Dati bibliografici
Autore: Pompeo Giannantonio
Tratto da: L'Alighieri. Rassegna biliografica dantesca
Numero: 1
Anno: 1967
Pagine: 60-72
Il Rossetti proclamò l'esigenza di un'esegesi imperniata sull'allegoria, che, a suo parere, costituiva la sola chiave atta ad aprire la porta del misterioso mondo dantesco. In questo enunciato vi sono, come si vede, i meriti ed i limiti di una tesi che, se fosse stata tenuta nell'alveo della misura e della prudenza, avrebbe dato frutti ben altrimenti fecondi e duraturi. Egli non errava quando scriveva «nel secolo dell'Alighieri il genio dell'allegoria era predominante; in appresso questo si è andato a poco a poco attenuando, fin che si è quasi interamente perduto; e quindi ora passa il pericolo di sentirsi chiamare strano chi vuol interpretare il poema con lo spirito di allora», oppure quando affermava che «dottrina e ingegno in lui Dante si sposarono, nel punto che creava quelle tante allegorie che caratterizzarono gli scritti suoi». Ma queste giuste proposizioni trovano, in tutta l'opera rossettiana, diverso e complesso sviluppo. Il Rossetti, con vera sensibilità storicistica, derivatagli dall'insegnamento vichiano, colloca l'allegoria nell'età primitiva quando gli uomini amavano affidare il fatto reale e personale, depurato però della contingenza, ad un'immagine universale e extrasensibile, immutabile e paradigmatica. La realtà, su questa via, diveniva esempio e mònito, purificazione ed esaltazione. Allora l'allegoria finiva col caratterizzare una civiltà come quella medievale, ecco perché diveniva «il più comune segno della spiritualità medievale, che è curiosa di tutte le esperienze del vivere umano ed è contemporaneamente sollecita ad elevarne le mutevoli vicende nella ferma contemplazione intellettuale». Il Rossetti si rese subito conto della grossa questione e ne enunciò, con estrema chiarezza, i termini: «L'allegoria sembra infatti essere la tendenza di que’ tempi, in cui l'umana società si va elevando dalla barbarie alla civiltà. Questa tendenza produsse tutto il complesso della Mitologia, la quale altro non è in sostanza che un'allegoria continuata: e la Mitologia nacque appunto allora che la Grecia stava facendo i primi passi in quella carriera gloriosa, che la rese la maestra delle genti. La ragione si è che i primitivi dirozzatori de' popoli volendo essere per lo più i poeti, questi sentendo il pericolo e la difficoltà di presentare alle menti or grossolane la verità tutta nuda, la rivestono quasi di forma, perché altri cominci ad avvezzarsi lo sguardo; e così pascendo la fantasia sviluppano a poco a poco l'intelletto. Quando poi l'umana società è già tanto adulta, che il suo sguardo può fissarsi con più fermezza nella luce di quella figlia di Dio, ella viene spogliata di quelle ombre in cui l'industria de' saggi l'avea ravvolta; ed il regno della Poesia quasi cessa e quello della Filosofia incomincia». Ci troviamo di fronte ad un'analisi acuta e veritiera di un problema, che appassionerà per molti decenni la critica. Ma il Rossetti volle andare oltre i ben definiti limiti di questo enunciato e sconfinò nella criptografia con conseguente linguaggio gergale per i pochi iniziati.
