Dati bibliografici
Autore: Antonio Soro
Tratto da: I cantieri dell'Italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo
Editore: ADI Editore, Roma
Anno: 2016
Nella Divina Commedia vi sono oltre venti appelli diretti al lettore. Ma quello che Dante rivolge nel IX canto dell’Inferno dinanzi alla porta della città di Dite, si distingue per la sua seducente oscurità. Il poeta ci invita – quasi ci sfida – a meditare la dottrina che si nasconde «sotto ’l velame» di versi definiti «strani». Quale sarà la natura del «velame»? A che «dottrina» si riferirà? Dante e il suo maestro, nel quinto cerchio, respirano una atmosfera di timore e di ansia nell’attesa di un intervento celeste, promesso da Beatrice, che Virgilio teme possa non arrivare: «“Pur a noi converrà vincer la punga,” | cominciò el, “se non… tal ne s’offerse. | Oh, quanto tarda a me c’altri qui giunga!”».
Alla cima rovente dell’alta torre li attendono le tre Furie, subito riconosciute da Virgilio. «Le meschine | de la regina de l’etterno pianto», viziose serve di Ecate, costituiscono un degno preludio per la città del male. Esse si agitano convulsamente alla vista dei due pellegrini, esternando la loro impotenza battendosi il petto. Non rassegnate, invocano chi potrà arrestare l’intruso: «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto». La chiamata mette Virgilio in stato di grande apprensione, perché egli sa che un solo fugace sguardo pietrificherebbe Dante.
Cosa Medusa rappresenti è dibattuto. Ma già l’Anonimo Selmiano la interpretava come «coscienza di peccati». Le Erinni avvisano che Dante diverrà «di smalto»: Giovanni Boccaccio spiega che la pietra di cui parlano «è lo smalto […] oggi ne' pavimenti delle chiese […] calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive mescolate e solidate […] quasi non men duro che sia la pietra». Egli aggiunge che l’allegoria riguarda i «caduti nella perseveranza del peccare, quasi della divina misericordia disperandosi».
È probabile che l’intera scena alluda ad una mancata confessione: guardare Medusa vuol dire osservare con orrore le proprie mostruosità, disperando della salvezza. A riprova di questa interpretazione, nel IX canto del Purgatorio troviamo l’allegoria di una confessione riuscita: Dante, invitato dall’angelo portinaio a salire tre gradini di accesso al luogo della purgazione, sul primo di essi – raffigurazione della contritio cordis - vede riflessa la sua immagine («Là ne venimmo; e lo scaglion primaio | bianco marmo era sì pulito e terso | ch’io mi specchiai in esso qual io paio»). Il duro e bianco marmo ci riporta alla spiegazione fornita dal Boccaccio per lo «smalto».
Dinanzi al pericolo immediato, Virgilio allerta Dante, il quale non fa in tempo a coprirsi gli occhi con le mani che il maestro, non fidandosi, mette a sua volta le proprie sopra quelle del discepolo. Segue l’appello enigmatico: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, | mirate la dottrina che s’asconde | sotto ’l velame de li versi strani».
Taluni, già a partire da Graziolo Bambaglioli, per arrivare a Manfredi Porena, ipotizzano che Dante, parlando di «versi strani», si riferisca alle terzine precedenti. Nicola Fosca, invece, ritiene che l’aggettivo «strani» alluda al fatto che Medusa possa riuscire a sbarrare la strada alla volontà divina, come immagine di un ateismo pietrificante».
Certi commentatori poi ritengono che Dante suggerisca di guardare sia ai versi che precedono che a quelli che seguono. Altri si orientano esclusivamente verso le terzine che vengono dopo l’invito ai lettori. È questo il caso di Giovanni Andrea Scartazzini e Giuseppe Vandelli, nonché di Umberto Bosco e Giovanni Reggio. Per gli ultimi due
la stretta analogia con un’altra esortazione inserita nel già citato dramma del Purgatorio («Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, | ché ’l velo è ora ben tanto sottile, | certo che ’l trapassar dentro è leggero»), ci persuade alla conclusione che essa riguarda l’ultima parte della rappresentazione, cioè l’arrivo e la vittoria del Messo.
Vedremo che la relazione tra le due terzine, già colta da Lodovico Castelvetro, chiarifica molte cose. Non mancano poi interpretazioni fuori dal coro. John Freccero sostiene che l'appello abbia per referente tutto il canto ma, in virtù di quanto afferma Dante nel quarto trattato del Convivio sulla nobiltà d’animo, l’ostacolo si riferisce al potere pietrificante della sensualità femminile, che egli conobbe con la donna delle rime “petrose”.
Giuseppe Mazzotta insiste sulla passione di gioventù, rilevando che Dante è prossimo al girone degli eretici e ricordando che, per la Patristica, gli «intelletti sani» erano quelli che interpretavano le Scritture secondo l’ortodossia.
