Dati bibliografici
Autore: Lucrezio T. Rizzo
Tratto da: Allegoria, allegorismo e poesia nella Divina Commedia
Editore: Principato, Milano
Anno: 1941
Pagine: 1-35
La letteratura critica su Dante, sin dal secolo XIV, si mostra naturalmente legata agl’interessi pratici, teoretici e artistici delle varie età, i quali spesso — quasi sempre — ci allontanano dalla comprensione, quando non rendono ad- dirittura insensibile o avverso il lettore a tanta potenza di poesia.
Dei vari gusti ai quali è stata soggetta la Commedia attraverso i secoli scrisse pagine di lucida esposizione e di critica serrata il Croce, il quale vide che il primo a penetrare nello spirito e nella poesia di Dante fu Giambattista Vico . Ma se alla teoria della poesia ingenua — propugnata, coerentemente coi principi espressi intorno alla natura della fantasia dal gran filosofo napoletano — il Croce obbiettò che il paragone tra Dante e Omero e tra l’Italia dugentesca e l’Ellade del nono secolo av. Cr. appariva forzato; che la dipendenza della poesia dalla «ritornata barbarie di nostra stirpe» si manifestava esagerata, e che togliere a Dante «una parte della sua anima, la scolastica e il latino», fosse ingiustificato; d’altra parte egli, perfezionando il giudizio inesatto del De Sanctis, fondato su quello vichiano, intorno al rapporto tra i due Danti, cioè, tra allegorismo e poesia, si accostò alla dualità, sostenuta dal Bouterweck , di struttura e poesia. Non, dunque, come sostenne il De Sanctis, da una ribellione inconsapevole e involontaria contro le intenzioni che Dante si era prefisse — contro l’allegorismo — e dal trionfo della «bella menzogna», la quale sarebbe riuscita a effettuare «il Medio Evo come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei», risulterebbe la Commedia, secondo il Croce; ma dall’autonomia della facoltà fantastica pagata a caro prezzo, dacché Dante «di solito lasciava l’allegoria nell’esterno e altra volta interrompeva la poesia per soddisfare propositi allegorizzanti, e, soddisfatti questi propositi e riposando sulle sue teorie, creava con lieta tranquillità di poeta» .
Il primo capitolo di questo saggio è dedicato alla confutazione di quest’asserto e alla definizione dell’allegoria dantesca, la cui essenza — considerata com’energia genetica della poesia — è ampiamente illustrata nei capitoli seguenti.
La teoria crociana circa l’imagine e la percezione — l’intuizione e il giudizio — non è poi così discriminante che possa giustificare la distinzione netta di struttura e poesia in Dante, se lo stesso critico rileva altrove che «il pensatore o prosatore non solo serba quella passionalità elevandola a passionalità per la scienza, ma serba altresì la forza intuitiva onde i suoi giudizî escono fuori espressi insieme con la passionalità che li avvolge, e perciò ritengono, insieme col nuovo carattere scientifico, il carattere artistico» : sicché appare evidentissimo che i pensamenti del nostro Poeta son più che legittimamente avvolti di passionalità e ritengono il loro carattere artistico: altrimenti dovremmo riconoscere la forza intuitiva e raziocinativa, disposate, al pensatore e soltanto quella intuitiva e un poeta come Dante, che continuamente lirizza, secondo la natura del suo ingegno, la scienza ond’è ricca la sua mente. Il difetto sta — com'è stato rilevato da molti — nel concetto di poesia «pura», che presuppone la realtà come assoluta irrazionalità: ond’è che la lirica, se fosse una realtà assoluta, escluderebbe il lettore dalla congenialità e dalla simpatia; mentre i mezzi espressivi adoperati dai poeti dimostrano il contrario, — perché — come ammette i lo stesso Croce — tra genio (fantasia) e gusto (giudizio critico) intercede una differenza non qualitativa, bensì quantitativa: e infatti la poesia in tanto ci trasporta in un mondo effettivamente irreale in quanto nell’esperienza della nostra umile vita abbiamo sognato anche noi consimili irrealtà. I sentimenti puri sono nella vita quotidiana involontari, propri dei bambini e degli animali: vero è, invece, che tutte le distinzioni psicologiche si risolvono ferreamente nella legge dei rapporti, e che il poetare ha significato solo se vien riferito a esperienze vissute, sostanziato com’è di umanità — unico legame tra poeta e lettore — e soggetto com'è a dati universali e immutabili, quali sono appunto quelli della ragione: altrimenti l’espressione crociana «giudizio critico» (gusto) sarebbe vuota di significato, come vuota di significato sarebbe la « pienezza di umanità » nella quale, secondo lo stesso Croce, consisterebbe — come indubbiamente consiste — l’intuizione. La definizione retorica di allegoria non tocca Dante, e fa giustamente considerare la tradizionale figura come «fuori e contro la poesia»; ma nel caso in ispecie si tratta di un fraintendimento, che consiste nel fare un fascio dell’allegoria dantesca e dell’allegorismo medievale. Questo è bensì «fuori e contro la poesia», per la semplicissima ragione che esiste in sé, non avendo alcuna poesia da effettuare; mentre l’allegoria dantesca organizza, come dimostrerò, la poetica e i contenuti, e si esaurisce nella forma. I primi commentatori del Poeta, soggetti, naturalmente, più degli altri venuti dopo all’allegorismo medievale, sentirono solo in parte la grandezza poetica della Commedia appunto perché furono intenti a ricavarne categorie logiche — secondo il gusto dei tempi —, astratti contenuti riposti o imaginate sovrapposizioni; e ciò ha perpetuato appunto il concetto errato di allegoria dantesca. Pure, se leggiamo attentamente in quei rilievi, troviamo non di rado spunti che, integrati e delimitati al lume - della nostra esperienza critica, acquistano notevoli significati, e ci dicono più che a prima vista non sembri. Ma guida vera è in proposito — più dei commenti secolari — lo stesso Poeta, il quale nel Convivio ci segna nettamente i rapporti tra lettera, sensi riposti — con particolari riferimenti all’allegoria — e forma: e tali rilievi, i quali rispecchiano, più che un’astratta formulazione di teorie retoriche, l’esperienza circa la genesi e l’effettuazione della poesia, ci danno la chiave per penetrare nelle fonti della Commedia, la quale ci appare nella sua vera realtà, come determinazione, nella perennità della forma, di allegorie e di simboli. Due volte, come dimostrerò, Dante paga il suo tributo all'allegorismo medievale: allorché deve formulare due profezie nel loro proprio linguaggio, ch’è criptografico: e sono quelle sulle quali più si è esercitata la critica dantesca, concernenti il «Veltro» e il «cinquecento diece e cinque»; ma i due casi servono appunto a segnare i limiti tra il comune allegorismo — a cui Dante deve eccezionalmente aderire — e l’allegoria, ch'è fondamento e vita di tutto il poema, ed è inconfondibilmente dantesca. Spesso un nome sintetizza un nucleo d’idee allegoriche, dalle quali s’irradiano imagini che configurano il dramma: lo stesso concetto di contrapasso, fondamentalmente allegorico e regolatore costante delle pene e dei castighi, nella prima e nella seconda cantica, ha in sé le ragioni delle rappresentazioni e dei sentimenti che animano gli spiriti; e se valutiamo ponderatamente tali ragioni vediamo arricchirsi di luci e di ombre le imaagini. Gli è che quella che il Croce definisce «struttura» è sostanziata di pensieri e di affetti, d’iniziali