Dati bibliografici
Autore: Maurizio Palma
Tratto da: Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de Dantología
Numero: VI
Anno: 2005
Pagine: 143-171
Se fosse lecito ricavare la psicologia di un autore a partire dall’analisi formale dell’opera direi che la reticenza doveva essere uno dei tratti caratterizzanti del funzionamento mentale dantesco. Tutti gli scritti, e in particolare la Commedia, offrono un’ampia testimonianza dell’uso costante dei molteplici meccanismi che può assumere la retorica della reticenza: sospensioni, ellissi, omissioni, preterizioni, lacune, allusioni, interruzioni... Ho scelto di soffermarmi su di un caso particolare di reticenza, cioè sull’opzione – imposta al lettore e di per sé assai straniante – di tacergli un’informazione essenziale che sola gli permetterebbe di decifrare l’insegnamento morale (o comunque il senso secondo) che l’autore esplicitamente e provocatoriamente proclama di aver celato dietro la lettera testuale. L’omettere, il nascondere, il velare viene così ad enfatizzare l’importanza dell’omesso, del nascosto, del velato in una sorta di gioco narratologico, di elitistica scrematura dei destinatari, di sfida al lettore esegeta invitato all’analisi testuale e intertestuale (sulla falsariga del «tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi» di Pg. XVII 139). Di modo che ciò che non viene detto (nel nostro caso: il nome del messianico protagonista del nono canto) dovrebbe di fatto essere svelato da numerosi altri indizi che vorrebbero guidare l’ipotetico «lettore ideale» sulla via di quell’agnizione che renderà poi decifrabile anche l’allegorismo soggiacente. Ma, come si vedrà, le cose non sono così semplici, e lungi da me l’ambizione di far luce sull’ormai proverbiale «dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li versi strani», mi propongo qui, molto più realisticamente, di esaminare gli indizi appunto attraverso i quali Dante ha scelto di connotare l’anonimo personaggio «messo dal cielo» destinato ad aprirgli la porta della città di Dite. Perché in fondo una corretta pratica dell’esegesi testuale mi pare il primo passo per cogliere o quantomeno approssimarci alle intenzioni del Fiorentino.
Il nono canto infernale è esemplare quanto all’uso narrativo della reticenza, fin da quell’ellittico «se non...» (v. 8) con cui Virgilio personaggio (facendo il verso a se stesso autore, penso in particolare al «quos ego...» di Aen. I 135) lascia trapelare, ma subito tenta di rimuovere, i dubbi sulla propria inadeguatezza, suscitando nondimeno un sentimento immediato di sgomento in un Dante che d’istinto decritta in malo (e in peggio) il senso implicito dell’ellissi, la probabile «sentenzia» della «parola tronca» («ma nondimen paura il suo dir dienne / perch’io traeva la parola tronca / forse a peggior sentenzia che non tenne» vv. 13-15). Subito dopo, sempre Virgilio, per rassicurare il discepolo sulla sua effettiva conoscenza dei luoghi e del cammino, lo informa «ch’altra fiata qua giù fui» (v. 22) quando la maga Eritone (Eritto, Erictho) lo aveva incaricato di penetrare nella «città dolente» per restituire al suo corpo uno spirito dannato nelle profondità del nono cerchio.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eriton cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
(If. IX 22-27)
Chi fosse il misterioso traditore che un Virgilio, necromantico messo al servizio della magia nera avrebbe ricondotto sulla terra è taciuto con cura, mentre invece la curiosità del lettore sarà riattizzata successivamente da altre due allusioni allo sconcertante evento (If. XII 34-35, If. XXI 63), il che lascia presumere che si trattasse di un personaggio molto autorevole (morto tra il 19 a.C. e il 33 d.C.) sul quale la sagacia degli interpreti non pare che per il momento abbia saputo fornire informazioni attendibili, mentre come vedremo l’accenno alla maga tessala non è peregrino, nella misura in cui essa sarà una delle chiavi per la decodifica di quanto seguirà. E si può constatare che in questo canto non sono certo i punti in sospeso che mancano, come ad esempio il successivo: «E altro disse, ma non l’ho a mente» (v. 34), dove la lacunosità dell’informazione è da addebitare alla memoria del narratore, in quanto Dante personaggio, all’epoca dei fatti, venne distratto dall’apparizione dei mostri infernali, le Erinni, le divinità della vendetta che dalla torre infuocata minacciavano di pietrificarlo in virtù dell’esibizione di Medusa, chiudendo così un conto rimasto in sospeso fin dall’invendicata impresa di Teseo («mal non vengiammo in Teseo l’assalto» v. 54) cogli esseri umani che, vivi beninteso, avessero la pretesa di penetrare nella città infernale.
È a questo punto che il narratore lancia il guanto della sfida al suo lettore ermeneuta («O voi ch’avete li ’intelletti sani» v. 61) affinché sia pronto a cogliere il senso recondito che verrà celato «sotto ’l velame de li versi strani» (v. 63) e che verosimilmente era già celato nel primo atto dell’allegoria ai vv. 35-60 come si accordano a dire la maggior parte dei commenti.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
(If. IX 61-63)
Una spessa cortina questo allegorico «velame» se comparato ad altri veli ben più trasparenti che incontreremo poi:
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ’l trapassar dentro è leggero.
(Pg. VIII 19-21)
Quello stesso lettore sano d’intelletto era stato già informato, in un primo tempo nel canto precedente, che le porte della città sarebbero comunque rimaste aperte per Dante e la sua guida, e ciò previa riformulazione dell’abituale lasciapassare («vuolsi così colà dove...» If. III 95, «vuolsi ne l’alto, là dove...» If. VII 11) fin lì di provata efficacia:
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può torre alcun: da TAL n’è dato.
(If. VIII 104-105)
Ma nonostante il benestare dei superiori («da tal n’è dato»), dopo l’inutile trattativa condotta da Virgilio per ottenere con le buone («sanz’ira» If. IX 33) il passaggio dalle porte infernali, ecco l’annuncio sempre da parte sua dell’arrivo di un aiuto materiale assai più convincente per sconfiggere l’arrogante resistenza dei mostri e dei demoni, quegli stessi che si erano invano opposti 1266 anni prima al raid di Cristo nel limbo:
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
TAL che per lui ne fia la terra aperta».
(If. VIII 124-130)
Non viene detto come Cristo abbia scardinato la «men segreta porta» (If. III 11), è per contro chiaro che il solitario e anonimo aiutante («tal») che senza bisogno di protezione, a piedi, sta scendendo dal limbo («di qua da lei» cioè dall’interno della porta, nel primo cerchio) «per li cerchi» ha l’esperienza e le capacità di persuasione necessarie per aprire la terra a Dante. Il doppio solidale soccorso (del divino mandante e del suo uomo di mano) è contrassegnato dall’uso alterno dello stesso pronome (tal) e ribadito ad inizio di canto nel moto d’impazienza che tradisce Virgilio (v. 9), volto appunto a solleticare ulteriormente la curiosità degli intelletti sani.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... TAL ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’ALTRI qui giunga!».
(If. IX 7-9)
L’offerta di aiuto fatta a Virgilio (si presume da parte di un testimone oculare, al momento in cui Beatrice viene nel limbo ad invocarne l’intervento) tarda a concretizzarsi. Sembrerebbe – ma, subdolo, l’autore sta già confondendo le piste – che colui («tal») che offrì di intervenire personalmente («s’offerse») per «vincer la punga» al posto dei due pellegrini sia quello stesso che sta scendendo («altri»). È così che dopo l’appello-sfida alla sagacia dell’élite dei lettori e dopo i molteplici preannunci assistiamo al rumoroso e podistico descensus del tanto atteso personaggio, che però Dante (accentuando l’aura di mistero che lo circonda fin dal canto precedente) rinunzia a descrivere, se non metonimicamente attraverso i vistosi effetti collaterali della catabasi (tuono, tempesta, terremoto) e la citazione delle sue minacciose parole:
E già venia su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’ alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
(If. IX 64-72)
La prima delle due similitudini che inquadrano l’ingresso in scena del nuovo venuto compara il «fracasso d’un suon» che lo precede all’approssimarsi devastatore di un tifone coi suoi esiti dirompenti sulla foresta e le belve e i pastori che la popolano. La seconda, altrettanto terrifica, assimila la fuga precipitosa dei dannati a quella delle rane dinanzi a un serpente d’acqua:
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’ a la terra ciascuna s’abbica,
vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad UN ch’ al passo
passava Stige con le piante asciutte.
(If. IX 76-81)
Il fragoroso e ciclonico personaggio associa visibilmente a qualità umane doni sovrannaturali visto che, come Cristo sul Giordano, cammina («al passo passava» vv. 80-81) sulle acque fangose dello Stige, e in ciò si accomuna agli altri spiriti del primo cerchio (e a Dante stesso) che avevano attraversato il bel fiumicello del limbo «come terra dura» (If. IV 109). Del tutto indifferente al terrore che semina attorno al suo passaggio, è concentrato unicamente sulla sua missione e colla sinistra (ha dunque la verghetta nella destra) infastidito allontana meccanicamente dal volto l’aria densa e fumante della palude stigia che gli impedisce la vista:
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’ i stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
(If. IX 82-90)
Dante non ce ne dà un ritratto fisico, ma visto che lo può osservare da vicino ne sottolinea un tratto psicologico, consono d’altronde all’impressione di forza e di sprezzo che ne emana («parea pien di disdegno» v. 88). L’uomo è sicuramente ignoto a Dante che comunque coglie in lui («ben m’accorsi» v. 85), nelle sue movenze qualcosa di sovrumano («ch’elli era da ciel messo» v. 85); è per contro noto a Virgilio (come già le Erinni «che ben conobbe», al v. 43) che non per nulla indica al discepolo di tacere e di omaggiarlo. Compiuta senza resistenze la sua missione con l’apertura della seconda, la più «secreta» porta infernale, dopo aver apostrofato i demoni torna sui suoi passi senza far motto ai due che ha soccorso, quasi con «greca» alterigia, come poi Ulisse e Diomede.
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’OMO cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.
(If. IX 100-105)
Egli ha dunque preoccupazioni e sembianze umane, un volto disdegnoso e insofferente, una bocca che articola «parole sante», degli occhi infastiditi dal fumo, un passo veloce, dei piedi anfibi e delle mani, in una delle quali stringe una verghetta, passe-partout con cui apre la porta (sorta di rivisitazione del soporifero caduceo di Mercurio; com’anche del virgiliano ramo d’oro, la virga fatalis del pio Enea suo coinquilino nel limbo; e in ambito biblico della verga di Mosè). Possanza fisica e leggerezza spirituale (come i limbicoli cammina sulle acque) sembrano coesistere in questo essere dalla forza sovrumana. Arrivati a questo punto, a norma dell’apostrofe del narratore, starebbe ora a noi lettori ricavare la sentenzia sottesa alle quattordici terzine. Ed è evidente che ciò non è di fatto possibile se non avremo prima capito chi sia l’individuo che Dante, pur senza darcene il nome (via via: tal, altri, un), ci ha implicitamente descritto.
Sull’identità del personaggio il commento secolare offre un buon numero di candidature (Enea, Mercurio ecc.) tra le quali certamente la buona, ma ormai da tempo, seguendo una proposta antica (Graziolo, Lana, Ottimo ecc.) e fortunata, il responso dei principali commentatori è unanime: colui che è stato «messo» dal cielo è un angelo. Un angelo senza nome né qualità (ma per alcuni sarebbe Michele), benefico strumento della grazia inviato in soccorso dei due pellegrini, incapaci a quel punto di procedere di fronte alla resistenza dei mostri infernali senza un concretissimo intervento divino. Ora, alla luce di una lettura attenta e lineare del testo in questione, questa soluzione (praticamente ipostatizzata fin dalle Esposizioni di Boccaccio, e ribadita con forza da Scartazzini ) che generazioni di interpreti si trasmettono diligentemente, a mio avviso, non è che una grossolana semplificazione, e se non fosse al limite difendibile su basi etimologiche (angelo cioè messaggero ) dovrebbe esser considerata poco meno di un’idea balzana. Tutta questa calibratissima messinscena servirebbe a nascondere un semplice angelo? Quando poi, come tutti sanno, nell’inferno dantesco di angeli non ce n’è proprio neppure la parvenza. Tutt’al più ex angeli cacciati dal cielo, come quelli pilateschi del vestibolo (If. III 38-39), come gli «angeli neri», i «neri cherubini» (cfr. If. XXIII 131, XXVII 113) debitamente riconvertiti in diavoli (cioè in «angeli d’inferno» Pg. V 105). Il solo «vero» angelo infernale, il nostro insomma, non è che una fantasiosa aporia, una fra le tante, abortita dal secolare commento. Non è perché è stato inviato per volontà divina che questo sant’uomo debba necessariamente avere sembianze angeliche, e se poi ne avesse avute, Dante personaggio se ne sarebbe accorto. Perché, di fatto, il protagonista della Commedia scoprirà che cosa realmente sia un angelo soltanto nel secondo canto purgatoriale (ed è chiaro che non ne aveva mai visti fin lì: «omai vedrai di sì fatti officiali» v. 30) con la luminosa apparizione del nocchiero che nella seconda cantica funge da pendant all’infernale Caronte:
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
(Pg. II 16-18)
Esso vola sul mare colla velocità della luce che emana, luce indistinta a lunga distanza, che si concretizza avvicinandosi in due ali bianche che vengono progressivamente a caratterizzarne l’essenza. Si faccia caso anche alla diversa qualità dell’omaggio che Virgilio impone a Dante: dinanzi all’ «angel di Dio» egli giunge in preghiera le mani e si inginocchia, dinanzi al «messo» dal cielo si inchina reverente. È manifesto che al limbicolo superuomo compete un tributo inferiore a quello dovuto a un angelo.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l’angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di si fatti officiali.