L'allegoria, per il Rossetti, investe l'intero dettato dantesco e denunzia la sua larvata presenza anche dove nessun indizio ci aiuta a rilevarla, perché, e queste affermazioni sono singolari, le allegorie sono «fondate sulle metafore comunemente ricevute; altre dedotte da quelle per antitesi; altre nate da teorie scientifiche; altre suggerite dalla storia; altre appoggiate al semplice suono delle parole: e tutte ben guidate da classiche imitazioni. Sostituite alle figure i figurati; abbiate conoscenza esatta di quegli autori de' quali si nutrì, e voi gli leggerete nell'anima i minimi pensieri, e gli accompagnerete gradatamente dalla genesi allo sviluppo; e la Divina Commedia non sarà più un enigma». Una volta imboccata questa strada la logica del discorso portava a forzare sempre più non solo le allusioni o gli episodi del poema, i versi e le parole ma le stesse sillabe di vocaboli diversi e fra loro distanti per costruire tutto un mondo fantasioso e specioso. Il Rossetti, poi, per dare alla sua esegesi una base di veridicità storica attribuisce a caso e a malizia la smarrita strada delle allegorie, nota ai coetanei di Dante; infatti «gli espositori ch'erano più vicini al tempo dell'Autore, pieni anch'essi del gusto del secol loro, si volsero a ricercare le allegorie; ma siccome mal ne presero la traccia così andarono per lo più errando di sogno in sogno, e caddero in discredito. Ciò ha indotto chi venne dopo a considerare il poema quasi come puramente letterale e si è così gettata volontariamente quella sola chiave che potea aprirsi l'adito agl'intrigati andirivieni di questo laberinto: e non si è riflettuto che tolta l'allegoria alla Divina Commedia viene a torsene il carattere distintivo, ed a farne ben misera cosa. Le immagini più significanti secondo la figura divengono spesso puerili o assurde secondo la lettera». Quindi solo con l'allegoria non solo si può arrivare all'intelligenza della Commedia, ma a scrutarne perfino i più reconditi fini.
Occorre, allora, per intendere la Commedia una chiave che ci dischiuda i segreti più reconditi in essa celati perché «l'Alighieri mise in mostra l'anima sua filosofica con una fantasmagoria poetica, la quale era la scrittura geroglifica di sparsi addottrinati. Costoro potettero con ciò mirare, quasi riflesse in esterior riverbero, tutte le intime concezioni di lui, le quali svelano la dottrina celata sotto il variopinto tessuto di quella tela immensa che si denomina Divina Commedia. Le persone operose ch'egli presenta, i nomi propri ch'ei loro adatta, le diverse azioni ch'ei loro attribuisce, altro non sono che sostituzioni d'idee, di vocaboli, di raziocinj». In tal modo tutte le parole vanno interpretate e ricondotte al loro valore anfibologìco. Il Rossetti non intendeva, ovviamente, riferirsi a lemmi e significati di parole consacrati o dimenticati dall'uso, ma a ciò che i singoli vocaboli mai evocarono o a cui non allusero. Una ricerca sulla polivalenza verbale nella Commedia pure sarebbe stata legittima, perché specie «nei primordi della nostra lingua poetica, la parola immagine è in molti casi bivalente, o almeno essa ha una trasparenza assai maggiore che oggi». Ma il Rossetti volendo, con le proprie argomentazioni, guadagnare alle sue teorie anche ogni manifestazione espressiva, evitò di addentrarsi in noiose dispute filologiche e si diede, in loro vece, a ricercarla =' mondo del mistero. Scrisse così pagine su pagine sul gergo iniziatico e sui suoi stretti legami con il mondo dantesco. La poesia, in queste lunghe dispute e fini argomentazioni, veniva completamente sommersa da citazioni anche dotte, da richiami anche utili senza la speranza di far avvertire con un solo battito d'ali la sua presenza. Infatti, quando si leggono quelle interminabili pagine dimenticandosi di Dante e della sua opera, si viene a perdere ogni interesse per l'arte, che è la meta finale di ogni proficua critica. Croce, quindi, aveva buon gioco ad addebitare agli allegoristi la responsabilità di trascurar nelle loro indagini la poesia. D'altra parte lo stesso Rossetti nega all'allegoria la schiettezza e quindi la sua presenza nell'area della poesia poiché afferma che «coprire la verità con un velo di menzogna è appunto la definizione dell'allegoria». E in questo ambito la poesia non può far sentire la sua voce.
L'indagine del Rossetti sul gergo non si ferma alle opere di Dante, ma si estende a tutto il mondo poetico del Due e Trecento, ove cerca di rinvenire elementi atti a sostenere le proprie tesi. Così lo stilnovo e la letteratura didattico-allegorica vengono scandagliati con il suo metodo interpretativo e indotti a riecheggiare i suoi temi esegetici. L'amore, la «mistica sentimentale» e l'analisi psicologica proprii degli stilnovisti gli offrivano elementi utili al proprio discorso. Quindi per lui lo stilnovo non era «poetica, come scrive autorevolmente il Contini, dell'oggettivazione dei sentimenti», che è «press'a poco l'inverso dell'allegorismo» che è «divorzio dei significati» letterale-simbolico, ma una «terra vergine» da dissodare «per vedere che cosa contenga» in fatto di simboli, di allegorie, di anfibologie, di mistagogie. Ecco perché «a un tal lavoro debbono accedere filosofi e non grammatici, poiché questi han fatto già quanto potevano, ma quelli non han fatto se non pochissimo di quel che doveano. In questa ricerca bisognerà stendere ogni passo con iscrutinio e diffidenza». Il Rossetti, quindi, pone al bando i letterati in ricerche che pure sono solo di loro pertinenza, appunto perché l'oggetto di tali indagini non è la poesia, come dicevamo, ma ipotetiche sovrastrutture che nulla hanno a che fare con l'arte. Conclude, poi, questa precettistica critica affermando che «l'apparenza in quelle carte è la principal nemica della verità, di modo che quello che sembra piano e sicuro è spesso ciò in cui più l'ingenuo è chiuso. Se così non fosse, oh da quanto tempo si sarebbe trovato ciò che tanti laboriosi dotti sì avidamente cercarono!». Tutto questo è stato possibile perché «la storia vi è sì strettamente connessa con la poesia, e questa con la politica, che fia mestieri tener conto delle minime date, e de' fatti e de' nomi che pajono meno significanti; e non lasciar da banda né l'araldica, né gli acrostici, né gli anagrammi, né gli equivoci d'ogni maniera, poiché di tutto ciò valevansi que’ paurosi per tesser frodo». Siamo, come si vede, nel regno della cabala e non in quello della critica, come dovrebbe essere. Ovviamente la letteratura allegorico-didattica, per il suo «intento generale che è didascalico e non poetico», era assai incline a sostenere le proposizioni e deduzioni rossettiane. Infatti il Barberino, illustre esponente di tale letteratura, nelle sue opere «pare sovente che ragioni alla mera lettera» ma appena ci si inoltra nella loro lettura ci si accorge che l'autore «nel parIare del contrastato fine nell'additare gli ostacoli da schivarsi, i mezzi a prendersi ed aItri simili cose, tosto il gergo riprende il suo campo». Da tutto questo ne consegue che «nel libro de’ Documenti d’Amore tu vedi quasi Io stesso andamento della Divina Commedia; anzi Ie due opere son la stessa cosa, una in precetti, l’altra in esempj. Qual è il processo del nostro poema? Il dicemmo: schifare i vizj nella meditazione dell'Inferno; acquistare le virtù contrarie nella pratica del Purgatorio; e pregustare il bene che ne risulta nella immagine del Paradiso. E questo medesimo forma il principale scopo de’ Documenti d'Amore; scopo ch'è spiegato fin dal Proemio dell'opera». Come il Berberino vengono intesi Cecco d'Ascoli, Fazio degli Uberti, Federico Frezzi e tutti gli altri che più d'uno spunto potevano offrire alle teorie rossettiane.
Ma per il Rossetti l'interpretazione allegorico-morale delle opere dantesche non si isola nelle sue pur dotte e artificiose disquisizioni, ma investe un tema più vasto, quello politico, a cui nequizia di tempi e traversie personali lo rendevano particolarmente incline. In questo campo tutte le risorse dialettiche del Rossetti vengono mobilitate per trasferire nel mondo e nei tempi di Dante le proprie esperienze politico-culturali e viceversa. Si assiste, così, ad una continua commistione di storia, letteratura, di passioni, di ideali, di speranze e di delusioni che fanno da sfondo all'intera esegesi rossettiana.
La Commedia e tutte le Opere, che del poema sono anticipazione e illustrazione, sono imperniate, secondo il Rossetti sul Ghibellismo ; anzi l’origine stessa del poema ubbidisce a questa esigenza particolare perché «era già da molto tempo che l'acuto spirito di Dante avea scorto che per fare un lungo poema Ghibellinesco mal avrebbe potuto riuscirvi con quel limitato frasario amoroso della sua setta»; ecco perché si decise di cambiare il linguaggio amoroso per quello dommatico con cui «si apriva un vastissimo campo d'immaginare e di esprimere; e quel ch'è più, conciliava alla sua opera l’attenzione e la benevolenza de' due partiti fra i quali vivea. I Ghibellini l'avrebbero preso a verso loro, e i Guelfi al loro; e così la Politica vestita da Religione metteva d'accordo lettori dissenzienti. Questa è l'origine della riforma, ch'eì propose ad Arrigo, questa è l’origine anche del suo poema, il quale fu senza il minimo dubbio scritto interamente dopo la morte di quel Cesare». A ben riflettere, una volta impostata in tali termini l’origine della Commedia, scaturiva che si giustificava la differente ispirazione del poema e delle altre opere; si acquisiva alla Commedia tutto il grande travaglio intellettuale ed umano del poeta in quanto essa fu scritta a termine della sua vita; si coloriva solo di Ghibellinismo l'intera opera, che nasceva dopo le delusioni per l'impresa di Arrigo VII; s1 accoglieva l'istanza romantica dell'ispirazione folgorante; si riconosceva l'esigenza del linguaggio settario in tempi tristi e carichi di diffidenza. Da queste considerazioni ne consegue che «è ben vero che la Divina Commedia è un libro sigillato, e i suoi sigilli son sì duri ch'è dato indicarli e non romperli; ma non è men vero che gl'interpreti han fatto sinora ben poco per ottenere il loro intento, mentre son tanti i dati da cui l'allegoria può risultare». D'altra parte lo stesso Dante per un preciso disegno ghibellinesco non ha contribuito a facilitare l'intelligenza del suo poema con le altre sue opere, fatta eccezione della «lettera a Can Grande, con la quale a lui intitola il Paradiso e nella quale era portato a parlare della cosa dedicata». Eppure tutte le «sue opere in prosa furono da lui scritte per solo fine d'illustrare la Commedia; ma siccome sono per lo più in gergo, così niuno se n'è mai accorto. E nello scriverle ha avuto cura di non mai nomarvi la Commedia per non richiamare a questa l'altrui pensiero; e lo stesso non averla mai nomata mostra quanto ci tenea che la parte avversa si accorgesse di che trattassero quelle opere. Scrisse prima in gergo la Vita Nuova, per narrare l'origine, le funzioni e l'essenza della Commedia, e poi accorgendosi della quasi invincibile difficoltà di quella chiave, scrisse il Convito per renderne più agevole l'uso né di ciò pago, scrisse anche la Volgare Eloquenza per lo stesso fine. Ma non mai abbandonato dalle sue paure fè sì che i due supplementi fossero poco meno ardui di quella; e quel ch'è peggio que' due supplementi o non furono da lui finiti, o non ci pervennero interi; forse perché le parti più pericolose furono da altri distrutte». Non vi sono, quindi, per il Rossetti più dubbi sull'origine ghibellinesca del poema, sul tempo di composizione, sulle sue allegorie politiche, sulla totale interpretazione in chiave settario-ghibellìnesca delle opere e del pensiero di Dante.
L'apparente contrasto tra il tempo dell'azione del poema e quello di composizione è anch'esso un espediente «per far cadere il lettore in mille errori e distorgli la mente dal vero oggetto principale». Errore in cui caddero «alcuni biografi, i quali spacciarono che il poema fosse scritto in gran parte prima assai che di Arrigo pur si parlasse, e che anzi un bel tratto del poema stesso fosse composto avanti che Dante venisse espulso da Firenze. E così per lungo tempo nessuno poté nella Lupa del primo canto ravvisar la Corte Romana, che produsse l'esilio del poeta; poiché quel primo canto era stato (e l'assicurava il Boccaccio), scritto prima dell'esilio del poeta. E quantunque nel canto VI Ciacco parli manifestamente di un tale esilio, pure si andò dicendo che il poeta aveva inserite quelle parole assai dopo. Rimedio con cui la Critica crede guarir molte piaghe di disperata medela». Tutta l'esegesi, in tal modo, viene fortemente condizionata dal fattore politico, come appunto si proponeva il Rossetti fin dall'inizio.
Egli, uomo di parte e di forti passioni politiche, trasferisce nella Commedia le proprie vicende compiacendosene. D’altra parte i tempi di Dante avevano sorprendenti analogie con i suoi, allora come ora «l'Italia non avendo una concorde unità, dalla quale risultasse la sua forza e la sua indipendenza, anzi avendo nel suo stesso seno il germe maligno della discussione e della debolezza, diveniva misera preda di quanti stranieri eserciti veniva a conquistarla a pezzo a pezzo»; allora come ora « era solerzia e cura de' Pontefici di non soffrire in Italia un solo dominatore che tutta la reggesse, per timore che con la sua forza preponderante dettasse le leggi anche a loro»; allora come ora l'Italia era «divisa in tanti piccioli stati, dipendenti da cento capi». La salvezza il Rossetti, come Dante, la vedeva nell'unità territoriale dello Stato e nella libertà del suo popolo. Occorreva però essere diffidenti del potere ecclesiastico, interessato a mantenere l'Italia in «servitù» e quindi bisognava combatterlo, compito non facile perché la Chiesa sfruttava abilmente le discordie fra i vari stati e solo in tal modo «i papi riuscirono a dividere i popoli, rendendo in loro colpevole la carità della patria, traendo da un sentimento di virtù il germe del più malefico vizio, e trasformando lo stesso desiderio di libertà in istrumento di servitù. Fraude non ravvisata se non da que' sapienti i quali, elevandosi a più alte mire, nel vedere la vera nascosta origine della comun miseria cercavano opporvi un riparo. Essi piangendo sulla prolungata servitù dell'antica dominatrice delle genti, i cui figli cantavano stoltamente libertà al suono delle loro catene, non si rimasero inerti spettatori di cotanta sciagura; onde, cercando svelar l'inganno con illuminare i popoli, professavano una politica ben diversa da quella de' Papi». Si spiega in tal modo tutto il settarismo dantesco e la nascita del partito antipapale, perché «lo scopo della filosofica Setta Ghibellina era quello di stabilire la unità d'Italia, e di rettificare il reggimento civile e la disciplina ecclesiastica, per bene del loro paese e della umanità». La libertà, l'ideale per cui il Rossetti, uomo del Risorgimento, combatteva e affrontava disagi senza fine era anche l'ideale dei Ghibellini e quindi di Dante. C'era quindi tra il divino poeta e il suo commentatore una comunione d'intenti, una solidarietà di vita e, questo sembrava al Rossetti l'elemento per lui più esaltante, una spirituale affinità. Non sono questi raffronti nostre forzate deduzioni, poiché lo stesso Rossetti ci offre, nel Commento al Purgatorio, da noi pubblicato, la spiegazione di tutta la sua vasta esegesi dantesca. Infatti ivi scrive: «Qual era lo scopo della Setta Ghibellina? Un imperadore universale. Qual è il termine del viaggio di Virgilio? La gloriosa Beatrice. E varie volte nel corso del pellegrinaggio ei la rammentò al suo seguace, e con questa promessa rianimò spesso le stanche forze di lui. Dunque se Virgilio è figura della setta ghibellina, Beatrice, ch'è il termine del suo corso, non può essere che figura di altro che dell'Imperadore». Chiara, quindi, e inequivocabile è l'interpretazione ghibellina della Commedia; ma in pari tempo anche l'allusione alle vicende ottocentesche non può offrire dubbi. «L'Italia, scrisse egli in proposito, da gran tempo è un corpo politico sbranato e cancrenato; e vedemmo che a' tempi nostri alcuni che bramavano ricongiungerne i brani e curarne le cancrene, formarono una setta segreta detta dei Carbonari. Essi per andar di concerto fra loro avevano adottato segni arcani e linguaggio convenzionale». Ma c'è di più, l'analogia tra Ghibellinismo e Carboneria è ancora più marcata, perché come il Ghibellinismo anche «la setta de' Carbonari aveva un oggetto politico e intanto si nascondeva sotto emblemi dì religione». L'accordo tra età dantesca e tempi presenti è, quindi, secondo il Rossetti, inequivocabile e in fondo le proprie vicende personali si configurano in quelle del divino poeta.
Rivive in tutta questa allegoria politica del Rossetti la grande vicenda storica, di cui egli, come Dante, fu attore e vittima; si riodono tutte le voci del possente coro di martiri e di patrioti che sui patiboli, nelle carceri, negli esili, sulle barricate e sui campi di battaglia chiedevano la libertà; si rivive la forte passione risorgimentale. Il Rossetti immolava alla patria e alla libertà l'arte e la poesia, tormentava il suo pensiero alla ricerca di spunti che potessero giovare agli ideali politici degli uomini liberi, sostituiva alla spada, che dovette abbandonare nell'ultima disperata battaglia per la libertà, combattuta ad Antrodoco, la penna con la quale sferzava parimenti tiranni e prepotenti. Egli intendeva continuare con la milizia letteraria la propria milizia politica e Dante con le sue forti passioni e con le sue drammatiche vicende, con i suoi odi e con le sue vendette gli offriva con lo studio delle sue opere il pretesto per combattere ancora la propria battaglia. Mai, nelle brume londinesi, dimenticò la patria lontana le cui vicende lieti o tristi sempre seguì con speranze e delusioni, mentre ne suoi scritti riecheggiavano i grandi temi del momento politico. Ma questo atteggiamento non era per lui innaturale o contrario alla morale anzi si accordava perfettamente ai suoi principi etico-patriottici, che costituivano la base del vero umano e del sublime eterno. In tale prospettiva bisogna intendere e valutare l'opera critica del Rossetti, che nel nome della patria deve essere assolto anche da alcune tesi a volte speciose e fantasiose.
Ognuno si può rendere facilmente conto come questi scritti, fortemente condizionati dal patriottismo, abbiano operato sulle coscienze ottocentesche e quale stimolo abbiano esercitato sui protagonisti del nostro Risorgimento. Non solo il Settembrini risente di questo indirizzo esegetico, il ghibellinismo, ma il Mazzini e lo stesso De Sanctis che pone alla base della genesi della Commedia il concetto che «Dante, come è stato ben osservato, cercò di placare i suoi patimenti le sue sconfitte e la ingiuria subita, sciogliendo l'enigma di questo mondo in un altro». C'è, quindi, nella critica dantesca rossettiana una tale carica di patriottismo che molti, volenti o nolenti, ne furono contagiati.
Ai motivi cardini dell'interpretazione rossettìana, che abbiamo individuati in quello allegorico e in quello politico, si deve aggiungere un terzo, quello propriamente filologico-erudito. Infatti la lettura del Comento ci scopre zone in cui la documentata preparazione erudita e filologica dell'autore si esercita con intelligenza ed acume. Sono sempre presenti nella sua disamina le interpretazioni dei commentatori antichi e moderni, le lezioni dei vari codici, le diverse posizioni critiche, che discute con competenza ed efficacia. Ecco perché nella storia della critica dantesca e, più in particolare, nella storia dei commentatori della Commedia gli spetta un posto di grande rilievo, che incautamente gli si contesta in quanto ci si ferma solo allo studio iniziale del settarismo o dell'allegorismo e si tace dell'interpretazione politica in chiave romantica di tutta l'opera dell'Alighieri e dell'interesse fìlologico-erudito per il suo poema. A quest'ultimo proposito si legga la finezza di questa chiosa al «Tacette allora e poi comincia'io» dell'Inf. II, 75 «Mi piace leggere col gran Certaldese tacquesi, piuttosto che tacette con l'Accademia della Crusca, la quale preferì questo a quello, forse più Fiorentino che Italiano. Non ignoro che Dante scrisse tacetti altrove, ma il fe' per rima; così scrisse anche aia per abbia, ed altre simili licenze. Siccome però non ha detto mai aia fuori di rima, così è probabile che non abbia neppur detto tacette a principio di verso. Non credo necessario indicare i fonti da cui ho tratto tutte le altre lezioni che diversificano da quelle che si leggono nella edizione dell'Accademia, poiché sono oramai notissimi, dopo che il codice Bartoliniano già stampato, e le varianti rapportate dalla edizione Romana del 1820, accreditatissimi manoscritti van per le mani di tutti». Nonostante la lezione migliore sia «tacette», che, d'altra parte, è stata anche opportunamente accolta dal Petrocchi nella sua fondamentale edizione critica della Commedia il ragionamento rossettiano ha una sua logica e ci rivela la vasta informazione erudita del1 'autore. Lo stesso può dirsi della preferenza che dà alla lezione « sì ch'io mi riscossi» invece di « sì ch'i' mi riscossi» (Inf. IV, 2) e le ragioni, che vi apporta, ci dicono come intendesse con misura e raziocinio le varianti dei codici: « Nulla di più saggio, infatti scrive, che rispettare i vecchi codici senza alterarne il minimo pelo delle parti, dirò così, vitali; ma nulla di più saggio ancora che accomodarli ai nostri occhi e alle nostre orecchie nelle parti meramente accidentali, che non gli alterano di un jota: il che è principalmente della ortografia che vuoli adottare ai tempi ». Anche le sue errate interpretazioni denunziano una lunga e attenta lettura di Dante nonché la presenza di quelle sottili e dotte discussioni fatte dagli studiosi che lo precedettero. Così la spiegazione che dà della seconda strofa del proemio e del primo verso della terza riecheggia tutti i termini della letteratura esegetica in proposito: «E quanto a dir male era questa selva selvaggia ed aspra e forte, che al solo pensarvi rinnova in me la paura, è cosa assai dolorosa: è tanto amara cosa, che la morte stessa è poco più amara». Questa interpretazione non prescinde dalle lunghe disamine del Landino, del Vellutello, del Daniel lo, del Lombardi e del Biagioli, ma quelle vuole integrare e chiarire. Sorprendentemente moderno ci sembra poi il Rossetti quando accoglie lezioni che la logica e la cultura suggeriscono come a proposito di Cerbero che « graffia gli spiriti ed ingoja ed isquatra» (Inf. VI, 18), come egli scrive: dove erra nel preferire ingoja ad iscoia, lezione preferita a buon diritto dal Barbi, ma colpisce nel segno con ed isquatro che per Petrocchi è «la lezione più persuasiva anche per l'analogia al verbo precedente» ed è «forma più normale che non un disquatrare di cui non si conosce altra attestazione» e per il Rossetti è voce che rende bene l'azione di Cerbero che « graffia e squarta gli spiriti perduti ». Sempre di tale fattura, ossia sostenuto da una vigile coscienza logica ed erudito-filologica, sono le interpretazioni rossettiane, di cui ognuno può rendersi anche conto leggendo il recentemente edito Comento al Purgatorio, ove, dopo anni d'indagini, l'acribia del critico ha raggiunto la sua perfezione.
Il Comento al Purgatorio, infatti, pur essendo stato iniziato dopo quello all'Inferno dovette continuare a richiamare l'attenzione del Rossetti fino agli ultimi anni della propria vita. Testimonianze al riguardo non ne abbiamo, però la citazione nel corso del Comento di opere uscite nel 1841 e alcune confessioni nel corso di altre opere edite ci fanno ritenere che egli dovette fino alle soglie della morte se non attendere per lo meno pensare all'opera, da noi testè pubblicata. Le precarie condizioni di salute, le amarezze per le tante polemiche accesesi intorno alle sue opere, le avversità della vita si combinarono, come s'è detto, con le pur valide e più forti ragioni di modificati interessi esegetici e l'opera non fu portata a compimento. Egli sentiva che qualcosa, dopo tanti lavori, gli sfuggiva, mentre anche l'interesse politico, dopo le delusioni quarantottesche, aveva perduto il suo mordente. L'ideale politico per lui era stato più che una passione e aveva sognato che esso presto o tardi avrebbe dovuto trionfare; ma con la reazione scatenatasi in Europa dopo il 1848 c'era più posto per gli ideali di patria e di libertà? D'altra parte tutto il Comento era tuffato nella visione politica dell'autore ed ora come si potevano accordare i presenti eventi con le sue tesi? Né la Chiesa, per la quale, nonostante tutto, egli proclamava ossequio e rispetto gli risparmiava fulmini ed anatemi. In tutte queste traversie l'animo suo era esacerbato, e la volontà si fiaccava mentre molto prima della vita declinava la vista e la salute. Era, come si vede, in uno stato di estremo disagio per ciò non era in condizioni di continuare con i suoi scritti quella battaglia che aveva per tanti anni esaltato il suo ingegno e acceso le sue operose passioni. Era quello del Rossetti uno squallido tramonto, mentre altri s'impadronivano delle sue tesi o plagiavano le sue opere.