Una recentissima teoria di Robert Hollander, infine, collega i «versi strani» all’atto di Virgilio di coprire gli occhi di Dante con le mani sue. La tesi - che vede personaggi come Medusa, Gerione e Anteo in un contesto “storico”, cioè operanti al presente nella fabula - fa leva sull’esegesi del verso 64: «E già venìa su per le torbide onde». Tale verso, sostiene lo studioso, «in fact begins a new portion of the narrative and thus lies outside the parameters of the reference». Perciò, si conclude, l’appello dantesco non ha nulla a che vedere con la scena dell’arrivo del Messo celeste. In realtà, proprio il verso 64, esordendo con “e già”, mette in evidenza piuttosto una successione frenetica di eventi che finiscono addirittura per sovrapporsi, sottolineando la prontezza del Messo che giunge esattamente nel momento del pericolo. Dunque non abbiamo una frattura, bensì continuità.
Invero, sembra che la natura del «velame» non possa essere specificata solo dai versi dell’Inferno. Anzitutto, bisogna partire dall’idea singletoniana del poeta-teologo che si rapporta sempre con le Sacre Scritture. Ed è ad un livello teologico-morale che questa relazione discute le terzine.
Ci sono chiari elementi testuali per affermare che Dante si riferisce sia ai versi precedenti che a quelli che seguono. Chi ha notato una analogia fra la terzina di Inf IX e quella di Pg VIII ha colto nel segno: velame da una parte, velo dall’altra. Se nell’Inferno per oltrepassare il velame occorrono intelletti sani, nel Purgatorio il velo «è ora ben tanto sottile | […] che ’l trapassar dentro è leggero» [corsivo mio]. Rimane da chiarire se l’avverbio ora alluda a un cambiamento improvviso o se Dante intenda comunicarci che quei versi sono più semplici da penetrare rispetto ai corrispettivi infernali. Quest’ultima eventualità è verificabile mediante una comparazione fra il prima e il dopo, raffrontando le pericopi delle due cantiche contrassegnate da elementi che paiono in corrispondenza. Confrontiamo dunque i passi: in una colonna poniamo Inferno IX 61-90 e nell’altra Purgatorio VIII 19-51. Ed è in questo modo che ci accorgiamo di aver compiuto un passo avanti.
I parallelismi strutturali fanno intuire che il «velame» deve essere penetrato in funzione dei testi delle due cantiche.
Nell’inferno giunge «da ciel Messo», sgomentando le anime perdute che si ritraggono assiepandosi. Egli apre la porta, rimuovendo così l’ostacolo rappresentato dai demoni, dalle Furie e dalla Gorgone. Dinanzi all’avanzare duro, inarrestabile dell’angelo, che cammina sull’acqua come Gesù [particolare che richiama la necessità di aver fede] regna lo sgomento proprio tra coloro che volevano incutere terrore al poeta. Le «mille anime» (l’equivalente dei fanti di un distaccamento di legione romano durante il Principato, o delle legioni sotto Valentiniano I e Valente, la vexillatio) scappano disponendosi come le rane appena un serpente entra nell’acqua: un singolo, invincibile, contro mille soldati.
In una similitudine derivata forse da Ovidio, il Messo appare simile a Mercurio nella descrizione che ne dà Stazio, mentre il dio riemerge dall’aria pestilenziale degli inferi tenendo in mano il caduceo». L’inviato dal cielo avanza agitando la mano sinistra per rimuovere dal volto il «fummo» denso; l’«aere grasso» che, per alcuni, rappresenta il peccato che offusca la grazia; un fumo che ottenebra l’intelletto. Il Messo apre la porta di Dite con una «verghetta», ripetendo il gesto di Mercurio quando entra nella camera di mezzo di Erse. Il significato morale della pericope sembra chiaro: il peccatore non deve mai disperare, anche nei momenti bui in cui il peccato più nefando pare travolgere ogni ‘ragionevole’ speranza. Dio interverrà, inviando un angelo che aprirà la strada di conversione all’uomo di fede. Ma questo per i dannati impenitenti ormai non può accadere.
Nel Purgatorio, invece, in un certo senso la scena si inverte: al posto delle tre Furie dalle idre verdi – colore che esprimeva la perdita di speranza – vi sono adesso gli angeli con le ali e con le vesti verdi (colore che al contrario qui denota speranza), e si mostrano le «tre facelle», le virtù teologali, essenziali per l’espiazione; elemento, questo, che pone le Erinni dantesche in antitesi con la fede, la speranza e la carità. Al posto delle rane della similitudine infernale qui ci sono le anime stesse, e il serpente è una presenza reale e non metaforica. Altre cose ancora sono cambiate: anzitutto gli spiriti, timorosi ma coscienti della necessità della grazia divina per superare il pericolo. Essi sono certi che il soccorso superiore è prossimo. Se prima imperversavano orgoglio e rabbia, nell’antipurgatorio regnano mansuetudine e umiltà. Gli angeli vigilano (e la similitudine naturale è stavolta serena), in maniera che il primo si piazza sulla verticale dei poeti, e l’altro «in l’opposita sponda». La moltitudine, sentendosi protetta, invece di fuggire, «in mezzo si contenne». «Again the image – commenta Charles Singleton - of an army camped at night and guarded by sentinels is dominant.». Del resto il salmista esorta Israele a sperare nella promessa del Signore e ad attenderne il compimento con maggior trepidazione di quella che prova la sentinella in attesa dell’aurora: «Sustinui Dominum, sustinuit anima mea, et verbum eius expectavi. Anima mea ad Dominum, a vigilia matutina usque ad vigiliam matutinam, expectet Israhel Dominum; quia apud Dominum misericordia, et multa apud eum redemptio»». Questi angeli ricordano i due cherubini che cacciarono Adamo ed Eva dall’Eden; ma stavolta essi tutelano gli uomini, nella valletta con fiori dai mille colori, da quello che pare il nemico primordiale, l’antico serpente che tentò Eva. Sordello spiega che i sorveglianti la valletta «vegnon del grembo di Maria», con chiara allusione a Gn 3, 15: «Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen illius; ipsa conteret caput tuum et tu insidiaberis calcaneo eius». Le parole di Sordello esprimono così la certezza che viene dalla fede: il serpente arriverà da un momento all’altro, ma l’intervento di Dio è sicuro.
