Dati bibliografici
Autore: Lorenzo Filomusi Guelfi
Tratto da: Giornale Dantesco
Numero: XVIII
Anno: 1910
Pagine: 119-122
Qual è il simbolo che «s’asconde» nelle Furie, apparse a Dante nel cerchio degli eretici? Ben più di quindici son le ipotesi messe innanzi fino ad ora; possono però ridursi a queste: che le Furie simboleggino «o furiose passioni d’iracondia, di superbia» e d’invidia, «nelle tre forme del pensiero, della voce e dell’azione; O altri peccati puniti fuori e dentro la città» di Dite; o i rimorsi, che traggon l’uomo alla disperazione, col terrore dell’ira divina»; o la mala coscienza, o le tre ultime categorie di peccati punite ne tre ultimi cerchi, la violenza, la frode in chi non si fida e la frode in chi si fida. Non farò una vera e propria confutazione di queste ipotesi: mi basterà dire che, se le Furie simboleggiano alcune passioni, o, per parlare più propriamente, alcuni dei peccati ea passione puniti fuori della città di Dite, non si comprende perché abbiano a simboleggiarne alcuni soltanto, non tutti; e se simboleggiano i peccati puniti dentro, non si comprende ugualmente perché tutti non sieno in esse simboleggiate. Né meno arbitrario è il ravvisare in queste tre Furie le tre forme di peccato, di pensiero, di parola e d’opera: «Venga Medusa, sì il farem di smalto, Gridavan tutte». Quanto poi ai rimorsi, è questo un simbolo, a cui, anche per Minosse, già s’appigliarono i commentatori; se non che, per Minosse parlano di rimorsi nel dannato; per le Furie, dell’uomo che da essi vien tratto alla disperazione. Così nell’ uno, come nell’altro caso non dànno nel segno. Rimorso è riconoscimento della colpa, con dolore e pentimento: or il dannato non si pente, poiché la sua perversa volontà è aversa dalla divina giustizia: egli ama pur nell’ Inferno la sua colpa; e se dolore ne sente, non è già perché la odii; ma solo perché per essa è punito. È chiaro dunque che non si può parlar di rimorso del dannato; onde non può Minosse simboleggiarlo. Né possono le Furie simboleggiare i rimorsi che traggono l’ uomo alla disperazione; perché, se rimorso è pentimento, pentimento e disperazione non si conciliano: mentre al pentimento coopera, con l’altre virtù teologali, la speranza, in quanto è con la speranza del perdono che si fa proposito d’emendarsi; la disperazione, invece, s'oppone alla speranza, poiché consiste nel disperare della divina bontà. Quanto alla ipotesi, che le Furie simboleggino la mala coscienza; come lo Scartazzini, che la propose, non la dimostrò, così io potrei pure dispensarmi dal confutarla; ma poiché la vedo accolta in uno de’ migliori Commenti moderni, dirò che, «cum conscientia sit quodammodo dictamen rationis»; si potrà parlare di ragione o coscienza errante, come infatti s’esprime san Tommaso; ma non di mala coscienza. Ciò premesso, se della coscienza errante intendeva lo Scartazzini di parlare, vede ognuno che le Furie non possono simboleggiarla; se d’altro, ci basta dover interpetrar Dante, per non sentir l’obbligo d’interpetrare anche i suoi interpetri. Infine, al Mondolfi, è che Megera fa simbolo della violenza; Tesifone, della frode in chi non si fida; Aletto, di quella in chi si fida; indòtto a ciò dal distico che Pietro di Dante riferisce,
Mentes, verba, manus sordent: Alecto flagellat
mentem, Tisiphone verba, Megaera manus;
osserverò soltanto che non di tutte le frodi in chi non si fida è «strumento la parola» — basti citare i ladri, i falsi monetieri e i falsificatori di persona —; e che, se soltanto il tradimento avesse sede nella mente, e nella mente orditrice delle trame avesse il suo strumento principalissimo, solo i peccati di tradimento sarebbero imputabili.