concetti astratti che si concretano in imagini e costituiscono il contenuto, attestando l’innegabile circolarità dello spirito, in cui spesso il sentimento è l'eco d'un pensiero, e viceversa, e l’idea più astratta si fa corpulenta. Si è discusso a lungo, e infruttuosamente, p. es., intorno al simbolo adombrato in Matelda: infruttuosamente per due ragioni: sia perché lo si è cercato per congetture, sia perché dal simbolo ipotetico nessuna luce nuova è venuta alla creatura dantesca. Qualcuno che si è messo sulla dritta via, cercando il significato simbolico nel valore del nome della bella donna — per ragionevole analogia con Lucia, Beatrice, Lia e Rachele — o si è fermato a meta del cammino, con l’illusione di averlo trovato nella radice del nome, o ha intrecciato arbitrariamente due voci latine che non corrispondono alla voce «Matelda». È il caso d’uno dei più antichi commentatori, Francesco da Buti, il quale peraltro mi ha offerto dei dati che mi han giovato a scoprire il mistero di questo contrastatissimo simbolo, da cui — che più rileva — nuova luce s’irraggia — se non m'inganno — sulla leggiadra figura, sull'insieme delle scene ond’è variata la divina foresta e sui rapporti ideologici e poetici tra lei e Beatrice e tra l’uno e l’altro Paradiso. Della Vita Nova si è detto drittamente, ma in maniera vaga, da alcuni ch'è come il vestibolo o il prologo della Commedia: ed io m’industrio di provare che sono nel «libello» giovanile i germi e i presentimenti del poema sacro, con una schematica ma significativa delineatura del sistema tolomaico e col concetto originale che costituisce il «dolce stil novo», tutto e solo di Dante, come conferma il valore simbolico di Beatrice nella Commedia, approfondimento di quel concetto. Ciò che m'impegna in una particolareggiata discussione intorno al «dolce stil novo» e alla pretesa irrealtà storica di Beatrice. Dai rilievi che verrò facendo risulterà che l'armonia delle imagini dantesche si alimenta d’idee laboriosamente meditate, di natura simbolica e allegorica, trascurate le quali cadiamo inevitabilmente nell’interpretazione arbitraria, com’è accaduto più volte, secondo dimostrerò, allo stesso Croce, non ostante egli riconosca che per giudicare la poesia di Dante bisogna farsi un’anima dantesca; ma in realtà la giudica secondo la teoria dell’intuizione pura, ch’è la negazione di quel proposito.
La stessa concezione dell’Empireo risiede nel significato simbolico — esplicato dal Poeta nel Convivio — di «bianchezza»: e le parole di San Bernardo, particolarmente di sapore latino nell’efficacia della rima, fan sentire il doctor mellifluus delle Meditationes. Tutto ciò non è casuale, ma meditato prima della composizione, durante la quale i pensieri vengono assorbiti dal sentimento e dalle imagini. Non solo: ma la varietà degli aspetti dei beati — e però la realtà artistica dell'aspetto del «santo sene» — dipende da una concezione dantesca che modifica quella tomistica intorno alla loro età e prestanza giovanile, il giorno del giudizio universale, come dimostrerò documentando.
Dalla mia dimostrazione apparirà che la coerenza delle imagini è virtuale nella coerenza dei simboli e delle allegorie: e ciò è, del resto, naturale, perché le meditazioni di Dante son quelle non d’un filosofo, ma d’un poeta, anche nella trattazione delle opere minori, nelle quali si concretano spesso in imagini vibranti di sentimento. Senza l’assimilazione e il riatteggiamento dantesco della dottrina di San Tommaso, di San Bonaventura e di Sant’ Agostino non avremmo avuto i caratteri di Matelda, di Beatrice e di San Bernardo. E di questi caratteri saranno esaminati i rilievi e le differenze, consistenti nel valore del loro simbolo.
Ho trovato, p. es., che un medesimo concetto logico genera il medesimo contrapasso, applicato in luoghi diversi. dell'Inferno: il primo sullo spirito di Bertram dal Bornio, nella nona delle male bolge, e il secondo sullo spirito dell'arcivescovo Ruggeri, nella zona dell’Antenòra: e l’esplicazione dei concetti determinanti la pena e il tormento mettono in maggiore risalto le due orribili rappresentazioni, mostrando in pieno l'energia vitale del simbolo. E così si dica di Gerione, degl’ipocriti e della «femmina balba», le cui figurazioni traggono vita e alimento dai meditati segni simbolici. D’altronde, delle allegorie e dei simboli non si è fatto mai a meno nelle esegesi dantesche: il che dimostra ch’essi sono inscindibili dalla poesia della Commedia: i difetti e gli eccessi dei congetturisti e degli allegoristi, censurati a ragione dal Croce, consistono nelle vedute unilaterali, cònsone ai gusti dei vari secoli: nel Trecento la poesia della Commedia fu considerata sotto l’aspetto teologico ed enciclopedico; nel Quattrocento, come ornamento ed esplicazione di scienza; nel Cinquecento era inclusa nelle categorie dei generi, perché si disputò vanamente se il poema fosse da ascrivere alla drammatica o all’epica o alla satira; e mettendo da parte le pedanterie e le insulsaggini stroncatorie — almeno nell’intenzione — del gesuita Bettinelli, e le storture del Cesarotti — pel nefasto influsso del caustico Voltaire — il Settecento segnò una vittoriosa rivendicazione della fama del Poeta e l’instaurazione del gusto a intendere il poema sacro, per la penna di Gasparo Gozzi, il quale, tra tanti assennati rilievi, sorretti dal buon senso, vide primo che per intender Dante occorre, anzitutto, farglisi contemporaneo; penetrare, oltre che in quell’anima, nei gusti di quei tempi. Ed è la via più sicura, specie per quanto concerne l’allegoria dantesca, la quale — come m'industrio di provare — è saldo organismo di poetica personale, di contro alle idee schematiche, aride di poesia, formulate dal comune allegorismo, proprio del Medio Evo. La critica romantica, madre dell’idea della poesia «pura», distinse arbitrariamente la lirica dal «sistema» nella Commedia: sicché il Bouterweck vide nel poema dantesco estrinseca unità nelle narrazioni e unità nell’allegoria e nella teologia; ma per concludere che sono impoetiche le parti scolastiche, teologiche e astronomiche, ond’è sostanziato, in ispecie, il Paradiso. Il De Sanctis — ho accennato — rientra in quest’ordine d’idee, sebbene, come rileverò, abbia poi involontariamente temperato il giudizio concernente l’allegoria, come ha modificato il suo giudizio sul Paradiso — nella seconda edizione della sua opera — il Vossler, il quale vi ha visto assai più poesia che prima non avesse . Ma un dimenticato interprete di Dante, ch'è menzionato solo per una nota novella romantica, il calabrese Domenico Mauro, del quale mi occupai parecchi anni or sono , staccandosi dall’obiettivo comune agl’interpreti del Poeta, i quali vedevano in lui soprattutto il profeta del nostro Risorgimento — nobilissima e utilissima scuola di patriottismo, ma unilaterale —' fece considerazioni rilevanti attorno all’allegoria e ai simboli nella Commedia, pur seguendo le tracce del Tommaseo. Egli pensava — e così pensava anche il Gioberti — che per comprendere Dante bisogna volger la mente alla Bibbia, la quale soltanto può darci il valore esatto di certe formule stilistiche e di certi vocaboli e frasi. E come la Bibbia consiste in narrazioni, canti e visioni allegoriche; così secondo il Mauro l’allegoria e i simboli sono gli archi e le curve della grande costruzione dantesca .
