Dati bibliografici
Autore: Sergio Cristaldi
Tratto da: Esperimenti danteschi. "Inferno" 2008
Editore: Marietti, Genova-Milano
Anno: 2009
Pagine: 81-94
[Lezione tenuta il 10 marzo 2005 — Università degli Studi di Milano. La lezione del 12 marzo 2008, tenuta dal professor Took, d'accordo con l’autore, è stata sostituita con la lezione del professor Cristaldi della precedente edizione. Ringraziamo il professor Cristaldi della concessione.]
«Così scendemmo ne la quarta lacca». Il canto VII è iniziato da poco; il poeta ha appena finito di riferire l'incontro con Pluto, e adesso, al verso 16, passa a narrare la visita al nuovo settore infernale. Del resto, quel demonio ne è appunto il guardiano. Sembra ribadita la coincidenza tra canto e cerchio, puntualmente assecondata nei precedenti canti. Eppure non è esattamente così. Pluto era stato già avvistato alla fine del canto VI: quell’anticipazione aveva rotto uno schema narrativo che rischiava di divenire scontato. E come vedremo, questo stesso canto e i due successivi hanno in serbo ulteriori scarti.
Avari e prodighi abitano il cerchio quarto in condominio. La Commedia asseconda così un'impostazione aristotelica, secondo la quale l’imperfezione morale è un allontanamento dal bene o per difetto o per eccesso. Già Tommaso d’Aquino aveva consacrato questa impostazione nella sua Sum Theologiae. Era del resto tradizionale convinzione cristiana che il male non ha una consistenza autonoma, non è un principio originario accanto al bene, ma è una mancanza di bene, oppure un’esagerazione e una caricatura di esso, e perciò nuovamente una mancanza.
Di fatto, Dante si è concentrato su una delle due categorie, quella degli avari. E ha immaginato la pena comune pensando in particolare a loro:
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.
(Inf, VII 25-27)
L’inutilità della fatica — le due schiere procedono fino al loro impatto, e a quel punto tornano indietro, in vista di un nuovo cozzo — rispecchia l’inane sforzo dell’avaro, sempre teso ad accrescere il suo patrimonio, e sempre inchiodato all’insoddisfazione, nonostante gli ulteriori proventi.
In una messa a fuoco sarcastica e grottesca, Dante qualifica questi dannati — che si avvicinano, si scontrano, tornano indietro, si raggiungono nuovamente — connotandoli come danzatori, i ballerini di un ballo faticoso e meccanico; e ancora, ne fa dei giostranti, impegnati in una giostra senza avventura e senza gloria. Il disprezzo del poeta è evidente. Soprattutto per gli avari, lo ripetiamo; e per alcuni avari in particolare. Dalla massa di questi danzatori burattineschi, di questi giostranti ignobili, emerge infatti un sottoinsieme, quello degli ecclesiastici, «in cui usa avarizia il suo soperchio» (v. 48). In definitiva, sono loro, chierici, cardinali e papi, tutti individuati dalla tonsura, a sortire l'esposizione al ludibrio.
Il tono, invece, si fa alto e limpido nell’evocazione di Fortuna, l'intelligenza angelica che, su mandato divino, governa le ricchezze, togliendo agli uni, dando agli altri, incurante delle imprecazioni degli uomini. È violento il contrasto tra la serenità di Fortuna, la quale gode nell’obbedire a Dio, e l'angoscia degli avari. Costoro, già in vita, sono stressati dalla cura delle ricchezze, senza ricevere alcun rasserenamento dai continui introiti:
ché tutto l’oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest'anime stanche
non poterebbe farne posare una.
(Inf., VII 64-66)
Interpreto questi versi come già il Barbi; attribuendoli cioè ai vivi e non ai dannati. È come se la scena infernale per un momento si dileguasse, inghiottita da una dissolvenza che lascia apparire un’altra scena, ambientata sulla terra, con la febbre dell’oro che scatena uno sforzo infruttuoso, nonostante tutti i successi, gli affari ben riusciti, le compravendite oculate e vantaggiose. Lo abbiamo detto, il possesso non fa sbollire l'ansia, al contrario la rilancia, per cui l’avaro è senza riposo, costretto ad aumentare continuamente quello che ha, in una rincorsa infinita.
