiranna con sue proprie leggi, capace d’imporre obblighi e procedimenti speciali. Così le necessità logiche dell’assunto è ovvio guidino ancora in tal luogo e in questo caso il Poeta quand’anche sia questi il figlio di donna Bella. Orbene: è, prima d’ogni altra cosa, chiarissimo che la narrazione degli avvenimenti materiali, come quella la quale è libero frutto di fantasia non costretta, deve non subordinare a sé l’altro ufficio, al contrario ha da sottomettersi a quello. Questo è poi a sua volta chiarito quando si considerino il punto onde deve partirsi e punto cui bisogna che arrivi il Poeta: di là la superbia, più specialmente poi la diabolica, per ultimo narrata; di qua l’eresia nelle sua diversissime forme, nei suoi differenti aspetti: tra le due rive il ponte. A costruirlo, materiale sarà offerto dagli elementi istessi ond’è complesso il punto d’inizio, dagli aspetti medesimi di cui è costituito il dramma della superbia. Che se fra tutti – molti, e lo mostrai – v’ha pure il dubbio, ed è palese di molto, e grave di molto, e sentito assai, questo sarà trascelto, a rigor logico, per lanciare l’arco che snello congiunga le due sponde opposte. Giacché superbia è l’atto, per cui la mente umana si leva a scrutare l’infinito essere delle cose, a indagarne le cause e i modi, a fissarne le leggi; la disposizione, per la quale, sottrattasi al vero rivelato, patente ed aperto, ne cerca e finge e crea un suo; la volontà per che lo predica poi, lo sostiene, e viepiù lo argomento e lo rafforza di errori: dubbio è l’affetto che ne consegue a chi oda o vegga tal maledetto superbire, vi presi orecchio od occhi, vi ceda supina la mente e facile il cuore, vi abbandoni sé stesso: eresia, il frutto ultimo, l’estrema colpa di chi, non credito nel vero solo, sì dubitandone invece, superbamente un altro ne afferma diverso. Evoluzione questa ch’è ovvia; e la Poeta offre pronto e libero discorso dagli uni ai nuovi dannati, dall’un cerchio infino all’altro, tali son le strettoie entro cui la natura del tema chiude il Poeta.
Onde si profila ora l’aspetto del Canto quale lo vorremmo, per desiderio di critici, se non fosse, quale lo supporremmo, per indizione di logici, se mancasse e si fosse smarrito, quale sarà se l’inconscia ispirazione, onde fu sorretto il Poeta, fu vera grande alata. Sotto, ecco lo scheletro: a un estremo, il dubbio; all’altro, l’eresia; fra i due, la superbia, secreta loro fonte, ignoto loro principio, il dramma cioè duplice che fu svolto poc’anzi, di cui, perché non sia superfluo, sarà lumeggiata meglio quella conseguenza, che è il sospetto eccitante, e saranno mostrati, perché sia vie più salutare, i rimendi, o in altri termini la ragione accorta e la provvidente divinità: ecco lo scheletro, di sotto. Sopra, la forma vogliamo narrativa, desideriamo perciò allegorica, in guisa che, nell’esporre fatti ed azioni come accaduti, confermi idee e concetti come pensati, nel tracciare disegni di cose e persone, delinei termini di pensieri e precisi significati morali.
Così fatto il Canto, per logica, deve essere.
Ma quale è?
Difficilissima opera a determinarsi in vero. Nel fatto, non fu a caso s’io volli idealmente ricostruire per processo induttivo, risalendo su dalla natura e dai caratteri dell’VIII e del X, il Canto IX; fu a bella posta invece, dacché notissime sono le discussioni vive e lunghe, che non valsero tuttavia a precisare e determinare il reale contenuto di quel Canto; onde mi parve doversi pervenire a qualche risultato più sodo, soltanto arguendo per indagine quale debba essere, a soddisfare l’armonia della Cantica, il valore intrinseco e il rendiconto significato di quella allegoria, ricercando poi per qual guisa gli convenga la lettera.
A questo rivolgerò pertanto ora le cure. Anzi tutto stimo opportuno dividere (non son sempre pedanteria monotona e uggiosa le divisioni) in tre parti il Canto: delle quali la prima faremo comprendere dai versi 1-33: la seconda vedremo svolta e completa nei versi 34-105: la terza diremo contenuta nei rimanenti versi 106-133. Esaminiamole partitamente.
«Quel color che viltà di fuor mi pinse» è il suono con cui s’inizia il Canto; si continua con la dubbiosa reticenza vergiliana «se non... Tal ne s’offerse», ov’è incluso il sospetto di non potere, per un motivo ignoto, balenato all'improvviso nella psiche del Duca e tosto ricoperto, terminare il viaggio intrapreso ; prosegue ancora con la paura (v. 13) di Dante, che trae a peggior sentenza del vero la parola tronca; insiste sul timore di lui che non conosca Vergilio il cammino, onde lo interroga accortamente e sente la guida il bisogno di soggiungere, scaltra, «ben so il cammin»: è, insomma, il principio del Canto, pregno di un chiaro senso di dubbio. Appunto come l’avevamo voluto! E che non sia esso casuale si pensato e meditato dal Poeta è prova un fatto evidente e luminoso : l’aver Dante — cioè — compiuto un ritorno in addietro con il rappresentare dubitoso e sospirante di bel nuovo quel Vergilio, il quale pur dianzi aveva già, finendo l’VIII Canto, accertata e affermata la secura vittoria del Messo dal cielo: ritorno, dico, in addietro, che ha il fine di porre in più chiara evidenza e più limpidamente dilucidare quel dubbio, che dicemmo conseguenza fatale del superbire diabolico, ma che prima era stato non approfondito ed impresso, si sfiorato e accennato soltanto.
Omettendo ora la seconda parte, balziamo con un salto alla terza (sono i salti ideali più pronti e facili che i reali!...) Siamo nella città di Dite, là dove fanno i sepolcri tutto il loco varo. E Vergilio, al consueto, comenta: «Qui son gli eresiarche co’ lor seguaci, d’ ogni sètta» e afferma esservene numero più grande del credibile, Domina, insomma, la eresia: capi e seguaci, superbiosi e dubitanti. Anche qui il contenuto reale del Canto, ove non v'ha discussione né incertezza possibile, concorda a pieno con quello, che ne feci, schema ideale e induttivo. Or bene: ci troviamo in si fatta postura, da veder concordare e coincidere a maraviglia col testo i due estremi, posti dianzi, del Canto; è quindi naturale, logico, anzi necessario, se siam convinti della bontà e del valore di quel ragionamento, che svolsi poco fa e suffragai di argomenti, l’ ammettere che la parte mediana del Canto corrisponda al dramma della superbia, radice del dubbio e per esso della eresia; il riconoscere di più che tal dramma, per non esser la superflua ripetizione del già svoltosi, debba rilevare con efficacia ed evidenza maggiore la conseguenza del sospetto e del dubbio, che quel primo comprendeva, ma non lasciava spiccare. Tuttavia potremmo ripudiar tale corrispondersi e coincidere dei versi 33-105 con il concetto della superbia, ove la discovenienza formale risultasse palese e ripugnasse al buon senso comune. Avviene ciò? Cerchiamo. Su l'alta torre alla cima rovente IN UN PUNTO furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte. Erano le meschine della regina dell’eterno pianto. Erano le feroci Erine. Più precisamente, Megera dal sinistro canto; a destra, piangente, Aletto; Tisifone nel mezzo. Tutt' e tre si fendono con l’unghie il petto. Ebbene. Anzi tutto le tre Furie, sorgendo in un punto, dànno a divedere di raffigurare un solo concetto, nella sua triplice forma senza dubbio, ma solo a ogni modo: tale il concetto di superbia. Inoltre sono esse meschine di Proserpina, la regina infernale; molto bene: perché il Re dell’Inferno è per l’appunto il superbissimo, l’arcangelo ribelle, il più orgoglioso tra le persone orgogliose. Da ultimo presentano i caratteri che, non noi, non i teologi, non alcun altro, bensì Dante stesso attribuì alla superbia umana e alla diabolica: Aletto, che raffigura la prima è dalla destra, segno di men grave colpa, piange, come Filippo delli Argenti, piange inoltre incessante mente, se si bada alla etimologia del nome, a quella guisa che l’Adimari si rimarrà per sempre con piangere e con lutto: Megera che rap- presenta la seconda superbia è dal sinistro lato, come errore più grave, significa ed esprime, per senso etimologico, la invidia, a quel modo che la significano e rappresentano (lo mostrai) i più che mille diavoli; Tisifone, che sta nel mezzo, è simbolo del comune carattere e degli umani e dei dèmoni superbi, della vendetta cioè, che l’Adimari tenta che i diavoli cercano, è segno insomma di quel comune terreno su cui s'incontrano i due orgogli, di quel comune ceppo onde divergono i due rami alteri, è la terza sorella in cui è assommata la qualità che hanno le altre due comune: infine ciascuna si fendea con l’unghie il petto, cosi come il fiorentino spirito bizzarro in sé medesimo si volgea coi denti, cosi come ai diavoli fu spesso per tracotanza cresciuta doglia dal supremo Fattore, giacché è della superbia proprio l’ avvelenar sé stessa; tutte ancora gridevan alto, non dissimilmente, ognun lo ricorda, dalla furiosa alma dell’ Argenti e dal diabolico congresso sulla porta infernale. Se ne conclude, la figurazione letterale ed esteriore delle Furie adattarsi perfettamente al concetto della superbia, a quello insomma che qui si desiderava, in séguito a un esame facile del tèma e delle sue esigenze.
