Dati bibliografici
Autore: Dante Della Terza
Tratto da: Studi su Dante
Editore: Feltrinelli, Milano
Anno: 1966
Pagine: XI-XVI
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Figura è invece prima di tutto una ricerca sulla concezione figurale cristiana, cioè su una dimensione culturale che abbraccia tutta una complessa letteratura edificante, e solo secondariamente un tentativo d’interpretazione della Divina Commedia. Come mai allora noi attribuiamo a questo scritto un valore fondamentale per la conoscenza del pensiero critico dello Auerbach su Dante? Lo Auerbach sembra essersi reso conto che un’analisi dei rapporti tra struttura e poesia nella Commedia non può condurre a risultati esegetici soddisfacenti se prima non viene definito il significato della struttura stessa. Ora questa non va solo-intesa come la cosmogonia d'origine aristotelico-tomistica che costituisce l’impalcatura delle cantiche, ma come un principio di costruzione valido a scoprire il meccanismo che fa scattare il destino poetico dei personaggi danteschi. Che all’individuazione di questa struttura si debba poi giungere allargando l’indagine a tutta la civiltà cristiana, si può comprendere solo partendo dalla considerazione che, mentre per lo Auerbach del saggio del ’29 le considerazioni su Omero e Sofocle erano solo metafore qualificanti la sua critica dantesca, per quello di Figura l’intelligenza di Paolo, Tertulliano, Agostino, Bernardo di Chiaravalle è assolutamente propedeutica ad una lettura consapevole della Divina Commedia.
Questa strategia d’avvicinamento a Dante spiega non soltanto Figura, ma anche gli altri saggi che sono compresi in questa raccolta. È come se una volta scoperto il principio di costruzione che è alla base della. Divina Commedia il critico volesse affinare i suoi strumenti di lavoro ora saggiando questo principio nell’analisi specifica d’un canto (l'XI del Paradiso), o nell’individuazione poetica d’un personaggio (e qui bisognerebbe rimandare il lettore al saggio su Farinata e Cavalcante in Mimesis), ora convogliando nuovo materiale ai fini d’una futura lettura globale della Commedia.
La nuova direzione della critica dantesca dello Auerbach procede su due piani perfettamente complementari ed in ultima analisi convergenti: egli cerca da una parte di seguire la destinazione del sermo humilis cristiano, che autorevolmente rinnega la separazione degli stili postulata dagli scrittori classici, nei dialoghi o nelle descrizioni della Commedia, dall'altra cerca d’applicare il principio dell’intelligenza figurale, usata da Tertulliano e da Agostino per i testi sacri, alla Commedia servendosene come: chiave interpretativa. Nascono di qui quelle analisi di particolari stilistici in cui il critico è particolarmente dotato, quella sua capacità di scorgere nell’uso d’una certa locuzione, nella scelta d’un certo giro sintattico un mutamento di gusto o una nuova interpretazione della vita, e anche quella sua capacità di mettere a fuoco, partendo da un tratto strutturale, tutto il pathos di un personaggio della Commedia.
Si tratta certo d'un modo romantico di dare rilievo al personaggio (Catone tutto vivo nell'adempimento della figura terrena di uomo libero, ora che significa la libertà dal peccato, Farinata interamente immerso nella sua passione politica, Cavalcante nella deformata prospettiva dell’eretico), ma è un romanticismo disancorato dall’arbitrio titanico in quanto è riportato ad un’interpretazione filologicamente condizionata del sistema di giustizia dominante nell’oltremondo dantesco. Anzi possiamo dire che l’afflato romantico che sembra talvolta avvicinare il Farinata dello Auerbach a quello del De Sanctis è sempre corretto dall’onnipresenza del motivo figurale che lo contraddice. Ci troviamo, in fondo, di fronte ad un rovesciamento della posizione crociana in quanto non solo poesia e struttura non si contraddicono, ma anzi non vi è altra poesia che la struttura stessa. Dire il modo in cui si muove la fantasia sia in questo orientamento della critica dantesca dello Auerbach un pericolo di inaridimento, che ci si possa talvolta sentire delusi confrontando i suoi ultimi saggi puntuali, ma un po’ secchi, con i suoi scritti danteschi migliori, non è cosa che si possa negare. Vorremmo tuttavia osservare che anche i saggi più ancorati ad esigenze specialistiche si sollevano dalle contingenze che li hanno dettati se mentalmente li introduciamo nel grande affresco della civiltà cristiana che il critico è venuto tracciando in tutta la sua carriera di studioso. Come tutti i critici di grande temperamento, lo Auerbach opera una scelta e su di essa costruisce il suo edificio storico-culturale. Si tratta di una scelta audace poiché piena di conseguenze interpretative che coinvolgono tutto il Medioevo, ma ancorata ad una folta documentazione filologica, dalla quale l'intuizione teorica riceve vichianamente giustificazione. La scelta di cui parliamo riguarda la prevalenza dell’interpretazione figurale su quella allegorica nella stagione più produttiva del cristianesimo occidentale e nella più grande poesia del Medioevo ed essa non è stata formulata senza provocare dibattiti.1 Il limite e la forza di essa è nella sua natura di principio di costruzione, nella sua illimitata espansione rispetto alle fonti a cui si richiama. Vi è persino un momento in cui lo Auerbach, pur con la consueta discrezione, anticipa la possibilità che per gli scrittori del Medioevo l’opera d’arte stessa sia realtà non ancora raggiunta ed adempiuta (cfr. p. 216) e che sia figura d’una realtà e verità che ha in Dio il suo adempimento.
