Dati bibliografici
Autore: Juan Varela-Portas de Orduña
Tratto da: Leggere Dante oggi. Interpretare, commentare, tradurre alle soglie del settecentesimo anniversario
Editore: Aracne - Accademia d'Ungheria in Roma - Istituto Storico "Fraknói", Roma
Anno: 2011
Pagine: 317-326
[L'espressione ‘scuola dantesca di Madrid’ è stata coniata da Nicolò Maldina nel suo articolo Gli studi sulle similitudini di Dante: in margine alla ristampa de Le similitudini dantesche di Luigi Venturi, in «L'Alighieri», 32 (2008), p. 144.]
Nell’anno accademico 1989-90, sotto la direzione del prof. Carlos Lopez Cortezo, ha inizio, all’interno del Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid, un seminario permanente di studi danteschi con il nome di ‘Seminario di dantologia’. Con la parola ‘dantologia’ i componenti del Seminario hanno voluto tradurre un tipo di studio dedicato in modo specifico all’esegesi e all’analisi dei testi di Dante, con speciale attenzione ai significati allegorici e alle strade per arrivare ad essi.
Il Seminario ha visto la presenza, fin dall’inizio, di professori dell’Università Complutense, di studenti ai differenti livelli del percorso accademico e di semplici interessati all’opera dantesca; essi si sono riuniti in modo continuativo e costante tutte le settimane, al fine di esporre le proprie ricerche e i problemi di volta in volta individuati, per discuterne e studiarli insieme.
Col passar del tempo, i componenti del Seminario considerarono necessaria la creazione di un’associazione. Si fondò allora, nel 1997, la Asociacion complutense de dantologia, grazie alla quale le attività del gruppo si ampliarono all’organizzazione di eventi accademici e culturali per la diffusione e lo studio dell’opera di Dante e del suo periodo storico.
All’interno di questo percorso si verificò il fruttuoso incontro con i professori e gli studenti catalani che avevano a loro volta creato la Societat Catalana d’Estudis Dantescos a Barcellona. Dalla fine degli anni ’90 le due associazioni hanno stabilito tra loro stretti vincoli di collaborazione e confronto, organizzando insieme differenti congressi e giornate di studio e dando vita a un prolifico dibattito su saperi e metodi di analisi, attraverso lo scambio abituale di lezioni, conferenze, incontri tra esponenti delle due associazioni.
Come risultato di questo lavoro di gruppo nasce nell’anno 2000 la rivista «Tenzone», che da allora ha pubblicato senza interruzioni un numero all’anno. Nella rivista viene dato spazio non solo ai contributi scientifici relativi all’opera dantesca ad opera dei membri di entrambe le associazioni, ma anche e in special modo a quelli di professori stranieri che presentino tratti di novità nella prospettiva, sia dal punto di vista esegetico e interpretativo, sia da quello dell’analisi storico-sociale e culturale. In questi dieci anni di intenso lavoro si è inoltre consolidato il prestigio della rivista sia tra gli studiosi di critica dantesca sia, più in generale, all’interno del mondo dell’italianistica.
Il lavoro costante delle due associazioni e della rivista «Tenzone» ha fatto sì che il gruppo iniziale sia andato ampliandosi a professori italiani provenienti da diverse università, cose cha ha avuto un ruolo determinante nell’arricchimento e nella diffusione dei risultati che si andavano via via ottenendo. La continua attività di incontri, giornate, congressi, svolta in questa prima decade del XXI secolo, ha dato vita sia a una collezione di libri collegata alla rivista Tenzone, la Biblioteca di Tenzone, che pubblica monografie specialistiche su temi danteschi, sia all’ufficializzazione del Gruppo Tenzone come gruppo di ricerca dell’Università Complutense di Madrid, nel quale intervengono in modo sistematico professori di differenti università spagnole e italiane.
In tal modo, ciò che cominciò come seminario di studi si è convertito in un progetto più ampio, caratterizzato dalla presenza di differenti linee di ricerca e di criteri di pubblicazione. Allo stesso tempo, per il fatto di riunire al suo interno un numero di volta in volta maggiore di professori e studenti, si struttura come un nucleo compatto e insieme articolato di studiosi danteschi di prestigio nazionale e internazionale.