Più, si desiderava ancora — lo ripeto, ché non è mai vano — una più netta e più spiccata espressione del concetto del dubbio. È questa pure riscontrabile nella Medusa dantesca? Certo — non esito. In primo luogo, Medusa è invocata dalle superbe Erine, a quel modo che il dubbio sorse in cuore a Dante e nella mente a Vergilio di fronte alla superbia diabolica: si che comune e quella e questo hanno l’origine. Poi, Medusa pietrifica e debilita, a quella guisa che il dubbio fa rari i passi del Latino, rase di baldanza le ciglia sue, sospiroso il petto, e toglie a Dante ogni forza ogni volere ogni intenzione dell’andar più oltre: onde uno è per quella e per questo l’effetto. Anche, per evitare i danni della Gorgone in soccorso di Dante corre Vergilio prontamente e con aiuti di parole e con aiuti di atti, a quel modo che Vergilio medesimo e con parole e con atti distorna Dante dal sospettoso timore dopo la superba fuga dei diavoli; di più, la protezione di Vergilio cessa in quell’ istante in cui il Messo dal ciel si fa sentire, proprio come Iddio era intervenuto a dissipare del tutto, infine, il tremore di Dante: in breve, i rimedi che neutralizzano l’ efficacia della Medusa son gli stessi che quella del dubbio.
È QUINDI LECITO, E NON RIPUGNA ALLA LETTERA E NON DISDICE AL BUON SENSO, IL RICONOSCERE NELLE FURIE LA SUPERBIA, E IL DUBBIO IN MEDUSA. Tuttavia, agli argomenti già addotti, è possibile aggiungere ancora tre controprove.
L’una sta nel comportamento di Vergilio: il quale, nell’ VIII Canto, dinanzi alla superbia aveva parlato spiegando, mostrandone a Dante i moti e gli atti, additandone le guise; là dove di fronte al dubbio aveva esortato, comandato, stimolato; aveva in somma, per dirla con espressioni da grammatico, dinanzi ai superbi usato l’ indicativo, l’imperativo, dinanzi al dubbio del discepolo : ora del pari, allorché scorge le Furie d’ un subito comparse, prontamente avverte elleno essere le feroci Erine, ne espone i nomi e ne descrive gli atti; ma alla minaccia dell’ avvenimento di Medusa, accorto e pronto consiglia «volgiti indietro, e tien lo viso chiuso!» : identica condotta dinanzi a persone e figure medesime.
L’altra, che dicevo, controprova è invece nella natura del Messo dal Cielo. Abbiam visto la superbia umana offendere la misericordia divina, la superbia diabolica ingiuriare di Dio la giustizia, quella per pena donare sue grazie all’ avversario di Filippo, questa per vendetta infierire contro i demoni. Se dunque le Furie realmente sono la simbolica figurazione delle due superbie, contro esse e contro diavoli che l’hanno suscitate sulle lor mura, che ve l’hanno poste a strumento bellico, deve il Messo dal Cielo infierire con entrambe le due attitudini celesti, con la misericordia e ton la giustizia. E difatti procede con quel fracasso pien di spavento e di terrore, con quel baccano che fa tremar le rive, con quell’ impeto che l’assomiglia a un vento o ad una bufera, i quali sono propri attributi della rigida e tremenda giustizia si di un Giove tonante come d’un Dio cristiano; passa, di più, le acque di Stige con le palme asciutte, a segnare la sua soprannaturale origine come la sua sovrumana potenza, cui non può il fine mai esser mozzo; cui non valgono ostacoli, non servono freni, perché tutto varca e sorpassa senza difficoltà, perché a tutto fatalmente arriva. D’ altra parte, non ha sereno l'aspetto, spianato il volto: ma l’aer grasso che s’addensa fitto e sgradevole nel basso inferno l’aduggia si, ch’ ei muove la destra a liberarsene e sol di quell’ angoscia pare lasso; soffre in breve di quel sozzo alito che gli spira in volto e a cui non è avvezzo, egli, abituato al più puro limpido e sereno aere delle sfere superne, alla schietta e onesta vita di purezza, costretto ora alla visione del peccato della colpa delle pene. Non è misericordia questa? non questa angoscia che l’affligge dinanzi al peccato, simile all’ angoscia di quel Dio che del peccatore soffre e gli perdona, allargandogli pietosamente le braccia grandi? Certo, Si e ci conferma in così fatta credenza l’esposizione medesima del Poeta: il quale, detto il terribile suono e vento che si partiva dal Messo, narrata la fuga dei demoni e dei peccatori dinanzi a quello, notata, cioè, la giustizia ch’ egli affigura; distinto d’ altra parte l’atto angosciato e l’afflitto aspetto attraverso il grasso aere; subito soggiunge: ben m’accorsi ch’egli era del ciel messo. Non prima se ne poteva accorgere, quando lo vedeva esecutore di Giustizia soltanto; si ora, quando lo notava addolcito da pietosa Misericordia, dote più propria e più cara del dolce Iddio suo! Sicché è certo il Messo dal Cielo dotato a un tempo di entrambe quelle caratteristiche con cui mosse il Creatore a punire la superbia dell’uomo e la superbia del diavolo: segno palese che le Furie, le quali, con essi i demoni, egli sbaraglia, simboleggiano bene il concetto della superbia.
La terza, che dissi, controprova sta nel discorso del Messo medesimo. Il quale, esaminato, risulta composto di due biasimi e rimproveri distinti: quello, anzi tutto, rivolto ai cacciati dal ciel, gente dispetta, a cagione della tracotanza che in lor s’alletta o, se vogli dire altramente, della superbia per cui tono contrapporsi al libero adempiersi della divina giustizia e recalcitrare al superno volere: quello, d’ altra parte, indirizzato al dubbio, insano e ingiusto, di chi, innanzi all’alterigia diabolica, sospettò infranto il volere di Dio, sospeso il cammino che da quello era stato concesso, interrotta la grazia che lo aveva permesso; di chi in somma pensò che potesse alla voglia del Primo Fattore esser tal volta pure mozzo, come alle umane più deboli voglie, il fine, che non è, né può, né s’ha da pensare. Discorso dunque contro sì la superbia e sì il dubbio. Ora: a chi è diretto il sermone aspro e chioccio? Ai dèmoni, e chiaro lo mostra il vocativo con cui s' inizia (v. 91), le allusioni che contiene (v. 98), l’andamento suo tutto (vv. 91-99). E allora, se proprio non la logica, se ancora ci disgustano le contradizioni, dobbiamo pure ragionare così: Davanti a Dante e a Vergilio, per impedire il cammino e vendicarne l'audacia, si pararono insieme coi diavoli, e loro strumento, anche le Furie e, dopo esse, Medusa; le parole del Messo, venuto a vincere e sopraffare gl’interposti ostacoli, sono di rimprovero alla tracotanza e al sospetto; ma sono del resto indirizzate ai diavoli soli; quindi di queste due possibilità l'una è vera: o le Furie e Medusa formano con la superbia e il dubbio una cosa sola; o pure sono una cosa diversa. Nel secondo caso non si comprende come il Messo celeste, che è il mònito divino, quanto acerbo e duro si sa, contro alle forze infernali, le ometta e si limiti a un biasimo duplice, là dove forse triplice o quadruplice poteva essere; non lo si comprende tanto più, allorché si pensa che le Furie e Medusa erano state per il Poeta ostacolo grave, quanto quello dei più di mille dal ciel piovuti, più grave ancora forse, se ebbe a rischiare di diventar di smalto e Vergilio medesimo pensò a soccorrerlo con le sue mani; tanto più non lo si comprende, ove si osservi che un’altra omissione, la quale con questa potrebbe (se si volesse asserire il secondo corno del dilemma su posto) formar il paio, è fatta notare ben chiaramente dal Poeta, che dice, «non fe motto a noi», ma non dice «non fe’ motto alle Furie e a Medusa». Nel primo caso invece, che vuole le Furie e Medusa equivalgano a superbia ed a dubbio, la omissione d’un cenno aperto e patente rivolto a loro sarebbe non spiegabile soltanto, non soltanto evidente, ma a dirittura artisticamente opportuna, necessaria persino, ad evitare dannose superfluità, ripetizioni inestetiche. Ci vediamo in conseguenza costretti, ancora una volta, a ravvisar nelle Furie e in Medusa la superbia e il dubbio. Che si tratti poi più precisamente della superbia, da riconoscer nelle Furie, e, da riconoscere in Medusa, del dubbio, basterebbe a dimostrarlo, ove altro non fosse e mancassero gl’ indizi, che son venuto raccogliendo invece in gran copia, l’ordine stesso del discorso celestiale; ma c’è di più il contenuto medesimo dei rimproveri del Messo che lo conferma a chiare note. Gli attributi infatti ond’egli colpisce la superbia sono gli stessi che le Furie si ebbero poc'anzi nel verso del Poeta e che Vergilio già ebbe a indicare: il dispetto, ciò sono, (v. 91) e la doglia (v. 96); mentre, all’opposto, del dubbio vengono a pena sfumati i contorni, accennati i caratteri e n’è quasi occultata persin l’allusione, a quel modo che pur dianzi a Medusa furono, dal Poeta, volte le spalle, perché non s’abbacinassero gli occhi e s'impietrasser le membra.