Ci troviamo senza dubbio di fronte ad un caso limite di espansione teorica del principio figurale, di cui, come abbiamo notato, neppure l’autore appare indiscriminatamente convinto; ma quanto questo principio ci aiuta a penetrare nel mondo della poesia medioevale? Quanto ci aiuta a leggere la Divina Commedia? Occorre dire che Auerbach pur dando il dovuto rilievo all’interpretazione tertullianea dei testi sacri, attenta alla verità storica della lettera e all'adempimento figurale di essa in un nuovo fatto storico, nel Nuovo Testamento, pur ponendo in uno sfondo indeterminato le tendenze neoplatoniche alla allegoresi della lettera, quali si trovano in Origene e Filone, non nega il valore e la presenza dell’allegoria, o di tendenze non rigorosamente figurali nel mondo della cultura cristiana. E questo perché egli, come interprete di poesia, non poteva trascurarle. Anzitutto, com’è ovvio, giacché per Dante il significato allegorico era quello che Auerbach chiama figurale e questa identificazione, in un tempo in cui l’inflazione nominalistica non aveva ancora avuto luogo, doveva pur avere un senso, ma anche perché, in occasioni particolari l’allegoria, intesa nel significato che ad essa attribuiamo noi, poteva essere recuperata nella poesia e doveva essere riconosciuta dal critico nella sua vera natura. È da citare il caso dell’allegoria della Povertà che nella sua forza di metafora amorosa, che è anche suggerimento di repugnante connubio, domina il canto di S. Francesco, su cui lo Auerbach ha scritto pagine assai acute. In altre circostanze la rottura del figuralismo classico e la presenza di forme spurie (come quelle usate da Gregorio di Tours che applica il metodo figurale a personaggi pagani o da Pietro Comestore nella sua Historia scholastica) può servire a fare entrare nel giro dell’interpretazione figurale atteggiamenti, momenti e personaggi danteschi che difficilmente avrebbero potuto penetrarvi. Così, ad esempio, contro l’ipotesi allegorica del dantista e teologo domenicano Mandonnet, lo Auerbach afferma il significato figurale di Beatrice, ma se il secondo termine della figura, l'adempimento, è la Beatrice della Commedia, il primo termine non è il personaggio storico Beatrice, ma Beatrice come realtà psicologica e spirituale. Parimenti, i personaggi storici Catone e Virgilio, pur appartenenti al mondo pagano, diventano importanti pedine dell’universo dantesco, ed entrano, attraverso la via suggerita da Gregorio di Tours, nel mondo figurale.
