Dati bibliografici
Autore: Giovanni Busnelli
Tratto da: Civiltà Cattolica
Anno: 1910
Pagine: 3-27
Un enigma dantesco assai arduo è senza dubbio la figura del Messo del cielo che scende nell’Inferno a sgridare i demoni e aprirne la città di Dite a Dante e Virgilio, pellegrini per la valle tenebrosa. Ultimamente nel Giornale dantesco n’ebbero a trattare con nuove opinioni due egregi studiosi di Dante il Piersantelli e il Filomusi-Guelfi, l’uno e l’altro togliendo a confutare le altrui opinioni che in quel Messo vedevano o Cristo o Enea o Mercurio 0 Mosè o un angelo o Arrigo VII, o un simbolo generico, per sostituirvi S. Pietro, come fa il Piersantelli ; o Aronne, come vuole il Filomusi, che confuta anche l’opinione del Piersantelli . Anche gli argomenti del Filomusi però ci sembrano insufficienti per la difesa di Aronne. D’altra parte ci pare che l’andar cercando quel misterioso personaggio non diremo fuori delle cognizioni nostre, ma dell’aspettazione comune, non sia la miglior via di arrivare a buon porto.
A nostro avviso, il meglio è non iscostarsi troppo dalla sentenza dei vecchi dantofili, ch'è, a detta del Casini, la più ragionevole interpretazione, e insieme la più comune, quella cioè che nel Messo celeste riconosce un angelo.
Ma prima per le osservazioni che vi faremo conviene aver sott'occhio il magnifico passo della Commedia:
E già venia su per le torbid’onde
un fracasso d’un suon pien di spavento
per cui tremavano ambedue le sponde;
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per gli avversi ardori,
che fier la selva, e senza alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fuori:
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Gli occhi mi sciolse e disse: Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo.
Come le rane innanzi alla nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte
finchè alla terra ciascuna s’abbica;
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un, che al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Del volto rimovea quell’aer grasso
menando la sinistra innanzi spesso
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accors’io ch'egli era del ciel messo
e volsimi al maestro; e quei fe’ segno
ch’io stessi cheto ed inchinassi ad esso.
Ahi, quanto mi parea pien di disdegno!
Venne alla porta e con una verghetta
l’aperse, che non ebbe alcun ritegno.
O cacciati del ciel gente dispetta,
cominciò egli in su l’orribil soglia,
Ond’esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perchè ricalcitrate a quella voglia,
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova nella fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta anche pelato il mento e il gozzo.
Poi si rivolse per la strada lorda
e non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
d’uomo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che gli è davante .
Per non dilungarci, lasciamo stare l'opinione di chi vide nel Messo del cielo Mercurio, dio pagano, del quale il poeta teologo, piuttosto che farne un cooperatore della grazia divina nell’ordine soprannaturale cristiano, n’avrebbe plasmato un demonio dell'Inferno. È bene invece toccare dell’altre sentenze che si riducono a due: l’una di coloro che nel Messo vedono un personaggio celeste, un Santo, Mosè, Aronne, S. Pietro e altri ancora; l’altra di chi vi ravvisa un abitatore del Limbo, e segnatamente Enea.
Ad Enea pensò il duca di Sermoneta, seguito in ciò dal Pascoli . Ma è opinione insostenibile, anche perché Enea non poteva certo considerarsi come lo spauracchio dell’Inferno da produrre al suo passaggio «un fracasso d’un suon pien di spavento», come fece il Messo del cielo.
Nemmen Virgilio, che pure vi veniva mandato dal cielo, non incuteva terrore né facea rumore più che tanto. E Virgilio, di stanza nel medesimo castello di Enea, era né più né meno avversario dei demonii e delle anime dannate, di quel che fosse Enea. Ambedue poi dal lato della pena del danno, erano dello stesso numero delle anime dannate, e piuttosto che terribili alle altre, degne di commiserazione.
Quindi è che quel che non potè far Virgilio alle porte di Dite, difficilmente avrebbe potuto farlo Enea, giammai apparso nella tradizione cristiana come un gran vincitore de’ dimon duri.
Il Federzoni vide nel Messo del cielo Cristo stesso. Ma chi legga i versi danteschi senza preconcetti e predilezioni non può pensare a Cristo, ma, se mai, a un personaggio minore. Tale sembra l’aspettazione di Virgilio quando vedendosi negate dai demoni le dolenti case torna presso al suo discepolo e gli dice:
Questa lor tracotanza non è nuova
che già l’usaro a men segreta porta
la qual senza serrame ancor si trova.
Sovr'essa vedestù la scritta morta,
e già di qua da lei discende l’erta
passando per li cerchi senza scorta
tal che per lui ne fia la terra aperta .
Virgilio ricorda la prima resistenza opposta, secondo una tradizione medioevale, dai demoni all’ingresso di Cristo nell'inferno e nel Limbo, - quando, come canta la Chiesa nell’uffizio del Sabato Santo: «Hodie portas mortis et seras pariter Salvator noster disrupit: destruxit quidem claustra inferni et subvertit potentias diaboli»; - e paragona la presente tracotanza diabolica all’antica. Nell’un caso il trionfatore è «un Possente con segno di vittoria incoronato, - Colui che la gran preda levò a Dite» ; e nel secondo dev'essere, dice Virgilio, un «tal che per lui ne fia la terra aperta».