Concludiamo (l’ aritmetica insegna a tirar le somme...): se si vuole cercare del Canto VIII il nòcciolo animatore e indagarne lo svolgimento nei suoi due aspetti; se lo si pone a contatto con il X per indurne le necessità logiche cui ha da sottostare il IX, le esigenze artistiche e ideologiche cui deve soddisfare, allo scopo di non render in alcun che manchevole l’opera; se infine si analizza il Canto IX in sé stesso e ai caratteri e alle qualità della lettera si fanno corrispondere i significati e i valori dell’allegoria: decisamente, in tal caso, si riconosce convenire la interpretazione cui sono pervenuto; meglio e più a fondo, poi, quando si consideri che con così fatto procedere abbiamo: in primo luogo lasciato prevalere, al più possibile e in sommo grado, l’elemento obiettivo sul soggettivo; in secondo luogo spiegato Dante con Dante, un passo della Commedia con un altro passo della Commedia stessa; da ultimo, raggiunto questo fine per mezzo di un episodio che, dinanzi al comparir delle meschine della Regina infernale, si era pur allora compiuto, ed era quindi ben vivo nella mente dell'Autore, ben chiaro in quella di chi lo legge, adattatissimo per ciò a servir da fondo allegorico di una lettera, la quale non deve celarlo al tutto né al tutto renderlo astruso e difficile, si badare invece a lasciarlo trasparire alquanto.
Sono, queste, ragioni che varranno a giustificare, spero, dal punto di vista critico, il mio procedere: ho, cioè, voluto riconstruire man mano, con analisi minuta e sintesi chiara, i vari punti dei due Canti che son oggetto di mio studio, tralasciando, in modo assoluto, ogni richiamo ad altri precedenti commenti, ad anteriori diverse interpretazioni, fingendo anzi d’ignorarle totalmente, per imaginarmi e, quasi, pormi nello stato, ch’ è quello voluto dal Poeta, di chi con aperta mente e ingenuo animo, con intelletto sgombro da pregiudizi, prevenzioni, preconcetti, astruserie, si ponga a leggere i Versi divini: ho lasciato quindi i richiami (che altri fece, e qualcuno con abbondanza, la quale ne mostrò la erudizione, ma non fu sufficiente ad assodarne le ipotesi, a rafforzarne la tesi) ora a San Tomaso, ora ad altri teologi o filosofi medievali ; perché penso che questi poterono bensì esser familiari al grande Poeta, come è dimostrato di alcuni, plausibile di altri, essendo egli esponente del sapere laico di sua età e versatissimo in ogni disciplina si scientifica che filosofica e più specialmente teologale; ma d’altra parte sono convinto, per ragioni che dirò psichiche, meglio che logiche, per motivi interni e quasi direi intuitivi, ch’egli non mai avrebbe celato sotto un’allegoria oscura una dottrina troppo lontana dal comune, alla quale intendere fosse indispensabile la conoscenza di testi non generalmente divulgati, bensì l’avrebbe al contrario spiegata e chiarita dando opera a quel volgarizzamento morale ch’ è uno dei fini, e chi sa non sia il precipuo, della Divina Commedia; concetto questo, di cui, ripeto, sono convinto, e ancor più mi persuado ogni qual volta rileggo la esortazione ch’ è contenuta nel terzetto 61-63 «O voi che avete gl’ intelletti sani»; ov’è fatto richiamo non a sapienza, onde andasser fornite le menti dei lettori, non, e ancor meno, a erudizione oscura e difficile, si più tosto a sanità e nitore di veduta intellettiva, utile sola a intendere che la dottrina celata sotto il velame degli versi strani è la già esposta poc'anzi sotto diversa e men strana vicenda di cose uomini e demoni. Perché, in somma, Dante sa il suo lettore essere, nell’Inferno, non cibato ancora del pan degli angeli, per questo lo illustrai mostrandomene digiuno affatto.
Tutta via, come altri pensarono tenere contraria strada e sottilizzarono e affinarono la mente, producendo interpretazioni disparatissime, sostenendole con argomenti ricercatissimi, ricorrendo ai più differenti testi per loro suffragio e conforto; cosi stimo necessario, a completare l’opera mia, il venir vagliando le divere interpretazioni antiche e moderne, riguardo alle Furie e a Medusa; che non son poche, ognun lo sa, né son semplici, ognun lo vede pur che le scorra, né son sempre a tutto infondate, ognun l’avverte tosto che tenti di confutarle e abbatterle. È quindi necessario procedere con ordine.
C’è una prima categoria di coloro, i quali nelle Furie inclinano a riconoscere il simbolo allegorico di uno stato d’ animo o peccaminoso esso medesimo o radice di peccato, anteriore a ogni modo alla colpa. Concordi tuttavia su questo punto, cotesti comentatori dissentono poi, allorché si tratta invece di precisare la qualità e natura di così fatto stato. È però evidente, chi dia uno sguardo anche superficiale alla ventina di interpretazioni o semplicemente offerte e proposte o anche sostenute e convalidate con argomenti, che, per una o per un’altra guisa, il punto di partenza di ognuno si fu il rilievo del luogo nell’Inferno, ove le Furie apparvero a Dante per suo spavento ed ostacolo. Ora tale luogo appunto è di per sé ambiguo: come quello che, essendo situato sulle mura della città di Dite, su l’alta torre alla cima rovente, è, a cos! dire, nel mezzo e nella linea di confine tra il cerchio V, pur ora attraversato dai Poeti, ed il VI, che stan per percorrere; onde è lecita la opinione essere quei mostri infernali simbolo sì da un lato dei peccati puniti nella belletta negra e sì dall’ altro delle colpe per cui s’arde con Le anima in affocati sepolcri; tanto più e meglio, in quanto per un verso, a sostegno e argomento della prima tèsi, si può addurre l’emistichio stesso dantesco «riguardando in giuso», con che si potrebbe rilevare esser il pensiero e l’intento delle Erinni rivolto là dove sono i poeti ed essere perciò quelle simbolo ed espressione delle colpe aggiudicate nel cerchio che rimirano, non di quelle tormentate nel cerchio in cui si trovano; come pure sarebbe lecito, a rafforzare la medesima tesi, far la considerazione non disdicevole che vero dramma e il centro vero dell’azione sono tra i poeti e nei loro atti e nei loro sentimenti, o sia propriamente nel cerchio V; mentre, I’ altro per verso, a base e sostegno tesi, potrebbe qualcuno, e lo fecero nel passato e lo si fa pel presente, argomentare che Flegias (non le Furie) è nume nel pantano fumoso; che per contro l’Erinni son a punto a difesa del cerchio degli eretici, a quella maniera che lo sono, sul principio del cerchio proprio, Cerbero o Caronte; che infine la resistenza maggiore da loro opposta trova giustificazione nel fatto che con esse, finita la serie de’ men feroci numi presenzianti e presidenti ai peccati men gravi d’incontinenza, si comincia quella nuova de’ più cattivi e malvagi governanti i peccatori di eresia violenza e malizia. E avrebbero tutti una grande parvenza di fondatissima ragione.
Difatti gli vediamo dividersi appunto così fatto campo.
Gli uni veggono adunque nelle mostruose Erinni la sintesi di quel cerchio che ha dato materia al Canto VIII. Non sono tuttavia né meno costoro (ah, intelletti sani…) concordi: e si capisce. Quattro, che si canzona!, peccati accoglie con braccia generosissime il cerchio V: gl’ invidi come gli accidiosi, i superbi come i rabidi; onde la domanda «di qual colpa son simbolo le Furie?» Che se fossero quattro non sarebbe difficile adattare a ciascuna un peccato; ma son tre.... e allora?
Allora ecco costoro ci rispondono pronti: — sono elleno allegoria imaginosa della colpa d’ira, — Ne hanno, è vero, i caratteri; la violenza, dico, il sangue, e il vociare, e le ceraste, e i serpentelli, e il pianto, e il battersi a palme. Ma perché — basta la domanda semplice a scompaginar l’ipotesi ingenua — perché per l’appunto figurerebbero elle quella colpa su cui come non insisté il Poeta così non si fermò il lettore, di cui come non precisò Vergilio alcuna particolar figura, cosi nulla di vivo e perenne fu impresso nell’ animo nostro? perché una triplice forma di un peccato che non fu né meno discusso, sol tanto accennato? perché una figurazione simbolica d’un’umana debolezza, dopo la quale già un’altra più grave fu affigurata, con copia maggiore di particolari, con vivacità più drammatica di svolgimenti, con coerenza più plastica? Perché??? O non s'adira più tosto Vergilio dinanzi alla tracotanza diabolica? Sì. O non fa il Messo cenno alcuno d'ira? No. Non è, dunque, ira, da scorgersi nelle Furie.
