Dati bibliografici
Autore: Thomas S. Eliot
Tratto da: Scritti su Dante
Editore: Bompiani, Milano
Anno: 2016
Pagine: 17-51
Nella mia esperienza di lettore di poesia ho sempre notato che quanto minori erano le informazioni che avevo sul poeta e la sua opera - prima di iniziare a leggerla - e tanto meglio era. Una citazione, un'osservazione critica, una monografia stimolante possono indubbiamente rappresentare per qualcuno una motivazione per leggere un certo autore, ma un complesso bagaglio propedeutico di informazioni storiche e biografiche ha sempre rappresentato per me una barriera. Non voglio qui difendere una preparazione scientifica mediocre; anzi, devo ammettere che, se questo. metodo venisse assunto a norma, assai difficilmente si potrebbe applicare allo studio della cultura greco-latina. Ma nel caso di autori che scrivono nella stessa lingua materna del lettore, o comunque si esprimono in una lingua madre, tale atteggiamento è possibile. In sostanza, è meglio sentirsi spronati a darsi una preparazione culturale perché si gusta la poesia, piuttosto che credere di gustare la poesia come conseguenza dell’acquisizione di una preparazione culturale. Personalmente ho nutrito una gran passione per certi poeti francesi assai prima di essere in grado di tradurne due versi correttamente.
Nel caso di Dante, poi, il divario tra gustare e capire è stato ancora maggiore.
Non consiglio a nessuno di studiare la grammatica italiana solo dopo aver letto Dante, ma è pur vero che esiste un immenso bagaglio di conoscenze di cui decisamente non si sente la necessità finché non si è letta prima una parte della sua poesia con piacere intenso, ovvero, con quel profondo piacere che si è in grado di trarre da qualsiasi esperienza poetica. Nell'affermare questo voglio evitare due posizioni critiche estreme. Si potrebbe dire che comprendere il disegno, la filosofia, i significati nascosti nella poesia dantesca sia essenziale per una sua valutazione; ma si potrebbe altrettanto affermare che tali fatti sono abbastanza irrilevanti, e che la qualità poetica dei versi di Dante si può cogliere indipendentemente dallo studio della struttura di cui l’autore si era servito nella creazione dell’opera poetica, ma non altrettanto risulterebbe utile al lettore per gustarla. Questo secondo errore è il più frequente, ed è forse la ragione per cui la conoscenza della Commedia, da parte di molte persone, è limitata all’Inferno, o addirittura a certi suoi passi. Il fatto di gustare la Divina Commedia è un processo continuo. Se non se ne ricava niente al primo approccio, probabilmente ciò non avverrà più; ma se, fin dai primi momenti, ci coglierà di tanto in tanto un certo shock d'intensità poetica, solo la pigrizia potrà smorzare il desiderio di una conoscenza sempre più appagante.
Ciò che sorprende nella poesia dantesca è, in un certo senso, la sua estrema facilità di lettura. È una prova (una prova positiva, non dico che sia sempre valida al negativo) che la poesia autentica può comunicare prima di farsi capire. L'impressione può essere verificata se la conoscenza viene approfondita. In Dante, come in molti altri poeti i cui idiomi non erano a me familiari, ho notato che tali impressioni non avevano nulla di fantasioso. Non erano dovute, cioè, a un fraintendimento del passo, o al fatto di leggervi qualcosa che non c'era, oppure a evocazioni sentimentali fornite dal mio passato. L'impressione era genuina e, credo, di quelle prodotte da una vera "emozione poetica". Ma ci sono altre ragioni particolari per questa esperienza di una prima lettura dantesca, che giustificano la mia affermazione che Dante si legge con facilità. Non voglio dire che egli scriva in un italiano semplice, poiché ciò non è affatto vero, né che i suoi contenuti siano semplici o siano sempre espressi con semplicità. In realtà sono spesso esposti con una tale forza di compressione che è necessario un intero paragrafo per spiegare tre versi, e un’intera pagina di commento per chiarirne i riferimenti. Intendo dire che Dante, in un senso che si dovrà definire (poiché la parola dice poco in sé), è il poeta più "universale" che abbia scritto in una lingua moderna. Ciò non significa che egli sia "il più grande" o il più completo giacché, per esempio, vi è maggior varietà e capacità di dettaglio in Shakespeare. L'universalità di Dante non è unicamente un fatto personale. La lingua italiana, e specialmente l'italiano dei tempi di Dante, ci guadagna molto per il fatto di essere il prodotto del latino, lingua universale. Esiste qualcosa di molto più locale nelle lingue in cui si dovevano esprimere Shakespeare e Racine. Ma, ancora una volta, ciò non significa che, quali veicoli di poesia, l'inglese e il francese fossero inferiori all'italiano. La varietà dell'italiano del tardo medioevo era ancora assai vicina a quella del latino, come espressione letteraria, tant'è vero che uomini come Dante, che ne facevano uso, venivano istruiti in latino medioevale in filosofia come in tutte le materie astratte. Ora, il latino medioevale è una lingua assai bella e sottile; in esso venivano scritte la buona prosa e tutta la buona poesia, ed esso possedeva la caratteristica di un esperanto altamente sviluppato e letterario. Quando si legge la moderna filosofia, in inglese, francese, tedesco o italiano, si è colpiti da differenziazioni di pensiero nazionali o razziali: le lingue moderne tendono a separare il pensiero astratto (la matematica è oggi l'unica lingua universale); ma il latino medioevale tendeva invece a presentarsi come veicolo di pensiero quando uomini di razza e terra diverse si trovavano riuniti. Un certo carattere di questa lingua universale mi sembra appartenga alla parlata fiorentina di Dante, e la localizzazione (la parlata di Firenze) sembra addirittura che sottolinei l'universalità, poiché esclude il moderno concetto di divisione nazionale. Per gustare la poesia francese o tedesca penso si debba avere una certa simpatia con la mentalità francese o tedesca. Dante, pur essendo un italiano e un uomo di parte, è prima di tutto un europeo.
Questa differenza, che è uno dei motivi per cui Dante è “facile a leggersi”, può essere discussa sotto vari aspetti. Lo stile di Dante possiede una particolare lucidità, una lucidità poetica, distinta da una lucidità intellettuale. Il pensiero potrà essere oscuro, ma la parola è lucida o, meglio, trasparente. Nella poesia inglese le parole hanno un tipo di opacità che fa parte della loro bellezza. Non che la bellezza della poesia inglese sia ciò che viene chiamata pura "bellezza verbale". Si tratta piuttosto del fatto che le parole hanno delle associazioni, e i gruppi di parole in associazione danno luogo a loro volta ad altre associazioni, il che viene a costituire una specie di autocoscienza localizzata, nel senso che sono lo sviluppo di una cultura particolare; e la stessa cosa vale per altre lingue moderne. L'italiano di Dante, anche se è fondamentalmente l'italiano di oggi, non è in questo senso una lingua moderna. La cultura di Dante non era quella di un paese europeo, ma quella dell'Europa. Mi rendo conto, naturalmente, di una sincerità di linguaggio che Dante ha in comune con altri grandi poeti del periodo preriformistico e prerinascimentale, in particolare Chaucer e Villon. Vi è senz'altro qualcosa in comune nei tre, al punto di supporre che chi ammira uno di essi dovrebbe ammirare anche gli altri, e certamente vi è pure una opacità, un ispessimento dello stile poetico in tutta l'Europa dopo il Rinascimento. Ma la lucidità e l'universalità di Dante vanno ben oltre queste qualità di Villon e Chaucer, benché siano affini.
Esistono altri motivi che rendono Dante più "facile a leggersi" per uno straniero che non conosca benissimo l'italiano: tutti comunque collegati a questo tema centrale, ossia che al tempo di Dante l'Europa, con tutti i suoi contrasti e le sue empietà, era spiritualmente più unita di quanto possiamo pensare. Non fu il trattato di Versailles che separò gli stati: il nazionalismo era nato assai prima, e il processo di disgregamento che per la nostra generazione è culminato con quel trattato ebbe inizio subito dopo il tempo di Dante. Vedremo subito uno dei motivi della "facilità" di Dante, ma prima devo fare una digressione.
