Dati bibliografici
Autori: Carlota Cattermole Ordéñez, Juan Varela-Portas de Orduña
Tratto da: La letteratura italiana nel mondo iberico e latnoamericano
Editore: Pacini, Pisa
Anno: 2019
Pagine: 25-38
[Carota Cattermole è autrice del punto 1; Juan Varela-Portas de Orduña del punto 2]
Qualsiasi approssimazione ai versi della Divina Commedia esige dallo studioso una presa di posizione previa, non necessariamente esplicita, all’interno della vexata quaestio sull’allegoria del poema, un problema ormai «connaturato alla critica dantesca» . Com'è noto, non esiste ancora un consenso sulla definizione dell’allegorismo di Dante, nonostante esso sia stato «l’obiettivo critico primario» degli studiosi del XX secolo. È sicuramente la complessità effettiva del fenomeno in analisi a spiegare tale disparità di opinioni, dal momento che intervenire nel dibattito sullo statuto dell’allegoria della Commedia implica esprimere il proprio parere a proposito di una serie di problematiche decisive e direttamente vincolate ad esso. Si pensi, per esempio, alla questione sulla controversa paternità dantesca dell’Epistola a Cangrande — unica dichiarazione esplicita sull’allegorismo del poema —, alla polemica sulla donna gentile o all'opposizione tra le interpretazioni realistiche e allegoriche della Vita nuova. Si pensi anche alla discussione relativa alla distinzione tra l'allegoria dei teologi e l’allegoria dei poeti su cui si esprime Dante, a proposito delle canzoni, nel lacunoso passaggio di Cv. II i 2-15 e alla disputa, ad essa connessa, riguardo alla natura, reale o fittizia, del livello di significazione letterale della Commedia.
Oltre a queste difficoltà oggettive, che derivano dall’eccezionalità dell'impresa del poeta e dalla complessità dell’impianto allegorico dell’opera, hanno anche condizionato il dibattito fattori estrinseci alla produzione dantesca. In effetti, sulla considerazione dell’allegoricità del poema hanno pesato, e pesano tutt'ora, quella serie di forti pregiudizi nei confronti dell’allegoria che risalgono all’influente distinzione goethiana tra simbolo (poesia) e allegoria (difetto estetico) . Ed è significativo, da questo punto di vista, che precisamente i teorici del romanticismo e dell’idealismo tedesco, responsabili, secondo E. Auerbach, della «rinascita dantesca» di inizio Ottocento, siano anche coloro che hanno portato tale distinzione alle sue ultime conseguenze, arrivando a negare l’esteticità dell’allegoria e concentrando tutte le caratteristiche dell'oggetto artistico sotto la nozione, ad essa opposta, di simbolo . Di conseguenza, la dimensione allegorica della Commedia risulta sminuita o, secondo i casi, negata, negli scritti dei promotori di questo rinnovato culto dantesco . Nel loro apprezzamento, necessariamente parziale, dei versi di Dante, si può identificare allora l'origine del diffuso atteggiamento interpretativo antiallegorico che ha condizionato l’esegesi dantesca dell’Otto-Novecento.