Ecco altri a dire: — è invidia! — Sarebbe: se non gridassero, que’ mostri in atto di femine; perché l’invidia rode e tace, putrefà, dissolve, ma non rumoreggia, ma non grida: e se non bramassero, le cattive, vendetta; giacché l’ invido brama il male altrui, teme per contro il bene, non per vendetta, sì per innata stoltizia, sì per odio, come Dante medesimo afferma: e se non fossero sdegnate più per l’ardire, cui un vivo mostra varcando il regno della morta gente, che per il bene, il quale gliene verrebbe ma ignorano esse: e se non fossero, come dice il Poeta qual più spiccato attributo, feroci; che non è l’invidioso: e se non fossero come soggiunge il Poeta qual notevole attributo, anche meschine della Regina dell’ eterno pianto; da che non l’ invidia, figlia della superbia, è ancella di Proserpina, più che non sieno, allora, tutti gli altri peccati. Non è dunque, poiché non s’osservano tante, e altre che si potrebbero spigolare più oltre, condizioni opportune e, più, necessarie.
Onde terzi — ultimi, perché nessuno, e sarebbe illogico, vuol forzar la lettera a riconoscere perfino nelle furiosissime la placidissima accidia, nelle sanguinolente la dolcissima e lene ignavia — aggiungono ancòra: — E la superbia che s’ asconde, dottrina proficua, sotto il velame degli versi strani. — Coi quali io, come si vide, convengo. Ma solo fin qui. Dacché continuano, ahi, spropositando alquanto. Ve’ Pietro di Dante asserire, derivando a suo modo, con strampalate etimologie, il valore di ciascuna delle tre femine malvagie, essere A letto la superbia del pensiero, incessante giusta il nome; Tisifone, la superbia della voce; Megera, la superbia dell’atto. Ma prima di tutto: so è vero che Aletto equivale a incessante, non è cotesto troppo lato attributo, valevole per colpe, direi, infinite, perché lo si possa a cuor leggero ritener sufficiente a determinare una forma di peccato? non è incessante anche l’invidia, nel carattere dell’invidioso? e la lussuria, nel lussurioso? e la ira, nell’iroso? e via via via? Ancora: non è vero affatto (e non è una scoperta mia, ché la sarebbe luminosa da vero) che ϕωνή sia radice di Tisifone, bensì lo è ϕόνος, non vece ma delitto. E dopo ciò, ov’è la caratteristica della Furia, che ci permette di determinarla come superbia della parola? dove, se nulla ce ne appare se non il posto di mezzo? Da ultimo: non è Megera derivata da μέϒα-έρϒον; bensì (ih, fra che sottigliezze e peregrinità ci tocca brancicare!) da μεϒαίρω, invidio. Or come l’invidia ha che fare insieme con la superbia dell’atto? Via, le son ciance. Ammetto, adunque, la superbia: e dissi sopra, a lungo, penetrando a mio modo nell'intimo dei due Canti, i motivi di tale asserzione. Nego la sua triplice differenza: e ho esposto pur ora il perché. Insisto sulla mia distinzione per contro: ed è ovvio come e per qual causa e movente.
In contrapposto a costoro, di cui ho detto, stanno altri, ai quali ho più sopra solo accennato, sostenitori di un diverso, anzi antitetico, concetto: esser le Furie propri dèmoni del cerchio ove penano gli eretici, simboleggiar quindi l’eresia o almeno quello stato affettivo ch’ è permotore e iniziatore di questa. Ma essi pure, al solito, si dividono poi, allorché tentano di dare un’espressione più concreta alla loro teorica. Qui è facile distinguere, di prim’acchito, due classi di commentatori.
L’una è di quanti dell’eresia veggono effigiato, a mezzo delle furiose Erinni, un aspetto: la malizia, cioè, l'inganno, l’ astuzia subdola dell’ ingegno traviato, il quale si sforza di negare il solo e unico vero, che la religione insegna, di affermare i falsi asserti e le convinzioni errate, che l’eresia inculca, di resistere dinanzi agli argomenti buoni con pertinacia audace, di insistere sugli argomenti fallaci con protervia temeraria, di promuovere la diffusione dell'errore e arrestare quella della verità per contrario. Né v’ha chi neghi che sia questo pure notevole e spiccato carattere dell’eresia. Ma proviamoci ad adattare agli atteggiamenti, alle parole, alle doti, alla figura generica insomma delle Furie, cosi come da Dante è prima ritratta, com’ è poi specificata da Vergilio, come anche (se si vuole) è tramandata dallo tradizione mitologica, proviamoci, dico) ad adattarvi il concetto della malizia, quali per converso più comune, quale Dante lo immagina e lo rappresenta di poi, nel più basso Inferno, quale si fa concreto nei personaggi che ci presenta: e troviamo un’evidente incompatibilità, un contrasto palese; il quale sta tutto nel dissidio grossolano ed espressivo tra quelle movimentate Erinni, accese di mosse come di persone, anguicrinite e vocianti e, e di fronte, i frodolenti e i traditori, in cui il moto si fa, giusta osservò Francesco De Sanctis, sempre minore, sempre più lenta la vita, più esigua la forza, più fioca la voce, più evanescente l'aspetto; consiste e sta in breve nel dissidio tra l’impeto, anche eccessivo, della forza vitale motrice e vocale, e l’assenza l’esaurimento l’inaridirsi di quella forza medesima. Or può il simbolo di un peccato presentare i caratteri opposti diametralmente a quelli del peccato? può questo, peggio, avvenire presso l'Autore medesimo? Né pur Capaneo è tanto fortemente agitato quanto le Furie; e Capaneo è un violento. E gli eretici stanno nelle lor tombe; e, maliziosi, son puniti per malizia, come quelli che, avendo fatta l’anima col corpo morta, giacciono con l’anima in un sepolcro. Non è quindi logico supporre nelle Furie figurazione di eresia, e più specialmente di malizia eretica; cui sovra tutto disconviene quel furore che in primo luogo (non lo dimentichiamo) raffigurano le Furie.
L'altra classe ha un solo, ma valoroso, rappresentante: Filomusi-Guelfi. Il quale, attivo ricercatore dalla sottile indagine erudita, offrì, or non è molto, una spiegazione nuova del passo controverso, che pecca, a mio credere, di varie colpe. Anzi tutto è troppo complessa: a volerla ridurre nel suo svolgimento più semplice ci è da fare un discorso: parte dall’eresia, vi distingue colpa d’ignoranza, colpa di passione, colpa di malizia; riduce queste tre colpe ai due sentimenti dell’ irascibile e del concupiscibile; riduce per la terza volta questi due sentimenti alla sensualità della carne, alla sensualità degli occhi, alla superbia della vita, riconosce in fine (ed era tempo) questi tre affetti simboleggiati da ciascuna delle tre Furie e, precisamente, da Aletto, Megera e Tisifone. E perché disdica qui, più forse che altrove, la complessità, dissi di sopra ed è a ogni modo evidente. Poi è fondata in gran parte sui testi di san Tomaso; ma chi accerta che Dante lo avesse presente? Chi, peggio, ci assicura dell’esattezza di sì fatto ragionamento, racimolato di qua e di là e posto insieme da una sintesi che è accettabile solo se presentata come fortemente ipotetica? chi in somma può credere che Dante, il quale si dilungò spesso altrove per mostrare, provando e riprovando, l’aspetto di belle verità, frutto di sue proprie elaborazioni, di suoi propri studi e lavori, portato di sue singolari sintesi e nascondesse qui, sotto una non facile forma allegorica, sotto un non trasparente velame, un’ardua, complessa, architettata, lambiccata dottrina? nessuno. Inoltre, tralasciando queste che dirò pregiudiziali, sono notevoli altri errori, facile a riscontrarsi nel procedimento dell’argomentazione, forse troppo arguta, di Lorenzo Filomusi Guelfi. E uno. Non è vero che l’eresia sia cola in cui si comprendono le tre categorie di peccati ond’è tripartito l’Inferno: giacché ciò è consono, ammetto, alle teoriche di san Tommaso, ma Dante, che da savio professava, su questo punto, opinioni al tutto individuali, nonché considerare gli eresiarchi come veri e propri colpevoli, li escluse, nel suo disegno dell’Inferno, dal complesso degli altri peccatori, ne fece categoria a parte: come quella che, in luogo di abbracciare ogni altra colpa, le esclude più veramente tutte, invece di essere la quintessenza dei peccati e degli affetti peccaminosi, è da eccettuarsi fra questi e da ritenersi giudicabile con larghezza maggiore di criterio e migliore indulgenza. Non dimentichiamo che il sesto cerchio è simmetrico rispetto al primo; ed è Vergilio nel primo; e son sospiri; e chi v’entra impallidisce. Non confondiamo il punto di vista da cui il d'Aquino poteva considerare l'eresia, con il punto, più alto, da