Dati bibliografici
Autore: Giorgio Sica
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna dantesca
Numero: 39
Anno: 2012
Pagine: 149-155
La “sacra rappresentazione” alle porte della città di Dite, descritta a partire dalla seconda metà del canto VIII e per tutto il IX dell’Inferno, costituisce uno dei momenti più apertamente drammatici della Commedia. Come scrive il Momigliano, quei due canti, insieme al XXI e al XXII della stessa cantica, contengono «le pagine del poema dove meglio si manifestano le qualità drammatiche di Dante [...]. Il viaggio di Dante, che di solito è un’esplorazione e un colloquio, qui diventa una peripezia, richiamandosi vagamente al suo inizio» .
Siamo nel quinto cerchio, alla fine dell'alto Inferno, davanti alle porte della città di Dite. La “peripezia” dantesca è a un punto nodale: per proseguire il proprio cammino, egli deve scendere nel basso Inferno, lì dove nessun mortale ha mai avuto accesso. Trovatosi a dover fronteggiare l'opposizione dei diavoli e delle Furie che vogliono negargli l'ingresso nel regno di Plutone, il poeta inscena un dialogo a più voci che costituisce una delle vette della sua capacità di sceneggiatore, creando un quadro di estrema potenza pittorica. Combinando sapientemente serrati scambi verbali con rapide pennellate che rendono indelebili nella memoria del lettore la mimica del volto e del corpo dei protagonisti, Dante ne mette a nudo gli altalenanti stati d’animo, in una cornice che contribuisce ad alimentare la suspense della scena. I cromatismi arditi — dal grigio della palude brulicante delle «fangose genti» alla visione improvvisa del rosso acceso delle torri («vermiglie come se di foco uscite / fossero», VIII, 72-73) — e la successiva apparizione delle Furie e del Messo concorrono a creare un insieme di rara forza plastica. Una potenza deformante, che oggi diremmo espressionista, anima le sue descrizioni e ci dona una rappresentazione di spazio e figure che sembrano andare oltre le contemporanee innovazioni dell’ammirato Giotto, risultando semmai più vicine ai risultati che, quasi due secoli più tardi, raggiungeranno un Luca Signorelli o un Hyeronimus Bosch.
Questa intensità pittorica aiuta Dante a calare il lettore in uno dei contesti più misteriosi e densi di echi dell’intera Commedia. Lì conviene che l'omaggio ai suoi maestri sia puntuale, e Dante non esita a ricordare in più momenti i versi di colui che lo guida, non senza difficoltà, in questa fase cruciale. Il grande poeta mantovano è, per di più, protagonista centrale dell’azione drammatica e vi svolge un ruolo di suggestione ed efficacia profonde. Se da un lato, infatti, la sua lotta con i diavoli sembra far confluire nella sua figura gli echi delle doti magiche di cui il Medio Evo lo aveva investito, dall’altro, come sottolinea Zannoni, Virgilio «sembra messo qui per far grandeggiare l’effetto di questo racconto» e «porta, come nel suo poema, il senso stupendo del divino e l’idea della predestinazione» .
Con la memoria dei versi del suo maestro, Dante lascia che risuoni chiara l’eco degli amati Ovidio, Lucano, Stazio, con i quali gareggia nella cupa fantasia del disegno delle Furie e dell’oscurità in cui si muovono. Ma le citazioni dei classici non sono sole. Particolarmente significativi sono anche i riferimenti scritturali, secondo quell’inestricabile intreccio di fonti pagane e giudaico-cristiane che caratterizzava la mentalità medievale. L'appello a Virgilio affinché non l’abbandoni ripete, ad esempio, secondo l’uso biblico il sette come numero dalle forti connotazioni magiche :
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar [...]».
(Inf. VIII, 97-100)
Questa invocazione ben si adatta al clima eccezionale dell’impresa. Clima che Virgilio confermerà poco oltre quando, nel tentativo di rassicurarlo, ricorderà a Dante che i diavoli avevano già tentato di fermare Cristo dinanzi alla porta d’ingresso dell’Inferno:
«Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova».
(vv. 124-26)
In un momento di tale criticità, in cui il poeta sta ripetendo il descensus ad inferos del Cristo stesso, le Sacre Scritture gli vengono naturalmente in aiuto nel descrivere la straordinarietà della situazione, sottolineata dagli stessi diavoli: «Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente?» (vv. 84-85).
