Dati bibliografici
Autore: Luca Lombardo
Tratto da: Schede Medievali
Numero: XLVII
Anno: 2009
Pagine: 209-222
Alle soglie della città di Dite, nei pressi delle mura che separano il quinto cerchio dal sesto, la vista di Dante è improvvisamente attratta dalla figura terribile di tre Furie infernali, apparse sulla cima arroventata dell’alta torre. L'occhio del pellegrino si sofferma a contemplare l’inattesa visione: le fattezze dei loro corpi e le movenze rivelano la natura femminile di queste creature demoniache, sudice di sangue, cinte di idre velenose e con la testa ricoperta di serpenti in luogo dei capelli. Virgilio le presenta al suo discepolo nominandole una ad una, poi al silenzio del savio duca segue la descrizione dei loro atti furibondi: esse si graffiano e si percuotono levando alte grida di vendetta e minacciando per opera di Medusa la pietrificazione di Dante, colpevole, alla stregua di Teseo, di essersi arditamente inoltrato il da vivo nei profondi inferi:
E altro disse, ma non l’ho a mente,
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifon è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan si alto,
ch'i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
L'episodio di memoria mitologica si inserisce all’interno di un canto opportunamente definito «saturo di cultura classica», che sin dai commentatori antichi ha suggerito come principale esercizio esegetico il rinvenimento dei significati allegorici nascosti dietro le diverse figure del mito. D'altra parte, come ha osservato Padoan, la funzione simbolica delle Furie sfugge ad una interpretazione univoca dal momento che è tuttora in discussione se esse siano immaginate dal poeta a presidio del cerchio degli iracondi (il quinto) o di quello degli eretici (il sesto); né la descrizione dantesca offre margini troppo ampi al chiarimento del loro ruolo simbolico, limitandosi a dichiararne la condizione di «meschine / de la regina de l’etterno pianto», definizione dal significato piuttosto limpido di «serve di Proserpina», ma che, a dispetto della concorde interpretazione dei commentatori moderni, fa registrare alcune varianti esegetiche di rilievo presso i commentatori antichi. Questi ultimi, pur riconducendo il sostantivo «meschine» nell’orbita del medesimo campo semantico, attribuiscono ad esso ulteriori sfumature di significato, la cui sintesi può fornire utili indizi sia circa la funzione delle Furie nella logica strutturale dell’oltretomba dantesco sia circa la messa in luce di inattese trame intertestuali. A fronte della scarna descrizione letterale con cui le Furie vengono presentate al lettore, l’esegesi secolare si è concentrata sui pochi dati testuali a disposizione: è opinione generalmente accolta che nelle esigue occorrenze registrate all’interno della sua opera (If IX 43; XXVII 115; Vn 9 X 5) Dante attribuisca al lemma «meschino» il significato di «servo», sebbene si segnali l’interpretazione parzialmente difforme di Boccaccio, che chiosa con «damigelle» il passo relativo alle Furie. Se si estende il sondaggio agli altri commentatori antichi, limitatamente al caso di If IX 43, si arricchisce la gamma dei significati possibili del lemma per il quale l’interpretazione nel senso esclusivo di «servo», accolta dai lettori moderni appare quantomeno incompleta, non contemplando la caratteristica che connota la soggezione delle Furie nei riguardi di Proserpina, altrimenti individuata dai primi commentatori della Commedia nella ‘miseria’. Cronologicamente successivo al Certaldese, Benvenuto da Imola non se ne discosta quanto al senso del lemma («ancillae» dovrà intendersi come omologo latino del «damigelle» boccacciano) ma lo precisa per mezzo di un attributo niente affatto irrilevante per le possibili implicazioni esegetiche:
le meschine, idest miseras ancillas, de la regina de l’eterno pianto, idest Proserpinae.
L’attributo delle Furie, secondo Benvenuto, consiste sì in uno stato di sottomissione, ma l’allusione alla miseria in cui si dispiega il loro servizio infernale ne è anche la cifra caratterizzante, racchiusa in una locuzione che appare fortemente connotata al livello della concezione stilistica medievale: valga a titolo d’esempio l'incipit delle Glosae super Boetium di Guglielmo di Conches, commento del primo quarto del XII secolo alla Consolatio philosophiae di Boezio, ove è possibile leggere che «elegia est miseria», a riprova di un’equazione scontata tra genere e contenuto. Diversamente Francesco da Buti ritiene che dietro la definizione dantesca si debba intendere il significato mercuriale di «messaggere», pur non rinunciando a riconoscere nella miseria il tratto qualificativo delle tre divinità infere:
E quei; cioè Virgilio, che ben conobbe le meschine; cioè le misere messaggiere, della reina dello eterno pianto; cioè di Proserpina regina dell’inferno, ove è sempre pianto e dolore.