cui Dante: e dalle più alte vette più largo è l'orizzonte. Non trascuriamo che il nostro Poeta è la più nobile significazione dell’intelletto laico, ricercatore, indagatore, agitatore dei più ardui problemi; mentre è san Tomaso prodotto della mentalità chiesastica, disputatrice di veri rivelati, creatrice di corollari da dommi, persecutrice di dissidenti! E due. Concesso sia nel vero il Filomusi-Guelf, non è ammissibile che la colpa d’ignoranza, la colpa di passione, la colpa di malizia si possano, senz'altro, ridurre alle «disordinate passioni del concupiscibile e dell’irascibile». Il più elementare buon senso ci fa presto accorti essere e concupiscenza e irascibilità, quali, a punto, disordinate passioni, traviamenti del sentimento dell’affetto, colpe, in somma, di passione; non comprendere però, sì in vece confinare con esse, quelle colpe che son pertinenti alla mente, sia nel rispetto negativo o d’ignoranza, sia nel rispetto positivo o di malizia. Ond’è che bene si può suddividere la colpa di passione nelle due sottospecie della concupiscenza e della irascibilità; ma è – schiettamente – illogico, nel suo più stretto significato, ripugnante cioè alle prime e fondamentali leggi del pensiero, l’asserire quella corrispondenza, che il Filomusi, il compiere quella riduzione; che il Filomusi. E tre. È sbagliato, perché incompleto, il dichiarar equivalenti alla passione del concupiscibile le due concupiscenze e della carne e degli occhi, che son parte dell’estensione di quel concetto, ma parte soltanto; è sbagliato, perché incompleto, asserire equivalente alla passione dell’irascibile la superbia della vita, che è parte, ma parte soltanto, di quel concetto molto più esteso. Raccogliendo, adunque, il sugo: il Filomusi, che pure volle da principio scorgere nell’eresia entrambi gli aspetti che le convengono, il passionale, ciò sono, il malizioso, poi, nel progresso errato del discorso, fini col coglierne il solo aspetto passionale, omettendo il malizioso, e col rilevare di quello stesso alcune linee solamente, non che tutte. Per tal ragione io posi il Filomusi in una categoria di comentatori, i quali, riconoscendo nelle Furie il simbolo dell’eresia, ne veggono, antiteticamente all’altra categoria superiore, il solo aspetto superbioso o passionato. Ma lo vede, io credo, male. Per due motivi, a dir del Filomusi, Aletto si conviene come simbolo della concupiscenza carnale: è a destra: è incessante. Ma il posto suo dipende soltanto dalla relazione, che tra essa e Megera corre; è perciò sufficiente a caratterizzare, non questo o quel preciso peccato, bensì una qualsiasi colpa, purché minore della invidia. Ma l’essere incessante è proprio dell’invidia non meno che della lussuria, e non meno, che so?, dell’ ira; e non meno, a caso, della superbia! Che resta? Nulla. Per una ragione, sempre a dir del Filomusi, Megera è la concupiscenza degli occhi: in essa «massimamente» è compresa l'invidia (μεναίεω). Dunque ell’è, soltanto, il simbolo di una parte, massima, di quella colpa, la quale dovrebbe rappresentare tutta. Che sia poi, realmente, massima, pare al comentatore; non si sa se debba parere a Dante pure, perché nessun indizio lo lascia arguire, nessun accenno né prima, né poi, né qui, né altrove lo dimostra, se non se si vuol sottilizzare. Per una ragione, ancora a dir del Filomusi, Tisifone raffigura la superbia della vita: perché la vendetta, che quella etimologicamente significa, è (vedi meandro stupefacente del pensiero!) gran parte, al solito, dell’ira o sia dell’irascibile a cui, come sopra, si può ridurre la superbia della vita. Ma, se ripetuto è l’errore, non ripeterò io, ché son stanco, la confutazione: questo modo di trovare equivalenze più o men proprie, di fare riduzioni più o men dicevoli, di trovar simboli in figure che vi corrispondono solo in parte o, se piace meglio, in gran parte, è modo — lo si dica! — troppo ingegnoso, stiracchiato, arduo: non convince né me, né voi, né alcun altro. Dante è, quando si finge dottore scolastico o siede in scranna scolare, di Beatrice, e sillogizza, altrettanto sottile e fine ed eccessivamente arguto; ma né è allora così incompleto nelle sue partizioni né cosi corrivo nelle sue corrispondenze; né mai è a quel modo disposto a coprire d’un velo ardua ed asprissima dottrina, duro pane, per chi non ha drizzato, si come del suo lettore nell’Inferno vuole, per tempo il collo a cibarsi del dolce pan degli Angeli!
Del resto, su tutte queste sta una superiore considerazione di ben più notevole importanza. Va bene: concediamo esser da ravvisare nelle Erinni la eresia. Ma certo non ve la-ravvisate bene, voi che vi vedete la malizia. Né certo la ravvisate bene, voi che vi vedete la passione. Perché vi potete completare; siete quindi manchevoli entrambi; avete entrambi visto un lato e un aspetto solo del simbolo: segno esser questo ben altro, se non vi fu possibile intenderlo a fondo!
Fa parte in vece per sé stesso, nella schiera, di cui tratto, di coloro che le Furie intendono quali velame di uno stato anteriore alla colpa e contemporaneo alla colpa stessa, il Ruth. Questi — al contrario di quanti abbiamo esaminato — prescinde dalla considerazione della città di Dite in quanto è cerchio fra cerchi infernali, insiste in vece nel notarla come principio della seconda parte di quel vallone che il mal dell’universo tutto insacca. Onde avverte sùbito un facile parallelismo: a quella stregua per cui, dianzi, avanti ch’entrasse nella porta dalla scritta di colore oscuro, avanti, cioè, che penetrasse nella prima parte dell’abisso infernale, Dante fu rattenuto da tre belve paurose, la lonza leggera e presta molto, il leone ardito e prepotente, la lupa carca di tutte brame; a questa stregua medesima ora, prima di varcare la soglia al di là della quale è il più profondo e più basso e più dolorante Inferno, egli è fermato e minacciato nel suo cammino da tre mostri analoghi a quelli, da Aletto, da Megera, da Tisifone. Ergo: a quel modo che la tendenza contraria all’ordine è da ravvisare, e nient’altro, nella lonza, nel leone, nella lupa: così la ribellione è da scorgersi, significata con le sue tre cause, superbia, avarizia, invidia, senz’ombra di dubbio, con la evidenza più assiomatica e lampante, nelle tre mostruose Erinni. Difatti (a qual tèsi mai manca un argomento, Dio degl’intelletti sani!...) difatti: là Vergilio fu duca a salvezza, fu liberatore dal pericolo, condusse Dante in porto, fuor dalla paura, dalla morte, dalla selva: qui — ve’ corrispondenza magnifica! — Vergilio cinge di sue mani gli occhi del compagno, e lo salva così. Anzi (il motivo è catafratto) poiché, non più nel primo Inferno, bensì nel secondo è ormai pervenuto il Poeta, ebbene, non Vergilio soltanto lo soccorre, ma anche, più direttamente che non nel II dell’Inferno, il Cielo medesimo, a mezzo del suo Messo. Bel ragionare. Peccato che, per risolvere una questione buia, annaspi in una più buia e per dirci delle Furie, come sien da ritenere dai buoni cristiani, s’appelli alle fiere, che i buoni cristiani ancor non sanno, qual nome con certezza s’abbiano, di qual razza con sicurezza sieno, ove la canina non sia la lor propria esclusiva. Peccato che la invidia convenga bensì a Megera, ma non la superbia, in senso generico e vasto, ad Aletto o a Tisifone in ispecie, né l’avarizia, e tanto meno. Peccato infine, sia assurdo pensare che il peccatore, il quale ha assistito a una prima parte delle pene, a quella per l’appunto pertinente alla Incontinenza, si ritrovi, dopo, nell’istessa condizione, solo lievemente più fosca, in cui già, non varcata né meno la soglia infernale, si che appaion vani, fin’ ora, il viaggio lungo, aspro e duro, le ammonizioni di Vergilio, le osservazioni fatte e le vedute e gli spettacoli nuovi...
Ed ho finito: finito di discutere una prima falange d’interpetri. Che me n’è risultato? Luce maggiore e maggiore conferma alla mia tèsi. Passo ora, e forse è tempo, dalla riprova, dalla confutazione dell’asserto altrui e delle altrui ipotesi alla prova, dal lavoro negativo di distruzione a quello positivo di ricostruzione.
Ho esaminato tre diverse correnti.
La prima voleva ravvisar nelle Furie un peccato del V cerchio. Non convenendo l’invidia, non convenendo l’ira, nessun parlando né meno di accidia, rimase la superbia. Ecco una corrente che mi portò al nòcciolo della mia interpretazione.