Che Dante sia un «osso duro per i critici durante tutto il periodo di ostracismo nei confronti dell’allegoria , non solo si percepisce nelle analisi degli studiosi esplicitamente contrari ad essa, come E De Sanctis (mondo intenzionale vs. mondo effettivo) , o B. Croce (struttura vs. poesia) ma anche negli scritti di coloro che, come E. Auerbach (figuralismo vs. allegoria) o Ch. Singleton , si discostano, in linea di principio, da tale impostazione. In concreto, i dantisti del Novecento riproducono, con poche eccezioni, i pregiudizi — di astrazione, convenzionalità, arbitrarietà, concettosità, intenzionalità, ecc. — che, dal romanticismo in poi, hanno dato luogo alla prolungata condanna filosofica ed estetica dell’allegoria. Così E. Gilson, per esempio, si rifà a una concezione restrittiva del termine (allegoria = personificazione) e oppone le «fredde allegorie» del Roman de la Rose ai simboli della Divina Commedia, non semplici personificazioni astratte ma personaggi reali con funzione rappresentativa. Per M. Barbi «non occorre sopravvalutare l’importanza dell’allegoria» della Commedia e bisogna, al contrario, rivolgere l’attenzione alla lettera del testo, dove risiede «la vera poesia» e dove si esprime la «virtù creativa» del poeta, non negli «intendimenti dottrinali [...] derivanti dalla retorica e dal gusto medievale» che raffreddano e scoloriscono la «vivezza della rappresentazione fantastica». Da parte sua, A. Pagliaro si ricollega esplicitamente alla teoria estetica del romanticismo e, in concreto, ai lavori di K. Solger, per applicare anacronisticamente la distinzione tra simbolo e allegoria al testo dantesco mentre nell’allegoria il rapporto tra significante e significato è arbitrario, il simbolo nasce da un legame di necessità tra dato sensitivo e l’idea. Dal suo punto di vista, il significare simbolico rientra dunque nel sensus poeticus, l’allegoria, invece, «come imposizione di un soprasenso [...], ha nel poema dantesco un carattere episodico» . Di conseguenza, conclude il critico, «essa non ha alcun titolo per qualificare la Commedia; e ancor meno può condizionare tutta l’esegesi» . Anche per B. Nardi nella Divina Commedia si ritrovano solo alcuni «episodi allegorici» , circostanza che spiegherebbe, a suo dire, l’eccezionalità di un poeta che si allontana dall'«uso e abuso dell’allegoria» che si osserva invece in altri autori medievali. Come testimonianza particolarmente significativa della sopravvivenza di un tale atteggiamento antiallegorico, citiamo il volume di P. Dronke, dove l’allegoria, in quanto veicolo di un significato fisso e convenzionale, diventa sinonimo di scarsa creatività poetica .
È possibile attribuire questa ricorrente svalutazione dell’allegorismo dantesco a un diffuso fraintendimento interpretativo. Esso consiste nel proiettare sulla Divina Commedia un'idea della letteratura — e del mondo — estranea all’oggettività storica del testo . In concreto, la critica dantesca applica allo studio del poema, costruito a partire da premesse storiche e ideologiche diverse, i principi estetici che ha ereditato dal romanticismo. Avendo assimilato la concezione romantica dell'opera d’arte come l'espressione autonoma e fine a sé stessa di una soggettività creativa geniale, i critici sono costretti a ridimensionare l’allegoricità della Commedia affinché i versi danteschi possano rientrare nei loro parametri poetici. Niente di più estraneo dell’allegoria, per l'appunto, rispetto a una tale visione della letteratura come creazione intransitiva e autoreferenziale. In effetti, il significato del testo costruito con intenzione allegorica non si trova, come prevede invece l’estetica romantica, nell’armonia interna delle sue parti, ma, al contrario, in un’alterità collocata al di là del suo contenuto esplicito. In quanto dire-altro rispetto al significato letterale di un testo, il discorso allegorico — dal greco άλλεϒορία, da άλλος “altro” e άϒορεύω “parlo” — risulta invece consustanziale all'ideologia poetica dantesca, secondo la quale l’oggetto letteratura non è concepito come il risultato autosufficiente dell’espressione intima di un soggetto ma come lo strumento privilegiato di un procedimento gnoseologico verticale che lo trascende.