La definizione di «meschine» contiene il significato di «misere» anche secondo il commentatore pisano, che per di più insiste sul motivo del pianto, da quello «etterno», in che consiste l’Inferno stesso, alle lacrime di Aletto poco dopo ricordate: se si tiene conto della specola interpretativa qui suggerita appare come il contesto descrittivo, sullo sfondo del quale si svolge questo frammento dell’episodio, obbedisca ad una sorta di iconografia della lamentatio, che l’esegeta rileva attingendo ad un codice lessicale con cui inequivocabilmente si chiamano in causa le categorie stilistiche del genere elegiaco: «misere», «pianto», «dolore». Alla medesima tradizione di glossa rinvia la chiosa quattrocentesca di Cristoforo Landino, che tralasciando altre spiegazioni si limita a tradurre l’appellativo dantesco col significato di «misere», ribadendo la corrispondenza semantica tra i due termini:
Et que’, cioè Virgilio, el quale ben conobbe le meschine, le furie, le quali veramente sono meschine, cioè misere.
Soltanto nel Cinquecento comincia a farsi largo tra i commenta l’interpretazione di «meschine» nel senso di «serve», destinata ad affermarsi nel corso dei secoli successivi, sebbene l’esegesi del XVI secolo non abbia ancora smarrito, come accadrà invece alla critica novecentesca, il retaggio dei commenti tre e quattrocenteschi (i quali, come sì è visto, ravvisavano normalmente nella definizione dantesca delle Furie l’allusione alla miseria della loro condizione) sicché la spiegazione corrente presso gli interpreti cinquecenteschi contempla sì il significato di «serve», ma sempre accompagnato dall’attributo «misere», latore di una precisa connotazione stilistica. Gli esempi rintracciati procedono in questa direzione, a partire dalla chiosa di Bernardino Daniello:
Et quei, Virgilio, che ben, veramente, conobbe le meschine, le misere ministre, et serve;
né da quest’ultimo giudizio si discosta Giovan Battista Gelli, che al più chiarisce il senso dell’appellativo dantesco attraverso il ricorso ad una esplicita dittologia sinonimica:
Conobbe il Poeta le Furie; onde le chiamò meschine, cioè misere e infelici serve di Proserpina.
All’ultimo scorcio del Cinquecento risale la testimonianza di Ludovico Castelvetro, da cui si evince il progressivo rarefarsi nella percezione linguistica moderna del connotato ‘elegiaco’ di «meschine», termine ormai avvertito nella mera accezione di «serve», scevro cioè di quella sfumatura semantica, che pure l’esegesi antica aveva unanimemente annotato:
Meschine sono servigiali e fanti, e così ancora oggidì si nominano le fanti in alcuna parte d’Italia, e spezialmente in Valtellina. Le meschine adunque della reina de l’eterno pianto sono le fanti di Proserpina, moglie di Plutone, reina dello ’nferno.