La sua intera missione, come già nel canto II, appare infatti in un momento di crisi e Dante viene assalito a più riprese dal dubbio. Un vero e proprio sgomento lo invade quando i diavoli invitano Virgilio a proseguire da solo. Di fronte a quella minaccia si dice addirittura pronto a tornare indietro:
«non mi lasciar», diss’ io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
(vv. 100-02)
Una possibilità che deve essergli sembrata ben concreta quando, poco oltre, i diavoli chiudono le porte di Dite e lo sconforto s’impossessa dello stesso Virgilio:
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ha negate le dolenti case!».
(vv. 118-20)
Un insuccesso non era certo improbabile: d’altronde, come nota Padoan , allo stesso Enea era stata vietata quella segreta soglia. Credo, dunque, che per cogliere in pieno la drammaticità di questo momento sia necessaria la massima attenzione anche ai gesti più apparentemente “prosaici” che, come spesso accade nella Commedia, possono essere allegoria di passaggi spiritualmente significativi. Penso, in particolare, all’episodio che precede la venuta del Messo celeste, una delle figure più misteriose del poema. Evocato da memorie scritturali, il Messo, che rigetta le Furie nel silenzio da cui sono sorte ed apre al poeta le porte di Dite, non è rappresentato nella sua fisicità come lo saranno altri emissari divini (a esempio, gli angeli del Purgatorio). Egli è piuttosto figura da Antico Testamento: la sua apparizione è preceduta dal terrore ed è descritta con un linguaggio che Bosco accosta giustamente alla violenza di Ezechiele e che ha notevoli paralleli con la visionaria potenza di Lucrezio, pur non conosciuto dal sommo poeta; mentre la soprannaturalità della sua apparizione, il silenzio che accompagna i suoi gesti hanno fatto parlare giustamente Marcazzan di «sortilegio» . E di certo Dante sta creando un’atmosfera decisamente favorevole al “magico”, in cui rientra il celebre appello a penetrare «la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani», su cui tanti esegeti si sono cimentati:
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
(Inf. IX, 61-63)
Questo appello al lettore è l’unico, dei diciannove che Vittorio Russo conta nella Commedia , a invitare a prestare attenzione a quel che segue. A esso si può equiparare l’esortazione per tanti versi analoga di Purgatorio VIII, 19-21:
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ’l trapassar dentro è leggero.
Non è questa la sede per soffermarci sulla fortuna secolare che queste terzine hanno avuto nella storia della nostra letteratura. Basterà ricordare che l’antichissima immagine (sulla quale ritorneremo in séguito) di un velo che cela agli occhi umani la visione della verità, e della necessità di “squarciarlo” sarà puntualmente ripresa da Petrarca in una canzone densa di echi danteschi, O aspectata in ciel beata et bella:
Dunque ora è ’l tempo da ritrare il collo
dal giogo antico, et da squarciare il velo
ch’è stato avolto intorno agli occhi nostri.
(Canz. XXVIII, 61-63)
Nel tentativo di svelare il senso dell’appello a «Ii ’ntelletti sani», la critica si è spesso concentrata sui protagonisti della scena seguente (il Messo e le Furie), tralasciando un passaggio che a me appare estremamente importante e che, forse, ci permette di gettare uno sguardo al di là del “velo”.
Ma torniamo un attimo alla scena che precede l’appello: Dante era stato appena protetto da Virgilio che, dopo averlo ammonito a non incrociare lo sguardo della Gorgone, gli aveva chiuso con le proprie mani gli occhi:
Così disse ’l maestro; ed elli stessi mi volse,
e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
(Inf. IX, 58-60)
Nella terzina successiva Dante lancia l’appello a sollevare «’l velame de li versi strani»; poi descrive superbamente l’arrivo del Messo celeste. Subito dopo, Virgilio «scioglie gli occhi» di Dante:
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
(vv. 73-75)
Questo gesto di Virgilio viene comunemente considerato quale un gesto meramente “fisico” . Ma è proprio in questo punto che credo convenga “aguzzare gli occhi”: «Li occhi mi sciolse» è infatti espressione assai densa di echi, il cui significato non può essere circoscritto alla pura fisicità del gesto. Si tratta, piuttosto, di un gesto propriamente allegorico, di cui una parallela lettura dell’Eneide può aiutarci a svelare l’occulto significato.