Detto ciò, occorre avvicinarsi alla Divina Commedia con uno sguardo libero da pregiudizi secolari e dall’imposizione di schemi concettuali anacronistici per essere in grado di percepire la costitutiva allegoricità del poema sacro. Questo è stato precisamente l’approccio che ha guidato, dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, l’attività analitica del gruppo di ricercatori e docenti riuniti nel Seminario permanente di studi danteschi (Seminario de Dantologia) - dal 1997 Asociacion Complutense de Dantologia —, del Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid. Rispettando le dichiarazioni di Dante riguardo la natura allegorica della sua scrittura, i filologi partono dal presupposto che la lettera della Commedia non sia autonoma ma, viceversa, costruita, pet quanto riguarda ogni particolare, in funzione del soprasignificato allegorico. Tale premessa è decisiva perché implica un
cambio radical en el modo de leer la Divina Commedia, que va a pasar de ser un texto esencialmente literal (con solo algunos pasajes de reconocido valor alegorico) a ser un texto eminentemente alegorico, es decir, un texto bajo cuya letra se extiende una completa y compleja red de significados no visible a primera vista, y, sin embargo, susceptibles de ser desvelados por medio de una exégesis racional y analitica (no alusiva ni asociativa) .
In questa ottica, non solo il limitato numero di episodi e personaggi tradizionalmente considerati allegorici dalla critica sono dotati di un senso che trascende il loro contenuto letterale. Anche altri elementi testuali, normalmente esclusi da questa categoria, diventano, se sottoposti a una tale esegesi, oggetto di allegorizzazione. Sotto la spinta del caposcuola del seminario (Carlos Lopez Cortezo), l’interesse dei dantisti di Madrid si è orientato precisamente all’analisi di queste privilegiate vie d'accesso alla «vera sentenza» (Convivio I ii 17) della Commedia. Concretamente, essi si sono centrati innanzitutto sullo studio sistematico delle similitudini analitiche dantesche e, in un momento successivo, sull’esame di altre aree del poema che si sono rivelate anch'esse veicolo di allegorizzazione, «como los acontecimientos historicos y politicos narrados o simplemente aludidos en el dialogo o fuera de éste, la cornice de los episodios, los paisajes, los mitos, los gestos, etc.» .
È proprio nell’ambito dello studio delle similitudini della Commedia che si può riconoscere il più importante contributo di C. Lopez Cortezo alla comprensione dell’allegoricità del poema medievale. In aperta contrapposizione con la tradizione critica dantesca, che di solito le concepisce come risorse del linguaggio figurato, per il filologo spagnolo le similitudini del poema non sono né esercitazioni stilistiche indipendenti dal significato né semplici veicoli di esperienza sensibile . Egli ha scoperto che si tratta piuttosto di complesse costruzioni con funzione allegorica dove si concentrano le chiavi interpretative dell’episodio in cui sono inserite. L’attento esame di queste strutture comparative mette in luce, per l'appunto, che il loro senso letterale può rinviare a uno, a due o a tutti e tre i sensi spirituali — allegorico, morale o tropologico e anagogico - che gli esegeti biblici attribuivano ai testi sacri e che Dante ha inserito, secondo quanto si afferma nell’Epistola a Cangrande, nella Divina Commedia.
L’apparente sproporzione e dismisura verbale delle similitudini di Dante, tante volte segnalata con sorpresa dalla critica come manifestazione di una creatività poetica incontenibile, diventa perfino dimostrazione di sinteticità ed economia linguistica quando si riconosce la loro enorme densità significativa . Effettivamente, nessun elemento può essere considerato superfluo nelle similitudini dantesche, dove anche i particolari che sembrano eccessivi o incoerenti dal punto di vista del significato letterale si caricano di funzionalità allegorica.
Oltre all’allegoricità di queste complesse costruzioni, C. Lopez Cortezo ha individuato anche la loro analiticità, la loro capacità, in altre parole, di essere scomposte in elementi significativi minori che rappresentano e spiegano con estrema precisione il concetto che si vuole trasmettere. Tale caratteristica, attribuita dallo studioso all'influenza della teologia scolastica del XII secolo — «que descompone la realidad de base en un analisis en que cada elemento, cada detalle de ésa misma realidad, sirve de soporte para un transfert de significado» — implica che ogni dettaglio dell'immagine contenga una valenza semantica concreta che bisogna interpretare, in tutti i suoi livelli di significato, per arrivare alla comprensione effettiva di queste elaborate strutture polisemiche.
