Dati bibliografici
Autore: Giorgio Padoan
Tratto da: Enciclopedia Dantesca. Vol. III
Editore: Treccani, Roma
Anno: 1970
Pagine: 883-884
Personaggio mitologico; figlia del re Forco e di Ceto, chiamata anche Gorgone (v.) come le sue due sorelle maggiori, viveva nelle isole Dorcadi, nell'Oceano etiopico. Nettuno, innamoratosene, la possedette in un tempio dedicato a Minerva; onde sarebbe poi nato Pegaso. Minerva, sdegnata per l'oltraggio, mutò i capelli di M. in serpi, e il volto della fanciulla, divenuto mostruoso, acquisì potere di pietrificare chiunque lo mirasse.
Accanto a questa - riferita ampiamente da Ovidio Met. IV 793-803 - circolò nel Medioevo un'altra versione, sorta per banalizzazione in analogia con altri miti: M., superba della propria bellezza, avrebbe osato sfidare la dea attirandosi perciò quella tremenda punizione.
M. fu affrontata poi da Perseo, che, avvalendosi dello scudo datogli da Minerva come di uno specchio, spiccò dal busto il capo mostruoso portandolo con sé; alcune gocce di sangue cadute sulla sabbia libica popolarono di serpi quella regione. La testa di M. continuò a conservare intatto il suo terribile potere, come conobbero con loro danno i nemici di Perseo e Atlante, perciò mutato in monte (cfr. Met. IV 614-620, 642-662, 744-752, V 177-249); secondo alcuni poeti, il capo di M. sarebbe stato quindi posto al centro dell'egida, o della corazza, di Minerva (Aen. VIII 435-438). Nulla è riferibile delle due Gorgoni sorelle di M. se non i nomi: Steno ed Euriale; Ovidio afferma però che esse avevano tra tutte e due un unico occhio, che usavano a vicenda, e non erano anguicrinite come M. (cfr. Met. IV 791-792). Comunque il numero delle sorelle, l'aspetto mostruoso della più importante e soprattutto la sua orribile chioma non poterono non accostare le Gorgoni alle Furie (cfr. ad esempio Aen. VII 341 "Gorgoneis Allecto infecta venenis"): e tra i mostri dell'oltretomba, accanto alle Furie, le pone appunto Virgilio (Aen. VI 289).
Delle tre Gorgoni D. menziona la sola M., il cui intervento è invocato dalle Furie dinanzi alle mura della città di Dite: Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto (If IX 52). La minaccia di pietrificare D. per mezzo del Gorgone (la forma al maschile - forse per riferimento al capo reciso di M. - era corrente nel volgare trecentesco) non è vana se Virgilio, profondamente preoccupato per tale possibilità, fa voltare il suo discepolo e, non pago che egli si sia anche posto le mani sugli occhi, gl'impedisce la vista ancora con le proprie: ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, / nulla sarebbe di tornar mai suso (vv. 56-57). D. sottolinea con forza l'importanza dottrinale di tale episodio avvertendo anzi apertamente il suo lettore che il testo dev'essere inteso anche secondo il senso allegorico (O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / mirate la dottrina che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani, vv. 61-63); e dunque nel corso dei secoli sono state avanzate numerose interpretazioni, le più disparate, sul significato allegorico di quel tentativo di opposizione dei diavoli e della venuta del Messo, e anche sul valore da attribuire alla minaccia delle Furie.
I più dei commentatori antichi riferiscono pressoché meccanicamente le significazioni che del nome M. trovavano presso mitografi e chiosatori medievali: "terror" e "oblivio", mentre "Gorgones" era spiegato secondo una pseudo-etimologia "quasi terrae cultrices" (e pertanto le Gorgoni, in particolare M., avrebbero avuto un regno ricco e potente); gli esegeti moderni, che per lo più si sono rifatti a quelle medesime indicazioni, hanno avvertito la necessità di ragionarle un po' di più arrivando in qualche caso a proporre leggere modifiche (M. sarebbe la disperazione dettata dai rimorsi della vita passata, la coscienza del peccato, l'oblio dei propri doveri di cristiano, i beni mondani che impediscono la redenzione, e simili; altre spiegazioni, come l'astuzia, la libidine, ecc., non meritano considerazione). Ma nessuna di queste spiegazioni è realmente soddisfacente, anzitutto perché rimangono dato meramente esterno e sterile rispetto alla drammaticità con la quale il poeta cristiano narra la più pericolosa e tenace delle opposizioni da lui incontrate lungo il viaggio infernale: il che presuppone un preciso intendimento in stretta attinenza all'episodio che quella narrazione introduce: l'incontro con gli eretici. L'unica resistenza delle forze del Male che Virgilio, non illuminato dalla fede cristiana, non è in grado di vincere da solo avviene non a caso presso le mura della città entro la quale è punito il peccato contro la fede; e dunque perspicuamente il lana ha indicato nella M. dantesca il demone dell'eresia (chiosa poi stemperata da qualche moderno nel più generico "dubbio religioso"): ma non ha dato ragione di come mai M., cui i mitografi concordemente attribuivano altro significato, abbia potuto assumere questo. Alcuni fruttuosi accenni in questo senso si trovano però nel Boccaccio. Egli, seguito dal Buti, vuole che m. sia il demone dell'ostinazione: e l'indicazione acquista di peso dal momento che il certaldese non faceva che raccogliere una chiosa circolante da tempo, e non solo tra gli esegeti danteschi (cfr., ad esempio, Armannino nella Fiorita o Mino D'arezzo nelle Spiegazioni in terza rima della Commedia).
Sta di fatto che il concetto trova rispondenza in vari particolari della rappresentazione dantesca: il barricarsi dei demoni dietro le mura di ferro (osserva il Buti: "e questa è conveniente finzione che la città ove si puniscono li ostinati peccatori abbia le mura di ferro, che significa l'ostinazione"), il potere del Gorgone di mutare in sasso (Boccaccio: "la sassea e dannosa opinione" degli eretici), le parole del Messo che proprio l'ostinazione stupida e inutile rimprovera ai demoni di quel cerchio: i demon duri (cioè appunto ostinati), come li chiamerà il poeta in If XIV 44. E il peccato di eresia in sé e per sé non consiste nell'opinione errata ("Haereticare potero, sed haereticus non sum" suonava una formula diffusissima) quanto piuttosto nell'ostinarsi nell'errore anche dopo che esso è stato contestato e chiarito come tale dai dottori della Chiesa (onde "errare humanum est, perseverare dyabolicum"); gli eretici erano pertanto condannati "ut pertinaces": pertinacia che colpiva l'uomo medievale destando in lui meraviglia e orrore insieme, poiché per essa gli eretici, piuttosto che riconoscere la verità (cioè quella che per il medievale era l'unica, indiscussa ed indiscutibile verità), preferivano salire sul rogo. Ora fra tutte le eresie quella cui più guarda D. - come si chiarirà nel canto X - è l'epicureismo, che egli considera atteggiamento di vita sostanzialmente materialistico, e perciò inteso esclusivamente agl'interessi, passioni, affetti terreni e del tutto svincolato dal fine ultraterreno: il che ci riconduce appunto al Gorgone "terrae cultrix".
A. Bassermann, in "Deutsche Dante-Jahrbuch" n.s., I (1828) 52-57; G. Busnelli, in "Bull." XX (1913) 24-25; G. Padoan, in "Convivium" n.s., XXVII (1959) 12-39; XXVIII (1960) 716-728.