(Pg. II 25-30)
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’ i stessi queto ed inchinassi ad esso.
(If. IX 82-87)
Nel primo caso ali che si materializzano anche nelle rime, a fronte di braccia mulinanti nel fumo. L’uno vola, l’altro cammina e gesticola.
Vedi che sdegna gli argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l’ali sue, tra liti sì lontani.
(Pg. II 31-33)
Nulla vi è di umano nel comportamento dell’angelo; sul mondo circostante nessun effetto se non luministico e ineffabile. Niente a che vedere insomma con l’impetuosa brutalità, anche lessicale, che caratterizza l’arrivo (fracasso, spavento, tremavano, impetuoso, fier, schianta, abbatte, fa fuggir, ecc.), l’allocuzione (mozzo, cozzo) e la partenza (stringa, morda) del «messo». Abbagliante si fa infine il divino volatile quando giunge sulla riva del purgatorio, al punto da non poter più esser fissato da occhi umani:
Poi, come più e più verso noi venne
l’uccel divino, più chiaro appariva:
per che l’occhio da presso nol sostenne,
ma chinail giuso; e quei sen venne a riva
(Pg. II 37-40)
Come d’altronde sarà poi il caso, informa il narratore, dei due angeli dalla testa bionda di cui non riesce a cogliere i lineamenti («ma ne la faccia l’occhio si smarria» Pg. VIII 35) e del successivo collega del galeotto, l’angelo che siede sui gradini della porta del purgatorio, il cui volto splende a tal punto «ch’io non lo soffersi» (Pg. IX 81). A parte il fatto, ripeto, che in inferno angeli non si danno, se il messo lo fosse stato non si capisce perché non presentasse il minimo problema di visibilità ravvicinata, ma anzi andasse osservato con attenzione («Or drizza il nerbo / del viso» If. IX 73-74) come ordina Virgilio, riecheggiando il suo Anchise che invitava Enea («Huc geminas nunc flecte acies» Aen. VI 788) a fissare lo sguardo su Cesare e Augusto destinati a imprese che avrebbero oscurato i viaggi e le fatiche del grande Alcide. Va sottolineato inoltre che l’angelo portinaio è un raro caso di angelo parlante, si presta dunque ad un ulteriore confronto sinottico con l’idioletto dell’uomo dalla verghetta:
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
(If. IX 91-99)
«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov’è la scorta?
Guardate che ’l venir su non vi noi».
«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
Rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: ‘Andate là: quivi è la porta’».
«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».
(Pg. IX 85-93)
Certo tra la brutalità minatoria dell’apostrofe (in sostanza: se non volete fare la fine di Cerbero ubbidite al volere divino) dell’innominato sicario che spalanca l’«orribil soglia» di Dite e la curialità leziosa del cortese portinaio che solennemente schiude la porta del purgatorio ce ne corre. Un abisso separa i due registri, e questo a prescindere dai diversi destinatari e contesti. Di fatto la lingua viene qui a connotare innanzi tutto i due locutori, e ne risulta chiaramente che un angelo dantesco non potrebbe parlare come il messo. La sua breve allocuzione brusca e autoritaria non compete al verbo angelico, per definizione «soave e benigno / qual non si sente in questa mortal marca» (Pg. XIX 44-45). Le parole del portinaio, così circonfuse di modalizzazioni, sono carezze se confrontate alle autoritarie mazzate verbali dell’altro, dove le violente metafore (mozzo, cozzo) tagliano e colpiscono anche per l’aspra cacofonia delle rime, dove l’accostamento tra un registro basso (pelato...’l gozzo), la magniloquenza dei pentasillabi (oltracotanza, recalcitrate), il ruggente quinario (Cerbero vostro) che introduce il minaccioso exemplum finale (con le tre interrogative retoriche che lo precedono) danno una marziale autorevolezza al locutore, dove l’esibita forza fisica si traduce in forza verbale. Saranno anche «parole sante» le sue ma non certo angeliche, men che mai quando definisce «le fata» (v. 97) i divini comandamenti, o quando piuttosto della vittoria di Michele arcangelo preferisce evocare la dodicesima fatica di Ercole.
Abbiamo constatato che l’entrata in scena degli angeli avviene in purgatorio nel rispetto di tutti i crismi (anche quelli dell’iconografia del tempo), ed è assurdo ipotizzare che, passando del tutto inosservato (e non è qui proprio il caso...), un angelo si sia infiltrato nell’inferno, quando oltretutto ben sappiamo fin dall’inizio della Commedia che il cielo – e la maghe tessale... – si servono proprio degli abitanti del limbo per le spedizioni infernali. Sgomberato dunque il campo dal fantasioso angelo dei commentatori, non avendo chi scrive nessun a priori se non quello di rispettare le regole del gioco dettate dall’autore, in una sorta di processo indiziario ho scelto di proseguire con un rapido regesto delle fonti di cui egli si è servito nel concepire i suoi «versi strani» e che forse sperava avremmo saputo riconoscere. In effetti ad una scelta mirata degli indizi disposti nel testo, quali la simbolica delle due similitudini (il turbine e la biscia), i tratti distintivi che connotano il personaggio e il suo idioletto, le entità storico-mitologiche successivamente chiamate in causa (Eritone, le Erinni, Medusa, Teseo, Cerbero), corrisponde un brassage altrettanto sapiente delle fonti esperite, alcune delle quali segnalate anche da esplicite spie testuali, e in particolare di Lucano, Stazio, Virgilio, Ovidio, come adesso vorrei sinteticamente elencare.