Ecco dunque il contrasto tra il passo infernale e quello della seconda cantica: dinanzi a un male parossistico, la ragione si oscura e l’uomo rischia di disperare. Bisogna invece mantenere sano l’intelletto aggrappandosi saldamente alla dottrina cristiana per convincersi, in quella fitta nebbia che vela la mente, che la grazia divina è più grande di ogni peccato. La dottrina, dice Dante nel Convivio, «è via, veritade e luce: via, perché per essa sanza impedimento andiamo alla felicitade di quella immortalitade; veritade, perché non soffera alcuno errore; luce, perché allùmina noi nella tenebra della ignoranza mondana».
Nella valletta già si possono aguzzar ben li occhi a quella «veritade»: il comportamento dei principi negligenti pentiti serve di esortazione ai governanti che, in terra, con la loro ignavia, condiscendono alla fortificazione della città di Dite. Nel purgatorio invece si vive ormai nel piano della fede: gli spiriti conoscono la paura, ma possiedono un “intelletto sano”, cioè ortodosso; hanno fedeltà assoluta alla dottrina cristiana e possiedono dunque la certezza della paternità di Dio. “Intelletti sani” per San Tommaso, son quelli che rugumano, ruminano: «Ruminatio autem», scriveva il Doctor Angelicus, «significat meditationem Scripturarum, et sanum intellectum earum». Il velo è finalmente «ben tanto sottile [...] che ’l trapassar dentro è leggero» perché gli spiriti, colmi di fiducia, non si fanno vincere dalla disperazione e confidano in un aiuto anche dove la ragione è annebbiata dal male. Ciò che cambia è quindi il punto di vista: nell’inferno la visione è orbata da un velame impenetrabile. Scrive San Paolo a proposito degli Ebrei, nella speranza di una loro futura conversione:
obtusi sunt sensus eorum; usque in hodiernum enim diem id ipsum velamen, in lectione veteris testamenti, manet, non revelatum, quoniam in Christo evacuatur [ed è perciò che gli angeli «ambo vegnon del grembo di Maria»]. Sed usque in hodiernum diem, cum legitur Moses, velamen est positum super cor eorum. Cum autem conversus fuerit ad Deum, aufertur velamen.
Le parole dell’Apostolo ai Corinzi, ancor più, conferiscono alla enigmatica terzina dantesca un significato chiaro e grave per chi respinge la grazia:
si etiam opertum est evangelium nostrum, in his, qui pereunt, est opertum; in quibus Deus huius saeculi excaecavit mentes infidelium, ut non fulgeat inluminatio evangelii gloriae Christi, qui est imago Dei.
La scena infernale, così, ci rimanda a quel velo che, prima del sacrificio di Cristo, non poteva essere eliminato, e che permane incancellabile per le anime perdute. Perciò la via del pellegrino Dante, per brevi istanti, appare a Virgilio fatalmente sbarrata da Medusa, che gli sembra più potente della volontà divina. Il gesto del maestro esterna bene la rassegnazione: egli, convinto dell’onnipotenza della Gorgone, per pochi istanti non spera più in alcun intervento di Dio e perciò copre lui stesso gli occhi di Dante, con un comportamento strano per l'uomo di fede, appena prima del puntuale arrivo del Messo. Del resto, la sfiducia di Virgilio era già tema dominante dall’inizio del canto, da quel se non del verso 8 che lo mostrava vacillare e dubitare della promessa celeste. Dante, in un buio totale che oscura la verità e la ragione, si appella ai ettori che conservano l’intelletto sano, perché, lì dove nemmeno la sua guida osa più sperare, non perdano di vista la dottrina cristiana di salvezza.
Invece le anime del purgatorio, convertitesi alla fine della vita, ancora provano il timore per l’insidia del verme maligno respinto in extremis, ma sanno che il nemico ormai è stato reso definitivamente inoffensivo per quanti non temono di farsi umili davanti a Dio. Esse hanno ormai la garanzia che il Redentore ha squarciato per sempre il velo di tenebre. Scrive Paolo agli Ebrei che abbiamo ormai la «fiduciam in introitu sanctorum in sanguine Christi, quam initiavit nobis viam novam et viventem per velamen, id est carnem suam».