Perdoniamo al critico l’inesatta imagine architettonica; ma dobbiamo riconoscere ch'egli seppe penetrare in buona parte l'essenza dei simboli e dell’allegoria nel poema dantesco, dacché li considerò come elementi intrinseci e connaturati con l’opera, non come segni nascosti o sovrapposti. Ma segnando la differenza fra l’interpretazione del Rossetti — che cercava il senso intimo e l’unità poetica del poema dantesco in un concetto storico mediante la significazione allegorica propria dei tempi del Poeta — e la sua, che sosteneva la consistenza di quel significato e di quell’unità in un concetto religioso, morale e insieme politico, esplicato, però, nell'espressione delle leggi eterne che governano il mondo delle nazioni, vichizzò alquanto le sue valutazioni, sebbene confutasse opportunamente il giureconsulto napoletano Nicola Nicolini, che nel concetto generatore della Commedia vedeva anticipata la Scienza Nuova.
Tuttavia i risultati raggiunti dal Mauro, limitati, ma apprezzabili, concernono, più che altro, rilievi estetici, taluno dei quali meriterebbe di essere ricordato nei commenti alla Commedia.
L'essenza dell’allegoria e dei simboli — compresa assennatamente — resta, tuttavia, più affermata che dimostrata. E quelli venuti dopo, che hanno studiato di proposito l’allegoria e i simboli della Commedia, han lasciato aperto il campo a molte discussioni appunto perché le loro indagini poggiano più su congetture e ipotesi che su dati di fatto, i quali consistono nella penetrazione del senso letterale, che, come ci ammonisce lo stesso Poeta, comprende tutti gli altri sensi, specie l’allegorico. Certe espressioni di Dante, sciupate o svisate dall’uso, vengono interpretate modernamente, e però ci allontanano dall’anima dantesca: per penetrare nel loro vero valore dobbiamo, invece, rifarci al Poeta, alla cultura e al gusto degli evi eternati nella Commedia: e a volte una parola restituita al suo significato genuino illumina tutta quanta una situazione fantastica, come han mostrato talune note filologiche incluse nel sobrio commento d'Isidoro Del Lungo al poema sacro. Si tratta proprio di quel metodo filologico instaurato dal grande Vico, che insegnò con divinazioni le quali incatenano il nostro al suo spirito — anche quando difetta la giustificazione critica — che le etimologie sono una vera e propria storia delle idee: concetto che informò di sé la poetica e la critica del Foscolo, il quale vedeva, p. es., esanime la voce « Saturnio » nella poesia moderna, appunto perché il suo significato suscita nel nostro pensiero l'origine e la labilità dei secoli e ai tempi omerici era pregno di tradizioni teologiche, fonti perenni di poesia.
Solo chi studi filologicamente il nostro maggior Poeta può tentare di accostarglisi e d’intendere la sua allegoria, fondata appunto sul valore impresso nelle parole da quel genio: ciò che denota in Dante non il Poeta imbevuto d’idee di stampo medievale — comuni ai contemporanei e determinanti l’allegorismo — sì il creatore fratello spirituale dei grandi popoli antichi che, come disse il Foscolo, fondavano la teologia politica «per mezzo della divinazione e dell’allegoria», «le quali arti, esercitate da’ principi e da’ sacerdoti e da’ poeti, diedero origine all'uso ed all’ufficio della letteratura» . E vedrà altresì che il «vero» e il crociano «romanzo teologico» — equivalente a « struttura » della Commedia — il quale starebbe fuori della poesia, insieme con la tanto diffamata allegoria, si trovano nei medesimi rapporti nei quali li vide lo stesso Foscolo, la cui capacità critica era riccamente sostanziata di esperienza poetica, secondo dimostra — se ve ne fosse bisogno — il sommario delle Grazie, di natura allegorica come l'effettuazione lirica del carme, nel quale appunto il Poeta zacintio «idoleggiò le idee metafisiche del bello». Ecco un periodo foscoliano nel quale i rapporti fra raziocinio, fantasia e ragione politica ci mostran la via da seguire, per intendere unitariamente il poetare di Dante:
«Appunto nell’origine della letteratura, quando ella emanava dalla divinazione e dall’allegoria, vediamo contemporanee al potere dello scettro e degli oracoli la filosofia, che esplora tacita il vero, la ragione politica, che intende a valersene sapientemente, e la poesia, che lo riscalda coi fantasmi coloriti dalla parola, e che lo insinua con la musica della parola» .
Donde risulta, nella maniera più significativa, che pensare e poetare son tutt'altro che divorziati ed estranei: che la poesia fonde, anzi, e unifica nella suggestione della sua musica quegli elementi che pel Croce sono eterogeni e danno significati «allotri», se vengono adoperati a spiegarla .
I principi che mi hanno guidato nel tentativo di spie- gare Dante per mezzo di Dante mi fanno sperare che almeno l'intenzione è nel vero. Questa è la via che da anni persegue un maestro di cose dantesche, il quale di recente ha ribadito vigorosamente le sue idee confutando le più notevoli devia- zioni della critica sul poema sacro .
L'allegoria intesa col metodo che ho delineato non farà — o io m’inganno — sorridere coloro che dubitano, a ragione, degli allegoristi armati di congetture: e oso sperare ch'io possa esser degno di trovarmi accanto a valentuomini come il Pietrobono, il quale si è cortesemente dichiarato lieto di essere in mia compagnia: egli ch'è stato definito dal Croce «impenitente allegorista»! .
Concludendo il «libello» giovanile, Dante promette un’opera degna della «gentilissima donna»; ma non ci nasconde che per effettuare il suo proposito egli dovrà prima studiare molto; che dovrà perseguire con tenacia quel lavoro che lo renderà «per più anni macro», facendogli eroicamente durare «fami, freddi o vigilie».
Il carattere del Poeta della Commedia è già delineato: non il comune allegorismo medievale sostanzierà la sua poesia; si una poetica che fondendo elementi disparatissimi (teologici, politici, morali, astronomici), attraverso gli anni dell’operosa composizione, si muterà e arricchirà di continuo, generando la poesia e ricavandone linfe vitali.
I lettori contemporanei ammiravano nella Commedia il «teologo Dante», nullius dogmatis expers, secondo si espresse Giovanni del Virgilio: e se il giudizio elementare attesta la comune mentalità medievale, imbevuta di preconcetti molto angusti circa la creazione e l'essenza dell’arte; non dobbiamo tuttavia inferirne che le bellezze del poema non venissero comprese e gustate: dobbiamo bensì riconoscere che si desse preminente importanza ai fini didattici, specie all’allegoria. Ma la stessa ammirazione fervida e unanime, per la Commedia, di lettori e chiosatori adusati all’allegorismo ci accerta che l'allegoria dantesca aveva già trasceso le comuni forme artistiche, nella loro coscienza: e le censure velenose di Cecco d’Ascoli confermano questo riconoscimento. Il che vuol appunto dire che nel teologo si vedeva l'altissimo Poeta.
Dante, armonizzando nella teologia le sue idee morali, politiche e giuridiche, e incarnandole nella poesia, ci offre l'esempio più illustre del poeta-teologo, secondo le profonde intuizioni del Vico, esplicate nelle lezioni di eloquenza dal Foscolo, che le concretò nelle Grazie. Dalla teoria dell’origine simultanea della parola, delle religioni e delle prime favole (considerate come storia primitiva) derivò nel profondo intelletto vichiano la teoria delle etimologie, vera storia delle idee, le quali dimostrano appunto la fratellanza della politica e del diritto, sintetizzati nella teologia, che fu la prima materia del canto.
E il concetto che veniamo sempre meglio inverando circa la creazione artistica — liberandoci dalla tèsi crociana della «liricità», astratta circoscrizione dell'attività estetica, che presumendosi autonoma vien continuamente piegata dall’inflessibile necessità di obbedire alle leggi delle relazioni, nelle quali soltanto si risolvono tutte le distinzioni, caratterizzantisi come incessante reciprocità nell’unità dello spirito – tende appunto ad accertare l’equazione tra l’individuale e universale: tra il poeta, che supera nel canto il mondo accidentale, e Dio, al quale egli s'innalza, e nel quale s'immedesima.
Consapevole, infatti, di aver avuto da Dio la missione di illuminare gli uomini col suo poema, Dante era anche certo che Amore, che gli dettava dentro, non era altri che esso Dio:
«Quamquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est» .
È il concetto dell’arte insegnatogli da San Tommaso, come documentano taluni luoghi del Convivio (II, 12 e IV, 19), della Monarchia (I, 3) e della stessa Commedia: il concetto che l’arte è operazione pratica, guidata dalla conoscenza intellettiva; che nella contemplazione dell’universo l'artista apprende forme già pensate da Dio, le quali vivono di vita propria nella sua arte: molto affine, del resto, a quello dell’estetica classica, del poeta-vate, il quale non avrebbe fatto altro che comunicare agli uomini la volontà degli dèi .
Non possiamo, quindi, seguire il Croce quand’egli afferma la fallacia delle interpretazioni filosofiche, etiche e religiose della Commedia, per il presupposto ch’esse investighino elementi estranei alla lirica, appartenenti alla struttura, al «romanzo teologico» ; come non possiamo accettare la distinzione, ch’egli fa, d’un Dante pensatore e d'un Dante poeta , perché la struttura presuppone la poesia, dalla quale è sempre generata, e perché la filosofia di Dante è la stessa sua poesia, non essendo la storia spirituale del Poeta che la storia medesima della creazione del poema .
Così noi non vediamo nell’allegoria una «sorta di criptografia», «un prodotto pratico, un atto di volontà» ; ma la forma nella quale si concreta il contenuto allegorico: Pel Croce, invece, l’esistenza della poesia esclude ogni indizio allegorico, dacché l’allegoria, quando c’è, sta sempre — per definizione — fuori e contro la poesia . Ma la definizione concerne appunto l’astratta figura retorica (il comune rimpiattino medievale), che non ha nulla da vedere con l’allegoria dantesca, risultante da tutto un mondo Spirituale caratteristicamente organizzato e trasformantesi in imagini, le quali in tanto hanno la loro originalità in quanto sono state generate da un contenuto allegorico nuovo. Non soltanto il concetto di struttura e poesia, le quali si unificherebbero — secondo il Croce — per congiunzione, ha sviato, come a me sembra, il critico dalla comprensione dell’allegoria dantesca; ma anche il presupposto che la Commedia sia, come altre opere sincrone, di genere «composito», perché Dante si sarebbe diviso tra la teologia e la poesia, come, p. es., il Villani si divise tra la mitologia e la cronaca .
Sicché tutto il poema dantesco dovrebb'essere incoerente nella forma, dacché il composito è appunto fastosamente appariscente nelle sue parti, più accostate che fuse: e dovrebbe essere, quindi, non dissimile dalle opere del «genere» .
Eppare il De Sanctis aveva nettamente distinto l’arte della Commedia dall’artificio in versi contemporaneo, gli elementi riluttanti alla fusione, propri di questo, dall’armonia dantesca:
«Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell’arte. Ne’ poeti semplici trovi il reale rozzo, senza formazione, come ne’ misteri, nelle visioni, nelle leggende. Ne’ poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica o figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c’era la realtà nella sua libertà e personalità .
La sua natura poetica, tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche, ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi, e lo costringe a concretare, a materializzare, a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia, lo perseguita, lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; ma non è più lettera ma è spirito, non è più figura, ma è realtà: è un mondo in sé compiuto e intelligibile, perfettamente realizzato. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme letterarie e tutta la cultura dell'età sta qui dentro inviluppata e vivificata, in questo gran mi- stero dell'anima o dell'umanità; poema universale, dove si riflettono tutt’i popoli e tutti i secoli che si chiamano il «medio evo» .
Anche qui soccorre una teoria fondamentale, che fu enunciata — e applicata in tutt’i suoi procedimenti critici — dal De Sanctis: quella, che dobbiamo giudicare l’opera d’arte non come già composta, ma come si è venuta elaborando, come ha preso forma e si è rivelata: il che vuol dire appunto che storia spirituale e creazione (struttura e poesia) vanno seguìte unitariamente, nell’attività estetica: non sono affatto, come crede il Croce — almeno a proposito di Dante — un prima e un poi, l'una (la struttura) statica e massiccia, come una fabbrica, e l’altra (la poesia) leggera e aerea come una rigogliosa vegetazione che vi si arrampichi e vi distenda i suoi rami e i suoi fiori .
Di più, per un poeta come Dante la storia spirituale, cioè il formarsi della struttura — generata dalla poesia e generante la poesia medesima — non può esser compresa in termini applicabili, press'a poco, ad altri poeti (mai esattamente a tutt’i poeti, dacché la storia d’ogni poesia ha le sue leggi in se stessa, ed è di volta in volta, anche nello stesso poeta, configurazione individua e perspicua, e quindi rifuggente da ogni formula astratta), perché il mondo intenzionale di Dante è lussureggiante di elementi, tanto che ci par di cogliere in flagrante contraddizione lo stesso De Sanctis, quand'egli ci dice, proprio a proposito di lui:
«Il poeta non coglie il mondo nel suo immediato, ma dee costruirlo egli stesso secondo i concetti teologici e filosofici, secondo Aristotele e San Tommaso. Prima di essere il poeta, dee essere il filosofo e l'architetto del suo mondo» .