Se fosse stato lo stesso Cristo, come vogliono il Federzoni e il Fornaciari, Virgilio non l'avrebbe designato sì oscuramente. Avrebbe piuttosto assicurato l’alunno che il trionfatore della prima tracotanza scendeva a trionfare ancor della seconda. Invece mette contrassegni di persona un po’ da meno di Cristo, chiamandolo un tale che può aprire la terra, che passa li cerchi senza scorta, insomma un altro più possente di sè, ma minor del Possente incoronato con segno di vittoria. Dante da parte sua, quando arriva, ben s’accorge «ch'egli era del ciel messo» e non già Cristo stesso, poi si volge al maestro, che gli fa segno di star cheto ed inchinare ad esso, non d’adorarlo. Atto che il discepolo rinnoverà nel Purgatorio quando all’approdare dell’Angelo nocchiero Virgilio gli dirà:
Fa, fa che le ginocchia cali;
ecco l’Angel di Dio: piega le mani.
Omai vedrai di si fatti ufiziali .
È dunque un angel di Dio anche il Messo del cielo.
Il Piersantelli però non è di questo parere perché, dato che fosse un angelo, o l’arcangelo S. Michele, «il suo fulgore celestiale, scrive, sarebbe bastato a diradare le tenebre e a farlo riconoscere per una celeste intelligenza» . Ma osserviamo, per riconoscere un angelo non è necessario il suo fulgore, specialmente nell’Inferno, dove anche Beatrice, appar sì, beata e bella, con gli occhi lucenti più che la stella, ma non circondata di fulgore. Dante subito s’accorge che chi veniva in soccorso era del ciel messo, e l’aveva già ravvisato per tale guardando
su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo.
E per comprendere tutto il concetto dantesco, va inteso un Messo del cielo, non in genere ma in ispecie, cioè un angelo dall’aspetto che generalmente hanno tali messaggeri, come suona propriamente il nome greco di angeli, appropriato agli spiriti celesti, i quali, per dirla con S. Gregorio, sono sempre spiriti, ma solo allora si possono dire veramente angeli o messi del cielo, quando sono mandati ministri di salute agli uomini .
Così, da quest’accorgersi di Dante ch'egli era del ciel messo si può dedurre appunto ch’era un angelo. Che un altro dovesse venire ad aprir la terra, già due volte gliel’aveva assicurato Virgilio; e non poteva non essere che per missione di Dio. Ma Virgilio non aveva detto chi dovesse essere, e lo aveva solo in genere designato, come personaggio sconosciuto ed indeterminato. Quando arriva, Dante tosto s'accorge chi è, riconosce in lui un messo del cielo per antonomasia, come anche altrove chiama l'angelo .
Né a infirmare l'ipotesi d’un angelo si può dedurre dalla espressione: fe’ sembiante d'uomo, che la figura dell'angelo, «posta in sembianza umana avrebbe perduto di dignità e di bellezza». È certo infatti che anche negli angeli del Purgatorio lo splendore non offusca o cancella il sembiante d’uomo. E del resto nell’antico testamento vediamo spesso l’angelo apparire informa umana, senza splendore, come ad esempio i tre veduti da A bramo, quello che lottò di notte con Giacobbe e l'altro che apparve a Giosuè.
Il Piersantelli accenna come a prova di non poco valore contro l’angelo all'argomento che il «duca di Sermoneta trae dall’esplicito ammonimento di Virgilio: Omai vedrai di siffatti ufficiali, con cui ci avverte che gli angeli cominciano solo in Purgatorio ad apparire». Rispondiamo con una distinzione: ad apparire come ufficiali, sì; ad apparire semplicemente, no, e il contrario resta ancora da dimostrare. Come ufficiali o custodi, certo, gli Angeli solo appaiono nel Purgatorio, ma neppure lì appaiono solo come ufficiali o custodi, perché altri cento in vetta al Purgatorio, all'apparizione di Beatrice, si levano in su la divina basterna ministri e messaggeri di vita eterna, cioè, come semplici messi del cielo, scesi a sparger fiori e a cantare . Allo stesso modo il Messo del cielo che discende nell’Inferno, non vi viene a far l'ufficiale, ma qual ministro e messagger di vita eterna, per una missione straordinaria, e per una volta tanto: dopo di che se ne torna là dond’era venuto, all’altra cura che lo stringe e morde, di cui si dirà più avanti.
Ad escludere poi che possa essere un Santo, senza entrare in particolari confutazioni delle singole opinioni, cosa già fatta da altri per proprio conto, basterà confermare meglio che non si tratta d’altra persona fuorché d’un angelo, prendendo a determinare con chiari raffronti a chi fra gli angelici spiriti convengano in particolare le circostanze e i lineamenti che il poeta attribuisce al Messo del cielo. Così resterà chiarito qual personaggio celeste si nasconda sotto quelle sembianze, e saranno poste da parte le altre candidature.