L’invenzione dell’anonimo castigatore di mostri Dante la prende dalla Farsaglia, da un passo che ha esercitato su di lui molteplici suggestioni. Nel VI libro, Eritone con un filtro magico ha deciso di resuscitare il cadavere ancora tiepido di un soldato romano insepolto affinché predíca l’esito della guerra civile al figlio di Pompeo; stanca degli indugi che le Erinni le impongono, insulta le «cagne dello Stige» Tisifone e Megera, chiamandole per nome come Virgilio farà con Dante («Quest’è Megera dal sinistro canto; / quella che piange dal destro è Aletto; / Tesifón è nel mezzo...» If IX 46-48):
«Tisiphone vocisque meae secura Megaera,
non agitis saevis Erebi per inane flagellis
infelicem animam? Iam vos ego nomine vero
eliciam Stygiasque canes in luce superna
destituam; per busta sequar, per funera custos;
(Phars. VI 730-734)
[«Tisifone e Megera, sorde alla mia voce, con sferze crudeli non cacciate attraverso il vuoto dell’Erebo quest’anima disgraziata? Vi chiamerò con il vostro vero nome, cagne dello Stige, quassù nell’aria superna, e lì vi lascerò inseguendovi ostinata per tombe e sepolcri»]
E infine, a corto di argomenti, minaccia di far intervenire in suo soccorso un misterioso personaggio, che risiede in una zona franca del Tartaro, fa tremare la terra sotto i suoi passi, sprezza le acque dello Stige, è invulnerabile ai mostri infernali e in particolare (caso più unico che raro) alla Gorgone la cui visione pietrificante le Furie avevano minacciato pure a Dante. Costui, sempre innominato, innominabile visto il suo carisma terrifico, come il messo dantesco viene velato dietro una sequela di pronomi:
[...] Paretis, an ILLE
conpellandus erit, quo numquam terra vocato
non concussa tremit, qui Gorgona cernit apertam
verberibusque suis trepidam castigat Erinyn,
indespecta tenet vobis qui Tartara, cuius
vos estis superi, Stygias qui peierat undas?
(Phars. VI 744-749)
[Obbedite. O dovrò chiamare colui che sempre, invocato, scuote e sconvolge la terra e fissa apertamente la Gorgone e castiga a colpi di frusta l’Erinni atterrita, colui che abita il Tartaro, in regioni a voi invisibili, di cui siete gli dei, e spergiura sulle onde stigie?]
Si può ribadire che troviamo in questo passo molti degli ingredienti della mitologica sceneggiatura dantesca: è Eritone, la locutrice lucanea, a creare il nesso col nono canto; poi la stessa serie pronominale a qualificare l’anonimo abitatore degli inferi, gli stessi effetti devastanti sulla terra, la stessa indifferenza per le acque stigie, la stessa funzione di castigatore delle Erinni, la stessa insensibilità alla Medusa. La sola variante verrà a consistere nel fatto che, a differenza di Dante e Virgilio, Eritone non avrà neppur bisogno dell’aiuto di costui in quanto basterà la minaccia della sua venuta per provocare la resa senza condizioni delle Furie e l’immediata resurrezione del milite ignoto. Ecco dunque che il cenno al precedente viaggio di Virgilio voluto proprio dalla maga tessala (che poteva parere gratuito in quel contesto) assume così la precisa valenza di un indicatore testuale della fonte esperita. È in effetti Eritone colei che parla alle Erinni (che come nella Commedia ritardano il protagonista nella sua missione infernale) e che in Lucano annuncia l’arrivo dell’innominato fustigatore dei mostri infernali.
Veniamo adesso agli attributi con cui l’autore caratterizza il messo. Non ci sono dubbi nel riconoscerne la fonte nel Mercurio di Stazio che nei primi due libri della Tebaide ne descrive il descensus e poi la risalita dagli inferi. Siamo nuovamente in ambito necromantico: l’invenzione staziana vuole che il dio, su ordine del padre Giove, scenda nel Tartaro e riporti in terra l’ombra di Laio affinché possa predire gli esiti della tebana guerra fratricida.
Paret Atlantiades dictis genitoris et inde
summa pedum propere plantaribus illigat alis,
obnubitque comas et temperat astra galero.
Tum dextrae virgam inseruit, qua pellere dulces
aut suadere iterum somnos, qua nigra subire
Tartara et exsanguis animare adsueverat umbras.
Desiluit, tenuique exceptus inhorruit aura.
Nec mora, sublimis raptim per inane volatus
carpit et ingenti designat nubila gyro.
(Theb. I 303-311)
[Il nipote d’Atlante obbedisce alle parole del padre: subito, in tutta fretta, lega ai piedi le ali, e copre le chiome col petaso, mitigando la luce degli astri. Poi prese in mano la verga, di cui si serviva per allontanare o per conciliare di nuovo il dolce sonno, per penetrare nel nero Tartaro e dare la vita alle ombre incorporee. Si lanciò giù e, al contatto dell’aria sottile, provò un brivido. Nessun indugio: prende rapido il volo, in alto, attraverso il vuoto e lascia un’ampia traccia tra le nubi.]
I personaggi citati e i luoghi, tanti minuti dettagli, e soprattutto puntuali riscontri testuali indicano concordemente in direzione del divino messaggero. Egli ha, come detto, la missione di prelevare per ordine del cielo uno spirito dannato (analogamente al Virgilio dantesco, asservito a Eritone). Viene inoltre specificato che impugna nella destra la verghetta che permette di penetrare nel Tartaro (Theb. I 306-308).
Interea gelidis Maia satus aliger umbris
iussa gerens magni remeat Iovis; undique pigrae
ire vetant nubes et turbidus implicat aer,
nec zephyri rapuere gradum, sed foeda silentis
aura poli. Styx inde novem circumflua campis,
hinc obiecta vias torrentum incendia cludunt.
(Theb. II 1-6)
[Frattanto l’alato figlio di Maia ritorna dal regno delle fredde ombre, eseguendo gli ordini del possente Giove: d’intorno torpide nubi gli ostacolano il cammino, l’aria fosca l’avvolge; né su zefiri leggeri scorre veloce ma tra i grevi lezzi del mondo del silenzio. Da una parte è lo Stige, che scorre nove volte intorno ai suoi campi, dall’altra i torrenti di fuoco gli sbarrano la via.]
Il suo volo rasente sconvolge la selva. Grazie ai calzari alati che indossa il messo di Giove può sorvolare lo Stige attraversando «l’aere grasso» (foeda aura) della palude e la terra si apre dinanzi a lui.
it tamen et medica firmat vestigia virga.
Tum steriles luci possessaque manibus arva
et ferrugineum nemus adstupet, ipsaque Tellus
miratur patuisse retro [...]
(Theb. II 11-14)
[Tuttavia avanza, e rafferma i suoi passi con l’aiuto della verga magica. Allora gli sterili boschi e i campi dimora dei mani e la selva di colore ferrigno restano attoniti; pure la Terra si stupisce d’essersi aperta per consentire il ritorno.]