Prendendo spunto da queste importanti considerazioni, J. Varela-Portas ha analizzato da vicino i processi semiotici che intervengono nella creazione delle similitudini dantesche, esaminando in modo più dettagliato le relazioni semantiche che si stabiliscono tra il testo letterale e il testo allegorico sottostante. In concreto, il ricercatore spagnolo ha rivelato che queste costruzioni comparative analitiche con funzione allegorica si definiscono anche per la loro costitutiva iconicità, intendendo con tale termine il metodo che permette a Dante di trasmettere — e analizzare — complessi concetti filosofici e teologici attraverso la costruzione di immagini:
Per fare ciò, Dante realizza un doppio processo analitico: da una parte, scompone il concetto o gruppo di concetti, teorie, o questioni in tratti distintivi caratterizzanti il contenuto — tratti generalmente offerti dalla cultura filosofica e teologica del momento — producendo quello che Umberto Eco nel suo Trattato di Semiotica Generale chiama un ‘codice di riconoscimento’; dall’altra, concepisce un'immagine complessa e dinamica suscettibile, a sua volta, di essere frammentata in tratti minori. Infine i tratti distintivi del significato e i tratti minori ricavati dall'immagine vengono collegati, in modo che dall'immagine (cioè dai sensi) si possa passare alla comprensione razionale dell’episodio .
Per accedere a tale comprensione, il lettore è costretto a procedere in modo inverso rispetto all'autore, non nella direzione che crea l’immagine (la lettera) in funzione del concetto che si vuole spiegare (il significato allegorico) ma in quella che, attraverso un doppio procedimento semiotico (parola-immagine-concetto), parte dall’attenta ricostruzione del contenuto letterale dell'immagine («sempre lo litterale dee andare innanzi», Convivio II i 8) per estrarre poi i tratti distintivi che permettono di operare il transfert di significato all’allegoria. Affinché tale trasposizione risulti effettiva, l’'esegeta deve prendere in considerazione, oltre al tertium comparationis, gli elementi apparentemente superflui, le informazioni implicite e le possibili ambiguità sintattiche e semantiche.
In questa prospettiva, è stato di nuovo Varela-Portas, rifacendosi alle importanti riflessioni di G. Agamben , a sottolineare e analizzare lo stretto rapporto che lega tale raffinato procedimento creativo e interpretativo — iconico, che usa l’immagine come veicolo privilegiato di conoscenza, con il principio basilare della gnoseologia medievale: Nihil potest homo intelligere sine phantasmata . Collocare in linea con tale principio, le immagini sensibili al centro di ogni attività intellettuale, è infatti perfettamente congruente con l’ideologia sacralizzata feudale che concepisce il mondo sublunare come vestigio di Dio, come impronta imperfetta e degradata del mondo sopralunare divino. Alla luce di tale considerazione semiotica dell’universo , tipica della teologia simbolica medievale, l’osservazione del Libro della Natura è il punto di partenza per qualsiasi atto di conoscenza verticale, intendendo come tale il procedimento ascendente che permette di salvare le apparenze del mondo per raggiungere la verità divina.
Interviene in tale processo conoscitivo trascendente, come già nelle similitudini dantesche, una doppia operazione semiotica, quella (denutatio) che libera l'immagine dell'impronta divina dai suoi accidenti e quella (copulatio) che trasforma l’immagine sensibile così ottenuta in concetto. Anche le costruzioni comparative della Commedia impongono infatti al lettore un analogo «esercizio gnoseologico di copulatio, cioè di unione tra il sensibile e l'intelligibile per mezzo dell’immaginazione» . Il rapporto semiotico che si stabilisce tra il mondo sublunare e il mondo sopralunare è pertanto identico a quello che si stabilisce tra la lettera (immagine) e il significato allegorico (concetto) delle similitudini. Di conseguenza, così come il mondo non è un'entità autosufficiente, ma un’entità sacralizzata che riceva il suo valore in virtù del rapporto di remissione che lo unisce al mondo divino, allo stesso modo la ragion d’essere del significato letterale della Commedia non può che risiedere nei contenuti allegorici sottostanti.