Nella discesa del Messo si notano queste circostanze: 1. Fracasso spaventoso e scotimento dei cerchi d’abisso come per terremoto. 2. Fuga di mille anime dannate, dinanzi al Messo, come a nemico capitale. 3. Il Messo ha imagine umana, passa sulle acque con le piante asciutte, e appare manifestamente Messo del cielo, cioè messaggero celeste. 4. Porta una verghetta in mano con la quale apre le porte di Dite. 5. Nella sfuriata che fa ai demoni manifesta la propria inimicizia verso di loro, e l’invincibilità della divina voglia o potenza, e l’inutilità d’ogni contrasto. 6. Infine fa sembiante di chi abbia altra cura od uffizio che lo stringa e morda.
Questi sei punti come ognuno vede ci sono espressamente dal poeta forniti nel passo sopra citato: devono quindi bastare a farci ravvisare sotto il velame degli versi strani, prima della dottrina, il personaggio. Orbene il personaggio, a cui convengono, secondo la tradizione cristiana e medioevale, tutti questi dati, non può essere altri fuorché l’arcangelo S. Michele.
1) Infatti, quanto al primo punto del fracasso e sconvolgimento dell’onde e del tremare delle sponde d’Averno, questi elementi son tolti dalla liturgia nella apparizione di S. Michele, l'unico angelo di cui si festeggi tal festa, oltre quella del suo nome. Nel Messale, alla Messa in die apparitionis S. Michaelis Archangeli (VIII Mai), dopo la lezione od epistola, si leggono questi due versetti: «Sancte Michael Archangele, defende nos in praelio, ut non pereamus in tremendo judicio. Concussum est mare et contremuit terra, ubi Archangelus Michael descendit de caelo». Il primo è una preghiera di aiuto e difesa nella pugna, di cui sembrano una reminiscenza le parole invocative di Virgilio:
Pur a noi converrà, vincer la punga...
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga .
S. Michele infatti scende a difenderli nella pugna contro i demoni.
L’altro versetto ricorda lo scuotersi del mare e della terra all’apparire di S. Michele. Un tal versetto è ripetuto, come prima antifona al primo notturno dell’Officio nel Breviario. Né la festa dell'apparizione di S. Michele è recente, ma antichissima, trovandosi nelle più antiche liturgie medioevali .
Queste terrifiche circostanze sono tolte dalla relazione del miracolo dell'apparizione stessa di S. Michele sul Gargano, che si commemora. Essendo infatti nata guerra tra i pagani di Napoli e i cristiani di Siponto e Benevento, quelli invocano i loro falsi dei, questi, per esortazione del Vescovo, il fedele patrocinio di S. Michele. «Ecce autem, dice la relazione, nocte ipsa, quae belli praecederat diem, adest in visione S. Michael antistiti, preces dicit exauditas, victoriam spondet affuturam et quarta diei hora bello praemonet hostibus occurrendum. Laeti ergo mane, et de Angelica certi victoria, Domini reducti spiritu obviant christiani paganis. Atque in primo belli apparatu, Garganus immenso tremore concutitur; fulgura crebra volant et caligo tenebrosa totum montis cacumen obdurit, impleta prophetia, quae Dominum laudans dicit: Qui facit angelos suos spiritus et ministros suos flammam ignis» . Scuotimento, folgori e tenebrosa caligine accompagnano la discesa di S. Michele in aiuto dei cristiani, come anche il Messo del cielo, oltre il fracasso- e il tremuoto che causa nell’Inferno, appare a Dante
per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo .
Con simile apparato tremendo avviene l’apparizione e l’azione di S. Michele in un’altra famosissima visione, quella di Chone, nella Frigia, per far deviare dal suo santuario due torrenti: «Finito psalmo, extitit tonitru validum et descendens sanctus Archangelus in locum istum, constitit in vertice firmae petrae» . «Statim porro ad eam, quae jam olim ibi erat, fornacis speciem, refractae sunt aquae, ommnisque circa commota regio, omnes, ut par erat, perculsi sunt incolae, caelestis militiae du signaculum crucis hiatui imponens dixit: In nomine Jesu Christi etc.» . Quest’apparizione è festeggiata dai Greci a 6 di settembre .
Anche alla risurrezione di Cristo il terremoto precede la discesa dell'Angelo, nel quale alcuni ravvisano S. Michele: «Et ecce terraemotus factus esi magnus: Angelus enim Domini descendit de coelo» .
Queste coincidenze che non si riscontrano nelle apparizioni degli altri due arcangeli Gabriele e Raffaele, ci sono testimonio che l’Alighieri nel descrivere la discesa del suo Messo del cielo pensava alle apparizioni dell’Arcangelo S. Michele, di cui è proprio quel terrifico apparato.
Altra prova è il fuggir che fanno le anime e quindi anche i demoni dinanzi al celeste Messo,
come le rane innanzi alla nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte
fin che alla terra ciascuna s’abbica.