Utile alla codificazione stilistica del lemma dantesco in chiave elegiaca potrebbe rivelarsi inoltre la glossa di Gelli ad If XXIV 4-13, ove il commentatore allude alla condizione del ‘villanello’ attraverso l’impiego del sostantivo «meschino» in una accezione che pare evidenziare il contenuto elegiaco dell’intero episodio. Sebbene la scena si svolga in un contesto quotidiano, che poco o niente ha in comune con l'ambientazione mitologica di If IX, alcuni tratti iconografici sembrano comunque accomunare il villano della similitudine agreste e le mostruose creature infernali, affinità gestuali, che in sede di commento si traducono nell’analogo utilizzo del medesimo sostantivo in rapporto sia al villanello sia alle tre Furie. Gioverà ricordare la circostanza della similitudine, che introduce l'argomento dell’iniziale sgomento di Dante nel vedere il suo maestro «turbar la fronte», salvo poi essere presto rinfrancato dal «dolce piglio» di Virgilio: analogamente si conforta il povero villanello, che scopre essere solo brina mattutina quella che aveva dapprima creduta neve, sì da aver temuto la rovina del pascolo per il bestiame. L’iniziale disperazione del pastore viene resa dal poeta attraverso una rapida sequenza di immagini assai realistiche («ond’ci si batte l’anca, / ritorna in casa, e qua e là si lagna, / come ’l tapin che non sa che si faccia»), che trovano l’articolata glossa di Gelli:
E veggendo la campagna così ricoperta di brinata biancheggiare, si ritorna in casa, e qua e là si lagna, cioè si lamenta (chè così significa questa voce; onde disse il Petrarca: Alma non ti lagnar, ma soffri in pace), andando in qua e in là, battendosi l’anca; cioè non si lamenta solamente con la voce e con le parole, ma ancora co’ gesti, per lo andare spasseggiando e percotendosi l’anche e le coscie con le mani (sono gesti usati spesse volte da chi si lamenta e si duole per essergli accaduta qualche disgrazia); e non sa il tapino, cioè il me- schino (voce antica della nostra lingua), quel ch’ei si faccia, cioè debba fare.
La chiosa analizza la semiotica gestuale del personaggio dantesco e ne decodifica le azioni attingendo all’ambito semantico dell’elegia, tanto che attribuisce al più generico «lagnarsi» il significato stilisticamente connotato di «lamentarsi» ed interpreta il «battersi l’anca» come azione che consegue alla percezione del dolore. La definizione più prossima a descrivere l’angoscia del pastore, che ha erronea- mente preavvisata la disgrazia, risiede secondo l’interpretazione di Gelli del dantesco «tapin» nel sostantivo «meschino», qui da intendersi nell'accezione di «misero» (già testimoniata dagli esegeti trecenteschi), avvertito dal commentatore come una voce antica, forse estranea all’uso linguistico del suo tempo. Sembra chiara la valenza assunta dal lemma nella chiosa e sebbene esso non compaia nel testo dantesco, l’impiego propostone da Gelli rafforza l’opinione che con «meschino» si designasse anticamente non tanto o non solo lo stato serviziale quanto piuttosto la condizione miserevole del pianto (nel caso delle Furie) o del lamento (nel caso del villanello), in che risiede la principale cifra stilistica dell’elegia.
L’apparato dei gesti che caratterizzano le Furie dantesche obbedisce al canone previsto dalla forma elegiaca: esse si percuotono («Batteansi a palme») per via del dolore che le affligge, come chiariscono l’Ottimo e Boccaccio («come qui fanno le femine che gran dolor sentono»); ed emettono grida estreme («gridavan sì alto»), che costituiscono la principale connotazione acustica ravvisabile nell’intera cantica; infine vengono dette «meschine» cioè «misere», stando all’interpretazione più diffusa presso i commentatori antichi. Inoltre l’impiego del medesimo sostantivo come sinonimo di «tapino» rilevato nella chiosa di Gelli, ove ne è evidente l’interazione dialettica con forme verbali come «lamentarsi», «percuotersi» e «dolersi», fornisce un indizio ulteriore delle sue implicazioni con il campo semantico pertinente al registro elegiaco. La figura stessa del villanello, col suo vivido realismo quotidiano, potrà essere inscritta a ragione entro le coordinate stilistiche dell’elegia: i suoi gesti si collocano infatti nel medesimo livello iconografico cui si ascrivono le azioni delle Furie; egli «si batte l’anca» («in signum doloris» commenta Benvenuto) e «si lagna» intonando una vera e propria lamentatio, lo sfogo della disperazione «come fa l’afflitto et abandonato, il qual è fuori d’ogni speranza» (Alessandro Vellutello, sulla scorta di Benvenuto e di Buti). D’altra parte l’interpretazione elegiaca di If XXIV 4-15, oltre ad essere sostenuta dai contenuti testuali evidenziati, troverebbe conferma nella dimensione ambientale entro cui si svolge la scena: non si dimentichi infatti che secondo la teoria medievale degli stili prescritta dalle poetriae e dalle artes dictaminis, che pongono il principio della convenienza tra materia (res e personae) e stile, il canone paradigmatico dello stile umile o basso, corrispondente all’elegia nella concezione dantesca (De vulgari eloquentia II IV 6), è rappresentato dalle Bucoliche virgiliane, il cui elemento humilis consiste nel rango dei protagonisti, pastori non a caso alla stregua del villanello della Commedia. D’altra parte si converrà che il contesto di miseria e di degrado ambientale (preannunciato al v. 31 dalla nota del «gran puzzo» emanato dalla palude stigia e, soprattutto, al v. 32 dalla locuzione, quasi formulare per l’Inferno, di «città dolente»), entro cui si inserisce l'episodio delle Furie abbia richiesto, in virtù la definizione di «stylus materiae» (Goffredo di Vinsauf), l’adeguamento quasi meccanico della forma poetica, il necessario sostegno che proviene alla materia dalla scelta dello stile, che in questo caso sembra imprimere a tutto l’episodio il marchio dell’elegia, la cui cifra risiede essenzialmente nella connotazione del contenuto. La figura classica delle Furie verrebbe recuperata da Dante ad un’operazione di riscrittura del mito, in cui l’accentuazione del tratto di dolente disperazione, attribuito alle creature infernali, consente al lettore di fissare le coordinate stilistiche del passo, di riconoscervi cioè un momento autenticamente elegiaco all’interno del canto.