Sennonché Aristotele e San Tommaso non possono essere qui intesi in senso deterministico, dacché il Poeta — e il De Sanctis in molte occasioni esprime questo concetto — ha mutato in suo sangue, intuendole liricamente, secondo la natura del suo ingegno, le teorie filosofiche e scolastiche. Resta da esaminare la mediatezza di questo mondo, sottolineata dalla proporzione: «prima di essere il poeta, dee essere il filosofo e l’architetto del suo mondo».
Sembra che torniamo al prima e al poi, postulati dal Croce: al dualismo struttura-poesia; ma il Poeta non è pel De Sanctis — non ostante il suo romantico rapporto tra i due Danti, tra «allegorismo» e poesia, il quale vedremo peraltro attenuato — che assimilatore e riplasmatore d’idee in forme concrete, le quali confluiscono incessantemente nella poesia della scienza divina, intesa — come ho rilevato — alla maniera di San Tommaso (il quale si era appoggiato all'ιδέα di Platone e al νοϋϛ di Aristotele, consistenti entrambi in qualcosa ch'è fuori della mente umana) e temperata dalla concezione mistica di San Bonaventura, che in antitesi con la teoria tomistica, secondo la quale il pensiero può giungere all'evidenza e alla comprensione di Dio per via del raziocinio, sostiene che la vera sapienza è quella che riposa sull’autorità della Rivelazione e si lascia guidare dalla disciplina del cuore e della fede, per giungere a Dio, scansando il pericoloso e vano razionalismo. E però anche per Dante la vera fonte della scienza è la Sacra Scrittura , e la teologia (Beatrice) vien da ultimo superata dalla contemplazione (San Bernardo).
Pertanto, quand’egli costruisce il suo mondo, è filosofo e architetto di natura scritturale, quale si è manifestato sin dalle prime pagine della Vita Nova: il che vuol appunto dire che l’allegoria è la forma naturale del suo mondo, così intenzionale come effettivo. La preesistenza della scienza alla poesia si deve, fra altro, alla constatazione che il cosmo dantesco, pur essendo opera di schietta, aerea poesia, è innegabilmente configurato secondo il sistema tolomaico, il quale è ricreato con tale precisione di linee e ha tali simmetrie, che non possiamo ammettere che un disegno vero e proprio non sia sorto nella mente del Poeta, avanti la stesura della Commedia: un primo cospicuo indizio spicca già verso la fine della Vita Nova , e l'effettuazione nella maggiore poesia ci avverte a ogni passo dell’architettura lunga e operosa, che si è liberata in canto. Se poeti come il Parini l’Alfieri il Foscolo e il Leopardi — per loro esplicita dichiarazione e per documenti da loro stessi ve mandatici — stendevano in prosa le linee sulle quali poi facevano fiorire il canto; se i pittori e gli scultori han bisogno di schemi e di sagome; dobbiamo di necessità ammettere che anche Dante, per la complessità della concezione del suo poema, abbia dovuto servirsi di simili mezzi. Ma allora avvaloriamo la tesi crociana del prima e del poi, della struttura e della poesia?
Non si tratta di questo. La poesia non è un raptus, bensì laboriosa contemplazione, che succede — di solito a notevole distanza di tempo — al lampo dell’ispirazione, secondo attestano, solo per citare due esempi molto significativi, Dante medesimo e il Leopardi .
Ma come l’ideazione non è che una primitiva apparizione della poesia, ancora scialba, fluttuante (simile a un velato panorama visto da una sommità lontana); cosi la fantasia, avvivando di luci, di colori e di suoni le larve iniziali, unifica, staglia, scolpisce, dà i rilievi, che sorgono lentamente e raggiungono la perspicuità solo nell’ultimo stadio del lavoro, quando l'artista rifinisce i particolari. Le minute dei Canti leopardiani, p. es., ci dicono quanti giorni e quante correzioni occorressero alla composizione di ciascuna lirica. L’attività estetica, esaurendo le linee iniziali nei rilievi della forma, sia pure a distanza di tempo — anzi, necessariamente a distanza di tempo — fonde nell’attualità fluente i momenti passati e presenti, eternandoli nel tempo che ha come limiti se stesso: cioè, mutando il tempo labile nel tempo perenne dell'arte. Quindi struttura e poesia si condizionano incessantemente, unificate dallo spirito: e durante la creazione artistica la struttura — solo per astrazione lontana nel tempo — è attuale, rigenerandosi e consumandosi nel canto.
Il Convivio, p. es., ci di esempi cospicui di arretrate e sorpassate concezioni politiche che si rinnovano nella Monarchia e nel Purgatorio: cioè, di vecchi elementi strutturali che vengono ricostituiti dalla poesia, nella quale si pèrdono.
Che il concetto del dualismo struttura-poesia sia incerto anche nel Croce è poi provato da qualche sua contraddizione, come quando — non ostante abbia egli condannato le ricerche sui significati riposti, dovute agli allegoristi agli storicisti agli aneddotisti ai congetturisti e, in genere, il lavorio dei filologi e dei commentatori — deve ammettere: «certo, nessuno può leggere Dante senza adeguata preparazione e cultura, senza la necessaria mediazione filologica, ma la mediazione deve condurre a ritrovarsi con Dante da solo a solo, ossia a mettere in immediata relazione con la sua poesia» .
Ma di estrema portata è l’illazione ch’egli trae dalla premessa della inutilità della ricerca dell’allegoria, dacché per essa giunge ad affermare che il «romanzo teologico», «la necessità della inserzione di parti meramente informative o di alcuni geroglifici allegorici» esercitano «una certa compressione» «sulla vena poetica»: sicché, p. es., Matelda, ch'egli ritiene semplicisticamente «fata della primavera», sarebbe poi costretta a mutarsi in «ancella ed esecutrice di riti espiatori»; come afferma ancora che persino i caratteri di Virgilio e di Dante finiscono col sembrare «troppo vari e discordanti» perché, secondo il critico, «debbono prestarsi a tutte le necessità e sinuosità del racconto» .
Ma bisogna pur riconoscere che si tratta di contraddizioni dovute non a incertezze critiche — ciò che non è possibile in un filosofo come il Croce — bensì alla radicata concezione ch'egli ha della struttura e della poesia nella Commedia (romanzo politico-teologico da una parte e lirica dall’altra) e alla parentela che legherebbe il poema alle opere coeve di genere composito. Tuttavia, neppure egli stesso dev’esser convinto dell’inutilità dell’esegesi allegorica, se mostra di credere ch’è vano ricercare e sperar di fissare in modo sicuro il significato d’un’allegoria, ove l’autore non abbia lasciato di essa «un esplicito documento per dichiarare l'atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore la chiave» .