Dante aveva già affrontato questo argomento nel Convivio, all'altezza del XII capitolo del IV trattato. Qui affermava che l’anima, entrando in questa vita, rimane attratta da ogni cosa buona che vede. Generata da Dio, bene infinito, l’anima è fatta per il bene; essendo poi priva di idee innate, e conoscendo solo attraverso l’esperienza, non può cominciare a desiderare Dio, ma rimane affascinata dai beni in cui si imbatte, anche se sono limitati, addirittura banali. Desidera dapprima un «pomo», poi un «augellino», quindi il «bel vestimento», successivamente «una donna»: questa continua dislocazione del desiderio si verifica perché sussiste una sproporzione tra il desiderio e l’oggetto di volta in volta desiderato, sempre inferiore all’attesa, sempre deludente. Il desiderio, infatti, ha la misura dell'infinito; tanto che lo struggimento maggiore non insorge nell’assenza del bene desiderato e ancora non acquisito, ma proprio nel momento del possesso. Mi si consentirà l’anacronismo di una citazione da Eliot: il tormento dell'amore insoddisfatto dà luogo al più grande tormento dell’amore soddisfatto.
Quando conquista l’oggetto, il desiderio dunque si sposta, non provando più alcun interesse per ciò che ha in mano, e illudendosi che la felicità risieda in un altro oggetto sensibile. Con le ricchezze, però, si verifica un fenomeno singolare: attratto in una spirale perversa, il desiderio certamente si sposta, perché le ricchezze deludono, ma non si sposta verso un altro bene, bensì verso una maggiore quantità dello stesso bene, chiedendo «ricchezza non grande, e poi grande, e poi più» (Corv., IV 12 6). Comprendiamo meglio, adesso, l’apoftegma della Commedia:
ché tutto l’oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest’'anime stanche
non poterebbe farne posare una.
(Inf., VII 64-66)
Dante moralista, nel poema, va col buon fianco di Dante narratore. Come già anticipavamo, viene qui abbandonata la coincidenza di canto e cerchio; e non solo perché Pluto era profilato già all'estremo margine del canto VI. A una trentina di versi dal suo explicit, il canto VII fa transitare i due pellegrini dal quarto al quinto cerchio. La dantesca “officina del racconto” è definitivamente uscita dalla sua fase di rodaggio.
Nel cerchio quinto sono puniti di nuovo due eccessi opposti, la furia rumorosa degli iracondi e l’introversa tristezza degli accidiosi. I riflettori in un primo momento si accendono sui primi, ma almeno nello scorcio terminale del canto si spostano sui secondi, che conquistano il centro dell'interesse.
Procediamo gradualmente, secondo l'impaginatura dell’enunciato. Si dispiega un paesaggio, con un ruscello e una riva: sono gli elementi obbligati del locus amoenus, sfondo topico degli amori e dei piaceri, serena cornice di un riposato godimento. Se non che questi elementi vengono qui incupiti, stravolti:
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’ una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand'è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
(Inf., VII 100-108)
Non trasparente l’acqua, ma buia, bigia; non verde e coperta di fiori la riva, bensì intonata a un grigio maligno. È la riva di una palude, piuttosto che di un lago limpido e gradevole. Dai flutti torbidi emergono gli iracondi, offesi e «fangosi» (v. 110), intonati dunque allo squallore dominante. Non si vedono, invece, gli accidiosi, completamente immersi e con un misero inno sulle labbra, anzi nella gola:
Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra».
Quest'inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra.
(Inf., VII 121-126)
Cos’è, esattamente, l’accidia? La riflessione morale del Medioevo si era esercitata attorno a questo vizio, cogliendone le varie facce: risentimento, amarezza, noia, e quindi lentezza, incuria, sciatteria, tendenza a rinviare il da farsi, inclinazione al lamento. Tutto questo si può riassumere nella parola “accidia”, oppure nella parola “tristezza”, usata anch'essa dai teologi e, come abbiamo appena visto, dallo stesso Dante.
Nel lettore, a questo punto, sorge una difficoltà, perché il cristianesimo, per altro verso, esalta la tristezza. Ma si tratta di una disposizione ben diversa. San Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi (II Cor 7, 8-10), ammette di aver rattristato la comunità con la sua precedente lettera, ma tiene a puntualizzare, in tutta franchezza, che non ne è affatto dispiaciuto: «Quoniam et si contristavi vos in epistola, non me paenitet; et, si paeniteret videns quod epistola illa, etsi ad horam, vos contristavit, nunc gaudeo: non quia contristati estis, sed quia contristati estis ad paenitentiam». La tristezza che genera ravvedimento conduce alla salvezza e alla vita: «Quae enim secundum Deum tristitia est paenitentiam in salutem stabilem operatur». Nata al margine del male commesso, la tristezza «secundum Deum», se non diventa eccessiva, riesce feconda, come riconoscimento accorato della colpa e delle conseguenze che la colpa ha prodotto: un passo indispensabile per la conversione.
Di tutt'altro genere l’accidia; innaturale tristezza che non si addolora per il male, ma paradossalmente per il bene. Dante, e questo è un suo accento personale rispetto alla teologia del tempo, sottolinea, prima che l’accidia verso Dio, anzitutto l’accidia verso la vita. Un disgusto di ogni attrattiva e fascino:
[...] Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra.