Anche qui non mancano riferimenti alle maghe tessale e alle Erinni:
«Vade» ait, «o felix, quoscumque vocaris in usus,
seu Iovis imperio, seu maior adegit Erinys
ire diem contra, seu te furiata sacerdos
Thessalis arcano iubet emigrare sepulcro
(Theb. II 19-22)
[«Vai, fortunato, qualunque sia il compito a cui ti si chiama: o che il volere di Giove, o, più potente, la Furia ti spinga incontro alla luce, o che una maga tessala, in preda al furore, ti costringa a uscire dal fondo della tomba]
Il dio alato è affrontato da Cerbero e lo annienta grazie alla verga soporifera:
Illos ut caeco recubans in limine sensit
Cerberus atque omnis capitum subrexit hiatus
– saevus et intranti populo –, iam nigra tumebat
colla minax, iam sparsa solo turbaverat ossa,
ni deus horrentem Lethaeo vimine mulcens
ferrea tergemino domuisset lumina somno.
(Theb. II 26-31)
[Cerbero, feroce pure con chi entra, si avvide di loro, dalla soglia nascosta su cui stava accucciato, e rizzò le sue teste, spalancando le fauci: già minaccioso gonfiava i neri colli, e avrebbe scompigliato qua e là le ossa sul suolo, se il dio, ammansando con la verga letea la sua furia, non avesse domato gli occhi ferrigni con triplice sonno.]
anch’egli, come il collega dantesco, muove le braccia per allontanare le esalazioni della palude.
Hac et tunc fusca volucer deus obsitus umbra
exsilit ad superos, infernaque nubila vultu
discutit et vivis adflatibus ora serenat
(Theb. II 55-57)
[Di qui anche allora, avvolto da nera nebbia, il dio alato sale alla luce del mondo; scuote dal viso la foschia infernale e ristora il volto con l’aria vitale.]
Ecco dunque qui il ben noto riscontro testuale. Il calco si rivela palese nei versi: «Dal volto rimovea quell’aere grasso, / menando la sinistra innanzi spesso» (If. IX 82-83) che rappresentano in qualche modo il pegno che l’imitatore paga alla fonte, il marchio dell’imitatio. Ritroviamo insomma anche nella Tebaide la stessa sequenza dantesca: i rituali necromantici delle maghe tessale, le Erinni che ostacolano la missione, la Gorgone, Cerbero, e l’inviato divino armato di verghetta. E se ci limitassimo agli indizi che ci forniscono gli attributi scelti per connotare il personaggio del «messo», e alla fonte primaria alla quale l’autore ha attinto per sbozzarne i tratti non ci sarebbero molte possibilità di dubbio: come sostenne senza esitare Pietro Alighieri, e con lui Benvenuto e altri autorevoli antichi, non può trattarsi che del messaggero degli dei, del Mercurio di Stazio.
Se quello staziano fosse stato il solo modello utilizzato da Dante nel concepire il IX canto il discorso potrebbe dirsi felicemente chiuso. Il fatto è che sono rinvenibili altrettanti riscontri, relativi a un evento analogo, cioè a un viaggio nelle viscere della terra, sempre per aprire delle porte sbarrate e per castigare un mostro, che però rinviano a tutt’altro personaggio. Non più un dio come Mercurio che nulla avrebbe a che spartire col limbo, ma un eroe, come Enea o Orfeo, che vi troverebbe naturalmente posto accanto ai suoi cantori Virgilio, Ovidio, Lucano. Mi riferisco a quanto narrato nel VIII libro dell’Eneide dove Ercole furens libera Roma da Caco (etimologica nonché mostruosa incarnazione del male) che gli aveva rubato alcune delle vacche che a sua volta l’eroe aveva rubate al re pastore iberico Gerione nella X fatica di cui questo episodio romano viene ad essere un’appendice. Ercole ne scoperchia la dimora sotterranea e fattosi strada tra il fumo e le fiamme lo uccide. L’episodio inizia con l’arrivo a Roma del «maximus ultor», di colui che è dunque il vendicatore per antonomasia:
Attulit et nobis aliquando optantibus aetas
auxilium adventumque dei. Nam maximus ultor,
tergemini nece Geryonae spoliisque superbus,
Alcides aderat [...]
(Aen. VIII 200-203)
[Venne anche per noi, alla fine, il tempo bramato del soccorso per intervento di un dio. Infatti il supremo vendicatore, fiero dello sterminio dei tre corpi di Gerione e delle sue spoglie, l’Alcide qui giunse...]
e poi la corsa furiosa, la mano dell’eroe che impugna la mazza, il mostro atterrito che con ali ai piedi fugge a nascondersi:
Hic vero Alcidae furiis exarserat atro
felle dolor: rapit arma manu nodisque
gravatum robur et aërii cursu petit ardua montis.
Tum primum nostri Cacum videre timentem
turbatumque oculi: fugit ilicet ocior euro
speluncamque petit: pedibus timor addidit alas.
(Aen. VIII 219-224)
[Allora sì all’Alcide furioso divampò per scuro fiele il dolore: afferra le armi tra mano, la mazza pesante di nodi; e in alto, di corsa, raggiunge la vetta del monte. Allora per la prima volta i nostri videro Caco atterrito e sconvolto il suo sguardo: fugge all’istante, più veloce dell’euro, in direzione della spelonca: ai suoi piedi il timore aggiunge le ali.]
Anche qui viene ripresa una precisa citazione testuale come Dante aveva fatto con la fonte staziana (la sinistra che allontana il fumo), in questo caso sarà l’antropomorfico tremore delle rive del fiume:
[...] inde repente
impulit, impulsu quo maximus intonat aether,
dissultant ripae refluitque exterritus amnis.
(Aen. VIII 238-240)
[poi d’un rapido colpo la spinse, colpo a cui altissimo rintrona l’etere, sussultano squarciandosi le rive e rifluisce atterrito il fiume.]
L’immagine riferita dapprima alle sponde del Tevere viene replicata poco dopo nel carme in onore di Ercole Invitto («Te Stygii tremuere lacus» Aen. VIII 296) corrisponde esattamente al dantesco «per cui tremavano amendue le sponde» (If. IX 66), che nella Commedia sono quelle dello Stige come nella seconda occorrenza virgiliana. Subito dopo è descritto l’ingresso dell’eroe nella caverna sotterranea, paragonato all’aprirsi della terra sugli abissi infernali:
non secus ac si qua penitus vi terra dehiscens
infernas reseret sedes et regna recludat
pallida, dis invisa, superque immane barathrum
cernatur, trepident immisso lumine manes.
(Aen. VIII 243-246)
[non diversamente che se in profondità, per qualche forza, la terra spalancandosi aprisse le sedi infernali e i regni schiudesse del pallore, agli dei odiosi, e dall’alto lo smisurato baratro si scorgesse e, trepidanti per l’intrusione del lume, i mani.]
Il mostro cerca di annebbiare la vista di Ercole con una cortina fumogena
Ille autem (neque enim fuga iam super ulla pericli)
faucibus ingentem fumum (mirabile dictu)
evomit involvitque domum caligine caeca,
prospectum eripiens oculis, glomeratque sub antro
fumiferam noctem commixtis igne tenebris.
Non tulit Alcides animis seque ipse per ignem
praecipiti iecit saltu, qua plurimus undam
fumus agit nebulaque ingens specus aestuat atra.
(Aen. VIII 251-258)
[Ma l’altro (infatti, di scampare, non gli rimane ormai alcun modo dal pericolo) dalle fauci un immenso fumo (incredibile, a dirlo), vomita e avvolge la casa di una caligine impenetrabile, ogni vista togliendo agli occhi, e addensa nell’antro una fumosa notte, mescolando fuoco alle tenebre. Non lo tollerò l’Alcide nella sua ira e lui stesso attraverso le fiamme a testa bassa si gettò con un balzo dove più denso ondeggia il fumo e di nubi l’immensa spelonca ribolle, scure.]
E anche il fumo dello Stige che annebbia la vista, in Inferno IX era stato menzionato al v. 75 («ove quel fummo è più acerbo»). Dopo l’uccisione di Caco, Ercole «divelte le porte» dell’oscura dimora infernale libera gli armenti rubati e libera Roma da un incubo: «Panditur extemplo foribus domus atra revolsis» (Aen. VIII 262). L’evento, narra Virgilio, varrà a Ercole l’erezione dell’Ara Massima e culti annuali nel corso dei quali si rievocheranno le fatiche dell’eroe, in particolare quella di Cerbero:
Te Stygii tremuere lacus, te ianitor Orci
ossa super recubans antro semessa cruento;
(Aen. VIII 296-297)
[Per te dello Stige tremarono i laghi, per te il portiere dell’Orco sopra le ossa accosciato, corrose, nell’antro sanguinolento.]
Ancora il terremoto, le acque che si ritraggono, il cane terrorizzato, tutti gli ingredienti insomma che circondano il messo come pure il fracasso che ne accompagnò la furiosa discesa punitiva: «Consonat omne nemus strepitu collesque resultant» («Risuona insieme tutto il bosco alle loro voci e i colli rimbombano» Aen. VIII 305)
Abbiamo individuato tre fonti, tutte e tre relative a discese nelle viscere della terra: quella minacciata di un’anonima divinità in Lucano, quella del messaggero degli dei in Stazio, quella di un eroe in Virgilio. Dante seguendo una prassi che gli è abituale, avvalendosi di materiali di diversa provenienza, ha rifuso le sue fonti nei «versi strani», per farne qualcosa di allusivamente nuovo. Ora se è evidente che non abbiamo a che fare con un angelo è comunque costoso immaginare anche che possa trattarsi di Mercurio. L’alato dio di Cillene è una divinità pagana, dunque per Dante da mettere sullo stesso piano di Giove o di Marte (cfr. Pd. IV 63) e degli altri che appartennero al mondo e al tempo degli dei «falsi e bugiardi». In virtù di quali meriti egli si troverebbe tra gli uomini e le donne del limbo che per l’autore hanno tutti avuto una concreta esistenza storica? Nulla negli scritti danteschi potrebbe giustificare il fatto che Mercurio possa essere stato riciclato al servizio del nuovo dio. E quand’anche si trattasse di lui, visto che è uno dei pochi che abbiano ammansito Cerbero, perché mai verrebbe a citare l’impresa di un altro e non la sua propria? e poi, quello di Dante non è propriamente un «messaggero» ma qualcuno che è stato inviato dal cielo per permettere a un essere vivente di valicare le colonne d’Ercole del mondo sotterraneo. Ora, che il dio dei cristiani spedisca in aiuto a un cristiano un dio pagano è veramente arduo da immaginare, non lo è invece che vi mandi un uomo pagano dotato di particolari virtù: Virgilio ne è la riprova testuale, e d’altronde costui aveva a suo tempo offerto i suoi servigi proprio a Virgilio prevedendo già che non sarebbe stato in grado di convincere e ancor meno di vincere i «demon duri» («Maestro tu che vinci / tutte le cose, fuor che’ demon duri / ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci» If. XIV 43-45, come ironizzerà retrospettivamente Dante di lì a poco). Mentre tutte le possibili obiezioni su elencate mi pare che vengano a cadere privilegiando la fonte virgiliana e dunque l’opzione Ercole. Personaggio che d’altronde Dante cita sovente, nella Commedia e in altri scritti, in modo sempre elogioso, alludendo più volte alla sua funzione di portiere del mondo, ricordandone le donne amate – Deianira e Iole –, riutilizzandone anche in ruoli di primo piano gran parte delle vittime più illustri – Gerione, i Centauri, Caco, Nesso, i Giganti, Anteo, Cerbero, le Arpie, le Erinni, Medusa ecc. –. Sarebbe insomma proprio l’invitto domatore di tutti questi mostri il grande assente dell’inferno dantesco?
Riepilogando ora brevemente, dietro il velame rappresentato dall’innominato personaggio infernale della Farsaglia, e dietro quello degli attributi e le prerogative di Mercurio nella Tebaide (cioè la funzione di inviato celeste, le precedenti missioni nel Tartaro, l’incontro con Cerbero, la capacità di planare sullo Stige coi calzari alati, la verghetta impugnata nella mano destra e l’altra mano che allontana le esalazioni della palude) in realtà non si dissimula un dio pagano uscito da chissà dove, ma bensì un eroe greco disceso dal limbo. La chiave testuale che fornirà l’indizio e innescherà le altre innumerevoli associazioni mi pare stia tutta in quell’allusione con la quale egli minaccia una replica della XII fatica: «Cerbero vostro... ne porta ancor pelato il mento e il gozzo» dove Ercole, rivolto ai demoni e alle Furie, alluderebbe concretamente a se stesso, alla sua precedente discesa (l’ultima fatica, nella quale trasse in catene il cane posto a guardia delle porte infernali) che Dante ha potuto ricavare da Ovidio:
[...] Specus est tenebroso caecus hiatu,
et via declivis, per quam Tirynthius heros
restantem contraque diem radiosque micantes
obliquantem oculos nexis adamante catenis
Cerberon adtraxit, rabida qui concitus ira
implevit pariter ternis latratibus auras
et sparsit virides spumis albentibus agros.
(Met. VII 409-415)
[C’è una spelonca buia, dall’imboccatura tenebrosa: da qui, per una via in declivio, Ercole, l’eroe di Tirinto, trascinò fuori, legatolo con catene di duro metallo, Cerbero che s’impuntava e storceva gli occhi non sopportando la luce e il brillio dei raggi. E il cane, divincolandosi infuriato, riempì il cielo di tre latrati in una volta e spruzzò i verdi campi di bava bianchiccia.]
Ercole, che nella tradizione greco-latina è l’eroe per antonomasia, l’indomito simbolo della lotta del bene contro il male (non per nulla dei personaggi della mitologia pagana è uno dei rari ad essere stato riabilitato dal pensiero cristiano, moralizzato, addirittura recuperato come prefigurazione di Cristo –cfr. Simon 1955: 167-188-), all’epoca veniva assimilato correntemente a Sansone e da Dante, nella Monarchia, viene accostato a Davide che vince Golia:
Quod si contra veritatem ostensam de inparitate virium instetur, ut assolet, per victoriam David de Golia obtentam instantia refellatur; et si Gentiles aliud peterent, refellant ipsam per victoriam Herculis in Antheum. Stultum enim est valde vires quas Deus confortat, inferiores in pugile suspicari. (Mn. II ix 11)
[E se in opposizione alla verità che è stata dimostrata si solleva l’obiezione della disparità delle forze, come si è soliti fare, si può replicare ricordando la vittoria riportata da Davide su Golia; e se i pagani pretendessero un altro esempio, si può replicare ricordando la vittoria di Ercole su Anteo. Infatti sarebbe veramente pazzesco pensare che possa soccombere un campione, le cui forze sono aiutate da Dio.]
Sostenuto dal cielo, atleta invitto, è comunemente chiamato sotèr, in quanto salvatore dell’umanità dai mostri e dai giganti, vincitore delle forze infernali, sempre al servizio della volontà divina è pure colui che con le Colonne («dov’Ercule segnò li suoi riguardi» If. XXVI 108) pone i limiti invalicabili all’uomo. Nulla vi sarebbe di strano che fosse lui a esorcizzare le Erinni e a permettere all’uomo Dante (l’Ulisse cristiano) di varcare le porte sbarrate dell’inferno. In particolare la narrazione virgiliana (e ovidiana) dell’impresa svoltasi nelle viscere della terra contro Caco (che Dante preferirà, con Ovidio, veder ucciso a colpi di mazza, anziché strangolato come nell’Eneide) in cui Ercole libera Roma dal mostruoso pastore, rappresenta come abbiamo appena visto delle fonti forse quella più sfruttata nel nono canto: la funzione salvifica di esecutore divino, il terremoto, il ritrarsi del fiume e delle sue rive (ripreso a testo), l’assimilazione della dimora sotterranea di Caco coi regni infernali, il fumo emesso da Caco per ostacolare la discesa dell’eroe, l’apertura finale delle porte dell’antro del pastore che gli aveva rubato le vacche, il fracasso che accompagna l’impresa, l’evocazione del terrore di Cerbero e così via. Al punto d’altronde che l’episodio sarà da Dante ampiamente sviluppato alcuni canti dopo, descrivendo Caco, non per nulla né per caso posto a guardia della bolgia dei ladri.
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
(If. XXV 22-33)
Non ci vuol molto a capire (anche se non mi risulta che qualcuno l’abbia fatto notare) perché Dante trovasse così suggestiva questa tarda appendice italica della decima fatica, che narra appunto l’uccisione da parte di Ercole del romano pastore-ladro, che viene in effetti ad essere una delle tante ricorrenze di uno stesso leitmotiv antipapale che inizia con l’uccisione della lupa da parte del cane mandato dal cielo («la farà morir con doglia» If. I 102) passa per l’uccisione della fuia e del gigante da parte del «messo di Dio» («anciderà la fuia» Pg. XXXIII 44) e percorre tutta la Commedia. Se, fuor di metafora, Caco è ovviamente emblema del papa-ladro non sarà temerario ipotizzare che, per Dante, Ercole fosse prefigurazione del giusto-imperatore che ne libererà il mondo riprendendosi il potere temporale (il «grande armento» per Dante, quattro tori e quattro giovenche per Virgilio, due tori per Ovidio...). Con Ercole assumerebbero anche il loro senso pieno le due similitudini che introducono il messo, la prima col fuggi fuggi delle «fiere» e dei «pastori» al v. 72 (e non di pecore e agnelli, come ci aspetteremmo) fa pensare a tante delle erculee fatiche le cui vittime furono proprio fiere e mostri di ogni sorta (Toro, Leone, Cerva, Cinghiale, Centauri, Uccellacci) e pastori appunto (Gerione, Caco). La seconda addirittura cita «la nimica biscia» (vv. 76-77) cioè l’Idra, e sappiamo che l’Idra di Lerna rappresenta una delle più memorabili fatiche, da Dante altrove sfruttata metaforicamente.
In quest’ottica non stupirà dunque che, con l’abituale scrupolo linguistico, a completare il ritratto di Ercole (come abbiamo visto, per l’actio in gran parte ricavato da Virgilio), nel concepire le tre terzine nelle quali il messo apostrofa i diavoli nel IX canto dell’Inferno Dante, a livello dell’elocutio, si sia ispirato alle particolari movenze sintattiche della celeberrima tirata nella quale l’Ercole morente ovidiano (è per l’appunto il IX libro delle Metamorfosi quello consacrato all’eroe...), rivolto alla noverca Giunone, rievoca le sue imprese attraverso l’incalzante succedersi di dieci interrogative retoriche che esemplifico citandone qui una dozzina di versi:
Ergo ego foedantem peregrino templa cruore
Busirin domui? saevoque alimenta parentis
Antaeo eripui? nec me pastoris Hiberi
forma triplex, nec forma triplex tua, Cerbere, movit?
Vosne, manus, validi pressistis cornua tauri?
vestrum opus Elis habet, vestrum Stymphalides undae
Partheniumque nemus? vestra virtute relatus
Thermodontiaco caelatus balteus auro,
pomaque ab insomni concustodita dracone?
Nec mihi Centauri potuere resistere, nec mi
Arcadiae vastator aper? nec profuit hydrae
crescere per damnum geminasque resumere vires?
(Met. IX 182-193)
[E così sono stato io a domare Busiride che lordava di sangue di forestieri i templi? a togliere al malvagio Anteo le forze che gli ridava sua madre? a non lasciarmi spaventare né dalla triplice forma del mandriano d’Iberia, né dalla tua triplice forma, o Cerbero? Siete state voi, mani mie, a far chinare le corna al toro possente? voi a compiere le imprese dell’Elide, della palude di Stinfalo, del bosco del Partenio? voi a permettere col vostro valore la conquista della cintura cesellata, fatta con l’oro del Termodonte, e dei pomi custoditi dal drago insonne? È stato a me che non hanno potuto resistere i Centauri, che non ha potuto resistere il cinghiale che devastava l’Arcadia? è stato per me che all’idra non è servito ricrescere ad ogni taglio e riacquistare doppia forza sdoppiandosi?]