La seconda voleva ravvisar nelle Furie il peccato del cerchio VI: l’eresia. Ma non vi trovai conveniente un primo aspetto: la malizia. Ne fu mostrato un secondo: la passione; del quale non la concupiscenza resisté alla critica né della carne né degli occhi; non la superbia. Tuttavia là dove la concupiscenza mostrai assurda, data la lettera, come dottrina; in vece la superbia mostrai, non errata, si bene termine più vasto che Tisifone — vendetta — non sia. Risultò quindi che la superbia non è significato incompatibile con le Furie, ma è di troppo più vasto che l’una sola di esse. In conclusione: anche questa seconda corrente porta, per via, se si vuole, un po’ obliqua, a colpa delle torbide e fangose sue acque, fino a riconoscere per la seconda volta nelle Furie il concetto della superbia: che è, ripeto, il nòcciolo della mia interpretazione.
La terza in fine condusse a negare ancora che la superbia convenga in particolare a una Furia, ma fe’ riconoscere non ripugnare al concetto più vasto delle tre Furie insieme. Quindi anche questa corrente porta, come suo contributo, un granello al mio edificio.
Risultò per tal modo come, di fronte a una critica, che, per esser mia, non ritengo però unilaterale e cieca al tutto, solo quella parte delle tre correnti interpretative resistette che concorda con me, il resto fu sbriciolato e annientato. Il qual concetto è possibile approfondire e precisare ancora.
Perché fu ad alcuni possibile pensare all’ira leggendo delle Furie? Perché Tisifone, una di esse, lo permette: che vale a dire come uno degli aspetti, una delle forme, uno degli atteggiamenti del concetto velato sotto le Erinni, lo permetta. Ora appunto, nella mia interpretazione, si vuole che uno degli aspetti della superbia — il concetto che a mio vedere le Furie ascondono — sia l’ira libidinosa di vendetta.
Perché fu possibile ad altri pensare all’invidia? Perché Megera lo permette: perché una sfumatura dell’insegnamento che le figlie di Acheronte contengono le conviene. Ed io, più sopra, scòrsi, come radice della tracotanza diabolica, l’invidia a punto.
Continuo: in qual modo si pensò dal Filomusi a passionalità violenta? disordinata? Si pensò da che i loro atti agitati lo consentono e da che il loro sangue lo esige. Ma io vidi, nelle mosse sconvolte, l’analogia con altre identiche, nel sangue, l’effetto di una colpa che ne versa e ne fa ridondare al colpevole; scorsi nelle Furie in somma quella che è veramente, perché Dante lo dice, la suprema passione, seme del concupiscibile e dell’irascibile, la superbia in breve.
Onde i diversi comenti collimano, in una loro parte, a convalidare la mia interpretazione, così nel suo fondamento come nei suoi particolari. Segno che ciascuno aveva veduto esatto, per un lato solo però: qual maraviglia che io, il quale avevo assimilato le loro opposte dottrine, abbia potuto, erede del loro senno, vedere il tutto, in una sintesi che ha solo la parvenza più superficiale ed esteriore di esser nuova? L’ edificio c’era; ma era diviso qua e là, per i diversi magazzini nei diversi punti della città; bastò avere contezza di tutti per raccogliere i materiali che si commisero fra loro, spontaneamente quasi.
Posso affermare altrettanto di una seconda Categoria di comentatori: i quali, per contrapposto ai primi di cui è detto o chiacchierato sopra, vollero vedere nelle Furie, non già uno stato passionale inerente a un peccato di esso, bensì una condizione, intrinseca o estrinseca, posteriore a ogni modo alla colpa. Ma spiego che cosa mai intenda per «condizione intrinseca», per «condizione estrinseca»: con la prima frase voglio alludere a quel sentimento che consegue all’ errore, che è detto rimorso, che induce a penitenza: con la seconda in vece la pena inflitta al peccato da una coercizione esterna, da una forza moventesi dal di fuori, dal di fuori reprimente. Secondo, a punto, questi due diversi concetti si allineano, di qua e di là, i comenti.
Ravvisa il Lombardi di fatti nelle Furie il pentimento. Ravvisano di fatti il Fraticelli, il Bianchi, il Tommaseo nelle Furie il rimorso. A tutta prima sembra abbiano essi ragione. Non è Dante il peccatore? E bene: il pentimento o rimorso che dir si voglia li rattiene per l’appunto nella via del peccato, lo sofferma con forze laceranti, con torture aspre e grida forti (siamo avvezzi alla coscienza che parla ed ha una voce sua), lo arresta con lo spavento del mal commesso, del mal che sta per commettere. Bravi! Ché non è Dante il peccatore in quanto pecca, ma in quanto ha peccato, e si redime. Ché non è l’Inferno il viaggio e il progresso per le vie delle colpe, se non come mezzo di redenzione e salvezza e purificazione. Ché non è Vergilio, illuminato intelletto, l’aiuto a commetter la colpa, sì il mezzo e l’ausilio a redimerla e detergerne la macchia sozza. Onde il rimorso o pentimento sarà, ve lo concedo, lo stato iniziale, la primitiva disposizione psichica di Dante a promuovere il suo viaggio redimitore, sarà esso (non solleviamo, però, un’altra ardua questione su questo) da ravvisare e discernere, forse, in quel primo risveglio nella selva oscura, in quel primo accorgersi del traviamento fuor della diritta strada; non è da ravvisare e discernere in vece in queste Furie; che non stimolano a proseguire nella salvezza, sì arrestano o tentano arrestare; che non sono né punto né poco il mordo d’un’accorta coscienza, ma sono e certo e assai l’impedimento a che la penitenza sia completa e tutta. Restano tuttavia altri punti non dilucidati e chiariti: non la triplice figurazione, e gli atti di ciascuna delle cattive, e il posto di qua di là nel mezzo, e il luogo sulla torre alla cima rovente, e le membra feminili. Onde come errata la interpretazione è incompleta. Rimane infine un incompatibile contrasto di cosi fatto comento con le parole del Messo, — rimproveratore forse di penitenza?; con gli atti e le mosse diaboliche, con le resistenze dei più di mille dal ciel piovuti, — origine forse di rigenerazione e purificazione si come il rimorso è?; con le cure di Vergilio a indicare le feroci Erine, meschine della Regina dell’eterno pianto, — cure forse e attributi adatti a un sano rimorso? — Onde come incompleta così disdicevole è la interpretazione di tali comentatori.
Ha, per caso, più ragione l’Andreoli, il quale sostiene le Furie convenire a pieno insieme con la punizione dei peccatori. Non urta, anzi tutto, in quel primo ostacolo contro il quale s’infranse, subito che fu, apparecchiata e guernita, fuori dal porto, la nave degli altri: da poi che la punizione che una superiore potenza infligge ai colpevoli è gran parte fra i mezzi che han da condurre a salvezza il Poeta; anzi egli cosa fa più che osservarne di continuo, per nove cerchi infernali, per nove spianate del Monte ove ragion ne fruga, i modi le regole l’incessante pungolo il rigore giustissimo? Bene, bene quindi Vergilio l’addita e precisa a Dante; anco in ciò non erra la ragione che sa. Ma la ragione sa che solo giovevole può essere il rimirar le pene, quando in esse si scorga l’applicazione di una legge divina, il volere divino, la giustizia di Dio, quando vi si vegga, sotto il turpe aspetto demoniaco che vanno assumendo, sotto il bollir della pece, il color del sangue, l’assiderar del ghiaccio, l’alito del supremo Fattore, offeso e intento a rivendicare il violato rispetto del suo impero, a ripristinare la scossa e incrinata sua autorità. Per questo Caronte grida incontro a Dante; ma se Vergilio mormori mormori pure «Dio», si quetan le lanose gote, obbedisce il remo al cenno ch’è venuto dall'alto. Per questo Pluto invoca: Pape Satan aleppe; ma se Vergilio susurri soltanto «Cielo», il maledetto lupo consuma in sé con la sua rabbia. Tutti sono è chiaro, tormento diabolico dei peccatori, ma il suo valore è norma. Qui per contro, che è avvenuto? Ma l’opposto! Qui le Furie urlano contro Dante e lo minacciano, perché i demoni non prestarono orecchio a Vergilio, e Vergilio diceva, ad essi ancora «Dio». Le Furie adunque in realtà sono qui, erette sulle mura, contro Dante, ma e contro Dio, il cui volere misconoscono, la cui Giustizia trascurano, la cui Misericordia cancellano, o vogliono. Avanti, dopo ciò, chi ha il coraggio, di affermare in esse la punizione dei peccati, punizione voluta da Dio! avanti! Gli darei una stretta di mano: perché il coraggio mi piace. Ma lo metterei a una seconda prova. — Di grazia — gli direi a sono elleno le Furie simbolo della punizione dei peccatori? O mi spieghi allora perché il Messo minaccia ai demoni, che le suscitarono sulle loro mura, come i nostri artiglieri pongono i cannoni nelle loro fortezze, vergogna e doglia, perché ricorda loro il mento e il gozzo pelato di quel che Lei sa! Io, per me non l’intendo. — Difatti all’ asserzione dell'Andreoli contradicono, oltre che, come s'è visto gli antecedenti, così anche i conseguenti del fatto. Ma lo sottoporrei ad una terza prova: tale è la protervia di lui, e la mia! La punizione dei peccatori — sta bene; ma io ci vo’ vedere soddisfatte due condizioni, sine quibus non so scorgere il valore di cotal simbolo: ci ha da esser anzi tutto, da una parte il terrore della violenta pena, ma e dall'altra la sofferenza del colpevole: ci ha poi da essere uno spiccato carattere di costanza e consuetudine, di abituale ripetizione. Così difatti è (mi viene in mente per il primo) Cerbero: ingoia ed isquatra — e bado ben bene al presente, ch’è di abitudine — introna l’anime ch’esser vorrebber sorde. Là Dante, peccatore in via di redenzione, può, sì, farsi accorto dell’errore che lo travia e lo acceca e perseverare nel bene. Ma qui — qui son mutati i termini: perché le Furie gridano non contro chi ha peccato, ma contro chi, vivo, osa attraversare la morta città di Dite, sia pure col permesso divino, sia pure con l’aiuto del sennato Vergilio; manca Quindi ciò che essenziale, manca, cioè, quel peccatore, di cui le Erinni sieno il tormento terribile e la gravosa pena: e perché d’altra Dante Spiccatissimo è il carattere d’ eccezionalità ond’è impressa tutta la scena, da principio a fine; tanto, che un Messo scende, giù dal Cielo, a posta per questo, rimprovera i demoni di quelle resistenze, che le Furie rappresentano in sommo grado, come di una colpa, consuetudinaria per loro nel suo carattere generico di oltracotanza, eccezionale e singolare invece nelle qualità specifiche con cui si preparò per Dante. Or come sarebbe effigiato qui un ammaestramento morale che rammentasse la punizione dei peccatori, ove l’oggetto della pena non è un peccatore, che il peccato lorda, ma un colpevole, che si sta dalla colpa ripulendo; ove anche è così evidente e biasimata l’eccezionalità della resisistenza? In nessun modo, è chiaro.