Chiamiamo ‘allegoria analitica’ il metodo iconico che Dante utilizza nella Divina Commedia per analizzare, e allo stesso tempo far capire sia razionalmente sia intuitivamente (visto che intuere significa ‘vedere’) complessi concetti e teorie filosofiche e teologiche, le quali costituiscono il vero senso ultimo e il significato delle immagini presentate. Per fare ciò, Dante realizza un doppio processo analitico: da una parte, scompone il concetto o gruppo di concetti, teorie o questioni in tratti distintivi caratterizzanti il contenuto – tratti generalmente offerti dalla cultura filosofica e teologica del momento – producendo quello che Umberto Eco nel suo Trattato di semiotica generale chiama un ‘codice di riconoscimento’ ; dall’altra, concepisce un’immagine complessa e dinamica suscettibile, a sua volta, di essere frammentata in tratti minori. Infine i tratti distintivi del significato e i tratti minori ricavati dall’immagine vengono collegati, in modo che dall'immagine (cioè dai sensi) si possa passare alla comprensione razionale dell’episodio .
Così, la rappresentazione immaginaria (visiva ma anche sonora) non è soltanto un mezzo di rappresentazione iconica, ma piuttosto un mezzo di analisi iconica del concetto, dell'idea, che viene sminuzzato in concetti minori che lo spiegano, e, in questo modo, l'immaginazione diventa un modo di conoscenza. Questa maniera di usare l'immaginazione è molto diversa — se non contraria — rispetto alla maniera sintetica con cui viene usata generalmente oggi nella nostra cultura, in un tipo di comunicazione immediata e perciò non razionale (le icone del computer, i segnali stradali, i cartelli e i loghi commerciali, ecc.). Al contrario, il modo dantesco di usare analiticamente l’immaginazione risulta perfettamente logico nella concezione del mondo come vestigio di Dio. Con esso, Dante presenta al lettore un esercizio gnoseologico di copulatio, cioè di unione fra il sensibile e l’intelligibile per mezzo dell’immaginazione, in modo che tutte le potenze umane, dalle più basse, sensibili e passionali, alle più alte, intellettuali e persino ispirate, vengano armonizzate nella via della conoscenza e della felicità (che, come si sa, sono la stessa via). Così, Dante, alla fine di un lungo e travagliato percorso di ricerca poetica — ricerca che include quella filosofica e teologica —, non solo risolve la sua vecchia querelle con Guido Cavalcanti — per il quale, com'è risaputo, l'impossibilità della copulatio e cioè la radicale scissione fra mondo sensibile e mondo intelligibile era la causa della natura distruttrice dell’amore —, ma combatte anche in modo pratico le tendenze ideologiche desacralizzanti di fondo, che facevano il mondo sublunare ogni volta più dissimile e alieno al mondo supralunare divino.
Fu in un articolo del 1994 che Carlos Lopez Cortezo teorizzò per la prima volta la similitudine analitica . In quel lavoro, Lopez Cortezo la mise in relazione con i metodi esegetici della teologia simbolica del dodicesimo secolo, specialmente della scuola vittorina, nella quale «per ampliare i significati, la realtà di base viene scomposta in un’analisi in cui ogni elemento, ogni particolare di questa stessa realtà, serve da sostegno ad un transfert di significato» . Lopez Cortezo prende da Chenu l'esempio del cero pasquale, che passa da essere allegoria della luce di Cristo risuscitato ad essere scomposto nelle sue singoli parti, cero, miccia, fiamma, a ognuna delle quali veniva attribuito un significato, umanità, divinità, grazia di Cristo . In fondo, se ci si pensa bene, il metodo dantesco non è molto diverso da quello utilizzato nei capitelli delle cattedrali gotiche per spiegare al popolo le verità bibliche e altri misteri teologici, anche se, ovviamente, a un grado di complessità e di perfezione infinitamente superiore. E come i capitelli, le immagini dantesche hanno bisogno di qualcuno che ne faccia l’esegesi e ne spieghi i significati. A Madrid, ormai da più di vent’anni, abbiamo sviluppato una metodologia di studio di tali allegorie analitiche che viene composta dai seguenti passi:
1. Comprensione accurata della lettera del testo, seguendo le note “istruzioni” lasciate da Dante all’inizio del Convivio, ma anche da teologi come Ugo di San Vittore. Comprensione letterale significa rappresentare l’immagine non per mezzo di un'impressione generale e vaga, ma facendo caso ai minimi particolari messi in rilievo dalle parole.