(Inf., VII 121-122)
Non solo nell’Inferno afoso e senza luce: gli accidiosi si rattristano già «ne l’aere dolce che dal sol s’allegra». Non sono allora le condizioni esterne a suscitare lo scontento, e non è il cambiamento delle condizioni a dissiparlo. Peraltro, la realtà è fondamentalmente luminosa e amabile, tanto è vero che le cose stesse si rallegrano, godono il suo splendore, e ben a ragione, mentre l’accidia è immotivata, implica una censura della bellezza che c'è, interpone uno schermo artificioso tra l'io e il mondo, un «fummo», dice Dante, che scaturisce da «dentro», dal cuore:
portando dentro accidioso fummo
(Inf., VII 123)
In applicazione del contrappasso, la pena inflitta agli accidiosi consiste nella condanna perpetua a un contesto offuscato, dove l’acqua è diventata buia, le rive grigie. Nell’Inferno, certo, è il pantano stesso che vapora il fumo, ma è come se una condizione dell'anima si fosse riverberata attorno, creando un ambiente in consonanza con l’atteggiamento soggettivo. Qui gli accidiosi nemmeno emergono, ma stanno rintanati nel fondo del pantano, radicalizzando la loro introversione. E celebrandola nell’«inno» amaro (v. 125). “Inno” è, per definizione, esultante poesia di lode; le retoriche, difatti, contrappongono l’inno all’elegia. È dunque paradossale quest'inno, che è il contrario di quello che dovrebbe essere. I suoi esecutori neanche lo esternano a piena o a mezza voce, se lo gorgogliano nella strozza, secondo un malcontento che diviene estremo ripiegamento su di sé, e cancella ogni forma di rapporto con la realtà, quindi anche ogni forma di comunicazione. In superficie, il loro sospirare affiora nelle bolle che increspano lo stagno.
Anche fra gli accidiosi, come già presso gli avari, Dante non riconosce né addita alcun dannato. C'è un nesso tra i due peccati? L’avarizia è un'idolatria, una considerazione eccessiva delle cose, elette arbitrariamente a punto di riferimento; quanto all’accidia, essa è un rifiuto delle cose, disprezzate e negate. Tutto sommato, l’avarizia produce pur sem- pre un agire, anche se distorto. Difatti, l’indistinzione a cui sono condannati gli avari non è totale, lascia emergere il sottogruppo degli ecclesiastici; in cerchi successivi, alcune forme più gravi di attaccamento all’avere e al potere si incarneranno in personaggi stagliati e indimenticabili. Ma nessun rilievo umano può emergere dall’accidia, nemmeno un rilievo nel male.
Col passaggio al canto VIII siamo ancora sulle rive della palude; non senza una retroversione analettica verso un momento precedente della vicenda, il momento in cui Dante e Virgilio, scendendo verso Stige, avevano avvistato una torre e i suoi segnali luminosi. Giunge successivamente a riva, con la sua navicella, il demonio Flegiàs; che nonostante l’ira, accetta di traghettare i due pellegrini, addomesticato dalle parole di Virgilio. È un ulteriore successo del sapiente ed eloquente maestro, ormai avvezzo a disattivare la renitenza e l’aggressività delle forze infernali. Il lettore si è a sua volta abituato a questi intoppi rapidamente appianati, e all’insorgere della difficoltà prevede già come sarà risolta, Virgilio è un eccellente persuasore. Vedremo ben presto, tuttavia, come il collaudato schema possa incrinarsi.
Per tutto il canto VIII, come pure per tutto il canto successivo, rimane in evidenza il viaggio di Dante e Virgilio, con le difficoltà e gli ostacoli da superare. Perché la dimensione del viaggio assume proprio qui tanto rilievo rispetto allo status animarum post mortem? Siamo allo snodo tra due grandi zone dell'Inferno, quella degli incontinenti e la zona successiva del Basso Inferno, la prima relativa alla passione trionfatrice sulla ragione, la seconda attinente a una ragione in tutto connivente col male.
Mentre i due pellegrini traghettano, il paesaggio, attorno a loro, muta. Nuovo a questi luoghi, Dante è attentissimo alla loro configurazione; intende da lontano il frastuono della città di Dite, comincia poi a discernere le torri più alte, contempla infine da vicino il fossato e le mura. Si disegna uno degli scenari più impressionanti del poema. E val la pena ricordare quanto osservava il teologo Hans Urs von Balthasar nel volume III di Gloria (Stili laicali); soffermandosi sui paesaggi della prima cantica. Nella loro varia e grandiosa suggestione, dice von Balthasar, si determina una “redenzione estetica” dell’Inferno, mondo altrimenti in tutto condannato. Proprio il canto VIII, potremmo aggiungere da parte nostra, offre un esempio memorabile di questa spettacolarità fosca e insieme affascinante: la palude bigia su cui balenano misteriosi segnali, e al suo orlo la città di Dite, con le mura fortificate, le torri simili a pinnacoli di moschee:
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». [...]
