Dati bibliografici
Autore: Ernesto Giacomo Parodi
Tratto da: Bullettino della Società Dantesca Italiana
Numero: VIII
Anno: 1900-1901
Pagine: 89-92
La lettura continuata della Divina Commedia, che da due anni si seguita in Orsamichele, con molto decoro della città ch’ebbe il ponderoso onore di dare i natali al poeta, e con molto concorso e plauso di pubblico, giunse nel 1900 alla fine della prima Cantica. Oltre ai vantaggi che possiamo supporre ne sieno venuti o sieno per venirne alla cultura cittadina e alla diffusione dell'amore e del culto di Dante, essa lettura ha pur portato pregevoli frutti di ricerche critiche ed erudite; di che sono prova e documento le conferenze che ci stanno dinanzi, in tutto o in parte già pubblicate, e saranno, non dubitiamo, quelle che sì stanno preparando per la stampa. Si verrà così raccogliendo un Commento sui generis alla Commedia, utile a tutti, il quale, sorvolando sulle minime cose, informerà piuttosto i lettori dei concetti generali del poema e darà parte precipua allo studio, non pedantesco, del significato e dell’arte di esso. È sperar troppo? Ma sarà già abbastanza ottenuto se ci avvicineremo in parte all’ardita speranza.
Il D'Annunzio della sua lettura sul canto ottavo non ci dà che due frammenti: il principio, dove a un nobilissimo saluto a Giosuè Carducci, il grande poeta, il Maestro «che ieri parti dalla città di Dante sanato e rinvigorito e pronto tuttavia al suo alto lavoro tra i voti unanimi della riconoscenza nazionale», seguono commosse parole di compianto per Giovanni Segantini; e il mezzo, la Città di Dite, la cui apparizione, «una delle imagini più evidenti, più tragiche e più concise che sieno nell’ Inferno, oscura la persona fangosa di quell’Adimaro che cerchiava d’argento l’ugne de’suoi palafreni» . Noi prendiamo le mosse dal D’'Annunzio, perché la sua lettura, coi nobili ammonimenti a coloro che sieno chiamati a interpretare il ‘magno volume’ e colla sua lirica esaltazione del poeta, acquista un significato e un interesse generale; e perché il modo com'egli penetra, da artista com'è di singolare potenza rappresentativa e verbale, e fa penetrare i gloriosi segreti dell'arte pittorica di Dante, e ciò che dice della plastica profondità del suo stile giova all’intelligenza dell'intero poema. Tutti sentono che Dante dovette possedere una portentosa memoria degli aspetti delle cose; come se al primo sguardo s'imprimessero incancellabilmente nella sua retina con tutti i loro più fuggevoli colori e i più mutevoli particolari, ed egli poi, con un puro atto di volontà, potesse trasformare, mago incomparabile, e fissare per sempre la sua intera visione nell’indistruttibile parola. E il D'Annunzio scrive: «Grida di dolore giungono al suo orecchio, lo percuotono. Egli non rimuove lo sguardo da quella parte; ma vi concentra tutta la potenza della sua vista che fra poco gli si muterà in visione terribile. Ecco l'attitudine perpetua di Dante innanzi all’ Universo. Egli è colui che vede e che vuol vedere, egli è una operosa volontà veggente. Nessun occhio umano è comparabile al suo. Le impronte originali delle cose si stampano nel suo spirito integre; e, quando egli le ferma nell’eternità dello stile, esalta il loro essere a un superior grado di vita, cui pel lor intimo ritmo esse non potevano giungere. Udite come si fa solenne e cupa la musica del verso nell’annunziare il maledetto muro. Due endecasillabi si seguono col medesimo andare misurato dai medesimi accenti, aggravato dal martello delle allitterazioni (Lo buon Maestro disse: Omai, figliuolo, ecc.)». E poi ancora, a proposito dei versi seguenti, Ed io: Maestro, già le sue meschite, ecc.: «Miracolosa virtù dello stile e della musica! Abbiamo qui il tipo delle rappresentazioni dantesche. Ponete mente alla collocazione delle parole e alla successione dei suoni. Qui tutto è necessario, e tutto converge all’ effetto come una serie di moti regolati solleva col minimo sforzo il massimo peso. La struttura delle due terzine sembra aver la fermezza e la possa che sono nel bicipite dell'atleta. Il nerbo della frase vi si tende senza tremito. E l’acume di quel verbo che dall'ultima rima della terzina sembra scagliato come da un arco! Vermiglie, come se di foco uscite Fossero.» E infine: «Tutto è qui efficace, conciso, contratto; tutto è semplice e incommutabile come la necessità: una gran somma di vita concentrata in un sol punto, una vasta visione chiusa in un cerchio adamantino che nulla può spezzare o distruggere. Questo è lo stile. La parola assume qui la dignità del più alto carattere eroico. E la legge di quest'arte è la più ardua legge del mondo spirituale.»
La Città di Dite, che nel canto ottavo manda da lontano i suoi roggi e paurosi bagliori («le rocche dei demoni — dice il D'Annunzio — si disegnano con un contorno violento come le corone dei vulcani nella notte»), a poco a poco s’appressa colle sue minaccie e co’ suoi mostri; e nel canto nono continua a spiegarsi in tutta la sua miracolosa potenza l’arte narrativa e descrittiva di Dante. Poi nel decimo canto egli ci darà il dramma umano, per tornar ancora, dopo la necessaria digressione dottrinale dell'undecimo, a descrivere e narrare nel dodicesimo.
Non che gli elementi drammatici manchino del tutto in alcuno dei canti, poiché è naturale che piccoli germogli di dramma spuntino dovunque intorno alla persona del vivo poeta, che cammina per un mondo così nuovo e così ‘diverso’; ma essi non possono e non devono svilupparsi finché il poeta non si trovi di fronte ad altro carattere umano, e il loro effetto più solito non va oltre un certo grado di comico terrore. Il Venturi osserva e commenta con finezza questi quasi spunti drammatici del canto ottavo, la reticenza di Virgilio, la paura di Dante, l’apparizione delle Furie e quella del messo celeste; e più si diffonde, com’è necessario, intorno alla parte narrativa e descrittiva, e intorno al significato allegorico dei varii episodii. Egli dice giustamente che le Furie e Medusa non potrebbero aver un significato troppo lontano da quello che loro apparteneva nell'antico mito; cosicché le prime rappresenterebbero i rimorsi e i tormenti in genere dei dannati, e Medusa la disperazione che può vincere la mente di chi li contempli, quando non lo salvino da essa l’ammonimento della Ragione (Virgilio) e l’aiuto di Dio, rappresentato dal messo celeste (che il Venturi, per fortuna, non dubita sia un angelo) . Non so se altri abbia già fatto notare che questa interpretazione dell’oscura allegoria è confermata da un passo, in certo modo parallelo, del canto decimo del Purgatorio (siamo vicini anche pel numero d'ordine). Nell’Inferno il poeta, che sta per entrare nella città di Dite, avendo scelto per esprimere i suoi concetti una vivace rappresentazione mitica, esorta, quasi imitando l'Apocalisse (XVIII, 18 «Hic sapientia est. Qui habet intellectum, computet numerum bestiae») esorta coloro che hanno gl’intelletti sani a ficcar il nerbo del viso oltre il velame; nel Purgatorio invece, quando gli s'affaccia il primo dei terribili supplizi, che l'eterna giustizia impone alle anime espianti, dubitando che alcuno dei lettori possa esserne indotto a disperare della misericordia di Dio, lo ammonisce e lo ‘conforta con gravi parole («Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi Di buon proponimento, ecc.»).