Da questo punto di vista, il fatto che la critica dantesca non abbia collegato in precedenza l’allegoricità-iconicità della Commedia con la concezione del mondo come teofania che sta alla base del poema medievale spiega l'incapacità di interpretare le cause della sorprendente minuziosità con cui Dante costruisce il livello di significazione letterale, sia delle similitudini, sia, per estensione, di ogni verso del suo poema. In effetti, l'enorme precisione della lettera, non è il sintomo, come voleva, per esempio, E. Auerbach — sulla scia di A. Schlegel e di F. Schelling —, di una sensibilità moderna che crea figure sempre più indipendenti dal suo significato allegorico, Il realismo dantesco è piuttosto da interpretarsi in senso diametralmente opposto, come la reazione disperata e ‘reazionaria’ di un intellettuale che, nell'autunno del Medioevo «acentua hasta el extremo la condicion realista del simbolo» per far fronte «alle tendenze ideologiche desacralizzanti di fondo che facevano il mondo sublunare ogni volta più dissimile e alieno al mondo supralunare divino» . Allegoria e realismo non si escludono dunque a vicenda nella Divina Commedia, ma sono, viceversa, le due facce dello stesso fenomeno. Un fenomeno di cui, tra l’altro, le similitudini dantesche sono l'esempio più rappresentativo, nonostante lo sguardo letteralista della critica, spesso tendente, come vedevamo all’inizio, a svalutare l’allegorismo del poema, abbia trascurato la loro essenziale funzione allegorica. Per comprendere la densità significativa di tali strutture iconiche è necessario, al contrario, accostarsi ad esse con una metodologia esegetica, capace di riconoscere in ogni dettaglio dell’immagine il significato allegorico cui rinvia, come quella che hanno sviluppato, applicandola a un campione di similitudini dell’Inferno e del Paradiso, i dantisti della Asociacion Complutense de Dantologia.
Per illustrare queste considerazioni teoriche faremo tre semplici esempi tratti da Paradiso XVII, più precisamente ‘dall’inizio del dialogo fra Dante e Cacciaguida, nei quali crediamo si possa percepire bene come Dante trasformi complessi concetti teologici in immagini direttamente ricavabili dall'immaginazione comune, in modo che si veda nell’insieme il processo allegorico completo che porta dalla parola all'immagine e dall'immagine al concetto. Per motivi di spazio, ma anche per favorire l'immediatezza della comprensione del meccanismo allegorico, abbiamo scelto tre similitudini sintetiche, cioè non scomponibili in tratti minori e che portano quindi direttamente al concetto nel suo insieme.
Nei primi versi del canto XVII del Paradiso, Dante si rivolge a Cacciaguida con queste parole:
O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terreni menti
non capere in triangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
(Paradiso XVII 13-18)
Dante afferma che Cacciaguida si innalza («sì t'insusi») in modo che sia in grado di vedere nella mente divina («il punto a cui tutti i tempi son presenti») le cose contingenti, cioè quello che sta per venire, e pertanto gli chiederà della sua fortuna futura (Paradiso XVII 25-27: «per che la voglia mia saria contenta / d’intender qual fortuna mi s'appressa: / ché saetta previsa vien più lenta»). Il modo in cui Cacciaguida vede nella mente divina è paragonato al modo in cui una mente terrena vede, con totale e immediata evidenza, che in un triangolo non possono essere contenuti due angoli ottusi. Ora, secondo il brano di Aristotele che Dante sta qui seguendo, questo modo di vedere implica il passaggio da potenza ad atto del teorema teorico, il quale sta in potenza e si scopre o si palesa nel momento in cui è portato ad atto. Spiega il filosofo:
Anche i teoremi della geometria si dimostrano per mezzo dell'atto, infatti si dimostrano operando delle divisioni nelle figure. Se queste divisioni fossero già operate, quei teoremi sarebbero immediatamente evidenti; invece, sono contenite nelle figure solamente in potenza. Perché gli angoli del triangolo assommano a due retti? Perché gli angoli intorno ad un punto su una retta sono uguali a due angoli retti. Se, infatti, fosse già tracciata la parallela ad un lato del triangolo, alla semplice visione della figura la cosa risulterebbe immediatamente evidente. [...] È chiaro, dunque, che i teoremi geometrici, che sono in potenza, si dimostrano portandoli all’atto. (Aristotele, Metafisica TX 9 30, 1051a13) .