(Inf., VIII 70-73)
Piaceva, questo passo, a Gabriele d'Annunzio; ammirato, in particolare, dal conclusivo «fossero», che sigilla all’inizio di una terzina un pensiero già impostato prima. «Questa parola sdrucciola è come scagliata in avanti dalla terzina precedente». Il significante corrobora il significato: grazie al movimento inconsueto delle parole, a quello scatto di «fossero» oltre il confine strofico, si consolida l’impressione di torri che si drizzano infuocate come sorgendo in quel momento. E insieme alla suggestività, che in qualche modo riscatta, come vuole von Balthasar, la desolazione infernale, si evidenzia la sproporzione tra questo mondo minacciosamente prodigioso e la persona sparuta del protagonista, che deve muoversi in orizzonti oscuri e lampeggianti, misurare mura e torri che all'improvviso incombono.
Ma gli ostacoli più preoccupanti sono i dannati e i diavoli. Tra i dannati, uno in particolare, Filippo Argenti, un iracondo della palude, qui in primo piano perché impedimento al viaggio dei due pellegrini. Si para davanti all’imbarcazione che traghetta Dante e Virgilio, ha un vivace alterco con Dante, tenta di rovesciare la navicella. L'aggressione di Filippo Argenti, dunque, è dapprima verbale, poi fisica. Valutiamo anzitutto le sue battute litigiose. È lui ad aprire le ostilità, apostrofando il protagonista:
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S'i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
Io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
(Inf., VIII 33-39)
La prima battuta di Filippo, «Chi se’ tu che vieni anzi ora?» (v. 33), contiene un'insinuazione, che Dante, cioè, sia destinato alla dannazione, a rimanere in eterno nella palude stigia: «Stai venendo qui dove dovevi, solo che vieni precocemente, da vivo». Dante, però, non si lascia condizionare dalla menzogna, e già nella prima replica, oltre a difendersi, passa all'offensiva: «S’i’ vegno, non rimango; / ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?» (vv. 34-35). Viene adoperata qui la tecnica della ripresa nella battuta successiva di espressioni risuonate entro la battuta precedente; in questo caso, secondo lo schema del chiasmo. Il protagonista ha modo così di sottrarsi alla prospettiva insinuata dal maldisposto interlocutore, e di ritorcere a buon diritto quella prospettiva su di lui: non Dante, ma Filippo appartiene allo stagno, di cui ha assunto nel corpo infangato la bruttura limacciosa. Quando la palla torna di nuovo a Filippo, è costui a trovarsi in difetto, a dover ammettere, mentre cela il suo nome, la sua innegabile condizione di dannato, senza potere a sua volta contrattaccare. «Vedi che son un che piango» (v. 36): Filippo si riferisce ormai solo a se stesso, non coinvolge più l'avversario. A questo punto, Dante ha buon gioco nell’assestare il fendente contro cui non ci può essere parata, sottolineando l’irreversibilità della condanna dell’iracondo, costretto a rimanere nello Stige, e per giunta mostrando di averlo perfettamente riconosciuto, di possedere insomma quel nome che l’altro aveva creduto di poter celare.
Notevole che la supremazia di Dante in questo duello verbale non sia dovuta a mera abilità dialettica. Egli ha il sopravvento perché dice il vero, senza lasciarsi condizionare da un’arrogante calunnia.
Sbaragliato a livello dialettico, Filippo cerca di rivalersi con l’aggressione fisica, da iracondo qual è; ma viene respinto da Virgilio. E per Dante non è abbastanza: «Maestro, molto sarei vago / di vederlo attuffare in questa broda» (vv. 52-53). I lettori moderni sono rimasti spiazzati; tanto più che il desiderio di Dante personaggio viene prontamente accontentato da Dante narratore, che aduna gli altri iracondi e li fa muovere contro il loro collega. Qualche interprete ha pensato a una ruggine personale tra il poeta e l’altezzoso concittadino; altri ha creduto che la polemica dantesca fosse non solo ad hominem, ma contro l’intera categoria degli aristocratici superbi e boriosi; in una diversa ottica, si è postulato un voluto contrasto tra l’“ira mala” di Filippo e la diversa ira del pellegrino, ben giustificabile (anche a norma della Summa tomistica) in quanto indirizzata contro il male. Sono tutte postille con un grano di verità. L'episodio va peraltro ricollocato nel quadro più ampio del viaggio. In questo canto, l’eroe in cammino affronta un ostacolo e lo supera vittoriosamente, dimostrando la sua dura virtù, messa alla prova e al tempo stesso esaltata dalla prova. Appare grande, l’eroe, tanto più se ha superato una circostanza tutt’altro che agevole. Teniamo conto che il superamento dell’avversario collocato sul percorso costituisce una delle costanti della narrativa medievale, specialmente della narrativa cavalleresca, e stabilisce la statura del cavaliere, ne sigilla il valore. Una volta che ha abbattuto uno spadaccino malvagio, o un brutale gigante, o un mostro mortifero, il cavaliere è ammesso di diritto alla cerchia degli eroi.
Ma se consideriamo non solo il singolo episodio — come quei lettori che hanno parlato senz'altro del “canto di Filippo Argenti” — bensì il contesto più ampio, notiamo che il trionfo sfuma assai presto, e la supremazia sugli impedimenti si capovolge in sconfitta. All'ingresso della città di Dite, gli angeli maligni si parano contro Dante e rilanciano esattamente la prima domanda di Filippo:
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
(Inf., VIII 82-85)
Aveva domandano bruscamente Filippo: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?» (v. 33). E il coro stizzoso dei diavoli, a distanza, fa eco: «Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente?» (vv. 84-85). Solo che, in quest'ultimo caso, la domanda non è posta a Dante. I diavoli si riferiscono al pellegrino usando la terza persona, non si degnano insomma di apostrofarlo; se lo indicano a vicenda, e così parlano di lui senza affatto parlare a lui. In un débat, ciascuno dei tenzonanti interpella l’altro, lo coinvolge come un “tu”, ammettendo il feedback, disponendosi a sua volta a diventare un “tu” apostrofato e verbalmente incalzato. Qui il débat è subito escluso. E Dante — ammesso e non concesso che ne abbia l’ardire — non può tentare nemmeno un cenno di risposta: gli ostili guardiani di Dite stanno manifestando sorpresa l’uno all’altro («Chi è mai questo tracotante mortale?»), non stanno interrogando l’intruso, sarebbe già questa degnazione troppo grande. Colui che ha appena vinto un duello verbale, dando prova delle sue capacità dialettiche, adesso viene escluso a priori dal dibattito, non attinge nemmeno lo status di interlocutore. I diavoli accettano semmai di trattare con Virgilio, e a patto che Dante non sia presente all’incerto negoziato; anzi, è Virgilio stesso a proporre questa pre-condizione, tentando di interpretare e assecondare i sentimenti degli altezzosi avversari. Difatti coglie nel segno. La torma irritata e vociante accetta di colloquiare in segreto con lui, mentre indica di nuovo Dante con una terza persona, ed eleva nei suoi confronti un veto intransigente:
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa [...]».
(Inf., VIII 89-92)
A questo punto; la reazione del protagonista è molto diversa da quella manifestata al cospetto di Filippo Argenti. Ribattendo alla provocazione dell’iracondo, Dante aveva dichiarato la sua estraneità alla palude stigia, e con ciò anche la sua determinazione a continuare il viaggio:
[...] S’i’ vegno, non rimango
(Inf., VIII 34)
Adesso invece propone a Virgilio:
ritroviam l’orme nostre insieme ratto.
(Inf., VIII 102)
Smarrita, almeno per il momento, la convinzione che il suo è un fatale andare, a cui presiede un disegno divino, l’intimorito viaggiatore rinuncia all’itinerarium e tenta di salvare il salvabile con una frettolosa ritirata. Il pericolo di rimanere per sempre dove si trova è del resto incombente, Medusa sta per mostrarsi con il suo sguardo che pietrifica; e sarebbe una fine ingloriosa, per chi aveva detto «S’i’ vegno, non rimango», ritrovarsi perennemente inchiodato davanti a Dite.
Neanche Virgilio riesce comunque a disattivare l’ostilità dei diavoli, e deve subire l'umiliazione della porta chiusa in faccia. Fino ad ora, lo abbiamo visto, Virgilio è stato un duca signore e maestro senza esitazioni, in grado di sbaragliare facilmente carcerieri e mostri del grande penitenziario. Il settore degli incontinenti egli lo ha attraversato con relativa facilità. Godeva, senza dubbio di consensi celesti, ed esibiva spesso e volentieri quelle altissime credenziali per tacitare le rimostranze degli accoliti di Satana; ma è anche vero che nel settore dell’incontinenza la ratio può imporsi, sgominando la passione. Nel Basso Inferno, invece, è punito il male voluto dalla mente: non è prerogativa, il male, della carne e degli istinti, può risiedere anche nello spirito, tutt'altro che immacolato per definizione, e la lotta della ragione contro il peccato della ragione si rivela subito incerta.
Con che giustificazione i diavoli sbarrano il passo? La loro accusa è indirizzata a Dante, che avrebbe infranto i decreti divini e peccato di superbia:
Sol si ritorni per la folle strada.
(Inf., VII 91)
«Folle» è un termine marcato: nella Commedia, “follia? è oltrepassare il segno posto da Dio e dunque rifiutare obbedienza alla sua volontà, confidando nelle proprie forze, abusivamente sopravvalutate. Un analogo della hybris dei Greci, ribellione contro la divinità, “no” gettato in faccia a Dio. «Folle volo» (7nf, XXVI 125) è la traversata di Ulisse, oltre le colonne poste da Ercole
acciò che l’uom più oltre non si metta [...].
(Inf., XXVI 109)
L'universo immaginato da Dante è continuamente segnato da confini. Così pure il suo aldilà, che presenta una serie di transenne che non vanno scavalcate, ciascuna a delimitazione di un ambito di pertinenza. Anche i diavoli, e in genere i custodi infernali, sono di volta in volta assegnati a una determinata zona, che non possono valicare. I confini sono una metafora della legge: Dio ha assegnato leggi al mondo e all’oltremondo. E allora, sembrano avere ragione i guardiani di Dite. Dante non ha forse infranto una eterna disposizione attraversando la porta dell’Inferno, e non sta perseverando nella sua intemperante audacia avvicinandosi alla cinta muraria che circonda l’abisso del male estremo? E i diavoli non stanno forse assolvendo il loro dovere, che è quello di una difesa irremovibile del confine, insomma della legge?
In realtà, a rivoltarsi e peccare di hybris sono proprio loro. Responsabili, nonostante le apparenze, di una forma terribile di renitenza: respingere la volontà di Dio in nome dei comandamenti di Dio, invocare contro Dio la Sua legge. Non vi è dubbio: è Dio, l’autore della legge. L'universo sensibile e il modo ultrasensibile, coi loro confini, sono opera Sua, basti il solo esempio, qui particolarmente adeguato, della prima porta infernale, con quella scritta eloquente, «fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e ?1 primo amore» (Inf., III 5-6). E tuttavia, il Dio che stabilisce le leggi è anche il Dio che fa i miracoli, aprendo uno spazio per l’imprevisto; l’artefice dell’inviolabile Inferno è del pari il promotore del viaggio oltremondano di un vivo; il Principio della giustizia che inchioda irreversibilmente ogni dannato al suo luogo di reclusione, è anche il Principio della misericordia grazie a cui Dante può attraversare uno dopo l’altro i nove cerchi. I teologi distinguevano l’opus creationis, per cui Dio suscita il mondo con le sue leggi, e l'opus redemptionis, grazie a cui la creazione ferita dal peccato originale viene medicata e guarita. L’opus redemptionis fa una nuova creazione; e può anche accadere che l’antica si opponga a questo rinnovamento, e proprio in nome delle norme preesistenti; ma ciò che conta, in ogni caso, non è la legge, la norma, bensì la volontà di Dio, mai deducibile a partire da quel che già esiste, sempre innovativa e sorprendente. A giustificare il viaggio di Dante, Virgilio aveva ripetuto ai primi custodi infernali: «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole» (Inf, III 95-96, V 23-24; e cfr. VII 11-12). Da notare, in questa formula, il tempo presente, «vuolsi», «si vuole»: decisiva è la volontà di Dio quale si dà attualmente. È allora illegittimo respingere ciò che Dio vuole oggi in nome di ciò che Dio volle in passato. A osteggiare il miracolo, del resto, sono qui i diavoli. È paradossale: proprio coloro che, in passato, si erano mobilitati contro la legge di Dio, se ne fanno adesso arcigni paladini. Ma a ripensarci, l'apparente paradosso si scioglie: la hybris invoca pretestuosamente la legge antica per poter rialzare il capo.
La conclusione del canto VIII vede Dante e Virgilio sospesi tra il rabbioso diniego che hanno dovuto subire e il soccorso divino a questo punto indispensabile, ma non ancora giunto. Accentua la suspense l’inizio del canto successivo, poiché l'inviato celeste che deve sbloccare lo stallo non appare subito, e dà tempo a due Furie, Tesifone e Aletto, di sporgersi da una torre e minacciare l’avvento della loro micidiale compagna, Medusa. Il confine tra i due canti divide dunque fasi di uno stesso dramma, anzi l'avvio e il culmine di una stessa fase, quella della discordanza: la pausa testuale incentiva l’attesa del lettore e prepara l’accentuarsi del pericolo mortale. A non molto dall'avvio del poema, l’arte narrativa di Dante è davvero matura, ben oltre i rischi di schematismo. Ma non è sufficiente registrare una raggiunta maestria nel ritmo: se è una discordanza a essere accentuata, con un abile gioco di interruzione e ripresa del racconto, ciò avviene perché sia evidente la debolezza etica dell’homo viator, col rischio effettivo che ne deriva.
L'avvento finale del messo, sciogliendo il nodo narrativo, tramutando la discordanza in concordanza, smaschera e rintuzza la falsità degli oppositori, che non hanno affatto difeso una consegna, semmai una presunta giurisdizione, e in oltraggio a Colui che ne è il reale arbitro, avendola stabilita e potendola trascendere:
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v'ha cresciuta doglia?
(Inf., IX 91-96)
Si compie comunque, la «voglia» di Dio; il problema è se si compia nonostante la ribellione delle creature o con la loro adesione. L’adesione è quella raccomandata dalla preghiera del Padre nostro, che Dante parafrasa nel Purgatorio, mettendola in bocca, e non a caso, ai superbi della prima cornice. Con l’indicazione fra l’altro di un modello, l'obbedienza degli angeli:
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
(Purg., XI 10-12)
Diavoli e angeli sono identificati dalla posizione della loro volontà rispetto alla volontà di Dio. La beatitudine, del resto, verrà qualificata nella terza cantica come fusione di due volontà, quella del Creatore e della creatura: fusione, s'intende, non in senso panteistico, con scioglimento e perdita dell’identità individuale nel mare divino, bensì nel senso della convergenza delle distinte volontà, che vogliono all’unisono la stessa cosa.
Il messo è proprio un angelo, l'angelo necessario. Non hanno nulla, gli angeli danteschi, dei tratti leziosi e condiscendenti a cui siamo oggi abituati; sono manifestazioni folgoranti del divino, che destano intorno timore e tremore. La Commedia li mostra soprattutto in azione: gli angeli qui non sono affatto spettatori impotenti, che osservano ciò che accade, magari con partecipazione e commozione, rimanendo però inabili a porvi riparo. Essi intervengono, e con un'energia persino furiosa. Come il messo, appunto, di Inferzo IX; il quale, peraltro, non ha quasi bisogno di combattere, visto che davanti a lui le Furie e i diavoli svaniscono come se non ci fossero mai stati. Il male ha apparenze tremende, ma essendo ultimamente senza consistenza, è destinato a un certo punto ad afflosciarsi.
Erich Auerbach ha dedicato pagine illuminanti al messo dantesco nel suo volume Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo. Qui fa riferimento, per illuminare Dante, a un passo dell'Iliade, che narra un viaggio per mare del dio Posidone. La restituzione di questo viaggio, nota Auerbach, costituisce un esempio di sublime (il sublime è l’assolutamente grande, e come tale attiene anzitutto alla divinità), esempio rispetto al quale, peraltro, Dante non resta indietro. Se il passo di Omero è sublime per la potenza dell'apparizione e per la forza del movimento, ebbene anche i versi di Dante sul messo hanno analoghe qualità. Una differenza, per la verità, sussiste; ma non va affatto a svantaggio della Commedia. Omero mostra chiaramente Posidone mentre si mette in viaggio, discende dal monte, varca i flutti su una barca. In Dante, invece, non c'è, in un primo momento, rappresentazione diretta, c'è invece una lunga preparazione, e anche quando il messo sta per giungere è inquadrato non direttamente, bensì attraverso la similitudine:
E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetiioso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz'alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
(Inf., IX 64-72)
Ognuno di questi versi meriterebbe un'analisi dettagliata, ma è almeno da rilevare la climax con cui si inaugura l’ultima delle terzine in causa («li rami schianta, abbatte e porta fori», v. 70), nonché l’incisività dell’allitterazione finale, giocata sul fonema fe fa faggir le fiere e li pastori» (v. 72).
Ancora, comunque, non vediamo il liberatore. Non potrebbe vederlo nemmeno il protagonista, poiché Virgilio gli ha imposto di chiudere gli occhi, nel timore che Medusa, apparendo sulle mura di Dite, lo pietrificasse con lo sguardo. Con ulteriore precauzione, la sollecita guida aveva anche ingiunto al discepolo di riparare con le mani i suoi fragili occhi, e non ancora contento aveva posto le proprie mani su quelle di lui. Ora, però; Virgilio lascia libero lo sguardo di Dante, anzi lo invita senz'altro a guardare:
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
(Inf., IX 73-75)
Eppure l’autore, abile regista, ritarda ancora la descrizione dell’inviato celeste, interpone un’altra similitudine, e relativa anzitutto alla reazione dei dannati, piuttosto che al profilo in sé e per sé del nuovo personaggio:
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così [...].