Ed ora, ecco che cosa simboleggiano per me le Furie di Dante. I peccati nell’ Inferno dantesco son distinti secondo le cause che li producono; secondo, cioè, le tre categorie teologiche, peccati d’ignoranza, peccati di passione e peccati di malizia: i peccati d’ignoranza son puniti nel vestibolo e nel 1° cerchio; quelli di passione, nel 2°, nel 3°, nel 4° e nel 5° cerchio; quelli di malizia, ne’ tre ultimi, 7°, 8° e 9°. Quanto al 6° cerchio, in cui le Furie appariscono, esso è dato a una classe intermedia, l'eresia, che può avere 0 del peccato d’ignoranza, o del peccato di passione, o di quel di malizia. Or questo cerchio, ove si punisce appunto un peccato che da ciascuna delle tre cause di peccato può avere origine; a Dante, che, in fondo, scriveva poeticamente un trattato di teologia, dovè sembrare il luogo meglio opportuno a dissertare, poeticamente ben inteso, su tutte le cause di peccato : dovè, inoltre, sembrargli che i genii del luogo, da assegnare a questo cerchio, appunto tutte le cause di peccato dovessero simboleggiare. E poiché queste si riducono alle passioni disordinate del concupiscibile e dell’irascibile, che si riducono, alla lor volta, alla triplice classificazione di san Giovanni, concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita; riducendosi alla concupiscenza della carne e a quella degli occhi le passioni del concupiscibile; alla superbia della vita quelle dell’irascibile; nulla di più naturale che aver Dante simboleggiate nelle tre Furie la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Infatti, Aletto, che, per essere destra, deve ritenersi la men cattiva delle tre, simboleggia benissimo la concupiscenza della carne, che, assorbendo la ragione più che non facciano la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, dà origine a men gravi peccati: inoltre, Aletto, etimologicamente, significa incessante; e la caratteristica della concupiscenza della carne è l’insaziabilità. Megera, che è a sinistra, è peggiore; e il suo nome significa invidia: essa dunque simboleggia perfettamente la concupiscenza degli occhi intesa nel senso di concupiscenza di tutte quelle cose in cui si cerca il diletto degli occhi, vale a dire il diletto di qualunque facoltà apprensiva; il qual diletto massimamente si cerca in quei beni che più sogliono invidiarsi nel prossimo, gli onori, la gloria; onde Aristotile scrisse che quelli, che amano gli onori e la gloria, più invidiano; e san Gregorio: «prima superbiae soboles inanis est gloria, quae dum oppressam mentem corrampit, mox invidiam gignit; quia dum vani nominis potentiam appetit, ne quis hance alius adipisci valeat, tabescit»: né occorre ricordare che l’ invidia dal vedere appunto ha il suo nome. Infine, Tesifone simboleggia, perfettamente anch'essa, la superbia della vita, a cui si riducono le passioni dell’irascibile; sì perché essa è nel mezzo, il posto d'onore; e la superbia, da cui prende il nome questa terza categoria di cause del peccato, è regina di tutti i vizii; sì perché il nome Tesifone significa vendetta della morte; e l’ira, da cui prendono il nome le passioni dell’ irascibile, che alla superbia della vita si riducono, è appunto definita dai teologi — e Dante accolse siffatta definizione — appetito di vendetta.
Ancòra qualch’altra considerazione.
Queste Furie di Dante hanno naturalmente, come esigevano i loro nomi e la loro storia, membra ed atti femminili: a Dante sarebbe potuto bastare che il lettore lo supponesse; volle, invece, dirlo espressamente e farlo risaltare. Perché? Perché anche queste membra ed atti femminili hanno il loro significato morale: la femmina simboleggia la seduzione, esercitata dai falsi piaceri, come dimostra la femmina balba del Canto XIX del Purgatorio, che, prima guercia e storta, s’abbelliva poi, a mano a mano, sotto lo sguardo di Dante. Inoltre, le chiome delle Furie son fatte di serpenti; e il serpente simboleggia l'inganno: or che i beni mondani ingannino, Dante stesso ce lo dice nel Canto XVI del Purgatorio.
«Con l’unghie si fendea ciascuna il petto; batteansi a palme» ed eran tinte di sangue. Poiché i beni mondani ingannano, essi non fan l’uomo felice: di qui questo fendersi il petto con le unghie, questo battersi a palme, questo sangue di cui son tinte le Furie: il fendersi il petto simboleggia benissimo le cure, le ansie che affannano quanti sono schiavi delle passioni disordinate; il battersi a palme e l’esser tinte di sangue simboleggiano non men convenientemente le lotte inevitabili per il conseguimento d’un bene che ha mestieri di divieto di consorto; vale a dire, di tanto si scema, quanti più sono a possederlo.
Le Furie riguardano in giuso: questo riguardare in giù, che anch’esso si sarebbe potuto lasciar supporre, essendo le Furie in alto, e Dante, contro cui inveivano, da basso; se Dante volle metterlo in risalto, vuol dire che anch’esso ha il suo significato morale; e questo non può esser altro, se non quel mirar pure a terra, che Virgilio rimprovera a Dante e a’ contemporanei di lui; l’affetto cioè alle cose terrene, che son l’oggetto delle passioni simboleggiate nella Furie, secondo la sommaria classificazione di san Giovanni.
Infine, Dante chiama le Furie meschine, ossia ancelle di Proserpina, la regina dell’Inferno: che senso avrebbe questa denominazione di ancelle di Proserpina, se non si riferisse alla parte capitale che le passioni disordinate hanno nel popolare il regno di Plutone? Se non stesse, cioè, a significare che dalle sette principali passioni non moderate dalla ragione, ossia da’ sette vizii capitali, tutti i peccati hanno la loro origine?
Forse inganna e seduce anche me l’amore di me stesso – anche all’amor di se possono ridursi tutte le cause di peccato -; ma credo non facilmente contestabile questa mia interpretazione allegorica delle Furie dantesche.
Ma che l’amor di me stesso m’ingannasse, s'è provato or ora a dimostrarmi Aldo Ferrabino. Sono stato un po’ in dubbio se della sua dimostrazione avessi, o no, ad occuparmi; ma perché dallo stile m’è parso di dover supporre che il Ferrabino sia un giovine; e nulla più spiace ai giovani, che il non esser tenuti in alcuno conto, non ho voluto dargli questo dispiacere; ed eccomi a confutar brevemente le sue obiezioni.
1a Il Ferrabino è «convinto» che Dante «non mai avrebbe celata sotto una allegoria oscura una dottrina troppo lontana dal comune»… «bensì l'avrebbe al contrario spiegata e schiarita dando opera a quel volgarizzamento morale ch’è uno dei fini, e chi sa non sia il precipuo, della Divina Commedia» ... «insomma, Dante sa il suo lettore essere, nell’ Inferno, non cibato ancora del pan degli angeli». Perciò, il Ferrabino conclude che la mia interpetrazione «anzi tutto è troppo complessa». — È troppo complessa, per chi è digiuno affatto della disciplina teologale (come scrive il Ferrabino); non per chi ne sappia, non dico molto, ma un poco: infatti, la dottrina, ch’io vedo nascosta nel simbolo delle Furie, appartiene alla Teologia morale, non alla dommatica. Che poi, nell’Inferno, Dante parli a lettori digiuni affatto di Teologia, basta a smentirlo ... tutto l’Inferno, che, se anche è la men difficile delle tre cantiche, non però vi mancano enigmi, che solo con la teologia si possono sciogliere. Infine, se il volgarizzamento morale, ossia della morale, fosse stato uno dei fini del Poema; bisognerebbe proprio dire che, per raggiungere un tal fine, non era davvero il miglior mezzo l’allegoria.
2a La mia interpetrazione «è fondata in gran parte sui testi di san Tommaso; ma chi accerta che Dante lo avesse presente? chi, peggio, ci assicura dell’esattezza di sì fatto ragionamento»? — Che Dante avesse presente alla propria portentosa memoria tutta la Somma teologica di san Tommaso, ce l’accerta l’averla egli seguìta a puntino — tranne qualche eccezione, ben inteso — in tutto il Poema: in quanto all’esattezza del ragionamento, che non è mio, ma di san Tommaso; non importa che al Ferrabino non sembri esatto (cfr. la 5a e la 6a obiez.): basta che tale sembrasse a Dante. E ciò si hanno sufficienti motivi per argomentarlo.
3a «Chi insomma può credere che Dante, il quale si dilungò spesso altrove per mostrare, provando e riprovando, l’aspetto di belle verità, frutto di sue proprie elaborazioni»... «nascondesse qui»... «un’ardua, architettata, lambiccata dottrina? Nessuno». — Ah! no: chiunque abbia un po’ meditato su Dante può credere ch’ei nascondesse nel simbolo delle Furie una dottrina altrui; ardua, sia pure; lambiccata no, se un san Tommaso la enuncia. Quanto poi alle proprie elaborazioni di Dante; che Dante fosse filosofo originale e teologo indipendente, non credo che molti vorranno riconoscerlo.
4a «Dante, da savio, professava, su questo punto» dell’eresia «opinioni al tutto individuali: nonché considerare gli eresiarchi come veri e propri colpevoli, li escluse, nel suo disegno dell’Inferno, dal complesso degli altri peccatori». — Ma come? se li punì nel basso Inferno, con pena di fuoco, non li considerò dunque veri e proprii colpevoli?
5a «Il più elementare buon senso» vieta d’ammettere che tutte le cause di peccato si possano ridurre alle passioni disordinate del concupiscibile e dell’irascibile. — Ma san Tommaso ve le ridusse; dunque san Tommaso mancò del «più elementare buon senso».