2. Identificazione dei tratti distintivi dell’immagine o dell’azione. Questi tratti vengono spesso sottolineati dallo stesso testo dantesco; altre volte, devono essere ricavati dal contesto testuale e, in questo senso, l’esperienza ci insegna che a tale scopo è più importante l’unità ‘episodio’ (cioè cerchio, girone, cornice, cielo) che l’unità ‘canto’.
3. Speciale attenzione deve essere data ai brani di tipo perifrastico, ad esempio le similitudini tipo quadretto o le perifrasi geografiche, perché laddove Dante devia apparentemente a livello letterale con elementi che sembrano essere superflui o non fare all’uopo, è proprio dove lascia traccia degli elementi che devono servire per il transfert. Come ha spiegato Umberto Eco, la violazione della massima conversazionale della relazione è segno evidente dell’esistenza di un altro senso .
4. Considerazione degli elementi impliciti nell’immagine o nella storia (mitologica, storica, autobiografica, ecc.). È questo, probabilmente, uno degli aspetti di più difficile precisazione a livello teorico, perché non è facile segnare rigorosamente i limiti di questi elementi impliciti, il che potrebbe portare a una deriva esegetica staccata dal testo, in senso forse esoterico 0 misterico. Soltanto la prassi di analisi può stabilire tali limiti, che devono essere verificati con il contesto testuale. Un caso estremo lo possiamo trovare nel mito di Minosse implicito nel personaggio infernale. La storia di Minosse, Pasifae, il toro, il Minotauro e Dedalo non è altro che la storia di come la parte razionale dell’anima (Minosse) — a causa della sua disubbidienza verso Dio-Poseidone — perde il controllo sull’appetito concupiscibile (Pasifae) e irascibile (il toro), provocando la nascita del Minotauro, bestiale e violento, il quale, grazie all’astuzia razionale di Dedalo, è nascosto nel labirinto, Si riproduce così nel mito la struttura morale dell’Inferno, nel passaggio dalla incontinenza alla matta bestialità e alla frode, riassunta così nell’immagine, inventata da Dante, di un personaggio come Minosse, metà giudice di anime metà bestia iraconda .
5. Considerazione delle ambiguità o polisemie semantiche, visto che spesso Dante usa un termine di senso colloquiale a livello letterale e di senso tecnico a livello allegorico (i più ovvi sarebbero termini come parvenza, simiglianza, sembiante...). In questo ambito semantico, la interpretatio nominum alla maniera medievale — e non soltanto lo studio etimologico — può essere di grande aiuto. Un caso molto semplice è quello di Caronte, nome che si faceva derivare da caro, carnis: il personaggio porta le anime all’inferno come la carne si trova alle origini di tutti i peccati .
6. Ricerca approfondita sui possibili contenuti filosofici o teologici dell’episodio in modo da ricostruire quella che potremmo chiamare la forma del contenuto (ma senza implicazioni strutturalistiche), cioè la rete di sottoconcetti e rapporti nozionali di un tema. È chiaro che questa ricerca ha basi meno ipotetiche per quello che riguarda ciò che Dante vede che per quanto riguarda l'evoluzione o percorso del personaggio, cioè per quello che riguarda la struttura statica della Commedia più che per quanto costituisce la sua struttura dinamica .
7. Formulazione di ipotesi di collegamento fra contenuti filosofico-teologici e tratti distintivi delle immagini, ipotesi che devono essere controllate — falsate — nel contesto testuale, biografico, storico, ecc. Normalmente, se l’ipotesi è corretta la coerenza testuale aumenta e i diversi elementi dell’episodio vengono spiegati e messi in relazione.
Vorrei presentare in questa sede un esempio del nostro modo di leggere Dante, un esempio cioè di analisi svolta nel nostro ‘Seminario di dantologia’: la similitudine della stella cadente di Paradiso XV 13-24, con la quale si descrive il movimento che fa la luce beata di Cacciaguida, scendendo dal braccio destro della croce del cielo di Marte fino ai suoi piedi per parlare con Dante:
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che dalla parte ond’e’s’accende
nulla sen perde, cd esso dura poco:
tale dal corno che ‘n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì risplende;
né si parti la gemma del suo nastro,
ma per la lista radial trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Com'è abituale nelle allegorie analitiche, ci vengono offerti a livello letterale troppi particolari che servono da sostegno al significato allegorico. L’aspetto più importante in questo caso ci dà indicazione di una caratteristica comune alle altre similitudini analitiche dell’episodio: ci troviamo davanti ad un fenomeno naturale in cui bisogna distinguere quello che veramente succede da quello che si riesce a percepire. La stella cadente «pare stella che tramuti loco» ma, in realtà, è un «sùbito foco», cioè un’infiammazione di vapori caldi, come spiega Ristoro d’ Arezzo citato da Mattalia ad locum:
Vedemo la notte correre entro per l’aere fiamme di foco, e dissolvere e venire meno. E alquanti non savi credono ch’elli sieno stelle, che caggino dal cielo e vengano meno... E la cagione di questa fiamma può essere secondo questa via: che stando l’aere asciutto e secco, per lo calore s’infiamma lo vapore nell’aere, e corre lo vapore infiammato per entro l’aere .
Detto ciò, possiamo individuare i tratti distintivi dell’immagine della stella cadente, evidenziate esplicitamente dal testo:
1. C'è all’inizio una notte tranquilla e pura («Quale per li seren tranquilli e puri»);
2. Si produce un’illuminazione subita che sembra una stella che cade («pare stella che tramuti loco»);
3. Ma che, in realtà, si tratta di un’infiammazione di vapori caldi che, visto che il fuoco ha il suo luogo naturale nella sfera ignea, ascendono («discorre ad ora ad or sùbito foco»);
4. In questo senso, non si perde nulla nel luogo dove si produce l’infiammazione («se non che da la parte ond’e’s’accende / nulla sen perde»);
5. È momentanea («ed esso dura poco»);
6. Muove gli occhi che prima erano fermi («movendo li occhi che stavan sicuri»), il che, ovviamente, fa riferimento alla solita reazione di meraviglia davanti a questo fenomeno naturale.
Così dissezionata, l’immagine ci offre elementi fondamentali per capire il fenomeno del martirio. Non si deve dimenticare che Cacciaguida, il protagonista di questa similitudine, si presenta non soltanto come combattente per la fede, ma soprattutto come un martire:
Quivi fu’io da quella gente turpa [i saraceni]
diviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace.
(Paradiso, XV, vv. 145-148).
Vediamo quindi gli elementi del contenuto che possono essere collegati coi tratti distintivi dell'immagine:
Tratto distintivo 2: Il martirio, a un primo sguardo e per l'osservatore che non sappia di cosa in realtà si tratti, può sembrare una semplice morte, una caduta, qualcosa di crudele per il martire, se non viene considerata l’autentica natura di questa morte. Può sembrare addirittura una morte dell’anima, visto che il martire muore senza confessione.
Tratto distintivo 3: Sotto questa apparenza si nasconde invece la vera essenza del martirio, che è, innanzi tutto, il risultato «della più ardente carità, secondo le parole evangeliche [Gv. 15, 13]: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”» . Così, questa infiammazione di vapori caldi indicata specificamente col sintagma «sùbito foco» rappresenta iconicamente che il martirio, per essere tale, ha bisogno di essere un atto imperato di carità, «sine caritate non valet»:
All'atto del martirio la carità inclina come primo e principale movente, cioè come virtù imperante, la fortezza invece come movente proprio, cioè come virtù eseguente. Per cui il martirio appartiene alla carità quanto al comando, ma quanto all’esecuzione appartiene alla fortezza. E così manifesta l’una e l’altra virtù. È però la carità che lo rende meritorio, come accade per qualsiasi atto virtuoso. Per cui senza la carità non ha valore .
Questo stesso aspetto viene rappresentato attraverso l’immagine con la quale Cacciaguida presenta a Dante, alla fine dell’episodio, gli altri beati di questo cielo: «Però mira ne’ corni de la croce: / quello ch’io nomerò, lì farà l’atto / che fa in nube il suo foco veloce» (Paradiso XVIII, 33-36). Viene usata qui l’immagine del fulmine per rappresentare un’esplosione di carità, perché il fulmine veniva spiegato come esplosione di vapori caldi (come la stella cadente) in lotta coi vapori umidi della nuvola, in un’immagine sulla quale non possiamo soffermarci ma che abbiamo studiato in altri lavori , e che trova la sua più completa formulazione in Paradiso XXIII, 40-45.
