Dati bibliografici
Autore: Erich Auerbach
Tratto da: Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo
Editore: Feltrinelli, Milano
Anno: 1979
Pagine: 204-213
[...]
Io mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
che ditta dentro, vo significando.
In questa poesia lirica e legata all’oggetto “amore” è contenuto un elemento femmineo e dolce che non si accorda bene col puro concetto antico del sublime. Ciò appare anche nella terminologia di Dante. Non soltanto nella Commedia egli chiama “dolce” lo Stil nuovo (Purg. XXIV, 57, cfr. anche XXVI, 99 e 112) ma già in De vulg. elog., I. X egli loda Cino da Pistoia e se stesso perché essi dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt al confronto di qualsiasi altro poeta francese o provenzale. Ma nella critica antica le due parole, tanto separate quanto soprattutto nel loro accostamento, sono definizioni consuete per la poesia leggera o media. Abbiamo citato più sopra il passo nel quale Porfirione spiega l’autodefinizione di Orazio: a differenza della sublimità di Pindaro, Orazio compone parva quidem et humilia, sed subtilia et dulcia. Ma le parole avevano cambiato a poco a poco e insensibilmente di contenuto e di livello: subtilis, che prima indicava la finezza e l’eleganza della semplicità, ora continua a significare fine, elegante, ingegnoso, ma con la sfumatura accessoria dell'importanza, della difficoltà e dell’oscurità; Dante, per esempio, scrive di Amore (Vita Nuova, XLII, sonetto XXV): “Io non lo intendo, sì parla sottile,” o nella canzone Le dolci rime d’amor, che è spiegata nel quarto trattato del Convivio: “e dirò del valore, per lo qual veramente uomo è gentile, con rima aspra e sottile”; qui va notato anche l’accostamento, perché “aspro” è opposto a “dolce.” Per quanto riguarda dulcis, l’opposto di amarus e di asper, in rapporto alla mistica e alla dialettica amorosa (“dolci tormenti”) esso è salito di rango: è diventato pit alto e più caldo, senza però rinunciare del tutto alla sua sfera originaria, quella del grazioso e del piacevole. Lo Stil nuovo è uno stile elevato, come mostrano innegabilmente il contenuto e il tono; ma è composto di parti diverse da quelle antiche: è più “dolce” e in pari tempo, talvolta, pit didascalico e pit oscuro di quanto potesse. essere un esempio antico. Ma fino alla Commedia dantesca esso è anche molto più circoscritto per oggetto e forma. Amore e cuore gentile sono i suoi soli oggetti, la canzone e il sonetto le sue sole forme. Esso non supera la sfera lirica e didascalica.
La Commedia rompe questi limiti, allarga grandiosamente l’oggetto dello Stil nuovo; l’oggetto della Commedia, status animarum post mortem, abbraccia tutta la creazione. È ancora il soggetto personale, l'individuo, il poeta stesso, quello che è salvato dall'amore, l’occasione del grande viaggio; ma questo viaggio supera per grandezza ogni pensabile tema eroico dell’antichità, perché vuole abbracciare la totalità della storia. La Commedia è la prima e sotto molti aspetti l’unica opera poetica europea che allo stile elevato antico contrapponga qualche cosa di equivalente per livello e per valore. Lo stesso Dante lo ha riconosciuto soltanto fra esitazioni e per metà. La coscienza che le cose stiano così parla, veramente, da parecchi passi dell’opera; ma la parola “commedia” e le affermazioni della lettera a Can Grande indicano che egli non si liberò mai del tutto dalle concezioni ancora fortemente puristi- che della retorica, da lui espresse anche nel De vulgari eloquentia. Non discuteremo qui se fossero la lingua popolare o il realismo (oltre alla felice conclusione) che lo indussero a negare al poema sacro il grado stilistico pit alto. Ma non mi par dubbio che per un critico dei giorni nostri egli abbia toccato e anche superato la sublimità antica. Per concludere vogliamo contrapporre alcuni versi danteschi a un modello antico, per vedere con maggior precisione che cosa ci sia di simile e che cosa di diverso.