Il classicismo delle Furie dantesche non è in discussione: l’appellativo di «Erine», con cui i demoni vengono designati da Virgilio, rinvia addirittura alla versione greca del mito, che tuttavia a Dante doveva essere preclusa in ragione delle sostanziali variazioni introdotte dagli autori latini, attraverso la cui mediazione egli accedeva al racconto mitologico. Dee della vendetta secondo i Greci, le Erinni perseguitano i colpevoli di omicidio e si trasformano in creature miti (opportunamente mutando il loro nome in Eumenidi) solo se questi ultimi vengono redenti dall’intervento della divinità. Padoan ha già sottolineato che nessuno tra i poeti classici più prossimi alla cultura di Dante riporta il mito delle Furie secondo la tradizione ellenica, sicché le tre divinità femminili, avendo smarrito l’originaria funzione di dee vendicatrici, assumono in ambito latino piuttosto il ruolo di dee della discordia, seminatrici tra gli uomini di guerre e omicidi. Da Virgilio ad Ovidio (che le pongono significativamente alle porte dell’Averno), da Lucano a Stazio, la raffigurazione dantesca di queste femmine furiose tiene ampiamente conto delle testimonianze letterarie antiche: la fisionomia delle Furie, che occupano la torre delle mura di Dite, obbedisce al canone iconografico fissato dagli esempi dell’Eneide, delle Metamorfosi e della Tebaide; per i particolari del sangue che lorda le membra dei mostri infernali (Aen. VI 555; Met. IV 481-484); per l’immagine orripilante di idre (Aen. VII 329 e 447; Met. IV 490-494), serpentelli e ceraste (Aen. VII 346-347 e 450; Met. IV 454; Theb. I 103-104, 115); per la furia infine con cui battono le palme, si graffiano il petto e levano grida (Theb. I 103-113). Ogni frammento, ogni particolare del quale si compone la descrizione di If IX 37-54 sembra presupporre la memoria delle fonti classiche citate (il cui elenco fornito da Padoan è stato opportuno sfoltire per l’imprecisione di alcuni riferimenti), sicché nessun elemento iconografico, che concorre a definire la fisionomia delle Furie dantesche sembrerebbe rivelare tratti di originalità rispetto agli antecedenti letterari. In realtà, se ci si misura attentamente con il testo della Commedia, apparirà che alcuni degli attributi assegnati alle ‘misere serve di Proserpina’ non sono certamente elementi ricorrenti nella tradizione latina: le lacrime di Aletto «che piange dal destro (canto)»; il riferimento al ruolo delle Furie come dee vendicatrici (in tal senso andrà interpretato il furioso rammarico del v. 54: «mal non vengiammo in Teseo l’assalto»); l’allusione alla loro condizione miserevole (racchiusa, come si è visto, nella definizione di «le meschine / de la regina de l’etterno pianto»). Con l’eccezione di una sola occorrenza, sia pure autorevole, in Theb. VIII 58-59 (dove le divinità infere sono chiamate Eumenidi), il pianto della Furia non trova ulteriori riscontri testuali limitatamente all’ambito delle fonti latine indagate: se è vero che in Aen. VII 324 Aletto, la più crudele delle sorelle infernali, viene definita la luctifica, così come in Met. IV 484-485 Tisifone, l’inportuna, è accompagnata lungo il suo cammino dal Luctus, personificazione del pianto, in nessuno di questi due casi tuttavia si fa largo l’immagine della Furia che piange per causa del proprio dolore. Ora, sebbene nessun veto interpretativo si opponga all’ipotesi di una mera invenzione dantesca, sarà opportuno ricordare come l’altro precedente letterario, senz'altro familiare alla Commedia, che attesti la rappresentazione delle tre divinità nell’atto di piangere (insieme ad implicazioni stilistiche non effimere), sia la Consolatio philosophiae all’altezza del carme 12 del libro III, ove si descrive, come nel già citato passo di Stazio (a sua volta probabile fonte boeziana), la discesa agli inferi di Orfeo. Il canto del poeta tracio ha valicato i confini dell’oltretomba e la sua dolcezza è capace di suscitare la pietà dei più crudeli tra i demoni infernali; persino le Furie vendicatrici cedono alla tristezza e prorompono in un pianto senza precedenti (vv. 31-33):