Non si tratta, quindi, di sacrificarsi gratuitamente, ma come testimonianza e conseguenza della fede in Cristo, e come risultato di un ardente slancio di amore verso di lui. È quello che ribadisce pure l’immagine del «foco dietro ad alabastro», nella quale l’alabastro per la sua bianchezza iconizza la fede, mentre il fuoco, per il suo calore e la sua virtù ascendente, rappresenta la carità. Nel martirio devono darsi entrambe come essenza di quest’ultimo, perché «Poiché l’affrontare la morte non è un atto lodevole per se stesso, ma solo in quanto è ordinato a un bene consistente in un atto virtuoso, p. es. alla fede, o all’amore di Dio. Per cui tale atto virtuoso, essendo un fine, è superiore».
D’altra parte, anche se non esplicitato verbalmente, c’è un elemento implicito ovvio nella similitudine: l’ascensione di questi vapori infiammati provocata dalla stessa natura del fuoco, che tende verso il suo luogo naturale (Cfr. Paradiso I, 115). Così, la discesa di Cacciaguida lungo la croce è, in realtà, un’ascesa. Questo rappresenta perfettamente il fatto che il martirio anche se, come abbiamo detto, può sembrare una caduta, suppone in realtà un’ascensione immediata alla beatitudine, giacché costituisce quello che si conosce come “battesimo di sangue” per cui sono perdonati istantaneamente tutti i peccati, il che spiega la subitaneità con la quale Cacciaguida passa dal martirio alla pace del Paradiso: «e venni dal martiro a questa pace» (Paradiso XV, 148). Quello che sembra una caduta è ascensione immediata, grazie all’amore, al Paradiso.
Tratto distintivo 4: Il martirio è un tipo di sacrificio per il quale l’uomo offre a Dio un bene corporale perché l’essenza del sacrificio, come quella del martirio, è quella di essere segno di un processo interiore di fede e devozione. Comunque, nel martirio, come in ogni sacrificio, si produce un processo di distruzione dell’oggetto sacrificato che tecnicamente si conosceva come inmutatio dell’oggetto, termine tecnico al quale fa senz'altro riferimento l’espressione «stella che tramuti loco», in uno di quei casi di cui dicevamo di uso tecnico della parola nel livello allegorico. Nell’anima della persona, invece, là dove s’accende l’amore di carità («da la parte ond’e’s’accende») «nulla sen perde», cioè non si produce l’esterna immutazione, ma appunto il processo contrario.
Tratto distintivo 5: Il martirio è un processo momentaneo, in cui la sofferenza dura poco e gli effetti sono immediati.
Tratto distintivo 6: Il martirio ha innanzi tutto un valore di testimonianza davanti a coloro che hanno notizia di esso. È cioè un fatto esemplare, e muove, sollecita l’animo degli altri cristiani, nello stesso modo in cui la stella cadente fa sorprendere, ammirare e mettere in moto gli occhi fermi (si pensi alla comune reazione davanti a questo fenomeno), come il martirio fa coi cristiani.
L’allegoria della Commedia non si svolge però a un solo livello. Si tratta di un’importante questione teorica sulla quale non ci possiamo soffermare. Diremo soltanto che nel Paradiso oltre al livello allegorico ce n’è un altro anagogico, e che in questo caso sembra logico ipotizzare che il sacrificio di Cacciaguida e, con esso, quello degli altri spiriti militanti che, sebbene non tutti martiri, offrirono pure un loro bene corporale come testimonianza della fede in Cristo, rappresentino il più alto sacrificio, il più alto martirio della storia umana, quello di Gesù Cristo. Non si deve dimenticare che questi beati formano la figura della croce, simbolo della Passione, e che in quella croce “lampeggia” Cristo
Qui vince la memoria mia io ‘ngegno;
ché in quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essemplo degno;
ma chi prende sua croce e segue Cristo
ancor si scuserà di quel ch’io lasso
vedendo in quell’albòr balenar Cristo.