Le persone sulla Terra vedono quindi che due angoli ottusi non possono essere contenuti in un triangolo perché trasformano da potenza ad atto un teorema teorico. Allo stesso modo Cacciaguida può vedere nella mente di Dio gli atti contingenti perché questi si trovano in essa attualizzati; si vedono cioè in essa gli atti potenziali, vale a dire quelli potenzialmente futuri, come in atto, come attualmente presenti. Tommaso d’Aquino lo spiega così: «Avendo noi già dimostrato che Dio conosce tutte le cose, non solo quelle che esistono attualmente ma anche quelle che sono ancora potenzialmente in lui o nella creatura; ed essendo alcune di queste per noi futuri contingenti, ne segue che Dio conosce i futuri contingenti» (Somma teologica I q. 14 a. 13 co.). O, in altre parole: «Qualunque cosa dunque possa esser fatta, o pensata, o detta dalle creature, ed anche tutto ciò che può fare egli stesso, tutto Dio conosce, anche se non esista attualmente. Ed ecco perché si può dire che Dio ha la scienza anche delle cose che non esistono.» (Somma teologica I q. 14 a. 9 co.). Questo fa sì che la conoscenza che Dio ha delle cose contingenti sia simultanea, come se tutte si realizzassero allo stesso tempo nella sua mente onnipotente: «Dio conosce tutti i contingenti, non solo in quanto esistono nella loro causa, ma anche in quanto ognuno di essi esiste effettuato in se medesimo. E sebbene i contingenti si attuino uno dopo l’altro, pure Dio non li conosce in loro stessi, successivamente, come li conosciamo noi, ma tutti insieme.» (Somma teologica I q. 14 a. 13 co.). Così attraverso una similitudine geometrica Dante riesce a comunicare, in modo immediato, la certezza e l’ovvietà con cui Dio vede le cose contingenti in atto, usando un'immagine terrena non solo per comunicare, ma anche per analizzare una verità ultraterrena.
La risposta di Cacciaguida inizia con una nuova definizione della provvidenza divina, in cui egli tratta del delicato tema della predestinazione:
La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende.
(Paradiso XVII 37-42)
A nostro parere la similitudine contenuta nei versi 41-42 fa allusione a due concetti differenti. Il primo di essi, rappresentato dall’immagine di colui che vede dalla sponda la nave che discende per il fiume, allude al concetto di visione. Dio conosce gli eventi contingenti in due modi diversi a seconda che l'avvenimento sia già successo o succederà, o, d'altra parte, che non sia successo né succederà. Nel primo caso si dice che Dio conosce come se vedesse ciò che è fuori da Lui, mentre nel secondo caso lo vede soltanto in Sé stesso. Il primo caso si conosce come scienza di visione (scientia visionis); il secondo caso come scienza di intelligenza (scientia intelligentiae):
Però tra le cose che non sono in atto bisogna notare una certa diversità. Alcune di esse, sebbene non siano in atto ora, però lo furono o lo saranno: e tali cose si dice che Dio le conosce con la scienza di visione. Perché, siccome l’intellezione di Dio, che si identifica col suo essere, è misurata dall’eternità, che senza successione comprende tutto il tempo, lo sguardo di Dio si porta su tutti i tempi e su tutte le cose esistenti in qualsiasi momento del tempo, come su oggetti posti alla di lui presenza. Ve ne sono altre, le quali sono in potenza o di Dio o della creatura, che tuttavia né esistono, né esisteranno, né mai sono esistite. Rispetto a queste non si dice che Dio abbia la scienza di visione, ma quella di semplice intelligenza. E ci si esprime così perché (soltanto) le cose, che noi uomini vediamo, banno un loro essere fuori del soggetto che vede [Quod ideo dicitur, quia ea quae videntur apud nos, habent esse distinctum extra videntem] (Tommaso d’Aquino, Somma teologica I q. 14 a. 9 co.; corsivo nostro).