Quae sontes agitant metu
ultrices scelerum deae
iam maestae lacrimis madent,
Le Furie vengono presentate da Boezio secondo il più antico tratto ellenico di divinità della vendetta e del rimorso («ultrices scelerum deae»), che tra le altre auctoritates latine più presenti a Dante trova parziale riscontro solo in Virgilio (Aen. IIl 331, ove Oreste è agitato da più generiche «scelerum furiis»; Aen. IV 473 e 610, ove le Furie sono però appellate «Dirae ultrices»; Aen. VI 570, ove viene definita «ultrix» la sola Tisifone). Anche il particolare del pianto costituisce un elemento sporadico nell’ambito della tradizione latina; né sul piano dello stile sfugge il rilievo dell’attributo «mestae», che se da un lato qualifica la condizione emotiva delle divinità dall’altro richiama alla memoria la veste elegiaca che ammanta l’incipit della Consolatio (I m. 1, 1-4):
Carmina qui quondam studio florente peregi,
flebilis heu maestos cogor inire modos.
Ecce mihi lacerae dictant scribenda Camenae
Et veris elegi fletibus ora rigant.
Attraverso l’impiego del medesimo aggettivo con cui designerà in seguito le Furie, Boezio enuncia il contenuto della sua attuale poesia, che rispecchia la miseria della sua condizione presente; ci si può persino spingere ad affermare che nella lingua poetica boeziana il riferimento alla maestifia assume una certa valenza metaletteraria, richiamando quasi automaticamente la «miseria» che conforma lo stile elegiaco. La disgrazia attuale costringe infatti l’autore ad intonare un canto dimesso («maestos modos»), ma i mesti versi comportano anche una precisa assunzione di stile come poco dopo lo stesso Boezio dichiara apertamente, annunciando che il dettato delle sue Camene consiste esattamente nella scelta dell’elegia e nel pianto, al quale questo genere poetico corrisponde (vv. 3-4). Se il lemma «maestus» impiegato da Boezio richiama espressamente il significato di «misero», rivelando un chiaro intento elegiaco, allora è lecito ammettere che pure le Furie meste del carme su Orfeo, tanto più fissate nell’atto doloroso di piangere («lacrimis madent»), vanno interpretate in chiave elegiaca, secondo il dettato stilistico che sostanzia peraltro l’intero metro 12 del libro III. Come l’autore dichiara di sé nel carme inaugurale della Consolatio, le Furie si tormentano nella mestizia e versano lacrime obbedendo ad un genere iconografico di immediata decifrazione e costituendo al contempo un'immagine eccentrica rispetto al paradigma mitologico convenzionale. I contorni elegiaci dell’immagine boeziana, che troverà riscontro puntuale nel ritratto dantesco dei tre demoni infernali, emergono inoltre dai principali commenti medievali alla Consolatio; basti ricordare la chiosa al v. 33 di Nicola Trevet, il domenicano inglese contemporaneo di Dante, estensore negli anni trascorsi a Firenze (tra la fine del XIII ed i primissimi anni del XIV secolo) di un commento destinato ad una larghissima diffusione, che sulla base dell’auctoritas di Isidoro di Siviglia (Etym. VIII, XI 95) spiega l’appellativo delle Furie boeziane con un lemma dal significato inequivocabile: «iam mestae id est dolentes». Sebbene più tarda (1381), appare analogamente significativa di un’interpretazione in chiave elegiaca la chiosa al medesimo verso che si legge nel commento alla Consolatio di Regnier de SaintTrond: «Sed iste Furie audito Orpheo madent lacrimis quia non est vel saltem vix est tam prauius cogitacione verbo vel opere quin per eloquenciam sapientis in penitenciam et miseriam trahi possit», ove la condizione delle tre Furie, sconfitte dall’eloquenza del poeta, viene identificata con la penitenza e con la miseria.