L'inimicizia fra il Messo e gl’infernali abitatori è profonda e capitale, quale giust’appunto è quella ch’è tra S. Michele e gli angeli ribelli. Quell’arcangelo fu il principe delle milizie celesti, quando, com’è detto nell’Apocalissi, «seguì in cielo una gran battaglia. Michele co' suoi angeli combatterono contro il dragone, e il dragone e gli angeli di lui combatterono, ma non la vinsero nè vi fu più luogo per essi nel cielo. E fu gittato quel gran dragone, quell’antico serpente, che Diavolo appellasi e Satana, il quale seduce tutta la terra, e con lui furon gittati i suoi angeli» .
Questa è dunque l’impresa caratteristica di Michele, e però nella pittura e nella scultura medievale lo troviamo spesso raffigurato nell’atto di combattere e schiacciare il demonio. Questa è pur la ragione dell’invocarlo che si suol fare contro tutte le diaboliche nequizie qual presidio fedele e sicuro, perché ricacci nell'inferno Satana e gli altri Spiriti maligni, come si prega nelle recenti orazioni che si recitano dopo la Messa. Angelus archangelus Michael, Dei nuntius pro animabus justis. — Michael Archangele, veni in adiutorium populo Dei. Così l’invoca la Chiesa nell’ufficio della sua festa, perché Michele è il protettore speciale della Chiesa e dell'anime da condurre al cielo .
Vero è che Virgilio non l’invoca o prega, solo l’aspetta e desidera. Ma questo desiderio è per lui preghiera e invocazione, perché egli non può fare quell’orazione,
che surga su di cuor che in grazia viva:
l’altra che val che in ciel non è udita !
Più che nella preghiera, confidava nella volontà di Dio, come diceva al suo alunno:
Non temer, che il nostro passo
non ci può torre alcun: da tal n’è dato.
Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga !
Che tutti gli ostacoli al viaggio dantesco dovessero essere superati e tolti, era già implicito nella permissione divina di visitare la valle d’abisso. Il «Vuolsi così nell'alto» era la parola d’ordine per passare avanti, ed era bastata per Caronte e per Minosse. Davanti a Pluto che che con quelle enigmatiche parole:
Pape Satan, pape Satan, Aleppe,
minacciava più fiera opposizione, anche Virgilio si fa più forte e all’intimazione del volere divino aggiunge il terrore di Michele, che stramazza a terra quel demonio:
Vuolsi così nell’alto, ove Michele
fè la vendetta del superbo strupo.
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poichè l’alber fiacca:
tal cadde a terra la fiera crudele .
Dopo Pluto, la maggiore opposizione fu fatta alle porte di Dite dall’accorrere di più che mille demoni a chiuderle in petto a Virgilio, forse perché messi sull’avviso dalle parole strane di Pluto, posto che queste vengano dall’arabo e significhino, come altrui vuole: Porta del diavolo, porta del diavolo, fermati, cioè sta salda a non aprirti . Qui pertanto non sarebbe più bastato il gridare il nome di Michele, quandanche i diavoli di dentro l’avessero potuto udire; onde Virgilio aspettava lui in persona, il trionfatore degli spiriti ribelli, l’«Angelo discendente dal cielo avente la chiave dell’abisso» , che anche alla fin dei secoli precipiterà Satana dal suo trono .
La presenza quindi di Michele nell’Inferno non poteva non essere di terrore spaventoso all’inferno, e gli abitatori di quelle regioni dovevano fuggire davanti a lui, come le rane dinanzi alla nimica biscia, sebbene, come nota il poeta, egli passasse per li cerchi solo, senza scorta d’angeli suoi ministri e commilitoni. La discesa pertanto del Messo del cielo non è che l’apparizione del capital nemico dei demoni, qual è Michele, e però tutt'uno è il Messo e Michele.
Il Messo del cielo porta ancora i segni dell’antica ira, e il poeta esclama:
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Così pure era apparso S. Michele, come ritengono gl’interpreti, alla madre di Sansone, la quale in tal forma lo descrive a suo marito: «Vir Dei venit ad me, habens vultum angelicum, terribilis nimis. Quem cum interrogassem, quis esset unde venisset et quo nomine vocaretur, noluit mihi dicere» .
Ma se non dice il proprio nome alla donna, le profetizza però la nascita del figlio, e le ingiunge alcuni decreti di Dio riguardo a Sansone: a Dante e a Virgilio invece, non solo non dice il proprio nome, ma assolutamente non «fè motto» e tutto il suo dire fu contro i demoni: tant’era pien di disdegno per l’affronto di Dite.
Dante, oltre di ciò, afferma d’essersi accorto che il soccorritore «era del ciel Messo» contro il demonio.
Questa frase: del ciel messo si trova appunto in un antico prefazio della Messa di S. Michele: «E coelo Missus: iniquum hostem perimens submittet in infernum». Sarà il Messo del cielo che «vice Domini mittitur», e trionferà nell’estremo giorno degli ultimi assalti di Satana .