Ultimo, tra gli appartenenti a questa medesima classe di comentatori, annovero lo Scartazzini; di cui è nota l’interpretazione che fa le Furie uguali a «mala coscienza», essendo i diavoli uguali ai miscredenti. «Mala coscienza» è espressione di contenuto dubbio; a me pare tuttavia di doverla intendere come «coscienza dei propri peccati ed errori» o sia «coscienza di sé stesso, del proprio operato ed agire, in quanto questo ha un contenuto MALO, è macchiato da errori». Anche qui, adunque, le Furie son viste equivalenti a uno stato affettivo posteriore alla colpa. E intendo benissimo come lo Scartazzini sia giunto, ch’ei non dice, al suo comento: chi ha coscienza di aver commesso colpe dannabili e sa il male che gliene ridonderebbe in altra vita e la durezza della penitenza che, per evitar quello, dovrebbe farne qui sulla terra, è facilmente indotto a negare la vita di là, a bestemmiare Iddio, a dubbiare sugli argomenti di fede, a scuotere e agitare il domma. Ed è vero. Verissimo. Di più tal coscienza è fatta di spasimi e di tormenti; come d’ urla e di sangue le Erinni. Ed è giusto. Giustissimo. Arresta inoltre nella conversione il peccatore che sta per redimersi; ma può essere, nei suoi esiziali effetti, neutralizzata quando ci se ne faccia accorti; come dice Vergilio a Dante «Guarda». Innegabile. Ma, per favore, scendiamo da queste linee più generali ai tratti più minuti. Non veggo per Dante il bisogno di specificare cosi particolareggiatamente le Erinni, dirne una per una il nome, descrivere di questa e quella e l’altra le mosse e le voci; ove a ciascun nome non si dia un valore, a ciascun atto un significato, a ciascuna voce un contenuto dottrinale. Non veggo perché il Messo, biasimando la superbia dei diavoli, ometta di vituperare anche così colpevole malizia delle Erinni, fonte di un riprovevolissimo dubbio. Non veggio in fine – che è di più capitale importanza — perché le Furie riguardino in giuso, dov’ è Dante, dov’è il peccatore che si redime, ma che solo fin’ora ha veduto colpe di incontinenze, d’altre non ha acquistato quella coscienza mala da cui dovrebbe essere arrestato nel suo cammino; mentre di colpe più gravi e di più gravi pene deve ancora farsi accorto nei cerchi che seguono. Insomma, è bensì vero che la coscienza del mal fatto rattiene sulla via di pentimento, ma è logico debba più rattenere in relazione d’un maggior male: più lorda coscienza, più forza d’arresto; più impulso al dubbio eretico. Perché allora dopo gl’incontinenti le Furie, dopo ciò è che Dante ha a pena cominciato a distinguer nette fra le sue colpe quelle di cupidigia e il fine che compete loro? Conchiudendo in breve: i particolari delle persone, il modo della reazione, il luogo e la postura negano si possa riconoscere nelle Furie il simbolo della mala coscienza.
C'è, chi voglia vedere, anche nelle tre interpretazioni che ho finito or ora di confutare, un elemento positivo, utile a conferma della mia tèsi, come ce n’erano, e s'è detto, molti negativi, incapaci di sgretolarla affatto.
È evidente, subito, il carattere riflessivo che contaddistingue la prima tèsi: il rimorso è, per l’appunto, il peccato che avvelena sé stesso, il peccatore che punge sé medesimo. È bene: io ho scorto questo carattere nelle Furie, come l’avevo scorto nei demoni e in Filippo Argenti, l’ho mostrato a lungo; eccolo ribadito e da chi? dai miei avversari in persona! Perché quelli avevano, dunque, bene distinto una particola di verità; l'errore era nel resto.
La seconda tèsi poi illumina bene un altro aspetto della mia opinione. Per due motivi si è potuto in fatti risalire a sostenere esser le Furie simbolo della punizione dei peccatori: per il terrore che inspirano a Dante: per la violenza manifestata contro di lui. E i due motivi sono, né più né meno, due innegabili condizioni di fatto non compatibili pure con la mia tèsi, si anzi necessarie a questa. Ho mostrato per vero come tanto la superbia umana quanto la tracotanza diabolica sieno rivolte, oltre che contro Dio misericordioso e giusto, oltre che, per la seconda, contro la ragione valida, anche, e specialmente per entrambe, contro l’uomo sensibile, contro Dante cioè, che Filippo offende, che i demoni ingiuriano, che tutt’e due minacciano, a pari delle furiose Erinni. Ho mostrato del resto anche come Dante dinanzi al superiore demoniaco tremi, e s’accosti a Vergilio davanti alla subita comparsa delle Furie; perché l’effetto, ch'io riconobbi in lui, della superbia è, prima ancora che il dubbio, il terrore. Ma c'è di più: anche la parte sbagliata di questa seconda tesi, che tanto m’aiuta concordando con me, conferma il mio asserto. L’aver confuso Dante, il quale ha peccato ma si redime, con un peccatore indurito, nacque, certo, (è psicologia cotesta; e perché ne rifiuteremmo l’aiuto?) dall’evidente insistenza con cui nella figura del Poeta è, per quella scena, rilevato il carattere del senso, del fragile limitato debole senso, che parve (e poteva facilmente parere) anche il senso errante e colpevole, facendo dimenticare il real fine del viaggio attraverso i regni bui. Ora, che sia Dante il senso umano è della mia teorica parte essenziale, che tolta, lascerebbe grave lacuna.
Passiamo alla terza tèsi, dello Scartazzini. Se la coscienza mala o — come io, forse a ragione, interpreto (ci tocca interpretare anche i dantisti, dice argutamente il Filomusi con un suo fare di rancore e rampogna) – la coscienza del peccato rattiene il Poeta a sua redenzione e lo spinge all’eresia, vediamo un po’ perché mai? Via, non c’è bisogno affatto che lo vediam noi, perché quel Dante, che pensa a tutto e tutto prevede (non previde forse soltanto i nostri comenti, se no…) ha apparecchiato il cibo, che ci sfami, in altra parte del suo Poema. Dice Catone: - Cogliete, or su, nella spiaggia, là vicino al mare, il salice pieghevole, il flessibile giunco; se ne faccia corona il peccatore e entri con essa nei miei domini – Giunco? S’, umiltà. Dunque: per guardare la mala coscienza, per sondarla come Vergilio vuole nelle sue forme e nei suoi aspetti, che cos’è che occorre? È quel che a purgarsi sul monto, quel che a redimersi ovunque: l’umiltà di cuore; quel che al Fraticello piacque. Or perché? Perché, caratteristica propria e imprescindibile della mala coscienza è la superbia. Ci siamo.
E siamo a posto. Tanto il fondamento essenziale della mia tèsi quanto i particolari più diversi risultano, non lisi o negati dalle tesi opposte, si più tosto novellamente riconfermati. Me ne rallegro.
Se non che le tre diaboliche figure delle Furie portano legata seco, triste compagnia!, la testa di Medusa, che fa di smalto gli uomini. Spiegare quelle è opera incompleta se non si spiega questa.