Devo spiegare perché ho detto che Dante è "facile a leggersi", invece di parlare della sua "universalità". Questa parola sarebbe stata assai più facile da usare. Ma non voglio che si pensi che io attribuisco a Dante un'universalità che nego a Shakespeare o a Molière o a Sofocle. Dante è "universale" quanto Shakespeare, né più né meno: benché io pensi che sia più facile per uno straniero avvicinarsi a Dante che non agli altri. Shakespeare, o Sofocle, o Racine, o Molière trattano una materia altrettanto universale quanto quella di Dante, ma essi non avevano altra scelta che quella di trattarla in un modo più locale. Ripeto, l'italiano di Dante è molto vicino alla sensibilità del latino medioevale: e tra i filosofi medioevali che Dante lesse, e che erano letti dagli uomini colti del suo tempo, troviamo, per esempio, San Tommaso, italiano; il predecessore di San Tommaso, Alberto, tedesco; Abelardo, francese; e Ugo e Riccardo da San Vittore, scozzesi. Quanto al mezzo che Dante si trovò a usare, si confronti l'inizio dell'Inferno:
Nel mezzo del cammin cli nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita,
con i versi che introducono Duncan al castello di Macbeth:
This castle hath a pleasant seat; the air
Nimbly and sweetly recommends itself
Unto our gentle senses.
This guest of summer
The temple-haunting martlet, does approve
By his loved masonry that the heaven's breath
Smells wooingly here: no jutty, frieze,
Buttress, nor coign of vantage, but this bird
Hath made his pendant bed and procreant cradle:
Where they most breed and haunt, I have observed
The air is delicate.
Non pretendo affatto che si debba apprezzare tutto ciò che, anche in un solo verso di Dante, un italiano colto è in grado di trovarci. Ma insisto nel dire che si perde di più traducendo Shakespeare in italiano di quanto si perda nel tradurre Dante in inglese. Com'è possibile che uno straniero trovi nel proprio idioma parole che comunicano esattamente quel connubio tra chiarezza e oscurità che troviamo così spesso in Shakespeare?
Non mi interessa sapere se sia superiore la lingua di Dante o quella di Shakespeare, dal momento che non mi pongo nemmeno la questione: affermo semplicemente che le differenze sono tali da rendere Dante più facile per uno straniero. La sua prerogativa non è dovuta a un genio più grande, quanto piuttosto al fatto che egli scrisse in un'epoca in cui l'Europa era ancora più o meno culturalmente unitaria. E anche se Chaucer o Villon fossero stati esattamente contemporanei di Dante, sarebbero ugualmente stati, sia linguisticamente che geograficamente, più remoti dal centro d'Europa di quanto lo fu Dante. Ma la semplicità di Dante ha un altro carattere particolare. Non solo egli pensava allo stesso modo di chiunque altro della sua stessa cultura, in Europa, ma impiegava un metodo altrettanto comune, in quanto a comprensibilità, in tutta l'Europa. Non voglio qui entrare in questioni sulle varie interpretazioni delle allegorie dantesche. Interessante per me rimane il fatto che il metodo allegorico era un procedimento ben preciso e non limitato alla sola Italia, e, in secondo luogo, il fatto, apparentemente paradossale, che il metodo allegorico si presta per semplicità e comprensibilità. Siamo inclini a concepire l’allegoria come uno schema noioso di enigmistica, e ad associarlo a composizioni stucchevoli (come il Roman de la Rose, per citare il migliore), o magari a vedere il fenomeno come un fatto irrilevante quando si tratta di un grande poema. Non consociamo invece, come nel caso di Dante, quale sia il suo particolare effetto in termini di lucidità di stile.
A una prima lettura del canto I dell’Inferno non consiglieri di preoccuparsi dell’identità delle Lonza, del Leone o della Lupa. È preferibile ignorare, non interessarsi di ciò che queste figure significano. Dovremmo piuttosto considerare non tanto il significato delle immagini, ma il processo inverso, ossia quello che permette a chi possiede un’idea di esprimerla in immagini. Dobbiamo considerare quel tipo di intelletto che, attraverso la natura e l'esperienza, cercò di esprimersi in termini allegorici: e, per un poeta capace, allegoria significa chiare immagini visive. E un'immagine visiva chiara sarà tanto più intensa se dotata di significato (non ci interessa sapere quale ma, nel cogliere l'immagine, va da sé che dobbiamo ammettere in essa la presenza di un significato). L’allegoria è solo un procedimento poetico, ma un procedimento dotato di molti vantaggi.
Quella di Dante è una immaginazione visiva. Lo è in un senso diverso da quello riferibile a un pittore contemporaneo di nature morte: è visiva in quanto egli visse in un'epoca in cui la gente aveva ancora delle visioni. Si tratta di un atteggiamento psicologico di cui abbiamo dimenticato il meccanismo, che rimane comunque valido come qualsiasi altro. Ora non conosciamo null'altro che l'esperienza del sogno; e abbiamo dimenticato che avere delle visioni - un fenomeno ormai relegato a forme di aberrazione o di ignoranza - era un tempo un modo più espressivo, più interessante e più ordinato di sognare. Diamo per scontato che i nostri sogni abbiano origine dal basso ed è per questo, forse, che la loro qualità ne soffre di conseguenza.
A questo punto, ciò che chiedo al lettore è di farsi sull’allegoria un’idea chiara e possibilmente priva di ogni pregiudizio, e di ammettere almeno che non si trattava di un meccanismo che permettesse di scrivere versi a chi era privo di ispirazione, ma piuttosto di una disposizione mentale che, quando toccava il livello del genio, poteva fare di un uomo un grande poeta come pure un grande mistico o un santo. Ed è proprio l’allegoria che permette a quei lettori che non conoscono neppure tanto bene l'italiano di gustare Dante. Il linguaggio cambia, ma i nostri occhi sono sempre gli stessi. L’allegoria non era certo una caratteristica italiana, ma un metodo diffuso in tutta l'Europa.
Il tentativo di Dante consiste nel far vedere a noi ciò che egli ha visto. Per tale motivo egli fa uso di un linguaggio molto semplice e di pochissime metafore, dal momento che allegoria e metafora non vanno d'accordo. E, infine, vi è una caratteristica nei suoi paragoni su cui vale la pena di soffermarci brevemente.
Nel bellissimo canto XV dell'Inferno vi è una similitudine, o paragone, assai noto, che giustamente Matthew Arnold rivelò come degno di singolare apprezzamento e che è tipico del modo in cui Dante fa uso di queste figure. Egli parla della moltitudine che scrutava lui e la sua guida in una luce fioca:
E sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Lo scopo di questo tipo di similitudine è unicamente quello di farci vedere più distintamente la scena di fronte alla quale Dante ci ha posto nei versi precedenti.
She looks like sleep,
As she would catch another Antony
In her strong toil of grace.
L'immagine di Shakespeare è molto più complessa di quella di Dante, assai più di quanto non sembri. La sua forma grammaticale è quella della similitudine (del tipo "come se"), ma naturalmente catch in her toil ["imprigionare nella rete"] è una metafora. Ma mentre la similitudine e di Dante ha semplicemente lo scopo di farci vedere più distintamente l'aspetto di quella moltitudine, ed è perciò chiarificante, l'immagine di Shakespeare è più un'espansione che una concentrazione: il suo scopo è quello di aggiungere a ciò che vediamo (sulla scena o nella nostra immaginazione) un richiamo a quel fascino di Cleopatra di cui è intessuta la sua storia e quella del mondo, un fascino così forte da risaltare anche nel momento della morte. E un significato meno afferrabile e più difficile da cogliere per chi non ha una buona conoscenza dell'inglese. Nel caso di uomini capaci di simili creazioni poetiche non ha senso parlare di maggiore o minore grandezza. Ma, poiché tutto il poema di Dante è, se vogliamo, un'unica grande metafora, ci risulta difficile coglierla nei suoi singoli punti.