Dunque, la ricerca finisce di esser vana e può giovare, speriamo bene, all’intelligenza del poema, se riusciamo a trovare la chiave, che Dante non ci ha certo lasciata a parte, ma ch'è implicita nelle imagini, le quali, studiate attentamente (come voleva appunto il Poeta) nella loro genesi, possono dischiuderci nuovi orizzonti. A far ciò non basta l'industria ermeneutica, la pazienza che ingegni anche modesti adoperano con profitto alla soluzione d’indovinelli; ma occorre una conoscenza minuta del cosmo dantesco, nel quale si assomma la storia spirituale del Poeta, ch'è la stessa genesi della Commedia: e occorre, soprattutto, un sicuro metodo critico, che sappia giovarsi di perspicaci rilievi dimostrativi, i quali completano insieme il mondo intenzionale e il mondo effettivo di Dante.
Cosi l’unità spirituale, risolventesi nell’unità poetica, rigetta ogni illusione d’incoerenza, di stratificazione e di composito, e ci mostra che la fantasia esaurisce la logica interna della poesia nelle imagini; che la coerenza artistica s'identifica con la coerenza allegorica, dalla quale riceve nuova luce, dissipando ogni pregiudizio di espediente, di criptografia, ecc., i quali dovrebbero darci il brutto, l’informe o, almeno, il formato: ciò che viene respinto dalla sovranità della stessa poesia dantesca. Se qua e là c’imbattiamo in qualche manchevolezza, bisogna considerare che ciò è ineluttabile in ogni opera d’arte, e serve a far gustare maggiormente il puro bello, il quale risalta, soprattutto, per contrasto: manchevolezza ch'è pausa e riposo o anche frattura, segnante un momento di naturale stanchezza della fantasia, mai l'intrusione di elementi eterogenei, di espedienti retorici, o incertezze strutturali.
Ma anche a prescindere dalle ragioni che son venuto manifestando, dalle quali risulta come le ricerche caute e documentate su ciascuna allegoria servano alla giustificazione critica della valutazione delle corrispondenti imagini; rimane che l'esclusione di simili esegesi determinerebbe inevitabilmente interpretazioni arbitrarie della poesia dantesca, come ci prova lo stesso Croce allorché definendo Matelda «fata della primavera» ne fa — senza volerlo — un mito pagano: sicché il paragone con Proserpina (limitatamente ai fiori raccolti) e con Venere (quanto al riso e alla luce degli occhi), per tacere di altro, dovrebb'esser da noi inteso come determinazione di un’umanità sensuale, allettevole e procace: ciò che sconcerterebbe il lettore e farebbe cadere l'incanto della poesia della felicità primitiva, di natura scritturale, esaltata dalla bella donna insieme con le opere di Dio, il cui nome ella viene salmeggiando col più fervido misticismo.
Ma della perfetta coerenza allegorica e poetica di questa leggiadra creatura discorrerò riposatamente pit oltre. Non solo dunque l'arbitrio delle interpretazioni estetiche di questo genere ci svia dall’intelligenza della Commedia; ma distrugge ogni incanto creato dal Poeta, il cui mondo ideale si concreta nella poesia della fede (della fede politica e religiosa): e se facciamo astrazione dall’animus religioso (ch'è poi lo stesso animus poetico) non possiamo più vedere — non che giudicare — la poesia di Dante, e ne presentiamo al lettore — come dimostra l'interpretazione ora detta in- torno a Matelda — nient’altro che un rimessiticcio ditirambico.
L'esclusività del Croce, quanto all’allegoria, si deve, più che ad altro, allo scetticismo che hanno originato taluni esperimenti critici e metodologici sulla Commedia, dai tempi di Dante ai nostri giorni, e specialmente all’in- flusso esercitato sul critico dal Vico e dal Bouterweck .
Poiché la vera poesia nasce pel Vico nella divina barbarie, e la Commedia è frutto della «ritornata barbarie di nostra stirpe» — come pel Croce la vera poesia sorge sempre in una somigliante barbarie ideale, ricorrente senza interruzione nello spirito —; ne consegue che la scienza filosofica e teologica, non che profitto, avrebbe recato nocumento alla poesia dantesca: sicché Dante sarebbe riuscito meglio se non avesse conosciuto affatto né di latino né di scolastica, e noi lo intenderemmo senza deviamenti se dessimo una chiara e breve notizia delle sue cose, tralasciando la morale e ogni cognizione scientifica.
Né basta che il Croce accetti con un lieve temperamento questo giudizio vichiano, se egli conferma — coerentemente alla sua teoria – che la vera poesia sorge sulle passioni e non sulle riflessioni : come se poi le passioni di Dante non fossero continuamente alimentate e consolate dalla scienza teologica e dalle teorie politiche e morali, e queste fossero qualcosa di estraneo al contenuto della lirica: contenuto creato da quel tale ingegno e generante quel tale poema . All’antinomia tra scienza e poesia, conseguenza del postulato vichiano della divina barbarie, si aggiungono, nella mente del Croce, la lotta e la vicenda tra il Dante ideale e il Dante reale, tra il tono fondamentale, essenzialmente lirico, e l’azione epico-drammatica della Commedia, a giudizio del Vossler : donde la concezione «struttura-poesia», ma intesa non quale «tragedia estetica» di un Dante ora vincitore sulla materia sorda e ora vinto dalla medesima, secondo pretende il critico tedesco; né come desanctisiano rapporto tra allegorismo e lirica; sì come «dualità, e talora dissidio, di struttura e poesia», secondo vide o intravvide il Bouterweck .
Sennonché tal dissidio da una parte determinerebbe appunto quella «tragedia estetica» che il Croce non ammette, per i caratteri dell’arte dantesca, «così calma nel suo gran vigore» ; mentre dall'altra il critico riconosce nel dissidio sostenuto dal Bouterweck una concezione affine alla sua distinzione (romanzo teologico-politico e poesia) .
Ed è illusorio il superamento crociano del rapporto tra allegorismo e lirica – sostenuto con apparente incertezza dal De Sanctis – mediante la formula antitetica «struttura-poesia», affine al dissidio e alla dualità dal Bouterweck: vuoi perché il De Sanctis, rifiutando, a ragione, la religiosità allegorica in Dante seppe da par suo rilevare nella Commedia la religiosità concreta, e mostrare implicitamente, cosi, che l’allegoria dantesca non è un ammanto dottrinale, una sovrastruttura di stampo medievale, bensì è l’anima stessa del contenuto, che genera la forma; e vuoi perché lo stesso Croce è poi costretto a riconoscere che gli elementi dottrinali sono indispensabili — se «trattati con metodo storico e non con quello della combinatoria fantastica», e «solo in funzione di poesia» — all’«interpretazione storico-estetica» .
Così il «romanzo teologico-politico» — o struttura —, ch'era stato escluso dalla poesia dantesca, vi rientra con tutti gli onori.