È così che, nel creare la lingua del messo, Dante autore replica su scala ridotta, con tre interrogative, il fraseggio dell’Ercole ovidiano
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo, [IDRA II]
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo? [CACO X]
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». [CERBERO XII]
(If. IX 91-99)
E se non bastasse la sintassi, anche il contenuto non è da meno: ritroviamo in quel «dar di cozzo» (in rima, al v. 97) un implicito rinvio alle molteplici fatiche in cui Ercole colpisce (dà di cozzo) con la clava le sue vittime e in particolare a quella di Caco prediletta da Dante. Vi è poi l’evocazione esplicita della dodicesima fatica, quella di Cerbero (vv. 98- 99). E infine, trasformata in una complessa metafora (ai versi 95-96) ritroviamo pure la seconda fatica, con l’idra di Lerna che chiaramente traspare in quel fine che non si può mai mozzare e in quella doglia che ripetutamente rispunta, come le proverbiali teste dell’idra, che sia pur mozze sempre ricrescono e si moltiplicano. Immagine anch’essa cara a Dante e da lui riutilizzata pochi anni dopo in funzione esplicitamente imperiale in una delle epistole ad Arrigo, il nuovo Davide («proles altera Isai» Ep. VII 29) venuto ad abbattere il nuovo Golia:
Tu Mediolani tam vernando quam hiemando moraris et hydram pestiferam per capitum amputationem reris extinguere? Quod si magnalia gloriosi Alcide recensuisses, te ut illum falli cognosceres, cui pestilens animal, capite repullulante multiplici, per damnum crescebat, donec instanter magnanimus vite principium vite impetivit. [...] Quid, preses unice mundi, peregisse preconicis cum cervicem Cremone deflexeris contumacis? nonne tunc vel Brixie vel Papie rabies inopina turgescet? (Ep. VII 20, 22)
[Tu ti fermi l’inverno e la primavera a Milano e pensi in questo modo di uccidere l’idra pestifera tagliandole le sue teste? Se tu ricordassi le grandi gesta del glorioso Ercole, sapresti che ti inganni come lui, di fronte al quale il velenoso animale, riformandosi le sue molte teste, riacquistava forze dai colpi, fino a che quel magnanimo ne attaccò, senza dargli tregua, il principio stesso della vita ... Che pensi di avere compiuto, unico presidio del mondo, quando avrai piegato la testa della ribelle Cremona? Forse che allora non scoppierà una rabbia improvvisa o a Brescia o a Pavia?]
Ancora, dietro l’amaro sarcasmo delle interrogative retoriche dell’esule fiorentino, riappare l’idra sulla quale Ercole appunto (come l’imperatore dovrebbe) finì coll’avere il sopravvento. Anche nel nono canto infernale incontriamo le azioni archetipiche dell’erculeismo, reale e figurato: tagliare, amputare, colpire con la mazza, strozzare le sue vittime, che traspaiono dalla violenza e dalla pertinenza di tante scelte lessicali (mozzo, cozzo, gozzo, stringa, morda). «Glorioso» e «magnanimo» sono poi i due attributi (più che consoni a un abitatore del limbo) coi quali Dante qualifica l’eroe che liberava dai mostri la terra e il mare , di cui l’uno lo troviamo in Lucano: «...terras monstris aequorque levantem / magnanimum Alciden» (Phars. IV 610-611) e l’altro, topico, è ricavabile dalla pseudo-etimologia latina del nome Ercole, che come insegna Bernardo Silvestre (1977: 56, 87):
ALCIDES interpretatur fortis et pulcher per quem practicum accipimus qui gloria rerum gestarum pulcher est. Unde Hercules quasi gloria litis dicitur: her lis, cleos gloria. [...] ALCIDEM: Hercules ad inferos descendit, sed quia semideus fuit, exitus ei retro patuit et ianitorem Cerberum vinctum extraxit. Hercules virtuosum significat. Unde nomina congruunt. Dicitur enim Hercules Grece, gloria litis Latine; labor enim eum celebrem reddit. Unde Boetius: «Herculem duri celebrant labores». Dicitur et Alcides quasi fortis et formosus. Fortis notat virtutem, formosus gloriam. Hic ad inferos descendit dum contemplatione ad temporalia venit, sed quia est semideus, id est rationalis et immortalis in anima, irrationabilis et in corpore mortalis, redit dum ab eis ad celestia resurgit.
Ercole suona dunque gloria litis (colui che trionfa nei conflitti, che vince le battaglie) appunto come il TAL che si era offerto di «vincer la punga» (If. IX 7-8) per conto di Virgilio, laddove l’autore avrebbe utilizzato nel testo (come sovente nella Commedia) l’etimologia vulgata del nome di un personaggio. Se nulla in Dante è irrelato, tutti gli indizi sembrano convergere verso questa decodifica del messo, e anche la prima citazione dell’innominato – vincer la punga – corrisponderebbe esattamente all’interpretatio nominis.
Ma allora perché proprio Ercole? E soprattutto, perché tanta reticenza, tante precauzioni attorno al suo nome? Perché Ercole all’epoca di Dante è un emblema imperiale di consolidata e immediata evidenza (a differenza di Teseo, Orfeo, Ulisse, financo di Enea) che fin dal primo secolo era ufficialmente entrato a far parte della simbologia e dell’iconografia imperiale romana e lo resterà lungo tutto il basso impero. Come nel caso dell’allegoria del veltro proemiale (1307) il Dante dell’Inferno dà prova ancora di una qualche prudenza nelle sue sortite filoghibelline, velate da mille precauzioni e riservate agli iniziati della sua parte («li ’ntelletti sani») che soli sapranno decifrare il vero senso dei «versi strani». Mentre poi le prese di posizione filoimperiali, dopo l’elezione di Arrigo, si faranno esplicite nelle epistole del 1310- 1311, e molto più chiare nella profezia del 1312 che chiuderà il Purgatorio annunciando l’avvento del «messo di Dio» che ucciderà ladri e giganti, già adombrato a mio avviso nell’erculeo «messo» del nono canto. E concludendo, se proprio mi si costringesse ad azzardare una possibile spiegazione della «dottrina che s’asconde» direi che la città di Dite, del diavolo e della frode, le cui porte sono state chiuse in faccia a Dante è ovviamente Firenze («... la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra» Pd. XXV 4-6), che i demoni e i mostri che la occupano sono i suoi vendicativi avversari politici, e in particolare, la Medusa che minacciano di mostrargli per pietrificarlo, rappresenta la condanna a morte che pende sul suo capo. Il salvatore sognato che restaura la giustizia, libera dai mostri per missione divina e che esibendo la propria forza senza bisogno di violenza riapre le porte della città all’esule è quello stesso che si concretizzerà alcuni anni dopo nell’erede dell’impero dell’ultimo canto purgatoriale. Attribuire dunque l’identità di Ercole all’innominato personaggio permetterebbe forse di dare una coerenza d’insieme a tutto l’episodio narrato nel canto.