Quanto all'importanza del metodo figurale nella sua relazione con la poesia della Commedia, ci pare che essa vada giudicata piuttosto che dal punto di vista dell’universalità del principio interpretativo, nei risultati concreti che esso ci ha dato di volta in volta nei singoli saggi dello Auerbach. L'applicazione del principio strutturale s'identifica negli scritti migliori di quest’ultimo con l’intuizione che egli ha avuto di questo o quell’eterno momento della poesia dantesca. In questa misura si può parlare, malgrado il carattere teologico ed euristico del metodo a cui s'ispira, dell’inimitabilità della critica dantesca dello Auerbach. Nella lettura individualizzante di singoli canti ed episodi la critica del- lo Auerbach è particolarmente efficace nel momento in cui la sua interpretazione strutturale coincide con il movimento interno della poesia della Commedia. Dopo aver seguito ad esempio l'interpretazione figurale del canto di S. Francesco, parole come archimendrita, sole, Ascesi, Oriente, e tutte le metafore connesse col linguaggio che rispecchia l'imitazione della vita di Cristo da parte del santo appaiono illuminate da una luce nuova e si rivelano in tutta la pienezza del loro significato poetico. Lo stesso accade per l'episodio di Cavalcanti di cui si legge in Mimesis. Anzi, in questo caso un'osservazione rapidissima, presente nel saggio del '29 e inspiegabilmente soppressa nello scritto dantesco di Mimesis, viene illuminata retrospettivamente dall’interpretazione figurale. Parlando dell’incontro tra Dante. e Cavalcante, Auerbach aveva scritto che Cavalcante nel ricadere supino aveva mostrato indifferenza per la sorte ultraterrena di Guido, gli ‘era bastato -sapere che egli non era più vivo, e la sua morte presunta aveva assorbito tutta la sua patetica attenzione di padre deluso. Naturalmente una spiegazione psicologica, di quelle in cui il De Sanctis si mostrò maestro, apparirebbe semplicemente tautologica: dire che Cavalcante non poteva interessarsi d’altro, nel tragico momento in cui crede di apprendere la morte del figlio, che del fatto stesso di quella morte; non spiega la natura del suo pathos, la ragione per cui l’empito della sua sofferenza si infrange contro la barriera della sorte terrena. La verità è che in questa sofferenza ancorata alla vita si realizza la sua figura terrena di eretico, e ci pare che qui l’interpretazione dello Auerbach ci aiuti meglio a capire il grande episodio dell’Inferno.
Accanto alle interpretazioni figurali di maggior respiro ve ne sono tuttavia altre, meno vistose, che possono essere considerate la riprova capillare del metodo di lettura suggerito dallo Auerbach. Tali interpretazioni occorrono specialmente nei saggi del periodo americano che abbiamo collocati a conclusione di questa raccolta dantesca. In essi il principio di costruzione figurale si concentra sul significato d'un nome, d'un costrutto imprevisto, d'una sentenza apparentemente trascurabile, proprio sulla falsariga dell’esegesi dantesca pit consueta. Le due vie seguite comunemente dal critico, quella retorica e stilistica (confronto delle apostrofi classiche con le dantesche, degli elogi dell’innografia cristiana con la preghiera alla Vergine nel Paradiso) o quella contenutistica e storica (studio della figura di Saul nella tradizione patristica e nell’intuizione dantesca) convergono, malgrado il limite dell’indagine, verso lo stesso ambizioso risultato: il recupero dell’esatta prospettiva della cultura dantesca verso il passato biblico.
Non è sorprendente che questo condizionamento della Commedia rispetto alla Bibbia, intesa come libro scritto da Dio, e quindi rispetto a noi lettori che il Rinascimento e l’Illuminismo hanno definitivamente staccati dalla concezione sacrale del libro, abbia finito col fare risaltare le analogie tra i due libri e quindi il carattere profetico della poesia di Dante. Chi ha una certa consuetudine con la critica dantesca americana di questi ultimi anni sa quanto peso abbia avuto la lezione dello Auerbach sui dantisti americani, e specie sul più geniale di essi: Ch. S. Singleton. Il Singleton applica, infatti, con molto rigore il metodo figurale alla lettura della Commedia e rifacendosi alla Lettera a Cangrande oppone al Convivio, scritto secondo l’allegoria dei poeti, la quale si serve della bella menzogna per nascondere la verità, il maggior poema di Dante, scritto secondo l’allegoria dei profeti, per la quale la lettera è vera e reale altrettanto quanto quello che essa significa. Nella Commedia vi è un viaggio nell’aldilà, reale e scritto da Dio, proprio come i testi sacri (Dante non è che lo scriba), il quale si collega ad un altro fatto o evento: il nostro viaggio sulla terra; ed entrambi puntano verso Dio? Code- sto atteggiamento del Singleton, fondato sull’intuizione dello Auerbach, che considera il concetto figurale come il principio di costruzione della Commedia, è di tanto più notevole in quanto forza la mano al tradizionale possibilismo degli studiosi dei problemi estetici del Medioevo. È da notare, infatti, che costoro, vicini in questo alla posizione del Curtius, registrano la coesistenza delle due allegorie nella cultura medievale, e, specificamente, nella Divina Commedia, per quanto preferiscano chiamare tomisticamente “parabolismo” l’allegoria dei poeti. Con più chiarezza tale punto di vista è stato espresso da E. De Bruyne nel suo libro: L'esthetigue du Moyen Age (Louvain 1947) dove egli scrive tra l’altro (p. 99): “Que du parabolisme profane on passe. parfois à l’allegorisme théologique, une oeuvre comme la Divine Comedie suffit è le prouver.”