Ma, per fortuna nostra, è dessa mi ostacolo, men aspra difficoltà: come quella che si vede gran parte appianata dai lavori travagliosi e dalle fatiche ardue durate per tentare l’enimmatico aspetto delle figlie di Acheronte e della Notte, più triste del padre e... più buie della madre; onde chi vide in qualche guisa un tal quale simbolo in queste, non dura affanno a riconoscerne un altro, in relazione, per quella. Ma, dico in relazioni. Come fatto esso? Può, in vero, essere quello tra l'agente, che opera, e il mezzo, di cui si vale; o pure quello tra la causa, che determina, e l’effetto, che ne nasce. Le opinioni si sono, naturalmente, divise; ma vediamo quale di essa abbia maggiore probabilità di certezza, e vediamolo, al solito, con la guida di Dante.
«Venga Medusa; si il farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso...
A tutta prima vien fatto, letti appena questi due versi, di rispondere subito: — Medusa è un mezzo; un mezzo che le Furie invocano per loro aiuto, scorta già infruttuosa l’opera propria, allo scopo di arrestar quel vivo, che la vista tanto orrenda delle tre sorelle non poté che mal soffermare. — Ma bisogna, sempre, guardar più in là della prima corteccia, anche se non molto sottile. Supponiamo per un momento che Dante divenga realmente di smalto. E cerchiamo di risalire punto per punto, dall’effetto constatato, a traverso le cause più vicine, alla causa prima e remota. Dante è pietra. Lo impietrì Medusa. Medusa è forza, a sé e indipendente, con sue attitudini e suoi caratteri, non originata, che importi, da altri, senza dunque causa movente. Ma chi ne determinò l'intervento, chi la chiamò, chi fu causa ch’ella giungesse sulle mura e rendesse di smalto il Poeta nostro? Le Furie. Sicché: è assurdo ritenere Medusa effetto delle Erinni, perché ella ha diverse qualità, diverse caratteristiche, diversi modi di procedimento, diverse origini anche; ma è necessario riconoscere come, nel caso speciale, l'intervento suo e la presenza sieno da quelle originate, onde una relazione causale corre; non tra le Furie e Medusa, ma tra le Furie e il presentarsi di Medusa. No, non si dica, non è sottigliezza; è giusta distinzione, tanto opportuna che il non averla sempre fatte fu causa di errori. Non fu cioè veduto sempre e da tutti che, così com’è effigiata da Dante, Medusa deve raffigurare, in relazione alle meschine di Proserpina, uno stato d’animo, non solo mezzo a quelle, né meno di quelle effetto in quanto è, sì di quelle conseguenza in quanto viene: che è ad un tempo relazione di causa e relazione di mezzo.
Questa considerazione preliminare giova da sola a porre in un canto numerose interpretazioni. Anzi tutte quelle del Lombardi e del Fraticelli (il quale dice nel suo comento così: «Forse che per le Furie viene significato il rimorso, che, più che l’ira di Dio, tormenta i peccatori come in questa così nell’ altra vita. E per il volto di MEDUSA, che avea virtù d’impietrar la gente, si vuol rappresentare il PIACER DE’ SENSI, il quale, indurando il cuore dell’uomo, ne oscura l’intelletto» perché non si mostra relazione alcuna possibile tra le Furie e Medusa, né se ne lascia intuire una per nessun modo — contrariamente alla più limpida evidenza della lettera nel testo. Anzi, dirò di più, non pure si trascura una necessaria relazione tra le due allegorie, bensì anche si crea tra esse una palese disconvenienza, giacché il rimorso come potrebbe valersi della libidine o piacer dei sensi? L’ errore è cosi ovvio che sarebbe colpa di prolissità l’indugiarvisi più a lungo per un’inutile confutazione! Poi restano in séguito eliminati quelli, tra i comenti, i quali veggono e mostrano nella Gorgone esclusivamente o il mezzo o l’effetto: tra i secondi, quanti vi scorgono la dimenticanza, conseguenza di eretica malizia, o la perdita della grazia (obduratio), effetto di eresia: tra i primi, quanti vi affermano invece i beni mondani, strumento dell’ odio o dell’ira o del furore, oppure le lusinghe, arma della voluttà: comenti tutti macchiati di quello che potrei dire peccato d’origine e infirmabili quindi, quand’anche si volesse accettar per vera la interpretazione delle Furie, che risultò invece a me del tutto falsa e su cui si fondano essi.
Rimangono, che soddisfacciano alla pregiudiziale su posta, tre spiegazioni: è Medusa il terrore: è Medusa il dubbio: è Medusa l’eresia: perché dubbio terrore eresia non sarebbero causati dalle Furie, ma favoriti, avendo altra origine, diversa, e altri caratteri, differenti. Qual è la buona e vera, tra di esse? Nessuno, tranne che Dante, ce ne può far sicuri. Ricorriamo (per la centesima volta? sia!) a Lui, adunque. In primo luogo constatiamo come terrore, dubbio, eresia, rappresentino, non già tre concetti distinti separati e a sé stanti, bensì una serie ideologica, perché non è difficile il discorso dal primo d’essi termini al secondo, da questo al terzo. Non è difficile, specialmente se teniam presenti gli stati psichici che Dante ebbe cura di contrassegnare dinanzi alla nostra attenzione durante lo svolgimento drammatico dei fatti occorsigli nel buio Inferno. Egli ha prima tremato e s'è stretto a Vergilio: terrore. Ha poi dubitato, con Vergilio, che gli fosse reciso il cammino, e l’esitazione gli nacque dallo spavento: dubbio nato da terrore. È stato da ultimo a repentaglio di obliare la grazia divina da cui pure era scorto, di trascurarla, che è quasi negarla; è stato insomma in rischio di venir meno alla fede: eresia, nata dal dubbio. Si tratta adunque adesso, non più di precisare l’esattezza o l’errore di tre concetti, ma di preferire un momento di una certa serie ideale e psichica, un anello di una catena di affetti e pensieri. Dei quali uno a caso potrebbe essere per avventura rappresentato da Medusa, perché tutti li provò in antecedenza Dante; ma qui, dove si fa una rappresentazione allegorica, è necessario che ogni persona (e, fra le altre, Dante pure) vi assuma un carattere simbolico e velato. Ora, qual simbolo gli s’adatta meglio? quello, s’ è visto, dell’uomo sensibile; ma qual passione più particolarmente lo caratterizza? è evidente che quella dello spavento o, se vogliam dirla co’ termini altrui, del terrore. Medusa non è, dunque, terrore, perché Dante lo raffigura invece: e non vi può essere, in una scena allegorica, esistenza contemporanea di due persone nascondenti insieme il medesimo concetto. D'altra parte non può essere eresia: perché questa non impietra già, non arresta, ma spinge a moto su di una via errata; perché l’eretico non tace, ma nega il vero, afferma il falso, sostiene di argomenti e quella negazione e questa affermazione, agisce insomma, fa, opera. Così d’eresia parla Dante a proposito di Atanasio papa: «lo qual trasse Fotin dalla via dritta»; dov’è significato appunto il concetto di un moto su falso cammino, sia pure tra sterpi e rovi. Né è fondata un’altra, del genere, sottigliezza: impietrar l’eresia, perché è questa esaltazione di materia, carne o pietra. Al contrario, anzi tutto precisamente l’età di mezzo fu piena di eresie spirituali, che, non negando né Dio né anima, ne discutevano l’essenza. Inoltre Dante medesimo, punendo gli eretici col martorio del fuoco, mostra la natura di lor peccato simile più tosto all’ ardore della vampa che all’induramento della pietra. Il dubbio invece si confà a perfezione all’ allegoria dantesca: le Furie (checché esse sieno) hanno atterrito Dante; il terrore è adatto terreno per il germinare del dubbio: venga Medusa! la quale potrà impietrarlo, tenerlo, cioè, in quell’ esitanza e incertezza tra fede ed eresia, che lascerà trionfare la prima, se soccorra la ragione (Vergilio) e Iddio (Messo dal cielo), ma lascerà prevalere la seconda, se manchi l’aiuto e venga meno il sostegno (ecco gli Epicurei).
Ma che fo, intanto? Non me ne accorgo; ma per confutare le errate interpretazioni della Medusa dantesca, e mostrarne il lato manco ricorro ad argomenti che, come son fondati da Dante e tolti dalla Commedia medesima, così son le basi istesse su cui è fondata la mia ipotesi. Ho ragione di crederla, ancora una volta, la più esatta.
E la credo tale difatti.
Perché forse son cieco. Non privo tuttavia di ragione; per ciò la fo nota: affinché ne scorga altri i difetti, ne vagli, se ve n’ha, come m' auguro, i pregi, e serbi il buono, ripudiando il falso.
Nel cantiere rumoroso di opere, agitato di lavoratori, tra il frastuono degli attrezzi, il fervido travagliar delle macchine, cresce bella e svelta la nave che solcherà i flutti ; ma l’ingegnere che le ha dato un’anima, la sua, se ha potuto prevederne dentro certi limiti le falle, ed evitarle, aspetta ancora dal mare la sentenza ultima: attende che le mille lingue avide, le quali orla la spuma, e tutte hanno una parola loro, e tutte celano aguzzo, sotto l’azzurro, un dente, provino una per una le assi e ne cimentino le commessure e vi faccian gli esperimenti loro e dieno l’estrema sentenza, l’inappellabile, l’ultimo giudizio, il fatale.
Attendo il verdetto dal mare.
25 Dicembre, 1910.