Così diventa chiaro questo primo aspetto della similitudine: quanto Cacciaguida racconterà a Dante è qualcosa che è in potenza e succederà nel futuro; perciò Dio lo vede come scienza di visione, cioè come qualcosa che «ha un loro essere fuori del soggetto che vede» cioè come lo vede chi, come nella similitudine, guarda dal di fuori qualcosa che succede in altro luogo collocato al di fuori di lui. La nozione di scienza di visione spiega quindi la perifrasi «come dal viso in che si specchia», che allude al modo di vedere la contingenza e non l’avvenimento contingente, il contenuto della visione.
Sul contenuto della visione dei fatti contingenti, perché l’immagine di una nave che discende «per corrente»? Crediamo che non sia sufficiente rimandare alla Consolatio di Boezio (V 4 6), dove si trova una similitudine somigliante a questa, ma che si debba spiegare che l’immagine manifesta che i fatti contingenti preconosciuti da Dio non sono necessari (poiché questo contraddirebbe l’esistenza del libero arbitrio umano), dato che Dio vede tutti i risultati possibili che si trovano in potenza (cioè tutto quanto l’essere umano può scegliere). Queste attualizzazioni possibili della potenza hanno soltanto una limitazione, che è quella dell'ordine naturale dell’universo, cioè il fatto che ogni essere tenda naturalmente verso il suo luogo naturale, cioè verso il riposo, come spiega Beatrice a Dante nel primo canto del Paradiso. Questa tendenza naturale verso il proprio fine è rappresentata in diversi momenti della cantica, iniziando dalla spiegazione di Beatrice, con l'immagine del fiume che scende, per ‘appetito’ naturale, verso la sua foce. Allo stesso modo, la nave scende naturalmente seguendo il corso naturale del fiume, in modo che la sua libertà venga limitata soltanto da questo corso, mentre all’interno di esso può prendere diversi percorsi particolari.
La spiegazione di Cacciaguida continua con una nuova similitudine che caratterizza il modo in cui viene ordinata la provvidenza divina:
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia di organo, mi viene
a vista il tempo che ti s'apparecchia.
(Paradiso XVII 43-45)
In questo modo si sta indicando che la provvidenza divina possiede l'ordinamento proprio di un insieme armonico. Innanzitutto, bisogna considerare che ‘organo’, come dimostra R. Monterosso nella voce corrispondente dell’Enciclopedia Dantesca, indica non lo strumento, ma il canto polifonico. Orbene, un canto polifonico armonizzato è quello in cui tutte le voci si aggregano formando un insieme a partire delle singole parti. Secondo Monterosso, nella voce «armonia», dell’Enciclopedia Dantesca, il significato di questo termine per Dante va al di là di «salda compattezza, di ordinata proporzionalità, di stretta correlazione e interdipendenza» che si si trova nel De Musica di Boezio, summa della dottrina musicale nel Medioevo. L'armonia si produce, per Dante, quando le parti vengono ordinate e disposte per formare un insieme composto e bello, come succede, ad esempio, col corpo umano in Convivio I v 13 e IV xxv 11-12.