Il principio del poema — soggetto anch'esso alla legge della durezza, propria d’ogni principio d'opera — ci rivela che lo stento del Poeta a universalizzare la sua storia personale, a rappresentare non più lo stato suo peccaminoso e i cattivi istinti che lo alimentano, sì lo stato della società umana traviata, in lotta con gli appetiti, figurati nelle tre fiere, delle quali almeno una — la lupa — è legata a un concetto politico — del Veltro rigeneratore — vien determinato dalla complessità dell’argomento, che si palesa davvero, concretato nelle prime imagini, come «composito»: e qui — eccezionalmente — dobbiamo riconoscere, più che dualismo fra struttura e poesia, una stentata apparizione di imagini: le tre fiere, particolarmente, sono, pit che descritte, accennate, e in maniera forzata e incoerente. L’incoerenza maggiore è segnata, a mio parere, da un nesso sintattico affannoso e fiacco (Inf. I, 49) il quale, sia che consideriamo come parentetica la terzina che lo precede («Questi parea che contra me venesse», ecc.) e accettiamo la lezione: «È d'una lupa, che di tutte brame...»; sia che ci pieghiamo all'altra più tortuosa, voluta dal Vandelli: «Ed una lupa...» — soggetto ripreso forzatamente e oscuramente col «questa» del v. 52 — ci dà, comunque, un’appiccicatura.
Via via che Dante procede nella composizione del suo poema, e rende sempre più salda e individua l’universalizzazione della sua storia spirituale, e si fa pit sicura la sua esperienza artistica, il contenuto allegorico vien generato con crescente coerenza, determinando la concretezza e la coerenza della poesia.
Per dimostrare in maniera unitaria la verità del mio assunto, che, cioè, l’allegoria è non sovrapposizione o criptografia, si l’amalgama del contenuto, che dé la coerenza ai caratteri e alle descrizioni, mi fermerò ad alcune figure centrali, aventi affinità operative, determinate da principi simmetrici, regolatori di tutto il cosmo dantesco: soprattutto alle guide, che sono: Virgilio, Matelda, Beatrice e San Bernardo.
E per definire compiutamente il passaggio da Virgilio a Matelda gioverà toccare di Catone di Lucia di Lia e di Rachele.
Il simbolo incarnato in Virgilio — suggerito al Poeta dalla molteplice concezione che nel Medio Evo si ebbe del cantore di Enea, ritenuto, oltre che sommo nella poesia, grande oratore, onnisciente, mago e profeta — determina nel poema dantesco un carattere coerente, ricco di umanità, perché la tradizione e le leggende virgiliane si sono fuse, nell'immaginazione di Dante, con la personale concezione, derivante dal lungo studio e dal grande amore, che sono congenialità e simpatia. Virgilio non è l’astratta ragione umana, sì l'uomo signore di se stesso, dominatore degl'istinti e delle passioni, che dé saggi ammaestramenti ed esorta incoraggia protegge e talvolta rimprovera aspramente l'alunno: che al lume del senno congiunge costantemente nobili sentimenti, e durante il viaggio suscita e rinsalda sempre più nell’animo di lui l’affetto e la riconoscenza per le premure teneramente paterne («Virgilio, dolcissimo patre»). Lo studio della filosofia, che Dante intraprese con passione dopo la morte di Beatrice — come preparazione alla «loda» ch’egli avrebbe tessuto di lei nel poema sacro —, adombrato scialbamente nella «donna gentile» della Vita Nova, la quale riappare nel Convivio, si mostra quivi in tutta la sua estensione (comprendendo tutto lo scibile), si da farci pensare che di esso appunto dev’esser dotata uria guida che meni l’uomo traviato «all’alto passo» per grazia divina.
La filosofia così intesa, secondo San Tommaso e San Bonaventura era necessaria non pure allo studio della teologia, ma all'intelligenza della Bibbia, dacché per Bonaventura la via della sapienza che procede secondo le ragioni eterne e la via della scienza che procede secondo le ragioni create conducono entrambe al mare del Verbo divino , sebbene egli faccia una riserva circa la sapienza dipendente dalla ragione (vana e pericolosa) e consigli l'autorità della Rivelazione per giungere a Dio.
Ora: se Dante fosse stato ligio a elementari precetti logici (ciò ch'è cònsono appunto all’imaginazione dei cosiddetti poeti allegorici de’ suoi tempi), avrebbe cominciato scegliendo a sua guida la Filosofia impersonata in una donna: tanto più ch’era vivo in lui l'esempio di Boezio. Ma per la grandezza della sua concezione e per la congenialità, solo Virgilio — il «mar di tutto il senno», «quel savio gentil che tutto seppe» — riunisce in sé, secondo le credenze medievali, tutte le cognizioni umane, e vede per esperienza propria, nell’altra vita, la verità della scienza divina. Così le cognizioni dottrinali di Tommaso e di Bonaventura si fondono in Dante con la concezione medievale di Virgilio, che gl’insegna alte verità aristoteliche al lume del commento tomistico: e noi vediamo che gli elementi logici ci sono organizzati allegoricamente, in obbedienza al principio fondamentale che règola tutto il cosmo dantesco: quello, che il mondo pagano rètto e governato dalle Virtù cardinali e intellettuali (gli spiriti magni del nobile castello, Catone, Stazio, Rifeo, Trajano) trova posto cosi nel Limbo come nel Purgatorio e nel Paradiso. Abbiamo tutto un sistema poetico, regolatore di simboli, che si assommano nell’Aquila e nella Croce: e le idee informatrici di ciascun carattere rampollano sempre armonicamente dal simbolo, il quale è l’organizzazione stessa del contenuto: Virgilio è insieme, in ogni atto e in ogni parola, savio, gentile, premuroso, rètto da quella prudenza che rispecchia la civiltà imperiale di Roma e velato di mestizia per la Religione che troppo tardi gli si è palesata.
Alla stessa guisa, le idee che concorrono a formare l’allegoria di Catone si configurano visibilmente in un tutto inscindibile, mostrandoci che né il viso raggiante di luce, né le quattro stelle, ch’esso riflette, né l’«onestà» e la «gravità» sarebbero stati ideati senza il concetto dell’uomo guidato sempre dalle quattro Virtù cardinali, il quale fa getto della propria vita per conservare incontaminata la libertà dello spirito, nella rovina della libertà civile.
Eppure il Croce non vuol vedere altro nel Catone dantesco che una «poetica creazione, nella quale il nome e qualche tratto sono attinti al ricordo di un eroe romano, il che circonda di un’aureola quel personaggio, cosi come a una cara figliuola noi diamo un nome pieno di care memorie o di alto augurio, e la storia di quel nome non pesa di certo sulla realtà della persona, che ne è stata ornata» .