Tanto più vi è motivo di approfondire la conoscenza del poema dantesco punto per punto, soffermandoci specialmente su quei passi la cui bellezza ci colpisce subito, se pensiamo che è impossibile cogliere in profondità il senso di una parte qualsiasi senza conoscere l'intero poema. Non potremo comprendere le parole scolpite sulla porta dell'Inferno:
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore,
finché non saremo saliti fino all'empireo e non ne saremo ridiscesi. E tuttavia, quel primo episodio. di Paolo e Francesca che tanto colpisce, sin dalla prima lettura, la maggior parte dei lettori, lo possiamo capire al punto di commuoverci come per una qualsiasi altra composizione poetica. Il passo è introdotto da due similitudini dello stesso tipo esplicativo di quello appena citato:
E come li stornei ne portan l'ali,
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali;
E come i gru van cantando lor lai
faccendo in aere di sé lunga riga,
cosi vid'io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga.
Anche se non comprendiamo il significato che Dante gli attribuisce, siamo tuttavia in grado di vedere e sentire la situazione dei due amanti perduti. Se consideriamo questo episodio isolato dal resto, potremo ricavarne tanto materiale quanto da un intero dramma di Shakespeare, la cui opera del resto non possiamo comprendere da un'unica lettura, e certo nemmeno da quella di un unico dramma. Esiste un collegamento tra i vari drammi shakespeariani considerati in un certo ordine; ed è un lavoro di anni azzardare anche una sola ipotesi personale circa la struttura del tessuto shakespeariano, che forse egli stesso neppure conosceva. Può darsi sia uno schema più vasto, ma certamente meno distinto di quello di Dante. Versi come i seguenti possiamo già comprenderli in tutta chiarezza:
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto, come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Non appena arriviamo a collocare l'episodio al suo posto nella Commedia, e vediamo come questa pena sia in rapporto con tutte le altre pene, purificazioni e premi, allora riusciamo ad apprezzare ancor meglio la sottile psicologia del semplice verso di Francesca:
Se fosse amico il re de l'universo,
oppure del verso:
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
o infine di quello già citato:
Questi, che mai da me non fia diviso.
Procedendo nella nostra lettura dell'Inferno osserviamo una serie di immagini successive, fantasmagoriche ma chiare, immagini concatenate in quanto ciascuna rinforza la precedente; immagini di persone, tramandate da una locuzione perfetta come i versi dell’orgoglioso Farinata:
Ed el s'ergea col petto e con la fronte,
com' avesse l'inferno a gran dispitto,
e incontriamo certi episodi più estesi che rimangono impressi nella memoria, separati l'uno dall'altro. Penso che l'episodio di Brunetto Latini (canto xv), quelli di Ulisse (canto XXVI), di Bertrand de Born (canto XXVIII), di Adamo da Brescia (canto xxx) e di Ugolino (canto XXXIII) siano tra quelli che, a una prima lettura, si debbano citare come i più penetranti. È certamente sbagliato leggere saltando qua e là: assai meglio è procedere gradualmente e attendere finché questi episodi si presentano nel testo. Eppure essi sono presenti nella mia memoria come quei punti dell'Inferno che mi hanno convinto sin dal primo momento, specialmente gli episodi di Ulisse e Brunetto Latini, che ho affrontato senza una preparazione, senza aver letto prima una nota, un riferimento. C'è qualcosa in comune tra i due: il primo è la testimonianza di Dante sul maestro che egli ha amato, il secondo la ricostruzione di una figura leggendaria dell'epica antica; entrambi possiedono quella qualità di sorpresa che Poe affermò come essenziale nella poesia. Una sorpresa che, all'apice del suo effetto, non poteva essere meglio descritta se non dai versi con i quali Dante si allontana dal maestro che egli ama e rispetta:
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.
Questi versi colpiscono la nostra sensibilità anche se non sappiamo che cosa potesse essere la corsa del drappo verde; nel far correre Brunetto, un dannato, come colui che vince, Dante attribuisce alla pena una qualità che è propria della poesia più grande. Così, Ulisse, invisibile nel corno della fiamma:
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
Indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: "Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta..."
è una creatura di pura immaginazione poetica, comprensibile anche se fosse staccata dal luogo, dal tempo e dallo schema del poema. L'episodio di Ulisse potrebbe apparire come una sorta di divagazione, di estraneità, di libertà che Dante si prende allontanandosi un po' dalla sua impostazione cristiana. Tuttavia la conoscenza dell'intero poema ci rivela in quale modo astuto e convincente Dante faccia apparire come persone vere i contemporanei, gli amici e i nemici, personaggi recenti, figure leggendarie, bibliche o dell'antica narrativa. Egli è stato accusato e compatito per aver appagato i propri rancori mettendo nell'Inferno uomini che aveva conosciuto e odiato; ma costoro, al pari di Ulisse, vengono completamente trasformati, poiché ognuno, sia esso vero o inventato, rappresenta un tipo di peccato, di sofferenza, di colpa o di merito, e tutti vengono a far parte di una medesima realtà e contemporaneità. L'episodio di Ulisse è particolarmente "leggibile", credo, in quanto è un resoconto diretto e lineare che risulterà assai istruttivo se un lettore inglese lo confronterà con Ulysses di Tennyson, un poema perfetto, del resto. Varrà la pena di notare, a tale proposito, la notevole capacità di semplificazione che presenta la versione dantesca. Tennyson, come la maggior parte dei poeti, anche di coloro che possiamo definire grandi, è costretto a ottenere il suo effetto mediante alcune forzature. Così il verso riferito al mare, che
Moans round with many voices,
vero saggio di virgilianesimo tennysoniano, è eccessivamente poetico, se lo paragoniamo con Dante, per poterlo considerare sublime poesia. Solo Shakespeare riesce altrettanto "poetico" senza risultare ridondante e senza distrarci da quello che è il tema principale:
Put up your bright swords or the dew will rust them.
Ulisse e i suoi compagni attraversano le colonne d'Ercole, quella "foce stretta"
Dov' Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilla,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi, ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza."
Essi procedono finché all'improvviso
n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso,
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.
La storia di Ulisse, così come la racconta Dante, si legge come un semplice frammento di narrazione fantastica, come il racconto interessante di un marinaio; in Tennyson la figura di Ulisse appare prima di tutto come quella di un poeta estremamente autoconsapevole. E tuttavia il poema è piatto, ha solo due dimensioni: in esso non vi è nulla da scoprire più di quanto non possa vedere un inglese medio, dotato di una qualche sensibilità per la bellezza verbale. Non c'è bisogno, all'inizio, di sapere di quale montagna si tratti, o che cosa significhino le parole "com'altrui piacque", per sentire che il senso di Dante raggiunge ben altre profondità.
Varrà anche la pena di sottolineare quanta ragione avesse Dante di introdurre tra i suoi personaggi storici almeno uno che difficilmente potesse essere, anche per lui, qualcosa di più che un'invenzione. Infatti l'Inferno è privo di qualsiasi aspetto meschino o di arbitrarietà nella selezione che Dante fa dei dannati. L'Inferno - Dante ci rammenta - non è un luogo ma uno stato; l'uomo è dannato o salvato sia come creatura immaginata che come persona realmente vissuta e, benché sia uno stato, l'Inferno può essere soltanto pensato come tale, o forse soltanto vissuto, attraverso la proiezione di immagini sensoriali. E, infine, la resurrezione della carne ha forse un significato più profondo di quanto possiamo capire. Ma queste sono considerazioni che possiamo fare solo dopo molte letture; in realtà non sono necessarie agli effetti di una prima lettura poetica.
L'esperienza della poesia è frutto sia di un momento che di tutta una vita. Assomiglia, molto a quell'esperienza più intensa che abbiamo attraverso la conoscenza di altri esseri umani. Esiste un momento iniziale che è unico, che è di shock, di sorpresa, o addirittura di terrore (Ego Dominus tuus); un momento che non si può scordare, ma che è irripetibile; che, infine, perderebbe ogni significato se non sopravvivesse in un più vasto strato di esperienze, come in realtà avviene, ma che una sensazione di calma profonda. La fruizione estetica di gran parte della poesia è un’esperienza che, una volta fatta, si supera, come si trapassano o si superano gran parte delle passioni umane; ma, nel caso di Dante, è lecito solo sperare di maturarne l’esperienza alla fine dei nostri giorni.