S'è già detto sopra che Messo del cielo designa un angelo, ma, come c’ insinua Dante, con aspetto umano e ne è segno il camminare che fa sulle acque con le piante asciutte. E l’Alighieri afferma appunto che tal forma ha anche Michele, perché, condiscendendo a nostra facultate,
santa Chiesa con aspetto umano
Gabriel e Michel vi rappresenta
e l’altro che Tobia rifece sano .
Né altrimenti adopera la Scrittura, la quale ci presenta nell’apparizione dell’uomo, che stette contro a Giosuè e nell'altro che apparve, come s’è detto sopra, alla madre di Sansone, l’arcangelo difensore del popolo Ebreo, cioè Michele, come interpretano molti esegeti.
4) Né sconveniente a Michele è la verghetta che Dante pone in mano al Messo del cielo. Sebbene nel Medio Evo, specialmente nei tempi più religiosi e guerreschi, si rappresentasse S. Michele vestito da guerriero con scudo e spada o semplicemente con la lancia o con la stadera o con le catene, ecc., era però più anticamente figurato in veste comune con asta vessillifera, o solo con bastone o verga, tal volta sormontata da una crocetta . In quest’ultima forma appare quell’arcangelo nel mosaico della chiesa di S. Michele in Ravenna, soprassegnato anche col nome, e il divino poeta ne’ suoi viaggi e nel suo soggiorno in quella città deve certo aver notato quel modo di figurare il principe delle schiere celesti: modo che aveva pure un fondamento tradizionale e storico.
Con la verga era infatti apparso. presso Colossi nella Frigia nel famosissimo miracolo già accennato dei fiumi rovesciati dai pagani contro il santuario di Chone, e vi aveva fatto anche il segno della croce. Anzi in quel miracolo Michele fece pure una sfuriata contro i fiumi, dopo la quale, percotendo con la verga la rupe, l’aprì e diede il passo alle acque . Ponendo quindi in mano del suo Messo del cielo una verghetta, l’Alighieri non solo non si scostava da un'antica figurazione di S. Michele, ma la seguiva e dava un segno se non speciale a quell’arcangelo, confermativo di quella tradizione.
Del resto anche nel Vecchio Testamento S. Michele erasi fatto vedere con una verghetta. L'Angelo che apparve a Gedeone, e durante il sacrificio «extendit summitatem virgae, quam tenebat in manu et tetigit carnes et panes azymos», è, secondo l’opinione di molti, S. Michele , il difensore del popolo ebreo.
5) Né meno forte è l'argomento in favore di Michele, che scaturisce dalla sgridata del Messo ai demonii, che il poeta chiama «parole sante», quasi volesse metterci sull'avviso che vengono da un personaggio celeste. Il Messo del cielo chiama i demonii, contrapponendoli a sé, cacciati del cielo, e loro rimprovera di riprendere l’inutile resistenza contro Dio, ricalcitrando a quella voglia cui non è dato d’impedire o vincere, e che anzi loro cagionò più volte nuovi dolori:
Che giova nella fata dar di cozzo?
Il Messo, è vero, non ricorda i suoi meriti nella pugna contro di loro, e ascrive la vittoria alla divina insuperabile volontà, e di lei parla, non di sé, perché tale fu la tattica di S. Michele, anche quando nella disputa contro il diavolo altercava, com'è nella lettera di S. Giuda, a causa del corpo di Mosè: non ardì di gettargli addosso sentenza di maledizione, ma disse: Imperet tibi Dominus: ti reprima il Signore . Parole, nota il Grozio, che nella tradizione giudaica, dove spesso ricompariscono, significano la vittoria del bene sul male.
Ma un altro senso più profondo è nascosto in quelle parole del Messo. Esse non sembrano suonar altro in faccia ai demonii, che questo: Quis ut Deus? Voi, cacciati dal cielo, perché v'insuperbite tanto da presumere d’aver forza pari all’onnipotente e a voi sempre funesta volontà immutabile di Dio? Tale è per l'appunto il significato ebraico del nome Michele. «Michael namque, scrive S. Gregorio, quis ut Deus dicitur. Et quoties mirae virtutis aliquid agitur, Michael mitti perhibetur; ut ex ipso actu et nomine detur intelligi, quia nullus potest facere, quod facere prevalet Deus» . Ecco pertanto la ragione della missione di Michele. Si trattava di fare aliquid mirae virtutis, ed egli col suo nome e con la sua opera dimostrò di agire ut Des, vice Domini , di essere il luogotenente di Dio, il Messo del cielo e discese perciò con apparato divino e gettò in faccia ai diavoli il loro inutile ardire contro Dio.
In prova ricordò loro la punizione di Cerbero «che ne porta ancor pelato il mento e il gozzo». Parrà strano che S. Michele ricordi ai cacciati del cielo l’incatenamento di Cerbero, demonio pagano, e il trascinarlo fuor dell’inferno che ne fece Ercole, eroe mitologico. Ma il poeta aveva in senso inverso messo simile contrasto anche in altre parole di Virgilio, quando questi a Pluto, altro demonio mitologico, ricordò la cacciata degli angeli dall’«alto ove Michele fe’ la vendetta del superbo strupo» . Sono raccostamenti intesi e voluti, conformi all’esigenza dell'Inferno dantesco, mezzo cristiano e mezzo pagano, dove i demonii sono appunto di due forme: angeli ribelli e mostri e dèi mitologici ', tutti però nemici di Dio e pari nel male; perchè gli dèi pagani per Dante non erano se non dèi falsi e bugiardi, fratelli del padre della menzogna e degli angeli cacciati dal cielo. Cerbero vostro, fa quindi dire dal Messo del cielo agli angeli ribelli.
Si può anche rammentare che Cerbero, portiere dell’inferno, ricorre frequentissimo nelle descrizioni leggendarie dell’Inferno , ed è l’unico demonio pagano nominato in una relazione dell’andata di Paolo con S. Michele all’Inferno . Non era quindi nella fantasia medievale troppo disgiunta da S. Michele l’idea e la conoscenza di Cerbero. Oltre di ciò nelle leggende orientali troviamo Michele immischiato in affari infernali. «Al promontorio Tenaro, dice il Lueken, anche oggi corre la favola che Michele lì spesso apparisca in una grotta, creduta l’entrata dell'Inferno, per liberare l’anime di coloro a cui Dio ha perdonato i peccati. Secondo la leggenda dell’antichità lì era l’ingresso dell’Ade, pel quale Ercole aveva trascinato fuori Cerbero» .
Da tutto questo che fin qui abbiam considerato intorno al Messo del cielo, pare non sia troppo ardire l’affermare l’identità del Messo del cielo con l’arcangelo S. Michele. Certo, queste coincidenze, sì chiare e numerose, non si possono dire al tutto casuali, e non trovan ragione sufficiente se non nell’intento e nella volontà del poeta di contraddistinguere con quei segni il principe delle schiere angeliche, e agevolarcene il ravvisarlo.
6) Resta un ultimo punto, dai dantisti, per quanto sappiamo, non peranco spiegato abbastanza o trapassato senza commento.
Aperta la porta, e fulminato il rimprovero, il Messo celeste, dice il poeta,
si rivolse per la strada lorda
e non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
d'uomo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che gli è davante.
Quest’altra cura è dai commentatori generalmente spiegata per il desiderio del cielo, come già Beatrice, là nel Limbo, dov'era discesa a parlar con Virgilio, aveva detto:
Vegno di loco, ove tornar desìo.
Beatrice è venuta dal cielo: è naturale che lassù debba intendersi ch’essa rivolga il suo desìo. Ma il Messo dond’è venuto, e dove ritorna?
Se, come abbiam detto, l’arcangelo S. Michele è Messo del cielo, parrebbe dovesse anch'egli ritornare in paradiso. Invece pare che là non si diriga, per la semplice ragione, che, sebbene mandato dal cielo e messaggero celeste, per ora non è là il suo posto nell’ordinamento dell’oltremondo dantesco.
Sta il fatto che l’Alighieri vede lassù Gabriele, e gli altri angeli, ma non vede né nomina come presente fra i beati Raffaele e Michele. Eppure Raffaele e Michele non sono da meno di Gabriele, anzi, Michele è addirittura il principe, l’archistratego delle schiere angeliche. Sono dunque le gerarchie angeliche in cielo senza il loro capo. D'altra parte non si può supporre, dato il sommo e diffusissimo culto che ebbe Michele nel Medio Evo, che il poeta l’obliasse o non ne tenesse conto nel concepire il disegno del suo oltremondo, mentre tanto s'era interessato di tutti e singoli gli ordini angelici.
Gli è che, come a Raffaele fu dato l’ufficio di angelo navicellaio nel Purgatorio , a Michele ne fu assegnato un altro, quello di portiere dei sette balzi.
Ecco perché, il Messo del cielo nel partirsi dalla porta spalancata di Dite
fe’ sembiante
d'uomo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che gli è davante,
cioè di Dante e Virgilio.
Non ch'egli non pigliasse cura di loro: altrimenti non sarebbe venuto ad aprir loro la porta. Né l’altra cura che lo stringeva e mordeva era quella di se stesso, quasi pensasse più a sé e al proprio paradiso — che a dir vero, sempre l’accompagna, dovunque ei vada — ma era la cura d’altri, degli spiriti che l’attendevano alle porte del Purgatorio, rimaste chiuse per la sua discesa momentanea all'Inferno in pro di Dante.
Quella cura era sì pungente, che non gli lasciò dir motto ai due poeti, e tanto gli accelerò il rivolgersi per la strada lorda, che parve non si curasse di loro, mentre apposta per loro era venuto. Non fece né disse più di quanto era strettamente necessario per aprir la porta, umiliare i dimon duri, e far entrare «sicuri», «senz'alcuna guerra» i due poeti.
L'altra cura, maggiore e dei più vinse la minore, dei due che gli stavan davanti, e lo fece rivolgere subito al ritorno. La sua fretta nel venire e nel ritornare appare anche da ciò che, quando Virgilio s’ebbe le porte di Dite chiuse in faccia e andò a confortare l’alunno spaventato, il Messo del cielo, come assicurava Virgilio, aveva già varcato l’ingresso della scritta morta, e già di qua da esso discendeva l’erta,
passando per li cerchi senza scorta.
Il portiere del Purgatorio aveva per un momento lasciata la porta del Purgatorio, ed ecclissando il suo splendore pel gran disdegno contro i demoni che lo costringevano a discendere, con la loro superba opposizione al volere di Dio, ritenendo sotto la veste le due chiavi d’oro e d’argento del Purgatorio , invece della spada dava di mano, come a chiave dell’abisso, ad una verghetta, non inusitata per lui, e veniva ad aprir la porta infernale che si frapponeva al viaggio di Dante perché questi potesse poi discendendo e salendo giungere a quella del Purgatorio.
Di quest’identità del Messo del cielo con l'angelo portinaio sono segni alcune somiglianze di tocchi che palesano la cura del poeta nell’insinuarci il suo pensiero.
Immediatamente prima di descrivere la terribile discesa del Messo, l’Alighieri ci grida:
O voi ch’avete gl’intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
solto il velame degli versi strani.
Analogamente, avanti di dipingerci il custode della porla del Purgatorio, ci avvisa:
Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo
la mia materia, e però con più arte
non ti maravigliar s'io la rincalzo .
Nell’inferno il Messo di Dio non «fe’ motto» ai due poeti; e anche nel Purgatorio Dante vide
un portier che ancor non facea motto .
Michele appar veramente l’angelo severo e austero della giustizia, pien di disdegno, e ne dimostra un poco non oscuramente nelle parole, che nel Purgatorio rivolge a’ due poeti, arrivati finalmente davanti alla soglia dov’ei siede e troppo arditi d’approssimarsi a lui:
Ditel costinci: che volete voi?
cominciò egli a dire: ov’è la scorta?
Guardate che il venir su non vi noi.
Pare che non li riconosca, o non li abbia mai veduti. Certo nella descrizione che l’Alighieri fa della discesa del Messo alle porte di Dite, non è mai detto che abbia loro rivolto, non che la parola, lo sguardo. Anzi è detto espressamente che mostrava d’aver ben altra cura che quella di coloro che gli eran davanti. Ad ogni modo quelle parole un po’ dure con cui li accolse nel Purgatorio, possono significare la severa consegna del celeste portiere, come appare anche dalle ultime loro indirizzate:
Intrate: ma facciovi accorti
Che di fuor torna ch’indietro si guata .
Esige la scorta, sebbene egli, che pure è il principe delle schiere angeliche, sia disceso per li cerchi infernali «senza scorta», neppur d’onore, ma la esige per legge di uffizio.
Infatti muta subito tono, appena Virgilio ha accennato a Lucia, che avea agevolato e insegnato la via a Dante, alla «Donna del ciel, di queste cose accorta». L’austero custode si fa allora «cortese portinaio» e cortesemente li invita a venire avanti.
Ma a maggior spiegazione del Messo del cielo convien dare una breve dimostrazione dell’identità di Michele col celeste portiere del Purgatorio.
Che l’angelo portiere sia S. Michele par tanto chiaro, che ci fa meraviglia come finora non saltasse in mente a nessuno degli antichi e de’ moderni interpreti.
Due sono i principali distintivi del portiere del Purgatorio: la spada nuda che ha in mano, la quale, dice il poeta,
rifletteva i raggi si ver noi
ch’io dirizzava spesso il viso invano;
e le due chiavi che teneva sotto il vestimento:
l’una era d’oro e l’altra era d’argento.
Ora chi non sa che la spada è propria dell’arcangelo S. Michele, il duce delle milizie angeliche? Di lui e dei suoi angeli si dice nell’Apocalissi che pugnarono col dragone e lo precipitarono nell’abisso. Orbene chi è se non Michele e i suoi compagni che noi vediamo nel Purgatorio dantesco stare, armati di spade, contro il serpente a guardia della porta del Purgatorio e della valletta dei principi? I due angeli, scendenti dal cielo in nome di Maria, sono dunque angeli di Michele «angeli ejus», del suo partito, e dipendenti da lui, sono la scorta sua, perché egli, dice la Chiesa nelle sue liturgie, è il «princeps militiae angelorum», è il «praepositus paradisi, quem honorificant angelorum cives». Angelo della giustizia, talvolta alla spada, aggiunge la bilancia della giustizia. Ma in cambio della bilancia, nel Purgatorio ha le due chiavi, e proprio quelle di S. Pietro. Né questa è pura finzione di Dante; bensì tradizione ecclesiastica, come altrove dimostrammo , e qui riassumeremo a più schiarimento di questo punto.
Dante chiama l’angelo portiere il «Vicario di Pietro»; e tale appunto appare l’arcangelo S. Michele nella tradizione cristiana.
Infatti S. Michele, secondo le Scritture, i Padri e i Dottori della Chiesa, primeggia fra gli angeli per dignità come S. Pietro fra gli apostoli e i fedeli. Michele è «princeps Ecclesiae, sicut fuit sinagogae», dice l’Aquinate , e lo ripete la Chiesa nel Breviario alla festa della sua apparizione . Di più è il difensore speciale del Papa, come dicono Ruperto abate e altri scrittori. perchè è credenza che egli fosse l’angelo che liberò dai ceppi di Erode il principe degli apostoli.
S. Michele, come s'è detto, è proclamato dalla Chiesa «praepositus paradisi»; e parimente l’angelo portiere, come vicario di Pietro, è proprio il preposto del paradiso terrestre dantesco, a cui si sale per la scala delle sette cornici, per le quali l'umano Spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Siede custode della porta, che, come bene arguì il perspicace dantista Flamini, altro non è che quella del cielo, la janua coeli, «la porta di San Pietro» , e con le chiavi di S. Pietro ne chiude e disserra all’anime l’entrata, mentre col punton della spada segna loro in fronte i sette P, a cui poi di balzo in balzo gli altri angelici custodi dan di frego col ventar dell’ala, rendendo così coll’ opera loro omaggio di onore al portiere loro capo e di riconoscimento dell’eseguita sentenza alla giustizia e al giudizio di lui, che aveva incisi quei segni. Insomma tutte le anime da collocarsi nella superna felicità come si dice nell’ Esorcismo citato di Leone XIII, a quel modo che sono consegnate a S. Pietro, così sono affidate a Michele «cui, dice la Chiesa nell’Uffizio di lui, e altrove, tradidit Deus animas sanctorum, ut perducat eas in paradisum exultationis» e «repraesentet eas in lucem sanctam», come si legge nella Messa dei defunti, avendolo Dio costituito «principem super omnes animas suscipiendas». È quindi, come appare dalla citata Messa dei defunti e nell’antichissimo libro del Pastor d’Erma, il custode e preside della penitenza e delle anime penitenti e purganti . Egli è vicario di Pietro, e sommo sacerdote: apre la porta dei cieli ai giusti e però deve averne le chiavi; presenta e offre a Dio le preghiere dei Santi e le anime sopra l’altare del cielo. Tanto che correva, dice il Franz, verso il secolo X tradizione popolare nell’ Alta Italia che S. Michele ogni lunedì celebrasse messa in cielo .
Quindi non fa meraviglia che nell’Apocalissi di Baruch sia detto, in relazione, nota il Lueken, dottissimo illustratore della tradizione intorno a S. Michele, con le chiavi di S. Pietro, Μιχαήλ δ ϰλειδούχος τής βασιλείας των ούρανϖν, Michele «il clavigero del regno dei cieli . Onde si diceva nel Medio Evo che Michele avesse potenza in cielo come il papa sulla terra ‘. E molto meno quindi è da maravigliarsi che le due chiavi papali sieno la nota più caratteristica dell’angelo portiere del Purgatorio. Che se l’Apocalissi di Baruch è un libro apocrifo, vuolsi osservare come dice S. Girolamo, che in apocryphis non omnia sunt apocrypha. Anche nell’ottava parabola di Erma, su citata, Michele è il portiere della torre dei Giusti.
Bastino queste poche osservazioni, lasciando stare molti altri argomenti che si potrebbero addurre dalla parola dei Padri e dei dottori della Chiesa, per conchiudere che l’angelo portiere del Purgatorio dantesco non può essere altri che S. Michele vicario di Pietro, come lo chiama anche l’Alighieri. Che se il poeta non volle spifferarne il nome, gli è perché questo è sì trasparente dal suo carattere, da suoi lineamenti e dal suo uffizio, che il non vederlo è chiudere gli occhi in faccia al sole. Vicario di Pietro e preposito dell’anime da salvare, Michele è dunque, com’è detto nel Breviario, nuntius pro animabus justis, il Messo del cielo per le anime buone . E però non deve far specie ch'egli s’interessi degli ostacoli infernali al viaggio di Dante, e laggiù scenda a toglierli, passando Stige «con le piante asciutte», in ciò ancora pari a S. Pietro che camminò sulle acque.
Così il Messo del cielo è vicario di Pietro, ma non è S. Pietro come vuole il Piersantelli; è sommo Sacerdote , ma non è Aronne, come pensa il Filomusi-Guelfi . Insomma è quasi il papa del Purgatorio, come papa in terra è il Pontefice Romano, altro vicario di Pietro. Quindi è che l’Alighieri pone in mano a Michele, al Pontefice Romano e a S. Pietro le medesime chiavi, che però han diverso effetto in terra, nel purgatorio, e nella gloria. E tanto basti aver detto sull’identità dell'angelo portiere e del principe dei cori celesti.
Concludendo, ci pare si possa con ogni ragione affermare che il Messo del cielo altri non è che l’arcangelo S. Michele, custode della porta del Purgatorio. Gli argomenti da noi recati se sono nuovi non sono però del tutto spregevoli, né la loro novità deve pregiudicare al loro valore, certo non meno, se non fors’anco più grande di quello ch’hanno le ragioni addotte a sostegno dell’altre sentenze. Checchè ne sia, i colti dantisti, che han fatto buon viso alle altre nostre umili ricerche dantesche, vorranno benignamente accogliere anche questo tentativo di soluzione d’un sì discusso enigma dantesco.