I punti di contatto tra il carme boeziano ed i versi danteschi non si limitano tuttavia alla comune descrizione dei demoni nell’atto di spargere lacrime, né alla sostanziale sovrapponibilità semantica dei termini «maestae» e «meschine», con cui i due autori designano rispettivamente le divinità oltremondane: altrettanto compresente al carme della Consolatio come all’episodio dell'Inferno appare infatti la identificazione delle Furie con le dee vendicatrici della mitologia greca, che a Dante non poteva certo provenire direttamente né, come si è visto, attraverso la mediazione degli altri poeti latini che popolavano il suo scrittoio. Che il compito delle Furie fosse di perseguitare con terrore i colpevoli dei delitti più feroci come prefigurato dalla riscrittura boeziana, in cui esse vengono eloquentemente chiamate «ultrices», poteva inoltre essere appreso da Dante attraverso il commento alla Consolatio di Guglielmo di Conches, l’unico certamente accessibile al poeta, che glossa così il passo boeziano relativo alle Furie:
Sed istae dicuntur ultrices scelerum, vel quia quondam poenam conferunt sceleratis — multum enim torquentur cogitando malum, proloquendo, operando — vel quia causa sunt quare scelerati puniantur.
Il mosaico intertestuale, che è parzialmente emerso dal raffronto tra le Furie vendicatrici e misere analogamente boeziane e dantesche, può ancora comporsi di nuove tessere se l’indagine prende in esame l’unica occorrenza del lemma «meschino» rintracciabile nella Vita nova, prosimetro giovanile solo di recente accostato alla Consolatio con argomenti davvero convincenti intorno all’ipotesi di un inedito «Dante elegiaco». Nel sonetto Cavalcando l’altr'ier per un cammino il poeta «pensoso molto e accompagnato da molti sospiri» descrive l’incontro con Amore, apparso sulla sua strada in abiti da pellegrino (Vn 9 X 5-8):
Ne la sembianza mi parea meschino,
come avesse perduto segnoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.
In tal caso secondo il dizionario Battaglia si dovrà attribuire al lemma l’accezione di «intimidito, atterrito, sgomento»; mentre Peirone, pur ammettendo che qui «meschino può valere come ‘costernato, avvilito’», propone di estendere anche a questa occorrenza l’interpretazione di «servo» già avanzata in margine ad If IX 43, adducendo come possibile indizio il contenuto del verso successivo (v. 6), ove il riferimento all’aver perduto «segnoria» implicherebbe la servitù di Amore. Eppure una simile ipotesi non convince del tutto per il fatto che non sembra restituire all’intero passo piena coerenza di significato: che Dante vi abbia impiegato «meschino» nell’accezione di «servo» non è forse la soluzione più economica proprio alla luce dei versi immediatamente seguenti, nei quali semmai Amore viene raffigurato in atto di disperazione, rappresentato cioè secondo i caratteri iconografici dell’elegia come il ‘sospirare’ ed il procedere ‘a capo chino”. Inoltre si allude qui ad un tratto concreto dell’aspetto di Amore, ad una cifra visibile, quale è appunto l’afflizione del misero quando traspare dal suo sembiante ed alla cui oggettiva apparenza non sembra potersi ridurre il presunto riferimento alla servitù, stato al contrario tutt'altro che sensibilmente percepibile (e di percezione sensibile sta trattando il poeta quando allude alla «sembianza» di Amore). Leggendo a ritroso il libro della memoria del giovane Dante si può persino sospettare che il verso in questione («Ne la sembianza mi parea meschino») riproduca in modo speculare, pur nella logica di un ovvio rovesciamento semantico, il v. 12 del sonetto 4 ciascun'alma presa e gentil core («Allegro mi sembrava Amor tenendo / meo core in mano»): se infatti nel componimento iniziale la sembianza d’ Amore appariva allegra, tenendo egli in mano il cuore del poeta, ora che Amore reca il medesimo cuore «a servir novo piacere» il suo aspetto è divenuto «meschino». Se si ritiene plausibile la lettura parallela dei due testi della Vita nova, se si ipotizza cioè la corrispondenza tra la sorte del cuore di Dante e lo stato apparente di Amore, dapprima «allegro» e poi «meschino», allora inizia a vacillare l’interpretazione