Come esempio di sublimità nella trattazione del divino, l’autore περί ύψους (IX, 8) riporta alcuni versi dell’Iliade, evidentemente a memoria perché sono combinati da passi diversi (XIII, 18; XX, 60; XII, 19; XIII, 27-29). Il suo testo suona come segue:
τρέυε ϭ’ούϱεα μαϰϱά ϰαί ϑλη XII, 18
ϰαί ϰοϱυϕαί, Ͳϱώων τε πόλιϛ ϰαί νήεϛ Aχαιών XX, 60
ποσσίν ϑπ’άϑανάτοισι IIοσειδάωνοϛ ίόντοϛ XIII, 19
βή δ’έλάαν έπί ϰύματ’ άταλλε δέ ϰήτε’ϑπ’αϑτού XIII, 27
πάντοϑεν έϰ ϰενϑμών, ούϑ’ήϒνοίησεν άναϰτα XIII, 28
ϒηϑοσύνη δέ ϑάλασσα διίστατο τοί δ’έπέτοντο XIII, 29
I primi tre versi significano: “Tremarono gli alti monti e il bosco, e le vette, e la città dei troiani e le navi degli achei sotto i piedi immortali di Posidone in cammino.” In Omero essi descrivono la scena del dio che dalla vetta del monte di Samo, dove ha osservato la battaglia e le navi, scende al suo palazzo pieno di collera per la sconfitta degli achei. Là egli vuole prendere il carro e i cavalli per correre sul mare al campo di battaglia e aiutare i greci. Longino tralascia la scena del palazzo e collega direttamente il secondo viaggio sul mare col carro alla discesa a piedi dal monte. In Omero, dunque, i versi che seguono si riferiscono alla corsa del carro sul mare; all’incirca si possono tradurre costì “si lanciò sui flutti; da sotto di lui balzarono su dagli abissi, da tutte le parti, i mostri marini, e riconobbero il loro signore; lietamente il mare si apriva, e quelli (i cavalli) volavano...” Longino rende la scena anche pit grandiosa e distesa di quanto sia in Omero, tralasciando l’interruzione relativamente pacata nella quale vengono descritti il palazzo, i cavalli, la veste e la frusta; né si preoccupa della contraddizione contenuta nelle parole, che nei primi versi esprimono chiaramente una corsa a piedi, negli altri un viaggio con i cavalli: non lo avrà fatto con intenzione, ma inconsapevolmente, nel suo zelo per il sublime.
Prenderemo il testo così come ce lo fornisce Longino, perché evidentemente esso corrisponde a una concezione ideale della grandezza e della sublimità di cui Omero aveva dato molti esempi, ma in gran parte non puri, a causa delle aggiunte di tono più leggero. La scena mostra la potenza del dio nella sua concitata apparizione, nella apparizione espressa dal solo movimento, senza che ancora la potenza sia manifestata; il semplice mettersi in movimento ne mostra gli effetti. Sotto i passi del dio il paesaggio trema per largo tratto; le parti che tremano, anche grandi come alti monti e città, sono enumerate e si susseguono dopo il breve verbo; la fine del terremoto è formata dalla sua causa, è indicata dal vigoroso verso dei piedi immortali, contrassegnato dallo spondeo, al centro del nome, e dall’assonanza finale (IIοσειδάωνοϛ ίόντοϛ). Segue in tre versi il viaggio sul mare, come un corteo trionfale: nella lingua e nel ritmo esso è espresso come un improvviso tumulto, degli spiriti mitici che si offrono per servire, che rapidamente si placa. Il tumulto è annunciato dai due brevi cola di XIII, 27, che cominciano col verbo (βή δέ E άταλλε δέ); ritorna già all'ordine nel verso di mezzo e si placa nell’ultimo, dove il mare si apre e i cavalli volano.