Ora, a prescindere dalla considerazione che elementi estrinseci (l’aureola e il nome) dovrebbero essere i soli fittizi legami tra il Catone dantesco e il Catone della storia, mentre evidentemente il Poeta trasfigurò quel dato campione della libertà, e non un altro; sta il fatto che Dante non poteva assegnare all’ufficio di guardiano del regno della libertà se non uno spirito che fosse l'esempio vivo della libertà morale, assommante in sé quelle virtù che sono la tempra adamantina della morale stoica e dell’idealismo neoplatonico, propri del De consolatione Philosophiae di Boezio, la prima base della cultura dantesca: uno spirito che, tuttavia, non fosse, nello stesso tempo, beato: ché altrimenti si sarebbe avuta la strana esclusione dalla beatitudine celeste d’un’anima eletta, sino al di del giudizio. Queste due condizioni determinarono, evidentemente, l'ideazione di Catone uticense, non d'un qualsiasi eroe romano, come pensa il Croce: esse sono la logica interna della poesia, che ha generato, perdendovisi, il fantasma. Né i difetti di ricercatori miopi e di congetturisti son ragione sufficiente a dichiarare inutile ogn’indagine esegetica: e il Croce, piuttosto che deridere un siffatto lavorio attorno a Dante, enumerando talune castronerie, avrebbe dovuto ribatterlo. Proposizioni come queste: 1°, poiché, quando Catone mori, il Purgatorio non esisteva ancora, sarebbe da pensare ch'egli intanto andasse al Limbo; 2°, ma allora non si capisce come mai egli non riconosca Virgilio, a meno che non supponiamo nel Limbo «vari circoli o clubs, e Virgilio e Catone ascritti a due circoli diversi», oppure che durante il tempo trascorso Catone abbia dimenticato le fattezze dell’antico compagno; 3°, se egli sia da considerare salvato o no, «o se, dopo il giudizio universale, dovrà tornarsene mogio mogio al Limbo, o se, andando invece nel Cielo, troverà poi dove sedere» , andavano recisamente confutate con l’affermazione che Catone, a proposito di Marzia, dice esplicitamente ch’egli fu appunto nel Limbo sino all’inizio del Purgatorio ; che se egli può esser commosso neppure da colei che amò tanto in vita, a più forte ragione non può manifestare alcuna accoglienza a Virgilio, pur conoscendolo; che non v'è dubbio di sorta circa la sua salvazione, se Virgilio gli dice che il corpo lasciato in Utica, come quello di tutti beati, sarà così risplendente il giorno del giudizio .
Catone è romanamente austero, e «fruga» le anime con parole aspre, come aspramente accoglie i due pellegrini (Purg. I, 46-48):
«Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite alle mie grotte?».
Come poteva, dunque, mostrare di conoscer Virgilio e fargli i complimenti d’uso? Se dessimo poi peso a obiezioni superficiali quali le precedenti, potremmo domandarci ancora come mai Catone possa sospettare rotte le leggi d'abisso e mostrare di non conoscere i due visitatori (ivi, 40-41):
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la prigione eterna?...».
Ma egli, naturalmente, sa tutto, come sapeva tutto persino Caronte, circa la grazia concessa a Dante : ché altrimenti gli esecutori della Giustizia e della Grazia divina ignorerebbero (ch'è assurdo) i disegni e i decreti della Provvidenza. Solo così possiamo intendere la persuasione immediata di spiriti irosi come Caronte, Minosse e Flegiàs, dopo la dichiarazione di Virgilio («Vuolsi cosi colà dove si puote…») e quella non men sollecita dell’austero spirito di Catone (ivi, 91-93):
«Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c'è mestier lusinghe:
bastiti ben che per lei mi richegge».
Si tratta di linee di sfumature d’indizi che concorrono e armonicamente a farci vedere la genesi della poesia, il contenuto organizzato allegoricamente: e se ci sbarazzassimo di questi e di simili argomenti, secondo consiglia il Croce, verremmo inevitabilmente a valutazioni arbitrarie, dacché la poesia non può essere avulsa dalle sue ragioni interne.
Altra ragione poetica di somma importanza valutativa è costituita dai sogni, il primo dei quali (l'aquila dalle penne d’oro, che scende sul monte Ida e rapisce il Poeta) è contemporaneo all’azione reale di Lucia, che trasporta Dante dormiente dalla valletta amena all’inizio del Purgatorio; il secondo (quello della «femmina balba») preannunzia i vizi che son puniti nelle ultime quattro balze, e il terzo (Lia che va cogliendo fiori per una landa, cantando e facendo le lodi di sé e di Rachele) preannunzia Matelda. Orbene: le ragioni poetiche di tutte queste figurazioni consistono appunto nella determinazione dei simboli.
L’Aquila, già uccello sacro a Giove, nella Commedia è «l’uccel di Dio» , perché segnacolo di quell’Impero che fu voluto da Dio, dal quale dipende: e l’oro delle penne simboleggia, come in altri luoghi del poema — che menzionerò più oltre — la scienza e l’autorità divina, così come i l’acutezza visiva è in rapporto al simbolo di Lucia — la Grazia illuminante —, il quale risiede nel valore etimologico del nome («Lucia» = Lucis via).
La Ragione umana (Virgilio) può ancora illuminare di sé lo spirito dell'alunno, sempre che occorrano argomenti umani (notevole la teoria dell’amore, con la quale il maestro completa quella del libero arbitrio, enunciata da Marco Lombardo) ; ma in questo secondo regno deve limitare il suo compito, dacché – a cominciare da Catone – occorrono spesso esecutori della Grazia divina, che regolano e agevolano l’ascensione di Dante.
Comunque, a me preme fermare questo concetto: che come l'Aquila, merce’ dell’acume visivo e della predilezione che ha per lei Dio, segna l'equazione con Lucia («via della Luce» = Grazia illuminante); così Lia e Rachele, preannunziando Matelda, ne determinano il simbolo e l'operazione — nei quali vedremo le ragioni della realtà poetica della bella donna — col valore etimologico del loro nome, che sintetizza le loro virtù.
«Lia» e «Rachele» — com'è noto — son nomi propri ebraici, e significano: il primo «stanca, affaticata», e il secondo «pecorella, mansueta»: Lia è il simbolo della vita attiva e Rachele è il simbolo della vita contemplativa. Ma non basta.
Dante aveva appreso dai Padri della Chiesa che Lia simboleggia, ancora, la Sinagoga; mentre Rachele simboleggia la Chiesa.
Afferma San Girolamo:
«Lia et Rachel synagogam ecclesiamque testantur» ; e Sant'Agostino esplica analiticamente le virtù delle due sorelle, mettendo in particolare rilievo che Rachele simboleggia più propriamente il «visum principium» e la Fede; che come Lia consiste nella purgazione dei peccatori, cosi Rachele consiste nella luce dei purgati:
«Ila [Lia] operatur, haec [Rachel] reguiescit, quia illa est in purgatione peccatorum, ista in lumine purgatorum: illa est in opere bonae conversationis, ista vero magis in Fide, et haud per paucos per speculum in aenigmate, et ex parte in reliqua visione incommutabilis veritatis. Lia interpretatur laborans, Rachel autem visum principium» .
Dunque, Lia è precisamente il simbolo del Vecchio e Rachele il simbolo del Nuovo Testamento.
Come l’Aquila dalle penne d’oro e Lucia sintetizzano l’Impero e la Grazia illuminante (la gloria romana illuminata dalla Grazia divina); così le due sorelle sintetizzano la religione giudaica e la religione cristiana: e come l'aquila vista nel sogno corrisponde a Lucia; cosi Lia, non soltanto con gli attributi propri — come dimostrerò — ma anche con gli attributi di Rachele, da lei dichiarati, corrisponde a Matelda, la quale, assommando in sé le due sorelle, impersona appunto il Vecchio e il Nuovo Testamento, cioè la Sacra Scrittura. Quest’assunto, che fu da me dimostrato parecchi anni or sono , viene ora ripreso ex novo, con argomenti che si mostreranno più saldamente documentati.