(Paradiso XIV, 103-108).
Come spiega Mattalia ad locum: «L’identità delle due figure [croce e figura di Cristo] vorrà significare, simbolicamente, che l’idea di sacrificio è intimamente consustanziale al messaggio e alla missione del Dio-Uomo, e che non è possibile pensar l'una senza l’altra» . La stessa conclusione possiamo estrarre dall'analisi della nostra similitudine, confermando che i tratti distintivi dell'immagine si possono collegare con le principali caratteristiche del sacrificio di Cristo.
Tratto distintivo 1: Nel momento della venuta di Cristo, il mondo si trovava, con l'Impero, in un momento di pace e benessere assoluti, necessari per preparare il suo arrivo (com’è necessario che l’aria sia serena perché si possa vedere la stella cadente), come indicato, fra altri testi danteschi, in Monarchia I, XIV, 1-2, o Paradiso VI, 55-56, dove si usa appunto il termine sereno, anche se nel suo uso aggettivo: «Poi, presso al tempo che tutto il ciel volle / render lo mondo a suo modo sereno». Era quindi notte, poiché era il tempo della legge antica nel quale l’umanità si trovava ancora sotto il peccato originale, senza la grazia portata da Cristo, ma era notte serena e tranquilla, come quella della nostra similitudine.
Tratto distintivo 2: La passione di Cristo può sembrare una caduta, cioè un’umiliazione per la quale Dio si fa uomo e si lascia vessare, come se ci fosse stato qualche cambiamento o abbassamento nella divinità.
Tratto distintivo 4: È invece dogma di fede che «Deus per incarnationem nullo modo mutatus fuit»: «Il mistero dell’incarnazione non si è attuato per un qualche cambiamento nell’eterna condizione di Dio, ma in quanto egli in modo nuovo si uni alla creatura, o meglio uni a sé la creatura» . O, in altre parole: «la natura umana assunta dal Verbo è stata nobilitata mentre il Verbo non si è mutato, come nota S. Agostino (Lib. LXXXIII quaest. 73]» .
Tratto distintivo 3: Certamente, la passione di Cristo è un atto di carità: «quanto alla carità, che nell’incarnazione trova il suo massimo incentivo, Da cui le parole di S. Agostino [De cat. rud. 4] “Quale fine più grande ha la venuta del Signore se non quello di manifestarci l’amore di Dio per noi?”» , Inoltre, che la sua morte fosse un sacrificio si deve proprio al fatto che la causa di essa è stata la carità: «La passione di Cristo fu un sacrificio in quanto Cristo volle subire volontariamente la morte mosso dalla carità» «È evidente che la passione di Cristo fu un vero sacrificio. E nel mede- simo libro [De civ. Dei c. 20] il Santo rileva che “di questo vero sacrificio erano segni molteplici e vari i sacrifici dei giusti dell’antico Testamento, quali parole molteplici sprimenti un’unica cosa, per poterla molto raccomandare senza creare fastidio”» .
Tratto distintivo 6: La passione di Cristo produce un effetto esemplare edificante, commuove l’animo dell’uomo e lo stimola: «Quanto rispetto al ben operare, nel quale con l’incarnazione Dio stesso si è fatto nostro modello. “Avevamo l’obbligo”, spiega infatti S. Agostino [Serm. 371, 2], “di seguire non l’uomo che vedevamo, ma Dio che non vedevamo. Per dare quindi all'uomo di poter vedere chi doveva seguire, Dio si fece uomo”» .
Così analizzata, l’immagine della stella cadente, e con essa l’immagine della croce bianca e dei suoi spiriti militanti, si rivelano come rappresentazione, e, allo stesso tempo, spiegazione iconica dell’ideologia cristiana del martirio e del sacrificio, e della passione di Cristo nel suo aspetto sacrificale. Possiamo dire che, in un certo senso, quello che, ad esempio, Tommaso spiega nella sua Somma Teologica III, q. 47, a, 1, o II-II, q. 124, ecc., Dante, come poeta, riesce ad amalgamarlo in un’immagine — in una serie di immagini — che penetra direttamente nell’immaginazione, e raggiunge così lo scopo di far intuire al lettore non preparato complesse nozioni e astrazioni intellettuali.