Il passo, dice Longino, è di quelli nei quali la grandezza della divinità è rappresentata immacolata e schietta, cioè libera da tutti i moti sentimentali e da tutte le passioni troppo umane che di solito in Omero animano gli dei. Si può affermare questo se si tralascia, come fa Longino, il contesto del passo; infatti Posidone è spinto al suo intervento dalla passione per gli achei e dalla collera contro Zeus. Eppure Longino non ha torto, perché anche Omero sembra trascurare il contesto. Egli si abbandona all’attimo, e anche il lettore lo può fare. Chi legge il passo che descrive come Posidone scende dal monte e corre sul mare, o nel testo omerico originale o nella redazione di Longino, non deve necessariamente pensare che Posidone è pieno di collera e di dispetto, dei quali non si avverte più la presenza. La potenza del dio appare nella sua pura esistenza, dapprima in forma patetica, poi come un vivace e plastico viaggio trionfale; ci si immagina volentieri che egli sia consapevole della sua potenza e che la goda serena- mente nel sentimento della sua eterna giovinezza e purezza. In Omero l'attimo presente è tutto. Longino ha dunque ragione, quando loda il cammino e il viaggio di Posidone come puro esempio di rappresentazione della sublimità divina. Nella sua autonomia esso è libero da ogni peso e da ogni intenzione. Si sa bene che il dio corre al campo di battaglia per aiutare i greci, ma per il momento questa consapevolezza è messa in disparte. Il lettore o ascoltatore gusta soltanto una immagine della vita degli dei beati, ai quali lietamente obbediscono gli elementi ad essi affidati. Ed è trasportato dallo slancio potente dei versi, dal vivace ed evidente mutare delle immagini e dalla grandiosa brevità della conclusione, con i cavalli che volano via.
A questi versi omerici vorrei accostare l'apparizione del Messo del cielo del nono canto dell'Inferno dantesco. Gli spiriti dell’Inferno no rifiutato a Dante e a Virgilio l’accesso alla Città di Dite, e hanno anche cercato di trasformare in pietra Dante, mostrandogli la testa di Medusa, così che Virgilio gli ha coperto gli occhi con le mani. Ma ora appare l’atteso soccorso (64 ss.):
E già venia su per le torbid’onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per che tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d'un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Gli occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo.”
Come le rane innanzi a la nemica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid'io più di mille anime distrutte
fuggir cosi dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Chiunque abbia sensibilità si accorge subito che qui l’antica sublimità dello stile è raggiunta, e forse anche superata. Anche questi versi hanno la potenza dell’apparizione e la forza del movimento che c'era nel passo omerico; nell’articolazione dell’espressione, nella ricchezza della sintassi, ma soprattutto nell’unitarietà di livello stilistico, che qui è la cosa più importante, essi eguagliano l'esempio greco. L’affinità formale dei due passi sta soprattutto nel movimento che si snoda a lungo, che Longino ha ancora accentuato con l’inserzione di un verso e che in Dante corre dapprima per tre terzine, fino al verso 72, per essere poi interrotto (come nel testo originario di Omero); e poi nel sistema della costruzione, che nei due testi tende a dare l'impressione di un tuono: con l’anticipazione di un verbo principale relativamente breve e poco accentuato (τϱέμε; e già venia), al quale seguono, poi soggetti estremamente lunghi e ponderosi, parecchi in Omero, seguiti da una sola, ma vigorosa, determinazione modale (ποσσίν νπ’άϑανάϑοίσι ...), uno solo in Dante (“fracasso”), le cui determinazioni, però, ampiamente distese (frase relativa), sfociano infine in una similitudine che comprende tre terzine (“non altrimenti fatto...”). Una similitudine così mossa e distesa non si trova nel nostro passo omerico, ma la forma è antica e Dante, certamente per primo, ha osato impiegarla in una lingua volgare. In questa similitudine Dante presenta una figura simile al polisindeto (che però non è un vero polisindeto, perché ha due interruzioni, una delle quali energica):
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Longino ha introdotto per suo conto il polisindeto nel soggetto della prima frase: οϑϱεα…ϰαί ϑλη ϰαί ϰοϱνϕαί... L'efficacia è potente in ambedue i casi; in Dante si aggiunge il movimento, che attraverso il ritmo, la sintassi e la distribuzione dei suoni rappresenta ottimamente l'avanzare della tempesta.
È innegabile in entrambi i passi la sapienza artistica con cui sono ottenuti i grandi effetti. Entrambi adoperano figure retoriche. I nessi sintattici, la costruzione dei periodi e la struttura del verso tradiscono un accurato esercizio artistico, fondato sulla tradizione. Per Dante ciò può essere dimostrato, e lui stesso dice di avere studiato bene i poeti antichi e le retoriche del suo tempo per formare il proprio stile. Ma è altrettanto chiaro che qui, tanto in Omero che in Dante, la retorica ha una parte non dominante ma subordinata. In questa retorica non c'è niente di meschino, di erudito, di ampolloso; non c'è alcun eccesso di retorica che distrugga il sublime: si ha invece ciò che Longino vuole dal sublime, cioè che esso riesca a trascinare e che grazie alla sua A capacità di trascinare nasconda le arti retoriche impiegate.
La differenza più notevole fra i due passi è che Omero presenta subito Posidone che cammina o corre sul carro, mentre nei versi di Dante tutto è soltanto preparazione, fino ai due ultimi versi, nei quali finalmente si ha l’apparizione, ma breve e semplice, dell’atteso messo della potenza divina. Dapprima Dante, al quale Virgilio copre ancora gli occhi, sente soltanto fracasso e schianti, che egli paragona diffusamente e poeticamente a quelli di una tempesta di fronte alla quale fuggono animali e pastori. Poi segue un'interruzione, quando Virgilio gli toglie le mani dagli occhi (perché evidentemente la testa di Medusa è scomparsa) e lo esorta a rivolgere lo sguardo verso la fitta nebbia dello Stige. Dopo l'interruzione il nuovo movimento si riattacca al primo. Come nell'immagine della tempesta, di cui Dante ha soltanto udito il fracasso, gli animali e i pastori fuggono, cost Dante ora vede migliaia di anime che fuggono. Anche queste non sono introdotte immediatamente, ma per la via indiretta della similitudine delle rane che saltano in acqua all'avvicinarsi della biscia. Solo a questo punto compaiono le anime fuggenti dei dannati, e infine colui che le fa fuggire: “un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte.” Dopo l’abbondanza delle immagini che precedono, ciò è molto semplice, ma non per questo meno grandioso. Omero mette il nome del suo personaggio che avanza alla fine dei due versi, IIοσειδάωνοϛ ίόντοϛ, con un grande movimento ritmico, ma nel movimento non c’è tensione: tutti sanno prima di chi si tratta. Dante non lo sa, non lo sa ancora; né lo sa il lettore. Colui che infine appare è “uno.” Ma a questo punto entrambi i poeti rallentano un poco il ritmo, invitano il lettore a scandire le sillabe, e per farlo ricorrono alla stessa figura: Omero, usa, oltre allo spondeo, l’assonanza che già si è detto, Dante una vera figura etymologica (“passo, passava”). Inoltre anche in Omero, un poco pit tardi, c'è il passaggio dalle acque all’asciutto.
Per quanto notevole sia la differenza che si è detto — cioè che Omero introduce subito il suo dio in cammino, mentre Dante introduce il suo molto brevemente, dopo lunga preparazione, — di per sé essa non ha importanza decisiva. Decisivo è piuttosto quel che sta alla sua base. Omero racconta un avvenimento nel quale egli non ha parte. Per quanto i suoi uomini, e anche i suoi dei, possano rallegrarsi o soffrire, godere o adirarsi, egli non vi ha interesse; e per quanto egli sollevi o abbassi lo stile a seconda del mutare della materia (che comprende tanto l’assemblea degli dei e le battaglie quanto la vita domestica e la descrizione di oggetti), si ha sempre al fondo un tono che resta sempre lo stesso: quello della neutralità narrativa, che è come una superiore serenità, uniforme, impassibile e quasi giocosa, quasi divinamente superiore appunto per la serenità uniforme e impassibile; è la serenità superiore che i suoi dei non sanno sempre mantenere. Ma Dante non è soltanto il narratore, egli è anche l’eroe e il paziente, è il protagonista dell’azione del suo poema, e poiché questa azione abbraccia radicalmente tutti i dolori e le passioni come pure tutte le gioie e le beatitudini dell’esistenza umana, molto pit che in Omero, cost egli stesso, come soggetto, è coinvolto in tutti i movimenti della sua grandiosa azione. Nel nostro passo è lui stesso che, trattenuto nelle profondità dell'inferno, aspetta il salvatore nell’estremo pericolo. Egli dunque propriamente non racconta ciò che accade, ma ciò che gli accade. Non si trova al difuori, per contemplare, ammirare e ritrarre l'aspetto del sublime, ma si trova dentro, in un punto determinato della scena, oppresso e minacciato; egli può soltanto sentire e rappresentare quel che gli si offre nel punto in cui si trova, e poiché l’atteso soccorso divino gli si offre dapprima negli indizi che annunciano la sua venuta, anche l’interruzione durante la quale Virgilio richiama l’attenzione di Dante sulla nebbia dello Stige, donde si avvicina il messo divino, rafforza l’elemento dell’attesa, della partecipazione di Dante all’avvenimento. Qui la figura del sublime non è generale e autonoma come in Omero, ma concerne Dante: il Messo del cielo è mandato per lui e opera per il buon esito del suo viaggio verso la salvezza.
È facile capire che il significato del nostro confronto fra il passo omerico e quello dantesco non è limitato a questi due passi: esso è più generale. Dante ha ridestato in una lingua popolare europea la concezione antica del sublime; ha creato una poesia di tono elevato che sta all’altezza dei grandi modelli antichi. Prima di lui ciò non sarebbe stato possibile: né in latino, perché il latino mancava di un grande tema attuale e di un pubblico reale, in quanto le scuole da sole non, possono «mai formare un pubblico, e anche perché la tradizione scolastica col! suo eccesso, di retorica aveva distrutto il concetto del sublime, né nelle lingue volgari, perché prima di Dante esse non possedevano sufficiente libertà e ricchezza di espressione né un pubblico all’altezza di una poesia di questo genere. Anche senza tener conto del genio di Dante intorno al 1300) si erano raccolti in Italia molti elementi favorevoli a una simile rigenerazione, che ridestava l’antica sublimità.
È infatti una rigenerazione, non una esatta imitazione come le composizioni epiche di Gualtiero di Chatillon o di Giuseppe di Exeter. Il poema di Dante non è un epos, non racconta gesta passate degli uomini, come l’Iliade e l’Eneide, o come la Chanson de Roland, i Nibelungi o il Cantar de mio Cid. Il suo tema è qualche cosa di nuovo e di incomparabile. È vero che la cornice, il viaggio nell’aldilà, non è affatto muova, e si sa quanto materiale di precursori pagani, cristiani e anche maomettani Dante abbia rielaborato: nel suo poema è raccolto tutto il mondo mitico e leggendario del bacino del Mediterraneo. Ma il viaggio nell'aldilà non è un genere poetico, e se fosse un genere poetico lo sarebbe diventato per opera di Dante. Perché Dante lo ha realizzato in modo tale che al confronto tutto ciò che era stato fatto prima sembra frammento ed episodio. La Commedia insegna l’unità del mondo fisico, morale e storico nello spirito dell'amore divino; ma l’insegnamento non è impartito con oggettiva generalità come nel poema didascalico, bensì sotto forma di esperienza o visione di un uomo determinato, Dante, nel suo determinato momento storico; la sua generalità è l’onnitemporalità cristiana dell'ora e del qui; e l'ora e il qui, la più attuale storicità interiore, è contenuta anche nell’aldilà, come ho cercato di dimostrare nei miei precedenti scritti danteschi. Il poema di Dante è un’opera d’arte, ma nello stesso tempo è una rivelazione; al poeta, che è anche il viaggiatore che visita i tre regni, l’amore divino, nato in lui dall'amore terreno, manda nel momento dell’estrema necessità la visione che lo salva. Questa sostanza personalissima e insieme universalissima, nel suo aspetto personale, distingue la Commedia da tutta la poesia epica precedente e crea un nuovo rapporto tanto con l’oggetto quanto col lettore.
Così lo stile elevato antico è risorto non da una mera imitazione, ma da un mondo nuovo, del quale i maestri antichi non sapevano nulla. In questo mondo nuovo esso ha potuto, mutato e pur sempre lo stesso, vivamente operare e, anzi, cooperare in misura decisiva alla sua formazione.