6a È sbagliato, perché incompleto, il dichiarar equivalenti alla passione del concupiscibile le due concupiscenze e della carne e degli occhi»... «è sbagliato, perché incompleto, asserire equivalente alla passione dell’irascibile la superbia della vita». — Ma san Tommaso parla di riduzione delle passioni del concupiscibile e dell’irascibile alle tre categorie di san Giovanni; non già d’equivalente. Or che questa riduzione — o adattamento, mutamento, conversione, che non è tutt’uno con equivalente, che implica uguaglianza, — che questa riduzione sia sbagliata, lo dice Aldo Ferrabino, alla cui scienza filosofica e teologale e’ inchiniamo; ma non perciò crederemo che anche Dante lo dicesse.
7a Io ho scritto: «Aletto, che, per essere a destra, deve ritenersi la men cattiva delle tre, simboleggia benissimo la concupiscenza della carne» ... «etimologicamente, significa incessante; e la caratteristica della concupiscenza della carne è l’insaziabilità». E il Ferrabino: «ma il posto» d’Aletto «dipende soltanto dalla relazione che tra essa e Medusa corre; è perciò sufficiente a caratterizzare, non questo o quel preciso peccato, bensì una qualsiasi colpa, purchè minore dell’invidia»; né l’essere incessante è proprio della lussuria; bensì è comune all’ invidia, all’ira, perfino alla superbia. — Lasciamo stare che se chiedessimo al Ferrabino di dimostrarci che l'invidia, lira e perfin la superbia sono incessanti, ei si troverebbe in un bell’intrigo; ma io ho parlato di concupiscenza della carne, per Aletto; di concupiscenza degli occhi, per Megera: a che mutare i termini della comparazione, e parlar, per Megera, della sola invidia; per Aletto, della sola lussuria? Insomma, due cose bisognava dimostrare, prima di dire che nulla resta della convenienza con cui Aletto simboleggia la concupiscenza della carne: che la concupiscenza della carne non dà origine a peccati men gravi di quelli che emanano dalla concupiscenza degli occhi; e che l’insaziabilità non è caratteristica della: concupiscenza della carne. Il Ferrabino nega, non dimostra.
8a La confutazione dei simboli da me attribuiti a Megera e a Tesifone, è così riassunta dallo stesso Ferrabino: «Questo modo di trovare equivalenze più o men proprie, di fare riduzioni più o men dicevoli, di trovar simboli in figure che vi corrispondono solo in parte, o, se piace meglio, in gran parte, è modo — lo si dica! — troppo ingegnoso, stiracchiato, arduo»... — In quanto all’equivalenze, ripeto che non è d’equivalenze che si tratta; in quanto alle riduzioni, che esse non son mie, ma d’un san Tommaso. In quanto poi ai simboli, devo ricordare al Ferrabino, che il simbolo non è la cosa simboleggiata? e che quindi non è necessario che l’uno corrisponda all’altra, come l'anello al dito? che il simbolo importa somiglianza, non identità?
Dal confutar gli argomenti con cui il Ferrabino sostiene, per le Furie il simbolo della superbia, per Medusa quello del dubbio, credo di potermi dispensare. Ho ribattute le sue obiezioni, credendo di fargli così men dispiacere, che non gli avrei fatto traseurandolo: sodisfo ora un desiderio da lui esplicitamente espresso, dicendogli quel ch’io penso del suo studio, che egli conclude: come l'ingegnere, che, varata la sua nave, aspetta dal mare l’ultima sentenza, così io « attendo il verdetto dal mare ». — Io non sono il mare, l’acqua profonda, simbolo della parola della sapienza, secondo i Proverbii (XVIII, 4): nondimeno, i miei venti e più anni di studio su Dante par che mi permettano di dire al Ferrabino: passi che la scienza teologale non Le sia simpatica, e che quindi la trascuri, sino al punto d’attribuire alla superbia il desiderio della vendetta e il furore; l’uno, caratteristica; l’altra, grado dell’ ira; ma che trascuri altri insegnamenti, essenziali per chi voglia impacciarsi di Dante; e che assorba, per esempio, col suo studio, nel quale neppur sostiene interpetrazioni nuove, ben quarantaquattro colonne del Giornale dantesco; che scriva di quegli e di questi, per di quello e di questo ; che chiami baccano il «fracasso d’ un suon pien di spavento», segno di miracolo ; tutto ciò, e qualcos’altro che non noto, mi par troppo. La critica dantesca ha sempre avute le grandi braccia dell’infinita bontà, che «tutto accoglie che si volge a lei»; ma un po’ di preparazione, mio Dio, occorre a qualunque mestiere. Non gliel’ha detto il prof. Manacorda, a cui Ella ha dedicato, e quindi fatto leggere in precedenza, il suo studio?