Nel II libro del poema virgiliano, dopo la terribile morte del vecchio Priamo, Enea ribolle di rabbia e di propositi di cieca vendetta: «Exarsere ignes animo; subit ira cadentem / ulcisci patriam et sceleratas sumere poenas» (Aen. Il, 575- 76). Ma ecco che, annunciata da un verso che si staglia come un meraviglioso raggio di luce nella tenebra, la “alma parens” appare, splendente come mai prima il figlio l’aveva vista:
cum mihi se, non ante oculis tam clara, videndam
obtulit et pura per noctem in luce refulsit
alma parens, confessa deam qualisque videri
caelicolis et quanta solet.
(Aen. II, 589-92)
Venere prende il figlio per mano e gli svela quanto si muove sotto le guerre degli uomini, cioè il volere degli dei contro il quale essi nulla possono:
«Aspice (namque omnem, quae nunc obducta tuenti
mortalis hebetat visus tibi et umida circum
caligat, nubem eripiam; tu ne qua parentis
iussa time neu praeceptis parere recusa)».
(Aen. II, 604-08)
È un momento particolarmente significativo: la “nube che fascia la vista” di Enea è strappata, i suoi “occhi mortali” possono contemplare l’opera divina e vedere, in questo caso, che dietro la furia degli uomini c’è l’azione istigatrice degli dei in lotta tra loro.
Possibile che, in una situazione per tanti aspetti analoga, in un momento in cui per la prima volta contempla la forza del volere divino, Dante non avesse in mente i versi dell’amato maestro? Non è probabile, invece, che un evento così centrale come la visione del potere di Dio sia stato celato da Dante «sotto °l velame de li versi strani»?
È proprio Virgilio del resto che gli “scioglie gli occhi”, che lo invita, come Venere fa con Enea, a guardare l’opera del Messo celeste, il compiersi della volontà divina: «Or drizza il nerbo [...]». Si tratta di un invito deciso, con l’uso di un imperativo che richiama quello pronunciato dalla alma parens, quell’«Aspice» così potente, così denso di divina necessità che non credo possa essere stato dimenticato da Dante nel momento in cui sono i suoi stessi occhi ad aprirsi alla visione di ciò che di solito resta celato sotto il velo dell’ignoranza a cui sono condannati i mortali.
In entrambi gli episodi la caduta del velo è, a mio avviso, il mezzo necessario per superare i propri limiti mortali e uniformare la propria limitata volontà a quella divina. Il velo è del resto, sin dagli albori della civiltà, simbolo dello stato di separazione dell’uomo dal divino. La capacità di vedere al di là del velo dell'apparenza è un’aspirazione condivisa da numerose tradizioni religiose.
Non ci si sorprenda, dunque, se un’eco ancora più letterale del verso dantesco esaminato si trovi proprio nella Genesi, in uno dei passi più celebri dell’intera Bibbia. Dinanzi all’albero che sta “in mezzo al giardino”, il serpente esorta i nostri progenitori a mangiarne il frutto con una breve, e fatale, arringa in cui, ancora una volta, la visione è la vera ricompensa: «Dio sa che quando voi ne mangiaste (il frutto), si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen. 3, 5). Il contesto è chiaramente diverso, ma gli occhi dei nostri progenitori che si aprono alla conoscenza sono un’immagine dagli echi così risonanti da far pensare che Dante non potesse non averla in mente, insieme a quella virgiliana, al momento di scrivere questo passo, in cui — come spesso accade nella Commedia — entrambe le matrici, classica e scritturale, si fondono mirabilmente grazie alla potente capacità di sintesi del poeta.
Ma, prima di concludere, vorrei aprire una breve parentesi su un’altra occorrenza decisiva del rapporto tra velo e visione nella Commedia. Come in quello che abbiamo appena esaminato, anche in questo caso Dante si trova in un cruciale momento di passaggio: sta lasciando il Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, per ascendere all’Empireo, la sede dell’eterna beatitudine di Dio e delle sue milizie celesti. Ormai al termine del suo viaggio, giunge con Beatrice «al ciel ch'è pura luce», e proprio la percezione di quella «luce intellettual, piena d’amore» getta un velo sui suoi occhi, impedendogli la visione:
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l'occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
(Par. XXX, 46-51)
Come dinanzi alle porte di Dite, il velo sarà presto lacerato. Alle successive parole di Beatrice, Dante esperirà, infatti, un potenziamento della propria capacità di “vedere”, una «novella vista» che esprimerà con una terminologia dall’indubitabile sapore mistico :
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch'io compresi
me sormontar di sopr’a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi.
(Par. XXX, 55-60)
Questo superamento di se stessi, questa estasi in Dio che è, al contempo, profondissima e corretta visione sono il compimento della “missione” di Dante e probabilmente il senso dei suoi inviti a “mirare” «la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani».