Dati bibliografici
Autore: Aldo Vallone
Tratto da: Studi su Dante Medievale
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1965
Pagine: 23-61
Dopo il saggio dantesco di Croce la critica italiana è stata assai prudente nel riprendere la questione dell'allegoria in Dante o, posto che l’abbia fatto, ha orientato la ricerca preferibilmente nell'ambito di quelle idee e solo sulla validità poetica della allegoria.
Più intemperanti sono stati i critici stranieri, che liberi (e forse anche troppo) delle cautele crociane, hanno rimescolato ogni cosa e ripreso, con baldanza e certo con grande industria, idee e temi, cui si erano appassionati peraltro i primi chiosatori del poeta.
È parso chiaro però che, se la problematica si arricchiva in ogni senso e modo, il problema di fondo rimaneva inesplorato. La ricerca di una soluzione senza un sicuro metodo d'indagine (o questo sostituito da un generico avvio di stampo pragmatistico) finiva col creare nessi esterni e con l'indugiare sulle suggestioni del particolare. D'altro lato l'indagine guidata (o retta da un troppo vasto e organico impegno di pensiero) sfuggiva da ogni approfondimento culturale e trascurava le operose incidenze della tradizione e del gusto.
La volontà di leggere genuinamente Dante, che era poi un punto comune di partenza per tutti, via via lungo il cammino, si andava così differenziando fino a giungere a conclusioni nettamente distinte.
Credo che si debba al Gentile, nel determinato settore della critica dantesca, il primo tentativo, ma in sostanza un. chiaro e proficuo suggerimento, di intendere nei giusti limiti, nel suo valore e nella sua natura quindi, l'allegoria di Dante. Siamo nei tempi del saggio di Croce, piuttosto prima che dopo. Gentile è perciò solo dinanzi a De Sanctis. Occorreva distinguere. Occorreva liberare i passi sotto accusa da tutto un peso di ideologie e di ipoteche critiche. Occorreva soprattutto cercare i limiti tra sovrastrutture e spontameità, tra convinzione schietta del poeta e aderenza a moduli di tradizione. Bisognava liberare la pagina desanctisiana dalle preoccupazioni e avevano generato le interpretazioni del Rossetti, che non tarderanno infatti a stimolare più pericolose suggestioni .
Il De Sanctis aveva dimostrato perciò giusta fermezza a battersi per la libertà dell'arte, che l'allegoria invece opprime. Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme, gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato non può essere persona libera e indipendente, come richiede l'arte, ma semplice personificazione o segno d'idea [...]. Hai due realtà distinte, l'una fuori dell'altra, l'una figura e adombramento dell'altra, perciò ambedue incomplete e astratte. La figura, dovendo significare non se stessa ma un altro, non ha niente d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sé .
Il concetto, secondo il quale in un'età come il M.E. plumbea e chiusa non potevano manifestarsi in libertà temi e modi, e la creduta uniformità dei simboli, che non traducono mai compiutamente un reale, spingono il De Sanctis ad una generica condanna sotto sospetto di allegoria. Ma anche qui, negli esempi fatti del Veltro e del Grifone, si ha prova del limite sommo cui può giungere un coerente pieno di idee.
L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà, che però non ha valore in se stessa ma come figura, il cui senso e il cui interesse è fuori di sé, nel figurato, oggetto o concetto che sia... E poiché nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura, e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato, la realtà, divenuta allegorica, vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue ma del figurato, come il Veltro che si ciba di sapienza e di virtude; o esprime di lei solo alcune parti, e non perché sue ma perché si riferiscono al figurato, come il grifone del Purgatorio .
In questo senso la via era aperta al Croce, senza però quelle contemperanze che avevano suggerito al De Sanctis di non vedere «l'idea morale» come «concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento» , ma anzi resa più spedita da più perentorie convinzioni.
L'allegoria non è altro, [...] se non una sorta perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, col quale questo debba significare quello, quello quell'altro .
Perdura, dunque, col Croce l'equivoco (nei crocia, più grossolanamente manifesto) della identificazione dei passi teorici di Dante, che si esamineranno, e dei vari luoghi della Commedia; come dire, di giudizio critico (che può anche essere o mule e tradizioni) e di realizzazione poetica (che chiede autonomo). La distinzione in Dante si può cogliere, credo per la prima volta espressa, in un saggio di Gentile.
Il genere allegorico è una falsa categoria estetica e sta bene: questo è un errore della poetica dantesca. Ma quando quest'uomo, formato a questa falsa poetica, raffigura il torbido rimescolio delle passioni dentro la cieca anima peccaminosa nell'oscurità di una selva selvaggia e la disperazione di quell'anima nella paura di chi si smarrisce in quella selva, egli non pensa più il falso concetto dello stile allegorico, ma intuisce lo smarrimento e la disperazione dell'anima umana in una forma, che non è più, a rigore, stile allegorico, benché si dica tale. Perché allegoria è la dualità tra figura e figurato, come si esprimeva il De Sanctis; e questo dualismo non c'è, né ci può essere mai, se non per chi creda che una figura (un'espressione qual si sia) abbia un significato per sé, e creda per es. che la parola «agnello» dica sempre lo stesso, così nella favola del lupo e dell'agnello come nella proposizione: Tizio è un agnello. La selva dantesca non è una selva, perché Dante non l'intuisce come selva .
L'attenzione, assai più mobile, era portata non sull'aspetto, strettamente formale, ma sullo spirito che animava la parola ricreandola. La condanna dell'allegoria, così come il De Sanctis l'aveva presentata, non può essere certo revocata. Ma tutto quel che della Commedia passava per allegoria va ripreso in esame. Si crede, e a buon diritto, ad una adesione commossa di Dante. Si vede nell'allegoria non un adattamento esterno, ma una naturale e pronta presenza del poeta in temi che figurativamente si atteggiano e si configurano.
Il saggio del Barbi, Allegoria e lettera nella Divina Commedia, cui l'insigne dantista «lavorò sino alle ultime ore della Sua vita», è rigorosamente gentiliano. Si distingue dapprima il Convivio, in cui il valore letterario è «bella menzogna» (innamoramento di Dante non di una donna ma della filosofia, cui convengono tutti gli attributi), dalla Commedia. Qui infatti «non è 'bella menzogna' per il poeta, né tale egli vorrebbe certo apparisse agli occhi nostri, ciò che ci narra di un suo viaggio pei regni d'oltretomba. Vuole, anzi, che questo ci apparisca come un viaggio realmente da lui fatto» .
Si passa poi a distinguere l'allegoria, su cui cade sempre il sospetto desanctisiano, da espressione parabolica o tropologica.
Ora, quando, a proposito del I canto, si parla comunemente di allegoria fondamentale del poema (e meglio sarebbe chiamarla, se mai, figurazione iniziale), si tira a significazione allegorica troppo di quella che è semplicemente espressione parabolica o tropologica e che appartiene, come tale, al mero senso letterale. Così, ad esempio, ciò che Dante dice della selva in cui si trovò smarrito è una semplice maniera di dire figurata per significare il proprio traviamento morale; e quando dalla figura noi passiamo a vedere, nell'immagine della selva, siffatto traviamento, non usciamo affatto dall'ambito del senso letterale per entrare in quello allegorico, dacché, giusta la definizione dell'Aquinate, il senso letterale non è la figura in sé, ma quel che è in essa figurato, vale a dire quello che essa significa .
Per altra via e partito da ben altre esperienze il Flora giungeva alla stessa conclusione del Barbi, negli stessi anni od anche qualche anno prima.
E ciò che talvolta chiamiamo a torto allegoria, è una lingua metaforica, o, per usare un'espressione della scuola, è un paragone continuato, in un linguaggio interamente noto, e formato per via poetica non già arbitraria: un paragone prolungate ove il “come” delle analogie è soppresso. E chi diceva la "selva del peccato” non pronunziava che una immagine, in cui l'anima in tante colpe e sì intricate era paragonata alla selva [...]. La figura e il figurato non son due cose, come ha creduto anche il De Sanctis: son tutt’uno: nella figura è presente, e lo intona di sé, anche il figurato, anche l’allegoria .
Forse nuoce, in questa estrema difesa di tutto Dante, la traduzione dell'allegoria in 'termini di puro valore poetico indipendentemente da ogni apporto o presenza della cultura. Ci pare che la testimonianza vada oltre l'impostazione del problema proposto da Gentile.
Oggi il risultato più cospicuo e penetrante è dato dal riesame lucidissimo di Linguaggio reale e linguaggio figurato di Salvatore Battaglia:
Il senso allegorico, per gli scrittori correligionari di Dante, non è puro e solitario intellettualismo, sibbene ha valore conoscitivo e sensibile; esso instaura nel mondo medievale il principio della trascendenza come diretta sensazione e intuizione, accompagna la visione mistica delle cose e degli avvenimenti, cela e rivela la presenza dell'eterno, la coscienza del divino, i valori spirituali della natura e dei suoi fenomeni e delle sue creature. Vale a dire che l'allegoria nei riguardi del mondo poetico potrà tramutarsi in poesia o restarne alla soglia come un qualsiasi altro contenuto, e non che debba esser condannata in anticipo alla extrapoeticità. L'interpretazione allegorica con cui la spiritualità medievale intende i fatti della cultura e gli aspetti del mondo e le vicende della vita, è un modo di pensare e di sentire: non si frappone tra l'intelletto e le cose, tra l'anima e i suoi movimenti, ma, anzi, ne agevola il contatto e la comprensione, ne suggerisce le vie per il possesso e l'unità .
Subito dopo, è possibile cogliere passaggi e sviluppi del tema nel saggio di Pagliara, Simbolo e allegoria nella Divina Commedia , ove si parte da una distinzione che, contemperando il pensiero del De Sanctis e a questo attribuendo pieno riconoscimento nei riguardi dell’allegoria, affonda le sue ragioni in una lettura più aperta e legata, ad un tempo, sempre logica, della poesia dantesca. L'allegoria rimane allegoria con tutto il peso delle limitazioni. Ma accanto ad essa, o sopra di essa, il simbolo assume autonomia e rilievo. Certi attributi che il Barbi e il Flora individuavano nell'allegoria come espressione parabolica o tropologica o metaforica vengono più opportunamente riconosciuti nel simbolo. La posizione di Pagliaro è certamente più vicina a Gentile che ad altri per l'intendimento o l'intuizione del fondo morale e figurativo della Commedia. La ripresa di un articolato distacco tra i due termini (allegoria-simbolo) come modi di un sentite, ch'è filosofico e poetico congiuntamente, appartiene già alla cultura di tutto l'Ottocento dal Solger all'Huizinga . Ma è del Pagliaro la vigorosa applicazione a Dante. Si vede così come sia utile distinguere ancora tra i vari momenti e modi dell'opera dantesca, ma oltre la provvisorietà del gusto o i dettami della formula di «poesia e non poesia».
Nel simbolo e nell'allegoria si ha un significato, che viene assunto a significante di un altro significato; ma i due rapporti semantici si attuano in modi totalmente diversi. Il simbolo è di natura propriamente metaforica, poiché il segno si crea nell'ambito di un rapporto tra il sensibile e il concettuale; data la diversità dei piani, non si ha un immediato attuarsi di esso, ma si rende necessaria la sua acquisizione in una progressiva rappresentazione.
A differenza del simbolo, l'allegoria non è di natura metaforica, perché il significato non nasce da un legame di necessità naturale tra il dato sensitivo e l'idea (cioè l'idea non si sviluppa da una connotazione reale dell'oggetto), ma è imposto da un'intenzione, sottintende, cioè, un riferimento a qualcosa che medi in un certo senso il rapporto. Mentre nel simbolo si ha una unità del sensibile e del non sensibile (come del significante e del significato nella parla, nel sua momento genetico), nell'allegoria il rapporto è naturalmente arbitrario, come lo è il segno nella sua stretta funzionalità; il rapporto viene legittimato solo dall'intenzione di intendere in un certo modo, anziché in un altro, così come nella prima individuazione funzionale del segno il significante è reso legittimo (ciò qui avviene con maggiore pienezza e regolarità) dall'intenzione di distinguere un sapere, un significato .
L'interpretazione non solo avvia a un ripensamento globale del problema ma chiarisce luoghi e circostanze della Commedia, sollevandone i più, per via di simbolo, a valore di «sensus poeticus», da cogliersi nell'ambito letterale della poesia e nel progresso della creatività espressiva; lasciando gli altri, pochi invero e i meno persuasivi, nel grembo del culturalismo e dell'allegoria, come contributo d'obbligo al gusto dell'età che formò Dante.
Allegoria e metafora (o simbolo) non sono presenti e chiari nella coscienza dei teorici medievali. Ovunque si parla di allegoria, rare volte di simbolo. Quasi mai l'un termine è opposto all'altro, l'un concetto all'altro. Quintiliano (a voler limitare, per maggiore concretezza, la catena dei rapporti), che in luogo aveva tentato di risolvere in unità il dualismo («άλλεϒορία facit continua νμεταϕορά») , fissa inequivocabilmente il carattere dell'allegoria nei modi che dopo saranno costanti:
Allegoria, quam inuersionem interpretantur, aut aliud uerbis, aliud sensu ostendit, aut etiam interim contrarium .
L'«aenigma» è poi un'allegoria «quae est obscurior» . Isidoro di Siviglia dà le stesse definizioni:
Allegoria est alieniloquium. Aliud enim sonat, et aliud intellegitur.
Aenigrna est quaestio obscura quae difficile intellegitur, nisi aperiatur [...]. Inter allegoriam autem et aenigrna hoc interest, quod allegoriae vis gemina est et sub res alias aliud figuraliter indicat; aenigma vero sensus tantum obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus .
Metaphora est verbi alicuius usurpata translatio, sicut cum dicimus 'fluctuare segetes', 'gemmare vites', dum in his rebus fluctus et gemmas non invenimus, in quibus haec verba aliunde transferuntur. Sed hae atque aliae tropicae locutiones ad ea, quae intellegenda sunt, propterea fìguratis amictibus obteguntur, ut sensus legentis exerceant, et ne nuda atque in promptu vilescant .
Ma prima e dopo Isidoro, certo un punto-base di tutto il travaglio di idee e di pensiero del Medio Evo, grammatici teologi letterati assumevano e facevano propria la nozione di allegoria. Basta qualche esempio:
Cum aliud dicitur, aliud signifìcatur, haec allegoria est .
Allegoria dicitur, cum aliquid aliud videtur sonare in verbis, et aliud in intel1ectu significare .
Est autem allegoria, cum per id quod ex littera significatum proponitur, aliud aliquid sive in praeterito sive in praesenti sive in futuro factum significatur .
Allegoria est alienum eloquium quando a verborum significatione dissidet intellectus .
Allegoria est tropus seu modus loquendi quo aliquid dicitur et aliud intellegitur .
È certo con Ugo di San Vittore che la formula, pure in lui viva e presente (allegoria = «alieniloquium», «quia aliud dicitur et aliud significatur») , si allarga, rivolta, com’è, a fatti di ogni epoca e poi si articola in «simplex», quando «per visibile factum aliud invisibile factum significatur», e in «anagoge», quando «per visibile invisibile factum declaratur» .
La metafora invece, di cui Isidoro aveva distinto quattro tipo («ab animali ad animale», «ab inanimali ad inanimale», «ab inanimali ad animale», «ab animali ad inanimale») , rimane via via più in ombra, o scompare del tutto assorbita dall'allegoria.
Ugo di San Vittore sembra sfuggire e parla del simbolo quasi settore dell'allegoria, come «collatio, id est coaptatio visibilium formarum ad demonstrationem rei invisibilis propositarum» . Matteo di Vendòme, e non è il solo, riprende la formula di Isidoro:
Metaphora est alicujus verbi usurpata translatio
con la distinzione in quattro parti («ab animato ad animatum, ab inanimato ad inanimatum, ab animato ad inanimatum, ab inanimate ad animatum»).
S. Tommaso parla, preferibilmente, di «sensus parabolisus»:
Sensus parabolicus sub literali continetur: nam per voces significatur aliquid proprie et aliquid figurative, nec est literalis sensus ipsa figura sed id quod est figuratum. Nam enim curo Scriptura nominat Dei brachium, est literalis sensus quod in Deo sit membrum huiuscemodi corporale sed id quod per hoc membrum significatur, scilicet virtus operativa .
Lo stesso concetto, ma in tono laico, si accentua ne Le Roman de la Rose:
Si dist l'en bien en noz escoles
Maintes choses par paraboles
Qui mout sont beles a entendre;
Si ne deit l'en mie tout prendre
A la letre quanque l'en ot
[…]
Mais des poetes les sentences,
Les fables e les metaphores
Ne bé je pas a gloser ores .
Ma è proprio con S. Tommaso che la metafora, di cui si fa uso assai prudente, si articola in due parti e si destina alla poesia e alla sacra dottrina.
Poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem .
Questa metafora, di cui si avvale la sacra dottrina per scopi d'insegnamento e d'utile morale, si configura come una sottospecie di allegoria e svincola l'altro aspetto, che ha incidenza nei testi dei poeti .
È evidente che la metafora (o simbolo) nelle poetiche medievali stenta a vivere a sé, dinanzi o contro o anche semplicemente a fianco dell'allegoria. È questa che ha assorbito ogni attenzione. La poesia è veramente un atto non autonomo dello spirito.
Dante teorico è entro queste esperienze.
Nella Epistola XIII ricorre alla solita definizione dell'allegoria («allegoria dicitur ab 'alleon' grece, quod in latinum dicitur 'alienum', sive 'diversum'») e nel Convivio si rende conto della riserva di S. Tommaso e l'attribuisce (essa ch'è «una veritade ascosa sotto bella menzogna») ai teologi e ai poeti.
Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato .
Dante ha il concetto di «metafora», tal è di fatto l'allegoria dei poeti, ma non gli occorre il nome. L'allegoria, in ogni settore e perciò anche nel nome, trionfa su tutto.
Conosce però e disdegna la sua eccessiva artificiosità e lo confessa giovanilmente in un prezioso passo della Vita Nuova, a proposito del numero in rapporto a Beatrice:
Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace .
Ma Dante conosce anche le cautele che occorrono nell'intendere lo spirito allegorico e teme i dubbi e le perplessità che questo può generare. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a cosi parlare e a così intendere l'altrui scritture .
…circa sensum misticum duplicer errare contingit: aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat .
Di qui i moniti al lettore nei momenti in cui egli può passare oltre senza cogliere, nel testo, l'edificante suggerimento.
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame de li versi strani
(Inf. IX, 61-63).
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggiero
(Purg. VIII, 19-21) .
Qui l'avviso è particolare e prepara un evento straordinario. Altrove si tratta più che altro d'invitare il lettore ad un maggior sapere (Purg. IX, 70-72; Par. II, 1-18; X, 22-25; ecc.) .
Gusto e natura di questi avvisi per un'intesa allegorica sono, in fondo, comuni. Dante li cava fuori dagli scrittori medievali. Basti pensare a Ugo di San Vittore:
Nosse tamen te volo, o lector, hoc studium non tardos et hebetes sensus, sed matura ingenia expetere; quae sic investigando subtilitatem teneant, ut in discernendo prudentiam non amittant. Solidus est cibus iste, et nisi masticetur, transglutiri non potest.
L'oscurità era decisamente condannata nelle personificazioni laiche dai grammatici
... qui vult aperire
rem clausam, nolit verbis inducere nubem .
La stessa preoccupazione, in fondo, di Dante nella Vita Nuova.
La distinzione che non affiora o stenta ad affiorare nella dottrina dei teorici medievali tra" allegoria e simbolo o metafora, si manifesta, in un certo senso, più chiara nei testi dei poeti, che si possono enucleare intorno a due tradizioni. Ad un certo punto conta la natura dell'opera: essa è largamente letteraria oppure strettamente morale e religiosa. Quella può ammettere un più libero gioco di allusioni e un più liberale modo di significati; questa è più determinata, certo più legata alla natura interna della fìgura. A prima vista può sembrare che sia più facile scivolare dalla allegoria nell'allegorismo che dalla metafora nell'allegorismo (qualora questo s'intenda come una costruzione artificiosa oltre il naturale rapporto tra figura e figurato).
In sostanza conta il punto di partenza.
Scrittori, laici e non, lottano e via via con sempre maggiore difficoltà e minor successo, nel dare fisonomia metaforica alle· loro creazioni. L'acclimazione morale dapprima suggerisce, poi invade, infine distrugge ogni tema che non le si addica. La utilizzazione del mondo classico o dei poeti anche profondamente distaccati e avversi o dei miti stessi è una vicenda continua nel Medio Evo. E questa è storia nota . Si può discutere, però, se si tratti di una corrosione di tutta la sostanza umana e spirituale, letteraria e filosofica che al Medio Evo consegna l'età antica, oppure di un arricchimento. Intendere in un modo o in un altro è sempre l'espressione della presenza operante della storia.
Il simbolo-metafora, in questi scrittori di materie «profane», si presenta spesso come descrizione e narrazione. Gli autori, il più delle volte, non sono romani: vengono dalla Spagna o dall'Africa o da altri lontani lidi. Gli oggetti scelti sono, nella grande maggioranza: la Natura, la Filosofia, la Fortuna, i sentimenti-base del vivere umano. Sempre v'è uno stretto rispetto della figura dinanzi al figurato: questo, se mai, si conforma a quella.
Varrà un'opportuna, anche se limitata, esemplificazione. Apuleio, ch'è certo il punto più critico di sutura tra antichità e Medio Evo, presenta una ricca schiera di personificazioni e di simboli.
Troviamo la Gelosia che insidia,
sed haec bene atque optime plenaque cum sanctimonia disposita feralem Fortunae nutum latere non potuerunt, cuius instinctu domum iuuenis protinus se dixerit saeua Riualitas, et ilico haec eadem uxor eius, quae nunc bestiis propter haec ipsa fuerat addicta, coepit puellam uelut aemulam tori succubamque primo suspicari ,
il Terrore e lo Spavento, scudieri truci e spavaldi di Minerva,
at illam, quam cultus armorum Mineruam fecerat, duo pueri muniebant, proeliaris deae comites armigeri, Terror et Metus, nudis insultantes gladiis ,
la Natura, che tutto domina e sommuove
Iam primum crines uberrimi prolixique et sensim intorti per diuina colla passiue dispersi molliter defluebant. corona multiformis uariis floribus sublimem clistrinxerat uerticem [...]. (uestis) multicolor ...
e con lei, nella sontuosa processione, splendide donne
mulieres candido splendentes amicimine, uario laetantes gestamine, uerno florentes coronamine .
Con Prudenzio il paganesimo simbolico di Apuleio assume coloriture profondamente diverse. I sentimenti-base si configurano ormai come vizi e virtù. Nasce il vero e proprio simbolismo morale . Nella Psycomachia Bene e Male si fronteggiano senza sosta. Alle singole tenzoni (tra Fede e Idolatria, tra Pudicizia e Libidine, tra Pazienza e Ira, tra Umiltà e Superbia, e così via) succedono lotte collettive. In se stesse considerate le figure sono piuttosto statiche. La personificazione ha qualcosa di solenne e statuario. Valgono come pezzi a sé lavorati, non creano azione. Sono «exempla» - tipi nella misura e nel gusto di quelli di Matteo di Vendorne (Davus, Beroe, Marcia, Caesar, ecc.).
Il movimento, che negli autori pagani indipendentemente dal rendimento poetico, configurava e travolgeva (e si pensi a lirici ed epici come Virgilio, Orazio, Lucano, ecc.) scene episodi personaggi, qui si sperde nei nessi tra figura e figura, è spinto ai margini estremi della narrazione. Pare che tutto questo si debba attribuire a certa soggezione della fantasia dinanzi alla precettistica. Pure è indubbio che ancora tutto si configura in una sfera da epica eroica e «mondana». Le figurazioni ammantate o discinte hanno un portamento umano, certo stabiliscono immediatamente tra reale e figurato, tra sensibile e simbolo una spontanea corrispondenza. Avanza incurante e regale la Fede,
Prima petit campum dubia sub sorte duelli
pugnatura Fides agresti turbida cultu,
nuda umeros, intonsa comas, exerta lacertos;
namque repentinus laudis calar ad noua feruens
proelia nec telis meminit nec tegmine cingi,
pectore sed fidens ualido membrisque retectis
prouocat insani frangenda pericula belli.
ecce lacessentem conlatis uiribus audet
prima ferire Fidem ueterum Cultura deorum.
illa hostile caput falerataque tempora uittis
altior insurgens labefactat et ora cruore
de pecudum satiata solo adplicat et pede calcat
elisos in morte oculos animamque malignam
fracta intercepti commercia gutturis artant
difficilemque obitum suspiria longa fatigant .
ferma e sicura la Pazienza,
Ecce modesta graui stabat Patientia uultu
per medias inmota acies uariosque tumultus
uulneraque et rigidis uitalia peruia pilis
spectabat defìxa oculos et lenta manebat.
hanc procul Ira tumens, spumanti feruida rictu,
sanguinea intorquens subfuso lumina felle,
ut belli exortem teloque et uoce lacessit
inpatiensque morae conto petit, increpat ore
hyrsutas quatiens galeato in uertice cristas:
'en tibi, Martis', ait, 'spectatrix libera nostri,
excipe mortif erum securo pectore ferrum
nec doleas, quia turpe tibi gemuisse dolorem' .
torbida e truce la Superbia, cui si oppone l'Umiltà,
Forte per effusas inflata Superbia turmas
effreni uolitabat equo, quem pelle leonis
texerat et ualidos uillis onerauerat armos,
quo se fulta iubis iactantius illa ferinis
inferret tumido dispectans agmina fastu.
[…]
hoc sese ostentans habitu ventosa uirago
inter utramque aciem supereminet et faleratum
circumflectit equum uultuque et uoce minatur
aduersum spectans cuneum, quem milite raro
et paupertinis ad bella coegerat armis
Mens Humilis, regina quidem sed egens alieni
auxilii proprio nec sat confìsa paratu .
la Libidine languida e sinuosa che fronteggia la Pudicizia anche dinanzi a Gioco, Amore ed altri,
Venerat occiduis mundi de fìnibus hostis,
Luxuria extintae iam dudum prodiga famae,
delibuta comas, oculis uaga, languida uoce,
perdita deliciis, uitae cui causa uoluptas,
elumbem mollire animum, petulanter amoenas
haurire inlecebras et fractos soluere sensus.
[…]
ingemuit tam triste nefas fortissima uirtus
Sobrietas dextro socios decedere cornu
inuictamque manum quondam sine caede perire.
uexillum sublime crucis, quod in agmine primo
dux bona praetulerat, defìxa cuspide sistit
instauratque leuem dictis mordacibus alam
exstimulans animos nunc probis, nunc prece mixta
l'Avarizia, cui non giova la spietata corte di Affanno Fame Timore Angoscia Pallore Corruzione Inganno Insonnia e così via, poiché essa è destinata a cedere alla Ragione. Così ogni vizio ha dinanzi pronta la corrispondente virtù. È notevole certo la vasta applicazione delle corrispondenze, che, in quel tempo e dopo, era e sarà il punto centrale di ogni opera portata a significazione morale. Ricostruito il tempio dell'uomo, naturalmente, lo scettro è affidato alla Sapienza che regna come un vetusto re di Micene o di Roma:
... ubi peccatum regnauerat, aurea templi
atria constituens texat spectamine morum
ornamenta animae, quibus oblectata decoro
aeternum solio diues Sapientia regnet .
Il regno sa di Olimpo e di Paradiso, ma è certo che le virtù trionfanti sono ancora segni d'uomo, sia pure eccelsi. La Sapienza è tutto dell'uomo, sta in lui, è regolatrice di suoi atti. Si sovrappone all'uomo non per autorità che scenda dall'alto, ma come riconoscimento di un bene compiuto quaggiù, appunto, in lotte degne di antichi soldati o di generosi cavalieri. Questo spiega come la lettura, parallela alla Psycomacbia, del De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, non urti affatto né disdica. Tornano gli dei antichi, ma essi ormai sono espressioni di qualità dell'uomo nella misura, almeno, con cui Dante invoca nel Paradiso il «buono Apollo» (I, 13) o ricorda la «Musa» di Omero (V. N., XXV, 9). Giove è, nell'eterna sapienza, puro scenario. Particolare è nel Capella che non solo l'astratto si cala nel concreto della rappresentazione; ma che questo astratto divenuto concreto non proviene dal settore morale. Se la Sapienza in Prudenzio è espressione della somma vetta cui giunge l'uomo nel suo umano cammino; la sapienza in Capella è un'arte eletta dell'uomo, la Filologia. Essa è con Giove in cielo, possiede le eterne virtù, sposa, voluta da Apollo, di Mercurio. Anch'essa avanza solenne, come s'addice a venerata «doctissima virgo».
est igitur prisci generis doctissima uirgo
conscia Parnaso, cui fulgent sidera coetu,
cui nec Tartareos claustra occultare recessus,
nec Iouis arbitrium rutilantia fulmina possunt;
fluctigena spectans qualis sub gurgite Nereus,
quaeque tuos norit fratrum per regna recursus,
peruigil immodico penetrans arcana labore,
quae possit docta totum praeuertere cura,
quod superis praescire datum. quin crebius in nos
ius habet illa, deos urgens in iussa coactos,
et quod nulla queat superum temptare potestas,
inuito scit posse Iuoe. stent ardua magno,
alterutrum cumulat parilem meruisse iugalem .
Spoglia di scorie sale poi al cielo della poesia e dell'arte con il «Musarum conuenientium chorus». Tutte le cantano le lodi con buoni auspici, meno Talia: ognuna ha poi tempo e spazio opportuni per esporre natura e qualità della propria missione. Non ci pare di scorgere «una grottesca struttura misticheggiante» , ma certo una prova, ancor più manifesta, della fuga della fantasia scacciata dal mondo operativo dell'uomo, ormai assunto a significazione morale, verso regni più nuovi e meno esplorati, quali appunto le arti liberali. E chiaro che proprio da Capella in poi, e per sua opera, grammatica e morale, arti e virtù avranno da compiere un lungo cammino comune.
La posizione di Boezio, filosofo, non è certo atta a intendere quella di Capella. A Filologia si oppone Filosofia. Non c'è contrasto nelle singole opere; ma c'è nella loro natura e condizione di socie dell'uomo, nelle intenzioni e nella volontà di assurgere a guide assolute, di intendere quello che si opera quaggiù come espressione di proprie qualità. Questo conta per loro, anche dinanzi allo scopo che le fa impegnate a indicare il termine fisso dell'eterno consiglio. La domanda è questa ed è rivolta agli uomini: vale più Filologia o Filosofia? che l'una e l'altra aprano le porte del paradiso dell'intelletto non è materia del contendere. Si sottace o si ammette, non si discute. Si discute però sull'esercizio che acquista la mente con l'una o con l'altra. Nell'opera Philosophiae consolationis appare a Boezio una donna, come già nel Critone:
Reverendi admodum vultus oculis ardentibus et ultra communem hominum valentiam perspicacibus, colore vivido atque inexhausti vigoris […]. Nam nunc quidem ad communem sese hominum mensuram cohibebat, nunc vero pulsare caelum summi verticis cacumine videbatur; quae cum altius caput extulisset, ipsum etiam caelum penetrabat respicientiumque hominum frustrabatur intuitum. Vestes erant tenuissimis filis subtili artificio indissolubili materia perfectae, quas, uti post eadem prodente cognovi, suis manibus ipsa texuerat .
ha il capo erto verso il cielo; ha vesti sontuose con segni simboli e ricami; avanza mettendo in fuga ogni altra creatura; siede sollecita accanto al prigioniero! La sua narrazione è solenne ed epica; tratta di lotte e di vittorie, per piegarsi poi dopo una confessione in tono agostiniano del prigioniero (che passerà nel Secretum del Petrarca, al consiglio e alla esortazione, partecipi ma fermi e affettuosi. È il momento con Boezio in cui la metafisica s'incarna e si realizza nella stessa misura della teoria (arti e filologia, storia e grammatica) come era avvenuto con Capella. Le nozioni metafisiche diventano personaggi. Siamo in una fase, certo non sorta né spenta nel giro di queste opere (anche se queste esprimono il punto più alto e conclusivo), in cui la personificazione-simbolo si traduce in gusto e misura di descrizione.
Lungo questa linea, dal rinascimento carolingio alla civiltà provenzale, si forma una nuova e del tutto insolita esperienza. I mutamenti della società creano diversi rapporti e maturano esigenze prima non avvertite. La letteratura non strettamente impegnata, s'intende, ne accoglie il progresso e le trasformazioni. Si passa così dalla personificazione-simbolo come descrizione alla personificazione-simbolo come rappresentazione e immagine. Il figurato si sovrappone alla figura. La Natura continua ad essere più pagana, in fondo, che cristiana. N'è esempio il De mundi universitate (1145-1153) di Bernardo Silvestre, in cui il Curtius nota che l'elemento cristiano è ridotto al minimo. I Vizi e le Virtù e in secondo piano Filologia e Filosofia cedono il posto ai modi del vivere sociale. Siamo nell'età in cui appaiono, e via via fioriranno, i primi galatei. Personaggi diventano Concordia, Favore, Ragione, Giovinezza e loro fratelli e sorelle, come vedremo.
Alano di Lilla nel suo De planctu Naturae dà via libera alla Natura e accanto a lei a Genio Castità Temperanza Prodigalità Umiltà e così via. Se qualche nome di personaggio è ripreso da altre opere, lo scenario è però mutato. L'ufficio richiama altrove l'attenzione. La Natura è eccezionalmente adorna. È profana e laica. Avanza con un lusso e un godimento assai fini e preziosi. È come certi leggiadri cavalieri di Simone Mattini che si muovono in uno scenario scabro e rupestre. Il colore assume accento di impudicizia. I lineamenti e il comportamento si ammorbidiscono in una grazia esotica. Le attitudini si palesano attente e sofisticate.
Eccola nelle linee principali:
Crinale vero aureum in Iegitimi ordinis choream cnrus aurum concilians, vultum mirabatur invenisse conformem. Phantasia enim coloris aurum consequentis, paralogismum visui concludebat. Frons vero in amplam evagata planitiem, lacteo liliata colore, lilio videbatur contendere. Supercilia aureo stellata fulgore,... oculorum serena placiditas amica blandiens claritate,... Naris utraque odore imbalsamata mellito,... Oris nardus naribus delicatas odoris epulas offerebat. Labia modico tumore surgentia... Dentes quadam sui coloris consonantia eboris faciem exemplabant. Genarum ignis purpureus, rosarum suecensus murice, dulci flamma faciem amicabat... Menti expolita planities crystallina luce circumspectior,... Colli non injusta proceritas sub gracilitate moderata, cervicern maritati humeris non sinebat. Mamillarum pornula gratiose juventutis maturitatem spondebant. Brachia ad gratiam inspectoris prospicua, postulare videbantur amplexus. Laterum aequata convallatio.... Caetera vero guae thalamus secretior absentabat, meliora fides esse loquebatur. In corpore etenirn latebat vultus gratior, cu jus facies ostentabat praeludium .
La natura ha poi un diadema di pietre preziose a simbolo di astri: una veste di vari colori per figure di animali («Haec animalia, quamvis illic allegorice viverent, ibi tamen esse videbantur ad Iitteram») , come il leone, l'orso, il lupo, il pardus («apertiori latrocinio neronizans, pecudum vulgus non solum in vestibus, verum etiam in propria praedabatur persona») , la tigre, e così via.
Ha onori e trionfi. da sovrana assoluta. Passa nel cielo su un di vetro guidato da un celeste auriga. Ha da Dio, che appare come sublime ornamento o commendizia di solenni promesse, il potere di formare il corpo umano e di unirlo all'anima (unica indulgenza alla scienza e alla teologia del tempo). È più orgogliosa che umile umile anche quando dichiara i suoi limiti.
Alano la invoca con ogni attributo di umani e divini poteri.
O Dei proles, genitrixque rerum
Vinculum mundi, stabilisque nexus,
Gemma terrenis, speculum caducis,
Lucifer orbis.
Pax, amor, virtus, regimen, potestas,
Ordo, lex, finis, via, dux, erigo,
Vita, lux, splendor, species, figura
Regula mundi .
Anche il rimprovero che egli si guadagna dalla Natura si cala in espressioni rotonde, soffici, degne della formosità della pagana Vergine.
Poenitet me tot venustatum praerogativis hominum plerurnque privilegiasse naturas, qui decoris decus abusione dedecorant: qui formae formositatem venerea deformitate deformant, qui pulchritudinis colorem, fusco adulterini cupidinis colore decolorant: qui Florae florem in vitia efflorando detlorant. Cur decore deifìco vultum decoravi Tyndaridis, quae pulchritudinis usum in meretricationis abusum abire coegit, dum regalis tori foedus deserens, foede se Paridi foederavit? .
Ai Vizi da fuggire si oppongono le Virtù, dolci soavi e adorne d'ogni letizia, spesso sotto paragone di fiori e uccelli. Ecco la Castità,
Ecce virga suae pulchritudinis aurora blandiens universis, repentina sui adventus praesentia, sui directione itineris ad nostram aspirare videbatur praesentiam. In cujus pulchritudine tanti artifìcii resultabat solemnitas, ut in nullo naturae polientis claudicaret digitus. Hujus facies nullius adventitii coloris mendicabat hypocrisim, sed rosam cum · lilio disputantem in facie, mistione naturae mirabili, plantaverat dextera Omnipotentis ,
e poi la Temperanza, la Generosità, l'Umiltà e via via le altre.
Anche nell'Anticlaudianus tutto gira e gravita attorno alla Natura. Strettissimi sono i legami con lo scenario, l'ambiente, i costumi, i modi e le vicende tra quest'opera e il De planctu Naturae. Buon consiglio, pronto ed efficace, qui hanno la Concordia l'Abbondanza il Favore la Giovinezza il Riso il Pudore la Ragione la Moderazione, ecc.
C'è anche un «Concilium virtutum»:
Pacis alumna movet primos Concordia gressus,
et pieno cuncta perfundens Copia cornu,
et Favor, et multo perfusa favore Juventus,
et Risus nostrae proscribens nubila mentis,
et Pudor, et certo contenta Modestia fine,
et Ratio mensura boni... .
Artefici di un carro, che guidato dalla Prudenza salirà a Dio, sono le arti del trivio e del quadrivio. Ognuna di esse ha una funzione chiaramente simbolica: la Grammatica provvederà a costruire gli ornamenti del timone; la Logica l'asse; la Retorica il timone; l'Aritmetica, la Musica, la Geometria e l'Astronomia le quattro ruote di marmo, di bronzo, di piombo e di oro. Provvederà la Ragione a frenare l'irruenza dei cinque sensi. Quando poi, in un'ascesa infinita, la Prudenza vien meno, ecco pronta e sollecita la Teologia a guidare la dotta corte. Nel paradiso infine si celebra l'avvento e la formazione di un uomo nuovo, un Veltro dunque , che, impastato di virtù e vigilato da Natura, scende sulla terra a vincere le scatenate furie (Discordia, Impeto, Lite, Ira, Povertà, ecc.) e a ridare ordine e pace alle genti. Ovunque c'è la Natura, che regola e guida ogni cosa, in nulla o in poco regolata e guidata. Alano la descrive con un'ampiezza straordinaria, nelle linee generali e in particolari che sono le selve, i fiumi, i monti. Bernardo Silvestre l'associa e l'oppone a Noys (pensiero di Dio), a Hyle (caos), a Physis (sua operaia) . In Alano con la Natura c'è anche la Fortuna, quale si era andata figurando, per rimanere nel Medio Evo, da Boezio ad Enrico da Settimello, sul piano del più coerente naturalismo moralistico. Libera, capricciosa, stabile solo nella sua instabilità, la Fortuna non è ancora «ministra e duce» (Inf. VII, 78), né tanto meno divina Provvidenza (Man., II, IX. 8 ss.) :
Haec est incostans, incerta, volubilis, anceps,
errans, instabilis, vaga, guae dum stare putatur,
occidit, et falso mentitur gaudia risu.
Aspera blanditiis, in lumine nubila, pauper
et dives, mansueta, ferox, praedukis, amara,
ridendo plorans, stando vaga, caeca
videndo, in levitate rnanens, in lapsu firma,
fidelis in falso, Ievis in vero, stabilisque movendo .
Ne Le Romande la Rose questo simbolismo allegorico è portato alle sue estreme conseguenze, ad una configurazione totale del mondo naturalistico e morale dell'uomo. Ma l'allegoria, ha ragione il Battaglia, «è semplice ed è univoca: e non ci costringe a correr dietro a un'alternativa di piani. Essa è così dichiarata e scoperta, che risulta immune da sovrastrutture crittografiche» . Né tanto meno è essa, ed ha ragione il Langlois, che ha reso di moda l'allegoria, ma vi si inserisce in un'età che la vede in piena fioritura . Certi accorgimenti o gradazioni, sotto forma di epiteti o, magari, di senhal, erano già stati, assai felicemente, sperimentati nei dcli epici e dai poeti provenzali. Guglielmo IX, ad esempio, chiama la sua donna «mi dons» o con nome maschile «Bon Vezi» . Cortesia è opposta sempre a Villania . Mezura a Leujaria, cioè alla Lussuria e all'amor carnale . Ma è indubbio che ne Le Roman la Natura non è solo una dea che regge e governa, ma è più «mondana»: è divenuta più visibilmente donna di corte. Ha rappresentanze, ha uffici, esercita tutte le virtù della buona convenienza, ha attorno colleghe pronte e rispettose. È colta nelle sue opere e nella sua bellezza .
Mais par mout ententive cure
A genouz est devant-Nature,
Si prie e requiert e demande,
Come mendiant e truande,
Povre de science e de force,
Qui d'ensivre la mout s'esforce,
Que Nature li vueille aprendre
Coment ele puisse comprendre,
Par son engin, en ses fìgures,
Proprement toutes creatures .
Troviamo gli aspetti truci e nefasti della vita morale e civile, come: Oziosità Fellonia Invidia Tristezza Vecchiezza Ipocrisia Povertà Orgoglio Onta Disperazione Ossessione e così via. Né, naturalmente, manca la Villania.
Une image qui Vilanie
Avoit non revi devers destre,
Qui estoit auques d'autel estre
Con ces deus e d'autel faiture;
Bien sembla male creature,
E sembla bien estre outrageuse
E mesdisant e ramponeuse;
Mout sot bien poindre e bien portraire
Cil qui sot te! image faire,
Qu'el sembloit bien chose vilaine
e tanto meno l'Avarizia:
Une autre image i ot assise
Coste a coste de Covoitise,
Avarice estoit apelee.
Laide estoit e sale e folee
Cele image, e maigre e chaitive,
E ausi vert come une cive;
Tant par estoit descoloree
Qu'el sembloit estre enlangoree;
Chose sembloit morte de fain,
Qui vesquist solement de pain
Pestri a lessu fort e aigre .
È il trionfo della personificazione-simbolo come rappresentazione. La corrispondenza tra gli elementi è immediata. Il personaggio è, in tutto, ciò che rappresenta. Nessuna fase di passaggio rallenta l'apprendimento del lettore. Nel brutto si scarica tutto quel ch'è odioso vile e malvagio. Di contro non può che esserci il bello, che si chiama Amore Beltà Dolcesguardo Ricchezza Giovinezza Liberalità Franchezza Beltà Semplicità Belsembiante e così via. In questo settore regna Amore con il suo valore, la sua autorità e le sue gioie . Anche qui tutte insieme formano corte:
Dame Oiseuse, la jardiniere,
I vint o la plus grant baniere;
Noblece de cueur e Richece,
Franchi se, Pitiez e Largece,
Hardemenz, Eneur, Courteisie,
Deliz, Simplece e Compaignie,
Seurtez, Deduiz e Leece,
Jolietez, Beautez, Jennece,
Humilitez e Pacience,
Bien Celers, Contrainte Astenance,
Qui Faus Semblant o li ameine
Con Le Roman de la Rose, siamo ormai al tempo di Dante e dopo la piena fioritura della poesia epico-cavalleresca e della lirica cortese, vizi e virtù si sono trasformati, se non in tutto certo largamente, in difetti e in qualità di una società ch'è aristocratica nella sua essenza. Mondanità, usi di corte, consuetudini di civiltà progredite sembrano chiaramente delineate.
Nel creatore di Minne, come anche nella lirica cortese, ovunque c'è una traduzione di «virtù» in «qualità» cavalleresca: «virtus» vale «valor» «pretz» o «cortesia»; «temperantia», «mezura»; «fortitudo», «proeza»; «justitia», «dreichura» e «lealtat»; e per contrapposto: «vitium», «vilania» e così di seguito.
Descrizioni di personaggi-tipi (Cesare per «condottiero»; Davus per «scurra»; Beroe per «scabies rerum», ecc.) e personificazioni laiche (come Grammatica, Filosofia, Tragedia, Satira, Commedia, ecc.) sono frequenti nelle arti poetiche.
Da Le Roman de la Rose e da altri testi le deità mondane passano nella poesia allegorico-morale del XII secolo. Si pensi soprattutto al Tesoretto di Brunetto Latini (per Prodezza, Allegrezza, ecc.): ai Documenti d'amore di Francesco da Barberino (per Docilità, Industria, ecc.: i dodici servi d'Amore); ma anche ad Amore e Natura nel poema dell'Intelligenza, ai sonetti di Folgore, e così via.
figurazione si sovrappone a realtà anche nei trattati di scienza. Così, a parte Dante del Convivio, Ariete significa «faccia e 'l capo»; Tauro, «collo e gola»; Gemini, «spalla e braccia» e via via fino ai Pesci per «piei».
In generale si può dire che, entro le linee del simbolismo morale e naturalistico, si accentuano i caratteri sociali e letterari in confronto alle prische manifestazioni di un Apuleio, di un Boezio e di un Prudenzio. Pur nella loro varietà, motivi e temi, come Filosofia Filologia Natura Fortuna e poi Vizi e Virtù, sono sentiti ancora con spirito piuttosto classico-pagano che cristiano. La Natura, ad esempio, non è mai gerarchicamente disposta e ordinata, ma è regina sciolta da ogni concreto impegno, libera o condizionata solo formalmente. C'è più che una gerarchia una dissipazione di deità autonome, una lussuria naturalistica, specie da Alano di Lilla a Bernardo Silvestre e a Le Roman de la Rose, prorompente e vaga, che avvicina al naturalismo latino. Quel che c'è di moralistico si deve attribuire, per buona parte, alla stessa concezione di misura e di equilibrio, di umanità e di fede, che vive in certi autori e in certe opere come forza interna e promotrice. Se questo proprio non è valido in generale, ma solo in taluni casi, deve però bilanciare l'opinione di chi vede invece determinante l'influenza scritturale e scolastica . Non sapremmo dire, ed è un esempio su mille, se Giovanni di Meun intenda con questi versi riferirsi all'uomo che, venendo meno al suo essere, offende Dio o se non proprio alla sua natura d'uomo:
E dit encore plus la letre,
Qui des mauvais comprent la some:
Que li mauvais ne sont pas ome .
Ad ogni modo, ovunque, si celebra l'intelligenza, il bene che essa opera contro l'ignoranza del male. Ovunque si assume un contegno di fiducia nelle forze intellettive dell'uomo. Ovunque c'è godimento di fantasia, d'inventiva e d'immaginazione. Su questo piano non molto è cambiato dalle favole di Apuleio a quelle di Alano e de Le Roman de la Rose. È il filone laico della figurazione simbolica del reale.
Lungo questa linea si sviluppa, ora intrecciandosi ora appoggiandosi, ora suggendo i fermenti ora contrastandoli, ora approvandoli ora ignorandoli, la linea strettamente fedele ai testi sacri . L'applicazione è costante. Il vincolo è naturalmente maggiore e più rigoroso. Si perde di fantasia. Apuleio Prudenzio o Alano creavano i loro simboli. Qui occorrerà cercarli. Perché un dato è sicuro: i simboli nei testi sacri ci sono. Occorre solo capacità ad individuarli. Si passa dalla invenzione alla chiosa. È l'epoca degli esplicatori.
Si perdono, con l'invettiva, irruenza e varietà. Si crea, si avvia e si sviluppa una tradizione esegetica poco variata e sempre più concorde nelle linee generali e solidamente compatta. Certo influisce molto la presenza e la vigilanza· della Chiesa. Le variazioni dinanzi ai testi sono, se mai, nei minori aspetti: un particolare, che sia minimo, può variare da chiosatore a chiosatore; il generale, che sia fondamentale, si fissa in un modo e tale rimane. Si crea così una spessa incrostazione simbolica, cui si piegano i lettori rustici dei testi sacri (predicatori, monaci, ecc.), ma anche i lettori d'ingegno e di dottrina (pensiamo a Dante. e a Jacopone). Anche qui la differenza è soprattutto, e incommensurabilmente, nella rappresentazione. Nei chiosatori dottrinali, nei diffusori della fede (e fermiamoci per ora su questi) il simbolo rimane rigido. È schema. È idea. È dottrina. È quel che si deve imparare e insegnare: e basta. Tale è anche nei volgarizzamenti: Trattati morali di Albertano da Brescia, De contemptu mundi di Bono Giamboni, Fisionomia di Zucchero Bencivenni.
Il poeta qui non crea, se mai interpreta. Dio è l'autore della Scrittura . Essa risplende della luce dello Spirito Santo . È espressione di suprema eccellenza . Solo essa porta alla verità .
Dinanzi a questa concezione crollano tutti i simboli e i miti della figurazione laica: Filosofia, Filologia, Natura, Fortuna e così via. Ovunque è Dio. Tutto è in stretto rapporto cli sudditanza. Sotto questo aspetto potremmo dire che il Cantico delle creature di S. Francesco si presenta qua e là in opere d'altro tono e natura.
Omnis itaque Dei creatio consideranti magna est delectatio, dum in quibusdam sit decor, ut in floribus; in aliquibus medicina, ut in herbis; in quibusdam pastus, ut in frugibus; in quibusdam significatio, ut in vermibus et avibus .
Questa natura già simbolica, ora, nell'insieme e nei particolari, si adatta e si piega all'interpretazione allegorica. Tutto incomincia dall'alto. È anzi dall'alto che scende la catena dei rapporti. In sé e per sé, tutto, da Dio alle cose più umili animate e inanimate, in un primo momento si istituisce o si costituisce in simbolo. Nella catena dei simboli, che tra loro e dall'alto al basso sono in urto, spunta l'allegoria. Si può avere allegoria non solo nel raffronto e nella contrapposizione dei simboli, ma anche nella immersione in profondità dei valori analogici. La oscurità, che può nascere, è considerata propizia e utile , perché maggiormente può introdurre alla verità . Non così invece, come abbiamo visto, nelle personifìcazioni laiche. Di qui scaturiscono suggerimenti e necessità da imporre al lettore, ch'è sempre e soltanto un fedele, quali: il raffronto tra i vari passi della Scrittura per avvicinarsi al vero, irraggiungibile per via di ragione ; l'assidua lettura dei testi sacri ; la buona intelligenza, in fede e in umiltà, ad indagare . La mancanza di queste disposizioni genera l'errore. Lo ricorda nell'opera Eruditionis Didascalicae Ugo di San Vittore:
Vides multos Scripturas legentes, quia fundamentum veritatis non habent, in errore varios labi, et toties fere mutare sententias, quot legerint lectiones. Rursum alias vides, qui secundum illam veritatis agnitionem, qua intus fumati sunt quaslibet Scripturas ad congruas interpretationes flectere noverunt, et quid a sana fide discerdet, aut quid conveniat judicare .
La vera certezza, universale e indiscutibile, era data dal fondo allegorico, ch'era insito in ogni parte dei sacri testi e dei vari aspetti della natura e che peraltro nulla toglieva alla lettera . Ma se in qualche cosa questa veniva meno, anche allora più probante si affacciava il valore figurativo e mistico . Propizio giungerà però il monito di Ugo di San Vittore di seguire la lettera «ne nostrum sensum divinis auctoribus praeferamus» .
Dio, abisso d'eterno consiglio , è tutto: «agricola», «oleum», «osculum», «palpebra», «panis», «sagitta», «scutum», «unguentum», «uterus», «vas», «virga», «vox», ecc.
Cristo è «fons», «ignis», «mons», «petra», «sapphirus», «semen et fructus», «serpens aeneus», «stella matutina», «torrens», «turris», «mons et vallis», «ventus», «vermis», «virga et flos», «vitis», «agnus», «candelabrum aureum», «cervus», «columna», «piscis», «equus», ecc.
La Chiesa è «lampas», «lapis», «leo», «locusta», «mons», «navis», «ovis», «passer», «pecus», «quadriga», ecc.
Pagani ed ebrei, eretici e peccatori venivano chiamati con «abyssus», «aquila», «caliga», «culex», «flumen», «vulpecula», «pardus», «serpens», «piscis», «pecus», ecc.
Chiaro è come variamente uno stesso nome potesse assumere significazioni estremamente diverse, per cui cadeva il suggerimento di ricorrere al raffronto dei luoghi per una opportuna intelligenza. Questa possibilità l'aveva avanzata S. Agostino . Così è che a vizi e a virtù, per una loro rappresentazione concreta spesso si adattano termini uguali. Abyssus è Dio o il peccatore, ma anche una virtù, «judicium humanae rationis», o un vizio, «confusiones malorum operum» . Aquila, come «adversitas» o come «frigus peccatorum» ; aquila, come «cogitationes a terra suspensae» o come «irrationales animae motus» ; arundo, come «infirmum auxilium» o come «inconstantiae symbolum» . E l'esemplificazione potrebbe continuare.
Una volta individuato l'astratto del vizio, in particolare (ma forse anche all'inverso), si passava al concreto. Vizio e peccatore avevano un unico aspetto. Per riprendere più o meno gli stessi termini: abyssus equivale a «multitudo impiorum» ; animale a «homo carnalis» ; aquila a «homo infidelis aut malus» ; arundo a «peccator, vel fragilis fide, vel in aliqua tentatione» . Ad uguale valutazione sottostanno i termini del Nuovo Testamento.
In generale, nel particolare settore delle figure, si possono avere (e non sono certo le sole) rapporti per corrispondenza, (positivo con positivo, negativo con negativo) o per inversione (positivo con negativo, negativo con positivo). Nel primo caso si possono realizzare i seguenti tipi: «grata gratis significantur», esempio: «Resurrectio Christi typus nostrae resurrectionis»; oppure «moesta moestis», esempio: «Reprobatio angelorum typus reprobationis malorum». Nel secondo caso, questi altri: «moestis grata», esempio: «Transgressio Adae typus justitiae Salvatoris»; oppure «gratis moesta», esempio: «Baptisma typus mortis Christi» .
Negli elementi fondamentali del cosmo non v'è incertezza.
La chiosa è esplicita nell'Allegoriae in vetus testamentum di Ugo di San Vittore:
Coelum designat summa, terra ima; coelum invisibilia, terra visibilia... Terra autem significar subditos, imperfectos, activos... Coelum igitur angeli .
Ad uguale esplicita corrispondenza sottostanno nomi propri. Così in De praeparatione ad contemplationem di Riccardo di San Vittore, per esempio, Rachele e Lia significano vita contemplativa e vita attiva, proprio come in Geoffroi di Vinsauf e in Dante (Purg. XXVII, 100-105; anche Conv. IV, XVII, 9 ss.; ecc.) e prima in S. Agostino.
E fin qui non c'è nulla di straordinario. Il raffronto è diretto. La identità è logica. L'analogia è un simbolo-metafora che rientra nelle possibilità conoscitive del lettore. A questo nucleo comune s'innestano però la mancanza della univocità dei simboli, per cui, come abbiam visto, un termine vale per più cose ed anche differenti; la pluralità delle associazioni analogiche e infine l'industria delle equivalenze prelogiche e sinestetiche. Nei primi due casi si può avere tutt'al più, un grumo di simboli in cui la chiosa può avvalersi della tradizione, del confronto, della percezione concettuale. Nel terzo caso tutto questo vale relativamente. Anche la percezione intuitiva e progressiva tende ad arrestarsi. Sono infatti aboliti nessi e passaggi. L'intermedio è inespresso. La logicità dei rapporti, e con essa la naturalezza e la opportunità, o è sottaciuta o è scavalcata o è volutamente soppressa. Salvi tempi e differenze, si potrebbe usare l'espressione moderna di «immagini di serre calde» . Ma non v'è evasione nell'assurdo o godimento estetico, che si cava dalla suggestione: è solo schema, metodo che non disdegna l'ambiguità e l'oscurità pur di assalire d'ogni parte il vero .
L'adottare come base il «terreno», come vuole Ugo di San Vittore , è e rimane un punto di partenza, che però non regge nella progressione del simbolo in allegoria; per di più è un «terreno» che parte da un testo come la Bibbia e non certo da una reale osservazione delle cose.
Gli esempi sono molti e basterà cercarli tra quelli addotti. Ma si pensi alla panthera che in quanto «bestia» in generale rappresenta «quilibet a peccato conversus» e in particolare come «pardus» è «quiliber vrtiorum varietate plenus» . Può però significare il «presbyter», e i sette colori di quella le «septem vestes et septem virtutes» di questo. Si passa così da un'analogia semplice ad un agglomerato analogico per giungere poi ad associazioni prelogiche e immotivate.
Accade che tutti i dati, singolarmente presi, valgano le loro rispettive corrispondenze (prima fase), ma non così nell'insieme (seconda fase), nello sviluppo, nella integrazione e nell'agganciamento ad altri valori e ad altri piani (terza fase). Giunti a questo punto la libertà o l'industria di chi ha ideato dovrebbe corrispondere alla libertà di chi interpreta. Ma questo non deve accadere. «Quae ambigua sunt, ita interpretare ut non discordent, quae vero sunt obscura, resera si potes», ammonisce Ugo di San Vittore . C'è dunque un limite che non permette comunicazioni di sorta tra ideatore e interprete. È l'angoscia di secoli e secoli di ricerca. L'allegoria, in definitiva, si riduce ad un esercizio di chiosa in cui alcuni dati di avvio sono noti e noto è il termine globale di essi, ch'è Dio; ma non noti né motivati i rapporti e le equivalenze intermedie.
Dante si trovò dinanzi a tutta questa fioritura di personificazioni (che conobbe e trattò fin dall'età della V. N., XXV, 7 ss.; e ovunque presentò: Conv. III, IX, 2; De vulg. eloq. II, II, 8; ecc.) e di miti, di simboli e di metafore, di allegorie. Conobbe le tradizioni, che certo subirono, come abbiamo detto, interferenze e sollecitarono rapporti, la naturalistico-classico-laica e la scritturale-morale-religiosa (due tradizioni che si possono percorrere anche nel diritto, almeno prima di Graziano); ne assorbi motivi e insegnamenti. È suo merito, anzi, averle rifuse e ricomposte in unità. Tutto ridiventa in lui, da schema o dottrina o idea qual era, vita scena personaggio. È particolare che entra di sua vita nell'ambito vasto e infinito di una concezione figurativa e poetica della missione dell'uomo su questa terra. Ha storicizzato l'astratto. Ha smitizzato le personificazioni laiche e profane. Ha contenuto l'allegorismo di Vizi e Virtù nella giustezza del simbolo-metafora.
Troviamo Natura (e si pensi alla Selva e al Paradiso Terrestre), Fortuna, Leone Lupa Lonza in note corrispondenze, Vizi in ogni gradazione e aspetto nei diavoli e nei dannati, Virtù nei segni e nel destino dei cieli, (si pensi alla introduzione al cielo di Venere) e così via. Se, teoricamente, è legato alle definizioni del Medio Evo e crede traducibile l'allegoria solo in termini di teologia, di fatto però realizza un altro equilibrio. Contempera, di tutti i suoi predecessori, la fiducia o il pessimismo nelle forze intellettive dell'uomo. La visione delle cose e della realtà, almeno come gusto d'invenzione e di fantasia, s'integra con quella riflessa, che proviene dalla Bibbia. Mito, senhal, simbolo-metafora (e di similitudine = simbolo parla anche nella V. N., XXIX, 3), figura, allegoria ci sono tutti nella Commedia e spesso si corrispondono o si equivalgono: tutti, nelle varie occasioni, gli servono per dare voce ai grandi silenzi del Medio Evo .
Il simbolo in Dante non è mai statico, non si appiatta in una corrispondenza analogica e basta. Ha invece una sua dinamica che gli permette un passaggio dalle istanze scritturali alla invenzione creativa, dalla analogia rustica all'ardimento metaforico. In genere, il simbolo cresce sempre e si stimola. È chiaro. È aperto ad ogni infinita figurazione ed è rare volte confuso equivoco oscuro. Non ci pare che sia riducibile sic et simpliciter a metafora pura, secondo una concezione moderna o come piace a taluni critici moderni . Dante ne vede e ne realizza il valore sempre in un'area moralistica (e il teorico è qui d'accordo col poeta), e mai come gioco letterario. Si pensi alla diatriba del Della Casa e suoi seguaci per l'espressione «lucerna del mondo» (Par. I, 38), intesa e misurata sul registro letterario, laddove essa è facilmente riconducibile al gusto metaforico-simbolico del Medio Evo. La Scrittura, ad esempio, è «sancta lucerna» per Pietro Lombardo . Ma del simbolo-metafora converrà distinguere tre momenti, corrispondenti a due diversi tipi di realizzazione poetica indipendentemente dagli schemi teorici, cui in altra parte abbiamo accennato :
a) Simbolo-metafora a corrispondenza semplice. Leone è violenza; Lonza è lussuria, e così via. In questo settore può introdursi anche il senhal (Beatrice e Giovanna, V. N., XXIV, 3 ss.; Pietra, CCIII; ecc.) e si può impostare la struttura del mondo dantesco nei suoi elementi primi ed essenziali: i custodi infernali e i segni paradisiaci come esponenti rispettivamente del vizio condannato o della virtù riconosciuta.
b) Simbolo-metafora a gradazione e a innesto. Si parte da un adattamento del fondo naturalistico dell'immagine a un adeguato valore morale, per passare poi alla costruzione di una figura, di una scena, di un episodio, di un insieme di episodi. Possono costituire un esempio, tra i molti anche qui, la presenza delle tre fiere, il paesaggio in cui operano, l'azione che determinano, e così via. È un insieme chiaro in sé e negli elementi che lo compongono.
c) Simbolo-metafora ad equivalenze lontane ma motivate. Qui si perde la corrispondenza naturalistica e morale immediata; ma ad essa presente, anche se sottaciuta, si riallacciano analogie e rapporti o anche catene di analogie e di rapporti. Pensiamo all'episodio Veltro-cane, in cui da un fondo immediato e naturalistico appena appena accennato, si passa alle corrispondenze morali per cui il Veltro è un uomo di virtù (papa o imperatore che sia) e soltanto questo. Nei versi che seguono l'impostazione del simbolo (Inf. I, 101-102 e poi 103-111) il valore naturalistico d'origine si è perduto. Il poeta è stato sopraffatto dall'incidenza morale del simbolo e solo questo cura. Ci sono, sì, passaggi interrotti e certo non piena è la tessitura sul piano logico dell'immagine (il Pagliaro, sotto questo aspetto, giustamente parla di «immagine forzata dai caratteri umani che le si attribuiscono») ; ma la conclusione non è oscura, l'insieme ottiene l'effetto voluto, i rapporti con figure e segni nel canto e nella globalità dei canti non si allentano. La stessa immagine risalta più perentoriamente.
Un caso analogo al Veltro è dato dal «fiumicello» che i poeti passano «come terra dura» (Inf. IV, 109). La differenza è in questo: nel Veltro il dato realistico viene soffocato dal simbolico-morale, che resta saldamente coerente pur nella apparente illogicità di corrispondenze e di convergenze; qui l'incongruenza logica è e rimane nel dato realistico (effettivamente «un corso d'acqua non si passa come fosse terreno compatto») . Sotto, però, si può cercare una coerente rappresentazione simbolica.
Con la figurazione del Paradiso Terrestre (Purg. XXVII-XXXIII) Dante ha compiuto il massimo sforzo per abbracciare e concludere tradizioni profane e sacre, classico-realistiche e scritturali. La natura, tra le altre cose, esprime più evidentemente la presenza di Alano di Lilla. Il Carro, la Processione, l'Albero, accanto a simboli e voci di tutto quell'insieme rigoglioso di significati hanno piena e coerente giustificazione letterale-simbolica e permettono una convergenza costante di significati. Le «essentiae» tra figura e figurato (es. Carro-Chiesa) sono rispettate. È una costruzione di ardimento e forza biblici che vuole essere, al limite del mondo terreno, il contrapposto del disordine (o dell'ordine causale) della selva infernale. Solo il valore dell'Albero non sembra tradursi in adeguati modi dal piano letterale-naturalistico a quello simbolico-morale. È un elemento che esiste e resiste isolatamente in una rappresentazione vasta e globale, chiara precisa e motivata .
Alle stesse proporzioni si può ridurre il getto della «corda» (Inf. XVI, 114) da parte di Virgilio. È un elemento isolato, chiaro sul piano letterale, ma simbolicamente oscuro, immesso tra altri assai più precisi e individuati .
In un caso e nell'altro l'unità della rappresentazione assorbe l'isolata incongruenza ora per il predominio del simbolo, ora per l'organicità del reale.
Diverso è certo l'episodio del Veglio (Inf. XIV, 193 ss.). Se, infatti, intuitivamente, esso può rappresentare «la società umana nella sua totalità spaziale e temporale» , rimane tuttavia, in alcuni particolari e in generale, nella figurazione e negli attributi, nei rapporti e nelle opposizioni degli elementi, aperto ad ogni supposizione. Mancano le ragioni di inserimento e gli agganci col mondo attorno . La duplicità di significati (morale e politico), vista dai commentatori non esiste, poiché Dante e il Medio Evo li avevano assunti in unità. Dante sembra teso a realizzare una personificazione (qual è anche la Fortuna), col gusto e l'esperienza dei predecessori, e ne fa un blocco di simboli più accennati che svolti, chiusi tutti in una sintesi ardimentosa. L'oscurità qui nasce non da un elemento isolato negato alla corrispondenza; ma da più elementi che rimangono sospesi accanto ad altri conosciuti e però avviati a plurime soluzioni. Per di più sfugge l'individuazione, realistica e simbolica, del punto di avvio e di conclusione dell'episodio, che pure si sospetta fondamentale per la struttura del mondo dantesco.
Su questo limite può nascere l'allegoria, intesa non più come metafora prolungata, ma come metafora dimezzata, anche se talora esternamente prolissa, e perciò oscura e in tal parte poeticamente inespressa. La metafora forzata è decisamente condannata dai grammatici . Ma quello ch'è di Dante, anche nella ripresa di tradizioni e di motivi, è un'estrema forza d'invenzione che travolge ogni cosa, annulla ogni distacco, non dà al lettore dispiacere alcuno, se mai lo frusta a cercare, sul limite di simbolo e di allegoria, una soluzione di cui egli non è certo responsabile. Per di più molti di questi simboli-metafore (e lasciamo da parte le locuzioni metaforiche del tipo Inf. I, 60, 63 ecc., che fanno impallidire i giochi sinestetici dei poeti d'oggi) nascono non in modo riflesso, a cui si devono riportare in gran copia personificazioni simboli e allegorie del Medio Evo, ma da una diretta osservazione delle cose. Cacce, usi e mezzi militari, riti sacri e così via possono spiegare l'origine e la progressione di molte figurazioni dantesche. Si pensi, ancora una volta, al Carro e alla Processione del Paradiso Terrestre. Anche qui sacro e profano non si ripudiano, perché Dante non li trascrive né li lascia coesistere nelle differenze, ma li compenetra e li vivifica, energicamente, con passione e forza inventiva.