"Mal non vengiamnio in Teseo l'assalto" (Inf. IX, 54) [Carlo Salsotto]

Dati bibliografici

Autore: Carlo Salsotto

Tratto da: Giornale Dantesco

Numero: XI

Anno: 1903

Pagine: 145-147

Non è certamente questo uno di quei versi del sommo, Poeta che più richiamano l’attenzione dei lettori e dei chiosatori. Tuttavia, poiché può prestarsi ad una doppia interpretazione, e mentre la maggior parte dei commentatori si attiene ad una di esse, parecchi non accennano neppure all'altra, spero che non sarà affatto inutile né fuori di luogo vedere brevemente quale delle due interpretazioni sia preferibile.

Come è noto, a questo punto della Divina Commedia Dante si trova con Virgilio dinanzi alla porta di Dite, chiusa dai demoni, per vincere i quali è necessario l'intervento di una forza superiore; e i due Poeti stanno appunto attendendo l’arrivo del loro soccorritore. Frattanto Virgilio, per rinfrancare l'animo turbato di Dante, e per rassicurarlo ch’egli conosce il luogo, avendolo praticato altra volta, gli dà notizie sulla topografia, per così dire, dell’Inferno. Ma ad un tratto il Poeta non dà più ascolto alle parole del Duce; egli è colpito da una terribile apparizione sulla rovente cima dell’alta torre di Dite. Quivi sono apparse le tre Furie, che, scorto il Poeta, chiamano Medusa, perché, guardata da lui, lo trasformi in sasso.

Venga Medusa, sì il farem di smalto,
gridavan tutte riguardando in giuso;
mal non vengiammo in Teseo l’assalto.

È nota la leggenda, secondo la quale Teseo, legatosi d'amicizia con Piritoo, fra le altre imprese compi pure quella di scendere’ col compagno nell’Inferno per rapirne Proserpina. Ma, sopraffatti, Piritoo tu divorato da Cerbero, e Teseo fu legato strettamente ad un masso dove rimase finché non venne a liberarlo Ercole, 0, come altri vuole, Euristeo.
A tale fatto appunto alludono qui le parole delle Furie, che ricordano l'assalto dato da Teseo all’ Inferno, cioè la prova ardita ch'egli osò tentare di rapirne Proserpina per il suo amico e compagno.

La massima parte dei commentatori ravvisano nell’ultimo verso come l’espressione di un rammarico. Con questa esclamazione le Furie si mostrerebbero dolenti di non aver vendicato abbastanza l’audacia di Teseo.
Così il Bianchi: “Male facemmo a non vendicare in Teseo l’assalto dato a queste mura, cioè l’ardita prova ch’ei fece di voler rapire Proserpina, siccome la vendicammo in Piritoo, che demmo a divorare a Cerbero”. E lo Scartazzini: “Mal facemmo a non vendicarci dell’assalto di Teseo: facendone vendetta nessuno avrebbe più osato di venire quaggiuso”; spiegando mal con mal fu per noi. Così pure il Casini: “Mal fu per noi non vendicare gli assalti dati dagli uomini all’Inferno nella persona di Teseo; il quale, recatosi nelle regioni infernali, per rapire Proserpina vi fu trattenuto prigioniero fino a che Ercole discese a liberarlo”. E, come questi, seguono tale interpretazione più dei commentatori tanto antichi quanto moderni, spiegando quel mal che si trova al principio del verso, per: mal fu per noi; a nostro danno.
Ed è certo chiara e conforme alla leggenda questa spiegazione. Narra infatti la leggenda che Teseo fu più tardi liberato da Ercole o da Euristeo, e non ebbe quindi che una punizione temporanea, mentre le Furie avrebbero potuto farlo perire, come il suo compagno Piritoo, e vendicare così pienamente l’affronto.
La stessa interpretazione si appoggia non solo alla leggenda, ma anche sopra il senso dell’avverbio mal, notato più sopra. Quest’avverbio infatti in parecchi dei numerosi luoghi in cui è usato da Dante assume chiaramente il valore attribuitogli qui dalla maggior parte dei commentatori.
Accostandosi al primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro gli altri, il Poeta esclama:

Oh cieca cupidigia, oh ira folle
che si ci sproni nella vita corta,
e nell’eterna poi sì mal c’immolle.

E poco dopo Virgilio risponde a Nesso:
Mal fu la voglia tua sempre si tosta.