proposta da Peirone («servo»), né coglie del tutto nel segno l’accezione invocata da Battaglia («intimidito, atterrito, sgomento») e sembra semmai preferibile rispolverare il giudizio di Barbi-Maggini, che, ponendo l’accento sul motivo dell’afflizione di Amore, di fatto restituisce al predicativo dantesco quel significato di miseria e di dolore che collocherebbe la caratterizzazione della figura di Amore entro le coordinate stilistiche dell’elegia, come pure i versi successivi, con l’allusione ad una gestualità di segno inequivocabile. Nel commento Barbi-Maggini si legge infatti che «meschino» vale «costernato, avvilito» e la chiosa prosegue passando in rassegna altre occorrenze trecentesche della medesima voce (sono citati Boccaccio, Cino, Sacchetti e, per l’accezione analoga di «povero, misero», Il bestiario toscano) tutte assimilabili allo stesso significato, peraltro suggerito in questo caso anche dalla considerazione dell’atteggiamento generale di Amore, la cui gestualità sembra appunto veicolare l'impressione della miseria piuttosto che della servitù: «Qualcuno (Melodia) intende nel sonetto meschino per ‘servo’, come in Inf IX 43 e XXVII 115; ma che qui il senso sia l’altro è confermato dalla prosa della Vita Nuova (IX 4), che spiega: ‘Elli mi parea sbigottito’, parola che indica pure la costernazione e l’avvilimento»; e poco dopo si legge a proposito dei vv. 7-8, che descrivono l’apparenza di Amore («e sospirando pensoso venia, / per non veder la gente a capo chino»): «Anche l’atteggiamento mostra che Amore è costernato». Il commento Barbi-Maggini rimanda in proposito a If VIII 118 (vi si descrive il mesto ritorno di Virgilio dall’incontro con i diavoli, episodio che è preludio all’incontro dei due pellegrini con le Furie), ove ricorre l’immagine del ‘capo chino” da intendersi come segno di costernazione: «Li occhi a la terra e le ciglia avea rase / d’ogne baldanza»; e se non bastasse questa osservazione ad autorizzare il raffronto testuale, osservo che un ulteriore elemento di affinità lessicale tra i versi del sonetto ed il passo infernale risiede nell’occorrenza del ‘suono dei sospiri’, presente egualmente nell’uno e nell’altro caso come connotato del dolore e della miseria: il v. 119 di If VIII, riportato parzialmente da Barbi-Maggini, si conclude infatti con l’espressione «e dicea ne’ sospiri». L'atto di procedere «a capo chino» o «con li occhi a la terra», che ha i «sospiri» per corollario, si configura dunque nella concezione dantesca come peculiare attestazione del dolore, di uno stato dell’animo reso visibile dalla gamma di gesti convenzionali, che compongono un codice sia iconografico sia lessicale di immediata decifrabilità stilistica. Ancora un caso è riscontrabile nel libello giovanile, che rafforza l’ipotesi esegetica qui proposta circa l’impiego di «meschino» nel sonetto Cavalcando l’altr’ ier; si tratta dell’incipit di Voi che portate la sembianza umile (XXII 9 1-2), ove l’autore rivolgendosi a quelle donne che avevano pianto la morte del padre di Beatrice, nel descriverne l’aspetto ripropone lo schema elegiaco del procedere col capo chino in segno di dolore:
voi che portate la sembianza umile,
con li occhi bassi, mostrando dolore.
Qui l’autore riformula esattamente la rappresentazione già utilizzata per Amore, il cui smarrimento, sintetizzato dalla locuzione «meschino», si mostra «ne la sembianza» proprio come appare riconoscibile dal loro aspetto il dolore delle donne che hanno fatto visita a Beatrice (in questo luogo, per di più, il lessico elegiaco è incrementato dal termine chiave «umile»): in entrambi i casi il tratto esteriore, il segno inconfondibile dello stato d’animo avvertito dal poeta, risiede nel «capo chino» ovvero negli «occhi bassi». Per completare l’orizzonte esegetico relativo al sonetto Cavalcando l'altr’ ier ricordo che nella sua edizione del prosimetro dantesco anche Gorni accoglie un’interpretazione analoga a quella che qui si avanza; egli infatti spiega così l’accezione dell’appellativo «meschino» riferito ad Amore: «miserabile nell’aspetto’, come già nel vestire; antitetico alla gaia sembianza di 3. 6, v. 14 (nella prosa era sbigottito)».