(Inf., IX 76-80)
Ed ecco, finalmente, l'inquadratura diretta, che visualizza «un ch'al passo / passava Stige con le piante asciutte» (vv. 80-81), e ne sorprende quindi il gesto di fastidio per l’afa infernale:
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
(Inf., IX 82-84)
Qual è il motivo della lunga preparazione? Auerbach non lo dice, offre però le premesse che consentono di individuare la risposta. Nota, infatti, che Omero sta raccontando un avvenimento di cui non è partecipe, non essendo, nemmeno come testimone, un personaggio della scena rappresentata. Dante invece, aggiunge Auerbach, racconta un avvenimento in cui è coinvolto. Vorrei inserirmi su quest’ultima osservazione. Protagonista del poema, Dante è in questo frangente colui che vive con intensità la lunga attesa del liberatore, da cui deve essere soccorso. In questa disposizione scopriamo un progresso rispetto alla viltà di prima, quando l’impaurito pellegrino aveva proposto a Virgilio di tornare indietro. Dante, insomma, ha cominciato a vivere come attesa la sua debolezza.
Anche il Posidone di Omero si è. mosso per venire in aiuto degli uomini. Il messo dantesco, però, penetra nell’Inferno, che è per definizione la fine di tutte le possibilità. Confermo che a mio giudizio si tratta di un angelo, ma di un angelo, aggiungo adesso, con tratti cristologici. Può scendere nell’Inferno solo perché Cristo vi è già sceso. E non è da trascurare che questo liberatore non voli, ma attraversi Stige al passo, e con le piante asciutte: inevitabile il rinvio all'episodio evangelico di Gesù che cammina sulle acque, tanto più che le acque, secondo gli esegeti medievali, simboleggiano il peccato.
Si aprono a questo punto prospettive ulteriori, che in questa sede è possibile solo accennare, rinviandone la verifica. Da Inferno IV abbiamo appreso che Cristo, dopo la morte, è penetrato nel Limbo e ha liberato i patriarchi, che erano vissuti nell’attesa del Messia. Dante, in questo modo, attesta la discesa del Redentore nel regno della morte, ma al tempo stesso ne offre una versione assai cauta, limitando notevolmente il raggio di penetrazione del Figlio di Dio morto per la salvezza dei peccatori, arrestando il suo descensus al più esterno dei cerchi infernali. Nella ricostruzione della Commedia — come osserva un teologo che abbiamo già citato, von Balthasar — Cristo non è mai entrato nell’Inferno vero e proprio, sicché il venerdì e il sabato santo non hanno modificato radicalmente la struttura del mondo della dannazione. Il terremoto verificatosi alla morte di Gesù ha provocato nell’abisso infernale alcune frane, ma non si va oltre questo effetto tutto sommato estrinseco. Così, l'Inferno di Dante non si distingue come dovrebbe dall’Ade pagano o dallo Sheol veterotestamentario; se non per quella “redenzione estetica” (ne abbiamo già parlato) che il poeta ha sentito il bisogno di conferirgli, quasi surrogando la mancata redenzione teologica. Sin qui von Balthasar, a cui non si può negare acutezza di analisi. È dato sviluppare ulteriormente il problema alla luce dell’episodio del messo? In certo modo, questo episodio allarga le coordinate di Inferzo IV, attestando una penetrazione cristologica che si spinge ben al di là del Limbo e dei cerchi degli incontinenti. Vero è che questa irruzione va a beneficio esclusivamente del protagonista, il quale è un vivo. Grazie alla Redenzione, è possibile esser soccorsi nell’abisso infernale, ma solo se vi si è discesi prima della morte, in quella esperienza della morte-in-vita che è così prossima alla dannazione. Tipico tratto della morte-in-vita è il collasso della speranza, e qui il protagonista deve difendersi soprattutto da Medusa, vale a dire, appunto, dalla disperazione. Questa è la frontiera a cui la rappresentazione dantesca può giungere: chi è caduto da vivo nelle fauci dell'Inferno può esserne liberato, quanto ai veri e propri dannati, essi sono del tutto incompatibili con la grazia divina, la fuggono come le rane la nemica biscia.
In forza della vittoria del messo, il limite di Dante e Virgilio è recuperato, e può essere rappresentato senza reticenze. Dante, quest'uomo dalla sensibilità così diversa dalla nostra, senza false modestie, e pronto all'occorrenza a vantare i suoi meriti, dipinge qui senza attenuazioni la propria viltà, la tendenza a indietreggiare di fronte alla minaccia; e il solenne Virgilio, mar di tutto il senno e principe di persuasivo eloquio, non riesce a convincere i rozzi guardiani di Dite, e cerca di nascondere a Dante una sua improvvisa perplessità, emersa suo malgrado in una esclamazione non trattenuta, cambiando rapidamente discorso. Questo lato manchevole dell’uno e dell'altro può essere rappresentato senza problemi perché non determina, nel bilancio, una colonna delle passività: il limite umano rende gloria a Dio, costringe per così dire Dio a manifestare la sua capacità di riscatto e smascherare la debolezza del principio — ipocritamente legalistico — che al riscatto si oppone.