Dove mal ha appunto il valore di: mal per te; a tuo danno.
Così nell’invettiva di Dante contro Niccolò III nel cerchio dei simoniaci:

e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

Parimenti:

…la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,

nel qual verso pure l’avverbio mal si trova accompagnato dalla negazione non; mentre invece là dove si trova ricordato il medesimo fatto:

… ove s’aspetta il témo
che mal guidò Fetonte,...

la mancanza della negazione mostra che l’avverbio mal ha il suo significato più semplice.
E ancora:

O folle Aragne, si vedea io te
già mezza aragna, trista in sugli stracci
dell’opera che mal per te si fe’.

Ma in questo luogo è più chiaro il significato della parola mal, perché vi si accompagna l’indicazione, per te.
Lo stesso dicasi del passo del Paradiso, dove il Poeta fa la storia dell’aquila romana:

e mal per Tolomeo poi sì riscosse.

A proposito delle calunnie dei cortigiani provenzali, che fruttarono a Romeo l’ingratitudine del suo signore, Dante pone in bocca a Giustiniano la sentenza:

…E però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui,

Qui mal ha certo il senso di: a proprio danno; come nel verso:

che mal ha visto il conio di Vinegia

che altri legge:

che mal aggiustò il conio di Vinegia

E così in fine indica: a tuo danno; mal per te, nel passo:

o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze sue per gli altrui conforti!

Con l’oppoggio di questi passi della Divina Commedia la parola mal, che si trova al principio del verso, può dunque interpretarsi anche nel senso di: a nostro danno, mal per noi.
Occorre però notare che il confronto calza pienamente solo col passo citato:

…la strada
che mal non seppe carreggiar Feton;

mentre quando il Poeta vuol dare all’avverbio mal veramente e indubbiamente il senso di: a danno di..., allora lo accompagna, come vedemmo, con l’espressione, per... . Ciò non toglie però che nei passi citati il vocabolo mal abbia il significato di cui parliamo, giacché io credo che nei singoli luoghi esso non possa spiegarsi diversamente, benché per dargli questa interpretazione si debba talvolta violentare un po’ la sintassi.

Ma per spiegare il senso del verso posto in bocca alle Furie parmi che non occorra affatto violentare la sintassi, potendo esso intendersi bene anche lasciando ad ogni vocabolo, e specialmente all’avverbio mal, il suo valore più semplice.
Prendiamo infatti tale verso nel suo senso più naturale. Esso suonerà: “Non vendicammo male in Teseo l’assalto”.
Così, mentre, seguendo l’interpretazione più comune, si dà alle parole delle Furie il senso di un rammarico e nulla più, con quest'altra spiegazione invece vediamo le Furie affermare in tono di minaccia di aver saputo vendicare l’affronto commesso da Teseo.
E non mancano certo le ragioni che valgono a sostenere questa seconda interpretazione.
Innanzi tutto il significato dell’avverbio mal. Questo per analogia con altri luoghi della Divina Commedia, come abbiamo notato, potrebbe anche intendersi nel senso di: mal per noi, a nostro danno. Ma abbiamo pur visto che negli altri passi il vocabolo mal non può spiegarsi diversamente; mentre qui esso può ritenere il suo significato più semplice e più naturale, senza che, per spiegarlo, occorra far violenza alia sintassi.
In secondo luogo non può neppur dirsi che la leggenda sostenga esclusivamente la prima interpretazione, È ben vero che le Furie avrebbero potuto vendicare meglio l’assalto di Teseo, facendolo, per esempio, perire, come Piritoo. Ma non puossi per ciò dire ch’esse si siano vendicate male, e tanto meno che non si siano vendicate affatto. Tant'è vero che Teseo soffri assai a lungo la sua pena, e, liberato poi da Ercole, lasciò sul masso un buon tratto della propria pelle, tanto strettamente vi era stato legato. Né qui cessò il suo castigo; che anzi dopo morto fu condannato alle pene eterne dell'Inferno, come appunto si legge in Virgilio:

…sedet aeternumque sedebdit
inflelix Theseus…

Ne segue che non può essere affatto giustificato nelle Furie il rammarico di non aver preso vendetta della temerità di Teseo.
Non rammarico dunque soneranno le parole delle Furie, ma piuttosto severa minaccia di castigo terribile; anzi saranno come una continuazione della minaccia contenuta nel primo verso della terzina. E che le parole dell'ultimo dei tre versi siano proprio rivolte a Dante, anziché détte dalle Furie a sé stesse e per sé stesse, parmi sia indicato dal fatto che “Gridavan tutte riguardando in giuso”.
Assai più naturale apparirà così l’esclamazione delle Furie. Esse, nello scorgere un vivente davanti alla porta di Dite, si ricordano tosto del tentativo fatto altra volta da un altro vivente e della pena inflittagli, tanto che questo, sebbene liberato poi temporaneamente, tuttavia fu vinto e non riuscì nel suo intento; e per ciò, sicure della vendetta ch’esse tengono in pugno, ferocemente ammoniscono il nuovo venuto portandogli l’esempio della sorte toccata all’altro.
La seconda interpretazione parrebbe dunque più naturale.
In fine, a maggiormente sostenerla, sì può osservare che questo procedere di Dante, che a chi tenta una impresa fa ricordare la brutta sorte toccata ad altri che la tentò altra volta, non è un caso isolato, giacché se ne ha un altro esempio chiarissimo nello stesso Canto IX dell’Inferno, là dove il Messo celeste, che viene ad aprire con la verghetta la porta di Dite, facendo quella fiera invettiva contro i demoni, oltre ad ammonirli dell’inutilità del loro tentativo contro il volere del Cielo, che più volte ha loro cresciuto doglia, finisce appunto la sua severa ammonizione ricordando la sorte toccata a Cerbero, quando volle opporsi all’entrata di Ercole nell’Inferno:

Perché ricalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuto doglia?

Che giova nelle fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e il gozzo.

E anche qui il Poeta non ricorda il fatto, ma nomina semplicemente colui che fu vittima del proprio a tentativo temerario: i due concetti sono perfettamente paralleli.

Questa seconda interpretazione non è una novità negli studi danteschi, poiché, sebbene pochi commentatori l'abbiano ammessa, molti però la riconobbero, e fra questi anche qualcuno degli antichi.
Fra i moderni il Blanc riconosce che le parole poste in bocca alle Furie dànno appunto luogo, secondo grammatica, ad una doppia interpretazione. “Possono significare: Male (per noi) che non vendicammo l’assalto di Teseo (come avremmo potuto e dovuto), chè a quel modo un mortale, com'è Dante, non sarebbe oso di ficcarsi qua dentro. Od anco ironicamente: Non abbiamo vendicato male l’assalto di Teseo, e tanto avvertimento, o mortale, ti basti”. Egli però sta per la prima interpretazione, che secondo lui, “risponde meglio al tutt’insieme, e sarebbe confermata dal verso, citato già:

Mal fu la voglia tua sempre sì tosta,

nonché dalla variante “Mal noi”, rigettata dalla Crusca, e dall’altra “Mai non”.
L’antichità della seconda interpretazione è provata del fatto che già la conobbero, pur non accettandola, il Buti e Benvenuto da Imola.
Ma nessuno forse ne sostenne le ragioni prima del Venturi. Egli crede che le parole delle Furie esprimano piuttosto un vanto, che essi si dànno “per animarsi alla vendetta, stimolandosi scambievolmente, e mostrando di tenere in pugno quella minacciata trasformazione: sì il farem di smalto”. E soggiunge: Non mal ci vendicammo, diceano, né leggermente punimmo l’assalto in Teseo, essendo chiaro per le favole non esser rimaso impunito di quello, mentreché Piritoo suo compagno fu gettato a divorare al Cerbero, e Teseo fu arrestato e ritenuto in ceppi per fin'a tanto, che venne Ercole a liberarlo”; e accenna pure al fatto che, secondo la testimonianza di Virgilio, la leggenda ci mostra Teseo tornato dopo la morte nell'Inferno, dove rimarrà in eterno ad espiazione della propria colpa.
Dopo il Venturi accettò questa interpretazione il Rossetti.
Egli nota che quello, pur non afferrando il vero senso del verso di cui trattiamo, tuttavia lo spiegò rettamente, tenendosi stretto alla parola. A suo giudizio va accettata la seconda interpretazione per ragioni tanto di sintassi quanto di senso. Per ragioni di sintassi, perché, per interpretare diversamente questo verso, bisogna violentare la costruzione; per ragioni di senso, perché le Furie, vantandosi di non essersi mal vendicate di Teseo, anzi di averlo saputo punir bene dell’assalto dato alle mura di Dite, procuravano di atterrir maggiormente Dante con l’idea di un castigo uguale che gli preparavano: e tutto questo era nel loro interesse, che viene tradito invece dall’altra interpretazione, E il Rossetti ritiene falsa quell’altra per il fatto che Teseo fu veramente soverchiato dalle Furie, e non sarebbe sfuggito loro senza l’aiuto di Ercole.

Concludendo, dunque, diremo che, movendo dagli argomenti del Venturi e del Rossetti, a cui si possono aggiungere le altre ragioni addotte, e specialmente quella della somiglianza col passo dello stesso Canto IX dell’Inferno, in cui il Messo celeste ricorda la sconfitta di Cerbero, pare preferibile, perché più semplice e naturale, la seconda interpretazione.

Date: 2022-01-11