A questo punto sarà bene ricordare un significativo precedente letterario, tanto più pertinente se sì tiene conto della veste dichiaratamente elegiaca che lo contrassegna: la Consolatio philosophiae, segnatamente in quella prosa iniziale del libro I che tratta dell’apparizione della Filosofia e della cacciata delle Sirene poetiche, dolce ed esiziale consolazione per il poeta dei ‘mesti canti’. Qui infatti l’autore descrive l’atteggiamento delle sue Muse, dopo che esse hanno ricevuto il duro rimprovero della «mulier reverenda», secondo una modalità di rappresentazione non troppo dissimile da quella appena messa in evidenza nei casi danteschi esaminati (Cons. I pr. 1, 12):
His ille chorus increpitus deiecit humi maestior vultum confessusque rubore verecundiam limen tristis excessit.
Il tratto essenziale che connota le Muse boeziane è la mestizia ed il modo in cui questo stato d’animo si manifesta è lo sguardo chinato verso terra («humi ... vultum»), in segno di dolore ovvero nel tipico atteggiamento dell’afflizione e della miseria che pertiene in effetti al loro statuto poetico (si ricordi che le Camene dettano al poeta versi elegiaci); inoltre nel paragrafo successivo è Boezio stesso ad attribuirsi il medesimo atteggiamento, conseguenza dello sgomento e del dolore che lo sommergono di lacrime (« ... obstupui visuque in terram defixo»).
Il frammento boeziano fa così registrare gli estremi per un ulteriore raffronto testuale con la Vita nova, questa volta con la prosa precedente i versi finora presi in esame (Fn 9 IV), ove l'apparenza di Amore richiama molto da vicino il modo prescelto dall’autore della Consolatio per rappresentare l’elegiaca mestizia del suo stato («Elli mi parea disbigottito, e guardava a la terra»). È facile constatare che l’aggettivo con cui Dante descrive lo sbigottimento di Amore corrisponde alla traduzione letterale del perfetto latino impiegato da Boezio in prima persona (obstupui da obstupesco).
In conclusione le Muse con gli occhi protesi verso terra della Consolatio ricordano nitidamente Amore col capo chino della Vita nova, tanto più che il parallelismo, già pertinente rispetto alla comune immagine degli occhi bassi con cui si traduce visivamente il sentimento dell’afflizione, può essere esteso sul piano lessicale all’accezione, a mio avviso analoga, degli aggettivi impiegati dai due autori per designare la condizione di miseria dei loro rispettivi personaggi: «maestior» è il coro di Boezio, «meschino» il dio pellegrino di Dante. Un accostamento che non giunge nuovo, se si considera il caso identico delle Furie infernali, a loro volta chiamate «maestae» in Cons. III m. 12, 33 e «meschine» in If IX 43; anch’esse nell’ambito di un contesto che sul piano stilistico molti indizi suggeriscono di classificare come elegiaco in virtù della presenza, più o meno resa esplicita dai due autori, di tracce connotative del genere humilis.
Se ha validità l'accostamento tra le rappresentazioni di Amore e delle Muse anche sulla scorta dell’interpretazione di Barbi-Maggini (ripresa da Gorni), ne consegue che almeno in due dei tre casi nei quali Dante impiega il lemma «meschino» ricorrono precisi elementi lessicali e stilistici, che suggeriscono un confronto intertestuale con la Conso/atio. Nelle due attestazioni esaminate (Vn 9 X 5-8 e If IX 43) l’intertestualità consente di rilevare l’occorrenza dell’aggettivo «maestus» in Boezio ogni volta che in Dante ricorre il sostantivo/aggettivo «meschino», sì da proiettare quest’ultimo nell’orbita di un registro elegiaco, che se di regola è accolto per il testo boeziano, soprattutto limitatamente ai casi passati in rassegna (I pr. 1; III m. 12), viene in genere trascurato a proposito dei passi danteschi presi in esame.