Allo stesso modo, la provvidenza divina consiste nell’ordinamento delle cose verso un fine:
Ora, nelle cose si trova il bene non solo quanto alla loro sostanza, ma anche quanto al loro ordinamento verso il fine, e particolarmente verso il fine ultimo, che è, come si è visto sopra, la divina bontà. Quindi quest'ordine esistente nelle cose create è causato da Dio. Siccome, poi, Dio è causa delle cose mediante il suo intelletto, e quindi la ragione di ogni sua opera preesiste necessariamente in lui, come appare evidente da quanto già detto, ne consegue necessariamente che l'ordinamento delle cose al loro fine preesiste nella mente divina. Ora, la provvidenza consiste precisamente in questo predisporre gli esseri al loro fine. [...] la prudenza o provvidenza può convenire a Dio; infatti in Dio stesso nulla vi è che possa essere indirizzato verso un fine, essendo egli stesso l’ultimo fine. E proprio questa preordinazione delle cose al loro fine in Dio si chiama provvidenza. Per tal motivo Boezio afferma che «la provvidenza è quella stessa divina ragione, la quale, riposta nel sommo principe dell’universo, dispone tutte le cose». E si ha tale disposizione tanto nell'ordinamento delle cose al loro fine, quanto nell'ordinamento delle parti rispetto al tutto. (Tommaso d'Aquino, Somma teologica I q. 22 a. 1 co.; corsivo nostro)
In questo senso la provvidenza, «ordinamento delle parti rispetto al tutto», è un insieme armonizzato nel quale le parti si ordinano concordemente in virtù del principio ordinatore che è la stessa bontà divina. Si badi bene che il testo dantesco parla di ‘armonia’ e non di ‘melodia’, cosa che implicherebbe uno sviluppo temporale. Allo stesso modo, la scienza di Dio non è discorsiva, ma simultanea (Somma teologica I q. 14 a. 7): Dio vede tutto ciò che è, che è stato e che sarà, unito armonicamente nella Sua essenza (Somma teologica I q. 14 a. 5) in modo simultaneo e concorde.
Abbiamo cercato di esporre brevemente qualche esempio concreto e sintetico del modo con cui Dante trasferisce complessi concetti teologici o filosofici in immagini descritte per mezzo di parole. Abbiamo mostrato come Dante trasmetta per mezzo di immagini, sintetiche in questo caso, concetti complessi come ‘contingenza’ o ‘provvidenza divina’, nelle loro caratteristiche principali. Questo non è per Dante né soltanto, né principalmente un modo di ‘rappresentare’ o ‘comunicare’ la verità, ma un modo di analizzarla, un metodo gnoseologico che affida all’immaginazione, se retta dalla ragione, il compito di esaminare il mondo terreno e ultraterreno, in modo che la capacità più ‘pericolosa’ dell’essere umano, quella che può portarlo all’animalizzazione e alla degradazione ontologica e psicologica, diventi anche la più potente nel cammino della deificazione umana, del superamento delle proprie limitazioni ontologiche. Come si sa, per concepire questa immaginazione trascendente Dante ha dovuto risolvere prima, o congiuntamente, la questione dell'amore sulla quale tanto ha combattuto con Cavalcanti e altri stilnovisti, ed è grazie alla sua nuova concezione dell'amore e dell’immaginazione che la poesia diventa lo strumento gnoseologico più perfetto a disposizione dell'essere umano: perché, includendo filosofia e teologia, entrambe ancillae poesiae, quest’ultima è in grado di coinvolgere tutte le potenze della gnoseologia umana — sensi, immaginazione, ragione, intelligenza - ed essere così non soltanto veicolo di un viaggio nell’aldilà fino a Dio, ma anche di un viaggio di ritorno con il quale quanto si-è visto si racconta, si analizza, e serve in questo modo per cambiare il mondo.