Dati bibliografici
Autore: José Blanco Jiménez
Tratto da:Citar Dante. Espressioni dantesche per l'italiano di oggi
Editore: ETPBooks-Lectura Dantis Metelliana, Atene
Anno: 2021
Pagine: 86-88
Espunto dal testo della Commedia, ho letto questa domanda in una lettera del mio amico maresciallo Giuseppe Fontanelli, che mezzo secolo fa era il curatore del Museo Casa del Boccaccio a Certaldo. Il senso era chiaro: non potevamo ribellarci ai sommi voleri e il riferimento partiva dalle restrizioni al lavoro culturale che svolgeva, poiché da solo doveva portare avanti casa, museo e biblioteca. Ed io lo sapevo, eccome! Ero sempre un suo ospite gradito, che gli faceva visita pendolare da Firenze.
Il verso è un’imprecazione del misterioso personaggio che Dante chiama «da ciel messo» (v. 85) e «un ch'al passo / passava Stige con le piante asciutte» (vv. 80-81).
Chi è veramente? Boccaccio non aveva dubbi e scriveva: «quello beato spirito è nell'essercizio dell'uficio commesso, si chiama ‘angelo’; per ciò che ‘angelo’ si dice da aggelos, greco, che in latino viene a dire messaggiere». Il Buti, come molti altri, è convinto di questo e Gustave Doré l’ha consacrato iconograficamente con la bellissima illustrazione che ha dedicato all'episodio.
Ma altri hanno pensato a diversi personaggi, ad esempio Ercole (Fraticelli). Se si esaminano le parole della frase, si può avvertire che Virgilio utilizza, nel suo poema, più volte il verbo iuvare, col significato di «venire in aiuto, apportare un rimedio»: quid vota furentem / quid delubra iuvant? (IV, 65-66); et insano iuvat indulgere labori (VI, 133-136) e - soprattutto nel proverbiale - audentis Fortuna iuvat (X, 284). E i risultati del cozzare (il verbo duecentesco, che ha a che fare con «chiocciola», «testa» e «urtare», mette in evidenza la bestialità del comportamento dei diavoli) si riscontrano nell’esempio di Teseo, che discese all’Ade per rapire Proserpina, fu fatto prigioniero e poi liberato proprio da Ercole, che trascinò via Cerbero incatenato: Tartareum ille manu custodem in vincla petivit / ipsius a solio regis traxitque trementem (Aeneis, VI, 395-396): e il cane tricefalo porta i segni nel gozzo, che fa rima coi difficili mozzo e cozzo.
Tutta una costruzione linguistica ed una situazione d’origine classica. Ma c'è chi ha pensato addirittura al Redentore. Infatti, Luigi Portirelli avverte che l'Anonimo Romano [idest Baldassare Lombardi] «trova a ragione disconvenevole, che un Angelo voglia ricordare una favola, ond'egli intende che qui di nuovo s'accenni la discesa di Cristo all'Inferno», anche perché Virgilio ha ricordato la visita del Salvatore in Inf., VIII, 124-126.
Nel mio piccolo, considerando che, quando scrive, Dante si sta staccando dall’ inferno «virgiliano», ed ha ripreso la redazione della Commedia almeno quattro anni dopo averla incominciata, il testo risente ancora delle immagini classiche che hanno dato passo ai custodi mostruosi ed ai copiosi riferimenti alla cultura grecolatina antica. E credo che sia più coerente parlare di Mercurio (Benvenuto) per la sua qualità di messaggero degli dèi e di conduttore delle anime (psicopompos).
Non per nulla, nell’Eneide, Giove lo invia dal principe troiano perché «Exspectat fatisque datas non respicit urbes» (IV, 225). Siccome non guarda le città, che sono concesse dai fati, Mercurio lo rimprovera. E nel poema virgiliano ce ne sono altri esempi: «Fata viam invenient, aderitque vocatus Apollo» (III, 395); «sed fatis incerta feror» (IV, 110); «dum Fata Deusque sinebat» (IV, 614); «Etsic fata Jovis poscunt, hic terminus haeret.» (VI, 614); «desine fata deum flecti sperare precando» (VI 376); «fataque fortunasque virum moresque manusque» (VI, 683) VII: «Fata per Aeneae iuro» (VII, 234); «Ineluctabile fatum / his posuere locis» (VIII, 334-335).
A un certo punto, può essere Mercurio o no. Ma la sensazione c'è, perché - oltre a tutti i riferimenti classici che si addicono al mondo pagano (che è quello che i diavoli possono capire) - a dire il vero non ho mai visto la rappresentazione di un angelo con una verghetta in mano, ma invece sì di Mercurio col caduceo, che originariamente era un bastone da araldo. Si tratta di una figura poetica che apre la porta per adempire le fata.
Queste non sono le fate, come vorrebbe il Boccaccio oppure l’Anonimo Fiorentino (Cloto, Lachesis, Atropos), ma è il plurale di fatum, seguendo una tradizione di plurale latino neutro che si conserva ancora in Toscana e in lingua nazionale, come le uova e le paia. Il singolare fato compare due volte sulla stessa Commedia: sanza voler divino o fato destro? dice Virgilio niente meno che a Malacoda (Inf., XXI, 82) e Beatrice avverte che Alto fato di Dio sarebbe rotto / se Letè si passasse senza pentimento (Purg, XXX, 142).
In questo caso, si tratta dei decreti immutabili del vero Dio, che non si possono contrastare. Viene dal latino for, faris ed è ciò che è stato irrevocabilmente decretato (cfr. Inf., XXI, 82; Purg., XXX, 142). Lo conferma San Tommaso nella Summa Theologiae: «Fatum est in ipsis causis creatis, inquantum sunt ordinatae a Deo ad aliquos effectos producendos» ([33299] Ia q. 116 a. 2 co.). E, per affermare che il fato ha sede nelle cause create, in quanto sono ordinate da Dio a produrre i loro effetti, si appoggia in altri autori, come dirò subito.
Quali sono, in questo caso, i decreti immutabili? Secondo Luigi Pietrobono, Dante doveva fare il cammino per preparare la via al Veltro venturo; Gabriele Rossetti dà un’interpretazione politica (Arrigo). Secondo me, la spiegazione più ovvia la dà Benvenuto: «nihil prodest incutere et inniti contra fata, quia iste ex influentia coeli et divina providentia habet percurrere totum infernum, sicut iam percurrit unam partem, quod probat per exemplum antiquum». È per influsso del cielo che il poeta dovrà percorrere tutto l'Inferno.
Il Boccaccio cita l’Edippo di Seneca e le Metamorfosi di Ovidio, ma come si concilia il fato degli antichi con la credenza dei cristiani circa la divina Provvidenza? Per Giovan Battista Gelli, se la volontà dell'uomo fosse mossa necessariamente dal cielo sarebbe falso il libero arbitrio e invana la fatica di scrivere sulle cose morali.
Come ho già detto, è Tommaso d'Aquino che ci aiuta a capire questo apparente paradosso, perché dedica al fatum la Quaestio 116 della Prima pars [33289- 33316] e cita Agostino, Boezio e Gregorio per affermare che «fatum a fando dictum intelligimus, idest a loquendo»: se sappiamo che fato deriva da fari, dire, vuol dire che si attribuiscono al fato gli eventi preordinati e predetti da qualcuno. Ma quello che è oggetto di provvidenza, non è fortuito né casuale. Se le cose fossero soggette al fato, si dovrebbe escludere il caso e la fortuna: invece si tratta di una disposizione data da Dio alle cause seconde, mediante la quale la divina provvidenza ordina ed eseguisce tutto quello che ella ha previsto e deliberato. Il fato è in Dio e non nelle cose create. Ed è una differenza che fa anche Pietro di Dante quando rinvia al luogo dantesco (Inf., VII, 91-96). Finalmente, l’Ottimo Commento (1333) ricorda espressamente che Boezio scrive nel De consolatione che la mente divina ordinò «il modo alle cose che si dovessino fare; lo quale modo quando elli si raguarda nella puritade stessa della divina intelligenzia, si chiama providenzia di Dio; ma quando questo modo si referisce a quelle cose, che muove e dispone, allora è appellato dalli antichi fato». Il fato si compie mediante gli spiriti che sono al servizio della provvidenza divina o mediante il servizio dell’anima e di tutta la natura.
Insomma, un chiaro sincretismo fra un Inferno pagano grecolatino, che non può cozzare contro le fata, dettate dal mondo del messaggio cristiano illuminato dalla Grazia.