L'ultimo canto (XXXIV) è forse quello che risulta più difficile a una prima lettura. La visione di Satana può apparire grottesca, specialmente se abbiamo presente il riccioluto eroe byroniano di Milton: una specie di Satana come può apparire in un affresco senese. Certamente l'essenza del male non può sentirsi costretta, più di quanto lo sia uno spirito divino, a un'unica forma e luogo. E confesso che mi sento portato a ricevere da Dante l'impressione di un diavolo sofferente come una qualsiasi anima umana di dannato e, d'altronde, penso che il tipo di sofferenza dello spirito del male dovrebbe essere rappresentato in modo totalmente diverso. Mi limiterò a dire che Dante ha cercato qui di fare del suo meglio. Vedendo Bruto, il nobile Bruto, e Cassio riuniti a Giuda Iscariota, un lettore inglese potrà sentirsi inizialmente a disagio: per costui, infatti, Bruto e Cassio devono sempre corrispondere ai personaggi di Shakespeare. Ma se la mia giustificazione di Ulisse è valida, allora lo sarà pure la presenza di Bruto e Cassio. Se qualcuno si sente urtato dall'ultimo canto dell'Inferno, gli chiedo solo di pazientare finché avrà letto, e magari poi riletto per l'arco di molti anni, l'ultimo canto del Paradiso, che per me è il punto più alto che la poesia abbia mai toccato o potrà mai raggiunge, dove Dante ci ripaga ampiamente di qualsiasi difetto che il canto XXXIV dell'Inferno possa avere. Ma forse è meglio, a una prima lettura dell'Inferno, trascurare l'ultimo canto e tornare piuttosto all'inizio del canto III:
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e 'l primo amore.
Agli effetti di una tecnica poetica, o arte di scrivere versi, l'Inferno ci insegna che è possibile creare sublime poesia con una estrema economia lessicale di metafore, di similitudini, di parole belle ed eleganti. Quando affermo che si può imparare meglio a scrivere poesia da Dante che non da qualsiasi poeta inglese, non voglio affatto dire che quello di Dante sia l'unico modo possibile di scrivere, né che Dante sia in qualche misura più grande di Shakespeare o di qualsiasi altro poeta inglese. Cercherò di esprimermi diversamente, dicendo che Dante può nuocere meno a chiunque cerchi di apprendere a scrivere poesia di quanto non possa fare Shakespeare. Il fatto è che moltissimi grandi poeti inglesi sono inimitabili, ciò che invece non accade con Dante. Se cerchiamo di imitare Shakespeare, otterremo una serie di distorsioni di linguaggio artificiose, forzate e violente. La lingua di ogni grande poeta inglese è una sua propria lingua; la lingua di Dante è la perfezione di un comune idioma. In un certo senso, è più pedestre di quella di Dryden o di Pope. Se seguite Dante privi di talento personale, risulterete nel peggiore dei casi pedestri e piatti; ma, se cercate di imitare Shakespeare o Pope senza talento, apparirete addirittura ridicoli.
Dell'Inferno abbiamo visto quanto basta per capire ciò che vi è da imparare. Vediamo ora che cos'altro ci insegnano le due successive cantiche. Dal Purgatorio si impara che una schietta osservazione filosofica può essere grande poesia; dal Paradiso, che un sempre più rarefatto e remoto stato di beatitudine può risultare materia di grande poesia. Un po’ alla volta arriveremo ad ammettere che Shakespeare comprende sì una maggiore quantità e varietà di aspetti di vita di Dante, ma che Dante è in grado di capire livelli più profondi di degradazione e livelli più alti di esaltazione. E maggiore esperienza acquisteremo nel vedere chiaramente che questo è il grado di parità tra i due.
Per certi aspetti il Purgatorio e il Paradiso, in quanto a comprensione, si equivalgono. È apparentemente più facile accettare come materia di poesia la dannazione che non l'espiazione o la beatitudine; la prima, infatti, appare più conforme alla mentalità moderna. Insisto nel ripetere che il vero significato dell’Inferno può essere colto soltanto dopo una buona lettura delle altre due parti, e tuttavia l’Inferno si fa comprendere abbastanza bene anche da solo, per una prima lettura. In realtà io credo che il Purgatorio sia la più difficile delle tre cantiche. Infatti non può essere gustata separatamente, come l’inferno, né si può leggere semplicemente come una continuazione di questo. Inoltre implica anche la lettura del Paradiso, il che significa che una prima lettura risulterà difficile e poco gratificante. Il Purgatorio comincerà a rivelare le sue bellezze solo dopo che avremo letto completamente il Paradiso e riletto l'Inferno. Saranno allora la dannazione e la beatitudine a risultare più stimolanti dell'espiazione.
In compenso, nel Purgatorio incontriamo alcuni episodi, per così dire, "confortanti" (nel senso contrario di "rattristanti") assai più spesso che nell'Inferno. Non dobbiamo cessare di orientarci secondo la nuova astronomia della Montagna del Purgatorio. All'inizio dobbiamo soffermarci sulle ombre di Casella e di Manfredi e, in particolare, su quelle di Buonconte e Pia de' Tolomei, le cui anime furono salvate dalla dannazione soltanto all'ultimo momento.
"Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte."
E io a lui: "Qual forza o qual ventura
ti traviò sl fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?".
"Oh", rispuos'elli, "a piè del Casentino
traversa un'acqua c' ha nome l'Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino.
Là 've 'l vocabol suo diventa vano,
arriva' io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sangui nando il piano.
Quivi perdei la vista, e la parola,
nel nome di Maria fini': e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola."
Alla fine del racconto di Buonconte, si fa avanti il terzo spirito:
"Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
"ricordìti di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecerni Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m' avea con la sua gemma."
L'episodio successivo che colpisce un lettore che arriva fresco da una lettura dell'Inferno è l'incontro con il poeta Sordello (canto VI), la cui anima appare
altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda! […]
E 'l dolce duca incominciava
"Mantua..." e l'ombra, tutta in sé romita,
surse ver' lui del loco ove pria stava,
dicendo: "O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!"; e l'un l'altro abbracciava.
L'incontro con Sordello, "a guisa di leon quando si posa", è non meno toccante di quello col poeta Stazio, canto XXI. Stazio, nel riconoscere il suo maestro Virgilio, si inginocchia per abbracciargli i piedi, e questi - anima perduta che si rivolge a quella salvata - risponde:
"Frate,
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi."
Ed ei surgendo: "Or puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand'io dismento nostra vanitate,
trattando l'ombre come cosa salda."
Un ultimo episodio del tutto paragonabile a quelli dell'Inferno è l'incontro di Dante con i suoi predecessori, Guido Guinizelli e Arnaud Daniel (canto XXVI). In questo canto i lussuriosi espiano la loro colpa nel fuoco, ma è evidente quanto la fiamma del Purgatorio sia diversa da quella dell'Inferno. In questo il tormento nasce proprio dalla natura degli stessi dannati, ed esprime la loro essenza: essi si dibattono nel tormento della loro natura perpetuamente perversa. In Purgatorio il tormento del fuoco è deliberatamente e consapevolmente accettato dal penitente. Le anime che Dante avvicina insieme con Virgilio nella fiamma purificatrice si affollano intorno a lui:
Poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir 'dove non fosser arsi.
Essi soffrono perché desiderano soffrire allo scopo di espiare, e si noti che essi soffrono più attivamente e intensamente - in quanto si preparano alla beatitudine - di quanto non soffra Virgilio nel suo limbo eterno. Nella loro sofferenza vi è speranza, nell'anestesia di Virgilio vi è disperazione, e la differenza sta proprio in ciò. Il canto termina con i superbi versi in provenzale di Arnaud Daniel:
"Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi, qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!"
Poi s'ascose nel foco che li affina.
Sono questi gli episodi di rilievo, che un lettore iniziato attraverso l'Inferno non deve abbandonare finché non avrà raggiunto la riva del Lete, Matelda e la prima visione di Beatrice. Negli ultimi canti (XXIX-XXXIII) del Purgatorio siamo già nell'atmosfera del Paradiso. Ma, intercalato a questi episodi, vi è il racconto dell’ascesa della montagna con i suoi incontri, le sue visioni, le esposizioni filosofiche, tutti importanti e tutti difficili per un lettore impreparato che trova ciò meno eccitante della continua fantasmagoria dell'Inferno. L'allegoria dell'Inferno si poteva accettare o ignorare poiché era possibile cogliere il suo scopo concreto, la sua cristallizzazione in immagini; ma, passando dall'Inferno al Paradiso, siamo sempre più obbligati a cogliere il tutto nel passaggio dall'idea all'immagine. Qui tuttavia vorrei fare una digressione, prima di affrontare un particolare passo del Purgatorio di carattere filosofico, riguardante la natura del credere. Vorrei solo riferire alcune mie conclusioni sperimentali, che potrebbero interessare agli effetti di una prima lettura del Purgatorio.
Il debito di Dante verso San Tommaso, come quello (molto minore) verso Virgilio, può essere facilmente esagerato. Infatti non si deve dimenticare che Dante conosceva e aveva attinto a molti altri filosofi medioevali. E, tuttavia, a mio parere la questione di quanto Dante debba all’Aquinate e quanto ad altri, benché sia stata posta da molti, in questo contesto non è affatto rilevante. Ciò che importa è sapere in che cosa Dante credeva. Se il mondo fosse diviso tra quelli che sono in grado di accettare la poesia per quello che è e quelli che rifiutano del tutto questo atteggiamento, il problema non sussisterebbe. In tal caso non ci sarebbe nessun bisogno di parlare di questo aspetto ai primi e sarebbe del tutto futile discuterne con i secondi. Ma la maggior parte di noi è, in un certo senso, contaminata, e portata a confondere i due aspetti: da qui la giustificazione di scrivere libri che trattano di altri libri, nella speranza di chiarire le cose.
Sono convinto che non possiamo permetterci di ignorare le credenze filosofiche e teologiche di Dante, né di saltare i passi che le mettono maggiormente in rilievo, ma penso anche che non siamo obbligati a crederci. È errato pensare che esistano parti della Divina Commedia interessanti soltanto per i cattolici o i medioevalisti. C'è, infatti, una differenza (che qui mi limito- semplicemente ad asserire) fra la credenza filosofica e l'assenso poetico. Non so per certo se esista una gran differenza tra la credenza filosofica e quella scientifica; questo è un problema che solo ora comincia ad apparire ed è comunque estraneo al XIII secolo.
Quando si legge Dante, bisogna entrare nel mondo del cattolicesimo del XIII secolo, che non è il mondo del cattolicesimo moderno, così come il mondo della fisica dantesca non è quello della fisica moderna. Non siamo tenuti a credere ciò in cui Dante credeva giacché anche se così fosse, il fatto non aggiungerebbe nulla di più alle nostre capacità di comprensione e di conoscenza; ma ciò cui siamo tenuti è cercare di capire sempre di più. Se riusciamo a leggere la poesia come tale, crederemo nella teologia di Dante esattamente come crediamo nella realtà fisica del suo viaggio, ovvero sospendiamo sia la credenza che l'incredulità. Non posso negare che, in realtà, risulti più facile per un cattolico cogliere più spesso il significato di quanto lo sia per un agnostico qualsiasi, ma ciò avviene non perché il cattolico crede, bensì perché è stato istruito. Si tratta di conoscenza e di ignoranza, non di fiducia o di scetticismo. La questione di base è che il poema di Dante è un tutto unico e che, alla fine, bisogna arrivare a capirlo tutto per poterne comprendere una parte qualsiasi.
Inoltre possiamo distinguere tra ciò che Dante crede come poeta e ciò in cui egli crede come uomo. In pratica, è improbabile che anche un grande poeta come lui possa aver concepito la Commedia soltanto con la ragione, senza averci creduto, ma le sue credenze personali diventano altra cosa nel farsi poesia. Si potrebbe azzardare l'ipotesi che ciò è più vero nel caso di Dante di quanto non lo sia per qualsiasi altro poeta di impostazione filosofica. Nel caso di Goethe, per esempio, spesso mi riesce fin troppo naturale pensare "questo è ciò che Goethe uomo credeva", mentre si dovrebbe semplicemente entrare nel suo mondo. Questo succede anche con Lucrezio, non con la Bhagavad-Gita, il maggior poema filosofico che io conosca dopo la Divina Commedia. Il vantaggio è rappresentato da un sistema tradizionale e coerente fatto di dogmi e di aspetti etici come quello cattolico: esso è autonomo rispetto a chi lo propone, e può essere capito e accettato anche, senza essere creduto. Goethe suscita sempre in me una forte incredulità riguardo a ciò in cui egli crede: Dante no. Penso che ciò dipenda dal fatto che Dante è poeta purissimo, e non dal fatto che io possa nutrire una maggior simpatia per l'uomo Dante che non per l'uomo Goethe.
Non dobbiamo confondere Dante con San Tommaso, o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quello di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico.
Non è necessario aver letto la Summa (che, in pratica, equivale ad aver letto una specie di manuale per comprendere Dante. Ma è necessario leggere i passi filosofici di Dante con l'umiltà di chi visita un nuovo mondo, convinto che ogni sua parte è essenziale al tutto. Per apprezzare la poesia del Purgatorio non è necessario credere, bensì sospendere la credenza. È uno sforzo che viene richiesta sia all’uomo d’oggi per accettare il metodo allegorico di Dante, sia all’agnostico per comprendere la sua teologia.
Quando parlo di comprensione, non mi riferisco ' tanto a una conoscenza di libri o di singole parole, e tanto meno alla necessità di credere: intendo un atteggiamento mentale in cui si danno come possibili determinate credenze, come per esempio la gerarchia dei peccati capitali, dove il tradimento e l'orgoglio sono più gravi della lussuria e la disperazione è il più grave, sicché sospendiamo del tutto il nostro giudizio. Nel XVI canto del Purgatorio incontriamo Marco Lombardo, il quale parla a lungo sul libero arbitrio e sull'anima:
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Più avanti (canto XVII) è lo stesso Virgilio che istruisce Dante sulla natura dell'amore:
"Né creator né creatura mai",
cominciò el, "figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d'animo; e tu 'I sai.
Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l'altro puote errar per malo obietto,
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch'elli è nel primo ben diretto,
e ne' secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra 'l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi ch'esser convene
amor sementa in voi d' ogne virtute,
e d'ogne operazion che metta pene."
Ho riportato pressoché interamente questi due passi in quanto appartengono a quella categoria che un comune lettore potrebbe sentirsi di trascurare, giudicandoli più interessanti per i critici, oppure perché ritiene indispensabile un'adeguata preparazione per capire l'aspetto filosofico che essi presentano. In realtà, non è necessario procedere dalla teoria dell'anima contenuta nel De Anima di Aristotele per poter apprezzare questi versi come poesia. Se ci preoccupiamo troppo del loro aspetto filosofico, fin dall'inizio corriamo il rischio di perdere quanto di bello essi ci offrono come poesia. È una filosofia che fa parte di quel mondo poetico nel quale siamo entrati.
Col canto XXVII ci siamo lasciati alle spalle le scene della punizione e della dialettica, e ci stiamo avvicinando al mondo del Paradiso. Gli ultimi canti hanno già il carattere del Paradiso e ci preparano a esso in modo diretto, senza deviazioni o ritardi. I tre poeti, Virgilio, Stazio e Dante, attraversano il muro di fuoco che separa il Purgatorio dal Paradiso Terrestre. Virgilio si accomiata da Dante, che d'ora in avanti procederà in compagnia di una più alta guida, con queste parole:
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te sovra te corono e mitrio.
Il loro senso è questo: per quanto riguarda la parte di viaggio che gli rimane da compiere, Dante si trova ora nella condizione di beato; un'organizzazione politica ed ecclesiastica è necessaria solo a causa dell'imperfezione della volontà umana. Nel Paradiso Terrestre, Dante incontra Matelda, la cui identità al momento non ci interessa,
Una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond' era pinta tutta la sua via.
Dopo una breve conversazione in cui Matelda spiega il senso e la natura del luogo, segue la scena del "Corteo mistico". Per chi ama non tanto le manifestazioni popolari quanto quelle solenni della corte, i pomposi riti religiosi o le esequie dei capi militari, lo "sfarzo spettacolare" che troviamo qui e nel Paradiso risulterà tedioso; e ancor più per coloro, seppur esistono, che rimangono insensibili di fronte allo splendore della rivelazione di San Giovanni. Fa parte di quel mondo che io chiamo del "sogno elevato", mentre il mondo moderno sembra essere capace soltanto di "sogni umili". Personalmente sono riuscito ad accettarlo, seppur con una certa difficoltà, a causa di due pregiudizi, di cui uno contrario alla poetica preraffaellita, e spontaneo per la mia generazione, ma forse anche per quelle più giovani; l'altro, che interessa quest'ultima parte del Purgatorio e tutto il Paradiso, è quello per cui la poesia non solo va cercata attraverso la sofferenza, ma è dentro la sofferenza che trova la propria materia. Tutto il resto è allegria, ottimismo e fiducia, ossia una buona parte di ciò che era rifiutato nel XIX secolo. Mi ci sono voluti molti anni per riconoscere che gli stati di progresso e di beatitudine descritti da Dante vanno ben oltre, rispetto a ciò che il mondo moderno interpreta come felicità, a quelli di castigo. Sono i piccoli particolari che ci portano fuori strada: la Blessed Damozel di Rossetti, prima perché ne fui affascinato e poi perché ne rimasi disgustato, ha condizionato per molti anni la mia valutazione di Beatrice.
Non possiamo comprendere a fondo il canto XXX del Purgatorio senza conoscere la Vita nuova che, secondo me, dovrebbe essere letta dopo la Divina Commedia. Ma almeno possiamo incominciare a capire con quanta abilità Dante esprima la recrudescenza di un'antica passione sotto forma di fresca emozione e in un contesto nuovo che la accoglie, dilatandola e dandole un significato.
Sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch'a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma,
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: "Men che dramma
di sangue m'è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l'antica fiamma".
Nel dialogo che segue vediamo il conflitto tra antiche e nuove passioni, lo sforzo e il trionfo di una nuova rinuncia, più grave di quella che avviene nel momento della morte in quanto è una rinuncia a sentimenti che continuano oltre la tomba. In un certo senso, questi sono i canti di maggiore intensità personale di tutto il poema.
Nel Paradiso lo stesso Dante, a parte l'episodio di Cacciaguida, perde o intensifica la propria personalità; ed è proprio in questi ultimi canti del Purgatorio, piuttosto che nel Paradiso, che Beatrice appare maggiormente in rilievo. In effetti, il tema di Beatrice è essenziale alla comprensione del poema non perché si debba conoscere la biografia di Dante - nel senso in cui, per esempio, la storia del Wesendonck ci darebbe delle informazioni sul Tristano - ma perché è importante la filosofia di Dante a questo riguardo. Si tratta comunque di un argomento da esaminare a proposito della Vita nuova.
Il Purgatorio è la cantica più difficile perché è di passaggio: l'Inferno, tutto sommato, è relativamente facile; il Paradiso, invece, è complessivamente più difficile del Purgatorio in quanto è un insieme compatto. Ma, una volta che ne abbiamo afferrato il senso, nessuna parte risulta difficile. Il Purgatorio qua e là si potrebbe definire "arido": il Paradiso non lo è mai, o è incomprensibile o intensamente eccitante. A parte l'episodio di Cacciaguida - perdonabile, quale ostentazione di casato e di orgoglio personale, perché ci offre un esempio di meravigliosa poesia - il Paradiso non è mai episodico, e tutti gli altri personaggi sono trattati in modo adeguato. Dapprima essi appaiono meno distinti delle precedenti anime non beate, figure ingegnosamente diversificate ma fondamentalmente monotone di una insipida beatitudine. E un fenomeno cui la nostra visione si deve adattare per gradi. Consapevoli o no, abbiamo un pregiudizio contro la beatitudine in quanto materia di poesia. Nel XIX e nel XX secolo non se ne sapeva nulla; perfino Shelley - che conosceva Dante assai bene, tanto che negli ultimi anni della sua vita si decise a trarne vantaggio, unico poeta del XIX secolo che avrebbe potuto permettersi di seguirne le orme - fu capace di affermare che le nostre più dolci poesie sono quelle che parlano di tristi pensieri. L'opera giovanile di Dante potrebbe dar ragione a Shelley, ma il Paradiso dimostra il contrario, benché in modo diverso da quello della filosofia di Browning.
Il Paradiso non è mai monotono. Esso è vario come lo può essere tutta la poesia. E se prendiamo la Divina Commedia nel suo complesso, la potremo paragonare soltanto con l'intera produzione drammatica di Shakespeare. Altra occupazione interessante è quella di paragonare la Vita nuova dantesca con i Sonetti. Dante e Shakespeare si dividono tra loro il mondo moderno: un terzo genio non esiste.
Cominciamo a immaginare Dante che fissa lo sguardo su Beatrice:
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l'erba
che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si porla; però l'essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
E nel dire a Dante "Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar", Beatrice lo avverte che qui vi sono diversi gradi di beatitudine, come ha stabilito la Provvidenza. Come se ciò non bastasse, Dante viene informato da Piccarda (canto III) con parole che conoscono anche coloro che sanno ben poco di Dante:
E 'n la sua volontade è nostra pace.
È il mistero della diversità di grado dei beati e della loro indifferenza verso quella diseguaglianza. Lo stato di beatitudine è sempre lo stesso, eppure ogni grado è diverso. Shakespeare rivela il massimo grado delle passioni umane nella dimensione della larghezza; Dante in quella dell’altezza e della profondità. Si integrano reciprocamente, ed è vano chiedersi chi abbia affrontato il compito più difficile. Ma è pur vero che i "passi difficili" del Paradiso sono una difficoltà più per Dante che per noi, nel senso che rappresentano il suo sforzo per farci apprendere con i sensi i diversi gradi e le varie fasi della beatitudine. Così il lungo discorso di Beatrice sulla volontà (canto IV) mira direttamente a farci percepire la realtà della condizione di Piccarda. Dante deve educare i nostri sensi man mano che procede. L'insistenza costante è rivolta al grado di intensità delle sensazioni, e l'argomentazione si giustifica come mezzo per raggiungere questi livelli, sicché incontriamo continuamente versi come:
Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d'amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.
Tutta la difficoltà sta nell'ammettere che si tratta di qualcosa che siamo tenuti a comprendere, non di pura verbosità decorativa. Dante ci aiuta con ogni tipo di immagine, per esempio:
Come 'n peschiera ch'è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid'io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia:
"Ecco chi crescerà li nostri amori".
Circa le persone che Dante incontra nelle diverse sfere, basta poco per capire il motivo della loro collocazione. Una volta colta la pura utilità delle immagini minori, come la precedente, o come il semplice paragone che tanto piacque a Landor:
Quale allodetta che 'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l'ultima dolcezza che la sazia,
potremo pensare a esaminare con tutto rispetto l'insieme delle immagini più elaborate, come la figura dell’Aquila formata dagli spiriti dei Giusti, che ha inizio nel canto XVIII e va oltre. Tali figure non sono dei semplici e antiquati artifici retorici, bensì mezzi piuttosto seri e pratici usati allo scopo di rendere visibile ciò che è di natura spirituale. Capire la legittimità di tali immagini significa prepararsi a comprendere l’ultimo canto, il più grande, il più rarefatto, il più intenso. Mai in poesia un'esperienza tanto remota da quella quotidiana è stata espressa in modo così concreto, attraverso l'impiego accorto di quella poetica della luce che è la forma di certi tipi di esperienza mistica.
Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa,
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.
Non possiamo che provare un gran rispetto per chi riesce con tanta maestria a tradurre l'inapprendibile in immagini visive. E non conosco alcun segno più autentico di grandezza in poesia della capacità di associazione contenuta nell'ultimo verso, dove il poeta, parlando della visione mistica, introduce l'Argo che passa sopra la testa del meravigliato Nettuno: un caso di associazione decisamente diverso da quello di Marino, che parla senza prendere fiato della bellezza di Maddalena e dell'opulenza di Cleopatra (al punto che _non è del tutto chiaro a chi siano riferiti gli aggettivi). E questa capacità di stabilire relazioni puntuali e autentiche tra i diversi gradi di bellezza che costituisce la maggior forza del poeta.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto!
Nello scrivere della Divina Commedia, ho cercato di attenermi ad alcuni punti assai semplici dei quali sono convinto. Primo tra i quali è che la poesia di Dante rappresenta l'unica scuola universale di stile poetico valida per qualsiasi lingua. Certo, il maggior vantaggio può trarlo chi scrive nella stessa lingua toscana di Dante; tuttavia non esiste alcun poeta in altra lingua - neppure in latino o in greco - che si ponga come modello altrettanto valido per tutti. Ho cercato anche di illustrare la sua illimitata abilità nell'uso delle immaginar. A questo proposito mi sono spinto ad affermare che Dante è l'esempio più sicuro da seguire, anche per noi, di qualsiasi altro poeta inglese, compreso Shakespeare. Come secondo punto ho affermato che il metodo “allegorico” di Dante offre grandi vantaggi per scrivere poesia: semplifica lo stile, rendendo le immagini chiare e precise. A ciò si aggiunga che in un buon uso dell'allegoria, come quello che ne fa Dante, non è necessario comprendere subito il significato per gustare la poesia, ma è il gusto della poesia che ci fa desiderare di comprendere il significato. E il terzo punto è che la Divina Commedia è una gamma completa di altezze e di abissi delle emozioni umane, che il Purgatorio e il Paradiso si devono leggere come estensioni delle possibilità umane, di norma assai limitate. Ciascun grado del sentimento umano, dal più basso al più alto, ha inoltre un'intima relazione con quello che gli sta immediatamente sopra e sotto, e tutti si adattano secondo la logica delle sensibilità.
Mi rimangono ora da fare alcune osservazioni sulla Vita nuova, che potrebbero anche estendere ciò che ho suggerito a proposito del pensiero medioevale così come si esprime in allegoria.
[...]
Tutte le "opere minori" di Dante sono importanti, in quanto sono opere di Dante. Ma la Vita nuova riveste una particolare importanza perché, più di ogni altra, ci aiuta a capire più a fondo la Divina Commedia. Non consiglio certo di trascurare le altre opere, come il Convivio o il De vulgari eloquentia, giacché ogni parte degli scritti di Dante ci aiuta a capire altre parti di altri scritti. Ma la Vita nuova è un lavoro giovanile che mostra un po’ il metodo, il disegno e senz'altro le intenzioni della Divina Commedia. E poiché non è un lavoro della maturità, per essere capito richiede una certa conoscenza del lavoro maggiore, e a sua volta risulta di parti colare aiuto per la comprensione della Commedia.
Buona parte della ricerca si è rivolta all'interpretazione della vita giovanile di Dante in rapporto alla Vita nuova. Grosso modo possiamo dividere la critica tra color che vedono l'opera prevalentemente biografica, e quelli che l'interpretano piuttosto come allegorica. Tra i due, il secondo gruppo ha miglior gioco. Se, infatti, questa strana mescolanza di versi e prosa è biografica, allora la biografia è stata indubbiamente manipolata al punto di non riconoscerla e distinguerla dalle convenzionali forme dell'allegoria. La maggior parte delle figure retoriche rispetta un modello certamente molto antico di letteratura della visione: proprio come lo schema della Divina Commedia appare assai vicino ad analoghi racconti di viaggi fantastici della letteratura araba e persiana - per non dire delle derivazioni dai temi di Ulisse ed Enea - così anche la Vita nuova presenta parallelismi di natura visionaria, per esempio con Il Pastore di Hermas della tradizione greca. E poiché l'opera non è certo un resoconto letterale di ingannevoli visioni, sarà facile vederla come un'unica allegoria; sicché potremo affermare, per esempio, che Beatrice è semplicemente la personificazione di una virtù astratta, intellettuale o morale.
Vorrei fosse chiaro che le mie opinioni sono fondate unicamente sulla lettura del testo. Non penso che si prestino a essere verificate o confutate dai critici: intendo cioè restringere le mie osservazioni al campo dell'indimostrabile e dell'inconfutabile.
Per chiunque legga la Vita nuova senza pregiudizi, risulterà abbastanza ragionevole vederla come una mescolanza di biografia e allegoria; una mescolanza, tuttavia, ottenuta mediante una ricetta perduta per la "mentalità moderna". Con questa espressione intendo l'atteggiamento mentale di coloro che hanno letto o potrebbe aver letto un documento letterario come le Confessioni di Rousseau. La mente moderna può comprendere la "confessione", ossia, letteralmente, il resoconto che uno fa di se stesso, che potrà variare solo nel grado di sincerità o di autointerpretazione, e potrà interpretare l'”allegoria” in senso astratto. Al giorno d'oggi, possiamo leggere a iosa sulla stampa "confessioni" di un valore insignificante. Ognuno met son coeur à nu, o finge di farlo, e l'interesse per la cosiddetta "personalità" è un fenomeno di una ricorrente variabilità. È difficile concepire un tempo (o più di uno) in cui agli uomini interessava in qualche misura la salvezza dell'’"anima", ma non'. si occupavano certo delle reciproche "personalità". Dante, io credo, aveva avuto esperienze che egli riteneva di una certa importanza: non tanto perché erano capitate a lui né perché egli, Dante, fosse una di quelle figure di rilievo che fanno lavorare le redazioni degli uffici stampa; ma importanti in sé, e perciò gli apparivano dotate di certi valori filosofici e impersonali. Trovo in questo i dati di un particolare tipo di esperienza: ossia di qualcosa che possedeva, come caratteristiche, i dati dell'esperienza reale (l'esperienza della "confessione" nel senso moderno) e quelli dell'esperienza intellettuale e immaginativa (l'esperienza del pensiero e quella del sogno); in sostanza tre tipi di esperienza. Mi sembra importante cogliere un semplice fatto, ossia che la Vita nuova non è né una "confessione" né una "indiscrezione" nel senso moderno, e nemmeno una specie di arazzo preraffaellita. Se abbiamo quel senso di realtà morale e intellettuale che possedeva Dante, una forma espressiva come la Vita nuova non potrà essere classificata né come "verità" né come "realtà romanzata".
In primo luogo, il tipo di esperienza sentimentale che Dante racconta di aver avuto all’età di nove anni non è affatto impossibile né unica. Il mio solo dubbio (che mi viene confermato da un famoso psicologo) riguarda piuttosto il fatto che possa essersi verificata a un'età - nove anni - piuttosto avanzata nella vita del poeta. Lo psicologo è d'accordo con me nel ritenere che esperienze di questo tipo avvengano intorno ai cinque o sei anni. Può darsi che Dante abbia avuto una maturazione più lenta, come pure che egli abbia giocato sulle date per attribuire al numero nove un qualche diverso significato. A me sembra ovvio che la Vita nuova possa essere stata composta intorno a un tema di esperienza personale. In tal caso, i dettagli poco importano, né importa che la donna sia stata una Portinari o no; è altrettanto possibile che essa rappresenti uno schermo che nasconde qualcuno il cui nome Dante poteva aver dimenticato o mai conosciuto. Ma non trovo affatto incredibile che ciò che è capitato ad altri possa essere accaduto a Dante con un'intensità ben più grande.
La stessa esperienza, descritta in termini freudiani, sarebbe stata immediatamente accettata come una realtà da un pubblico moderno. Il fatto è che Dante, in modo del tutto ragionevole, è arrivato ad altre conclusioni e ha usato modi diversi di espressione, i quali suggeriscono una certa incredulità. E siamo portati a ritenere - come fa Rémy de Gourmont, il quale però una volta tanto si lascia sviare dai suoi pregiudizi e assume un atteggiamento pignolo - che, se un autore come Dante segue alla lettera un tipo di visione che vanta una consuetudine antica, ciò prova che la narrazione è pura allegoria (nel senso moderno) o addirittura una costruzione immaginaria. Trovo una differenza di sensibilità tra la Vita nuova e il Pastore di Hermas ben più grande di quanto ne trovi Gourmont. Non si tratta affatto di una semplice differenza tra la genuinità e la sofisticazione: è una differenza di mentalità tra l'umile autore dei primi tempi della cristianità e il poeta del XIII secolo, una differenza grande quanto quella che separa Dante da noi. Le analogie potrebbero dimostrare che nella tematica del sogno persiste una certa abitudine pur attraverso i mutamenti di cultura. Gourmont intendeva dire che Dante ha preso a prestito, ma ciò rimanda il nostro pensiero al XIII secolo. Io voglio soltanto suggerire che forse Dante, nel luogo e nel tempo in cui scrisse, segui qualcosa di più essenziale che una pura e semplice tradizione "letteraria".
È possibile capire l'atteggiamento di Dante verso l'esperienza fondamentale della Vita nuova se impariamo a trovare un senso nelle cause finali piuttosto che nelle origini. Non credo che si debba intendere come una descrizione di ciò che egli consapevolmente provò nel suo incontro con Beatrice, ma piuttosto come una descrizione di ciò che l'incontro significò in seguito a una riflessione matura sul fatto. La causa finale è l'attrazione verso Dio. In particolar modo nel XVIII e nel XIX secolo si è avuta una tale profusione di tematiche sul sentimento tendenti a idealizzare i rapporti sentimentali e di attrazione tra uomo e donna, che molti realisti non hanno potuto fare a meno di protestare, in quanto tale sentimento ignora che l’amore tra uomo e donna (o magari tra uomo e uomo) si spiega e si giustifica soltanto attraverso un amore più alto, altrimenti rimane un fatto di accoppiamento animale.
Consideriamo pure l'ipotesi che Dante, meditando sulla sorpresa di un'esperienza avuta a quell'età, un’esperienza che nessun'altra successiva cancellò o superò, trovò in essa significati che noi facilmente non troveremmo. Il suo resoconto sarà in tal caso accettabile quanto il nostro. Egli estende semplicemente la sua esperienza in una direzione diversa da quella che avremmo probabilmente preso noi, con atteggiamenti mentali e pregiudizi diversi.
A dire il vero, non possiamo comprendere la Vita nuova senza immergerci un po' nella produzione poetica dei contemporanei conterranei di Dante, o nella poesia dei suoi predecessori provenzali. I parallelismi letterari sono di massima importanza, ma dobbiamo stare in guardia contro un'interpretazione unicamente letteraria e letterale. Dapprima Dante scriveva più o meno come molti altri poeti, non solo perché li aveva letti, ma perché i suoi modi di sentire e di pensare erano molto vicini ai loro. Per ciò che riguarda i provenzali, io non possiedo la capacità di leggerli a prima vista. Quella gente misteriosa aveva una propria religione che fu totalmente e cruentemente estinta dall'Inquisizione, a tal punto che di loro sappiamo più o meno quello che sappiamo dei Sumeri. Ho il sospetto che la differenza tra questi ignoti e forse calunniati albigesi e i cattolici abbia qualcosa in comune con la differenza tra la scuola provenzale e quella toscana. Il sistema organizzativo dantesco della sensibilità - il contrasto tra amore carnale alto e basso, il passaggio da una Beatrice viva a quella morta, che poi diventa il culto della Vergine - a me sembra autenticamente suo.
In ogni caso, credo che la Vita nuova, oltre a essere un succedersi di poesie collegate da una curiosa prosa sul genere di quella della "letteratura della visione", sia anche un trattato di psicologia su ciò che ora chiamiamo "sublimazione". Vi è contenuto anche un senso pratico del reale di tipo antiromantico: non aspettarsi dalla vita né dagli uomini più di quanto possono dare; aspettarsi dalla morte ciò che non si può avere dalla vita. La Vita nuova appartiene al genere di "letteratura della visione", ma la sua filosofia è quella cattolica del distacco dalle cose terrene.
La comprensione dell'opera risulta molto più facile se si conoscono Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e altri. Si dovrebbe, in realtà, studiare lo sviluppo della poesia d'amore dai poeti provenzali in poi tenendo conto sia delle somiglianze che delle differenze sostanziali; come pure lo sviluppo della forma del verso, della strofa e del lessico. Ma un tale studio risulterà vano se prima non avremo fatto uno sforzo serio e faticoso come il rinascere, per attraversare lo specchio ed entrare in un mondo accettabile quanto il nostro. Una volta fatto questo, potremo chiederci se il mondo dantesco sia o non sia più vasto e concreto del nostro. Nel dire:
Tutti li miei penser parlan d'Amore,
dobbiamo soffermarci sul significato della parola "amore", un significato diverso sia da quello originale latino che dall'equivalente francese, come pure dalla sua definizione in un moderno dizionario di italiano. È necessario, ripeto, leggere prima la Divina Commedia per varie ragioni. Una prima lettura della Vita nuova non ci svelerà altro che una certa grazia preraffaellita. La Commedia ci porta in un mondo di immagini retoriche medioevali, più concrete nell'Inferno, più rarefatte nel Paradiso. Nel contempo, ci introduce al mondo del pensiero medioevale e ai suoi dogmi, la cui comprensione risulterà assai più facile per coloro che hanno compiuto studi umanistici su Platone e Aristotele, ma sarà possibile anche in mancanza di questi. La Vita nuova ci immerge nella sensibilità medioevale. Non si tratta di un capolavoro di Dante, quindi riesce più facile a una prima lettura, soprattutto per le informazioni che ci può dare sulla Divina Commedia, più che per se stessa.
Se letta in questo modo, risulterà più utile di una dozzina di commenti critici. Molti libri su Dante danno l'impressione che ciò che conta è conoscere più della sua persona e meno di ciò che egli ha scritto. Ma il passo successi, dopo aver letto e riletto Dante, dovrebbe consistere nel leggere ciò che egli stesso ha letto, piuttosto che l'attuale produzione critica sulla sua opera, la sua vita e il suo tempo, per quanto buona possa essere. Seguitando a leggere di papi e imperatori potremmo essere portati fuori strada. Nel caso di Shakespeare, è meno probabile che si ignori il testo in favore del commento. Con Dante è altrettanto necessario concentrarsi proprio sul testo, tanto più se consideriamo che la mentalità di Dante è più lontana dai modi di pensare e sentire ai quali siamo stati abituati. Ciò che ci serve non è informazione ma conoscenza: il primo passo verso la conoscenza è riconoscere le diversità tra il suo modo di pensare e sentire e. il nostro. Persino l'attribuire eccessiva importanza al tomismo o al cattolicesimo potrebbe sviarci, attirandoci troppo su certe differenze che appartengono interamente alla sfera razionale. Il lettore inglese dovrà ricordare che, anche se Dante non fosse stato un buon cattolico, o avesse trattato Aristotele e San Tommaso con indifferenza scettica, il suo pensiero non sarebbe comunque più facile per noi da capire: le forme dell'immaginazione, della fantasmagoria e della sensibilità ci apparirebbero altrettanto strane. Dobbiamo imparare ad accettare tali forme: e questa accettazione è più importante di qualsiasi altra cosa che chiamiamo "credenza". Vi è come un momento preciso di accettazione nel quale ha inizio la "nuova vita".
Come avevo promesso, ciò che ho scritto non è una "introduzione" allo studio, bensì un breve resoconto della mia personale introduzione allo studio di Dante.
Come attenuante dirò che scrivere in questo modo di personaggi come Dante o Shakespeare è, in realtà, meno presuntuoso che scrivere di figure minori. Proprio la vastità del soggetto lascia la possibilità che qualcuno dica qualcosa che vale la pena di dire; mentre con figure minori, solo uno studio particolare e dettagliato giustifica il fatto di occuparsene.