Dati bibliografici
Autore: Michelangelo Caetani
Editore: Tipografia Menicanti, Roma
Anno: 1852
Pagine: 3-21
A ben manifestare una nuova dichiarazione di un passo della Divina Commedia di Dante Allighieri rimasto ancora nell’errore della chiosa degli antichi comentatori, conviene che innanzi tratto alquanto si ragioni delle dottrine e delle condizioni che furono argomento al grande concetto del Divino Poema.
Le scienze speculative in sommo pregio a tempi dell’Allighieri erano state prodotte dagli Arabi nella origine loro in opposizione alle religiose dottrine: quindi era l’ opera de’ grandi ingegni porre ogni studio alla dimostrazione della concordia trai lumi naturali e quelli della rivelazione.
A questo nobile fine in tutto il trattato della Divina Commedia, e nelle altre sue opere adoprò l’Allighieri ogni argomento sì dell’ arte che della scienza, onde provare che l'ordine di tutte le cose, tanto negli universali, che ne’ particolari era con- sonante alla rivelazione dell’ eterno Vero.
Per lo stesso fine nel suo Poema ad ogni sagro esempio ivi ricordato allegò a testimonio di concordia altro esempio di storia come verità, o di favola come sua immagine.
Tutta la morale materia di questo trattato, chiusa in gran parte dentro l’allegoria, e disposta nel più distinto ordinamento, secondo che insegnava la scienza, servì in pari tempo con mirabile magistero a quanto domandava l’arte alla formazione del poema.
In questo la mente smarrita di Dante, per soccorso della grazia divina, ammaestrata dalla ragione in immagine di Virgilio venne condotta per la contemplazione della colpa, e della penitenza a Beatrice figura della scienza beatificante, e con questa celeste guida ascese per tutti gli effetti alla manifestazione della causa prima; e la visione beatifica fu il fine allegorico e letterale della Divina Commedia.
Come concordi apparvero per dottrine all’Allighieri la scienza sagra, e la profana a provare la universale dipendenza da un solo principio, così pure volle che a quel modo di necessità ne seguisse rispetto all’ ordinamento civile, che il mondo dovesse reggersi in monarchia, nella quale l’imperatore come potestà voluta da Dio mantenesse la giustizia e la pace fra tutti i regni della terra.
A questa sua persuasione dell’eccellenza della monarchia, dedotta dagli argomenti della scienza vi si aggiunse pure tutto l’affetto per la imperiale autorità, generato dalla dolorosa sua esperienza de’ gravissimi mali che si producevano nella sua patria dai popolari reggimenti, i quali per odj, e vendette di parti, nella vicenda di continui mutamenti, in un con la civiltà smarrivano ogni religioso e morale principio.
Nel desiderio che la imperiale autorità ponesse fine a tanto male, sostenne l’Allighieri tutto l'amaro dell’esilio, del quale la ingiuria anzichè avvilire l’altezza dell’animo suo, ne sollevò vieppiù la mente allo studio della sua scienza, introducendola figuratamente nel gran lavoro del suo Poema, nel quale a modo sensibile descrivendo letteralmente i tre stati spirituali della vita futura, espose in allegorico senso ed in materia le cose e gli affetti della vita presente.
Parve all’ Allighieri vedere nella fondazione del romano impero un manifesto volere della divina Provvidenza, dappoichè in mezzo a tal monarchia standosi il mondo tutto nella pace, avea dovuto avvenire il divino nascimento del Redentore, e l’alma Roma essere convertita nel luogo santo, nel quale poi sedesse il successore di S. Pietro. Quindi pensò esso che ogni precedente avvenimento avesse in se alcun segno di miracolo, e si studiò dimostrare provvidenziale qualunque persona, o immagine, che avesse relazione a questa mistica fondazione.
Non solamente come il maggiore poeta latino elesse l’Allighieri Virgilio per sua guida nella spirituale peregrinazione, ma ben anche perché cantore della fondazione del romano impero; e siccome avea trattato della vita futura, lo chiamò suo maestro e suo autore. Lo bello stile che facea tanto onore, e che disse aver da Imi tolto, era l’aver egli preso a cantare l’argomento stesso della seconda vita dalla discesa di Enea nell’ inferno trattata da Virgilio.
Tolse perciò ancora da quello ogni soggetto che per arte, e per materia potè introdurre nella Divina Commedia dandogli nuovo ufizio e allegorico significato, come più conveniente a poema sagro. Per tal modo fece che servissero come strumenti ed immagini del divino volere i nomi pagani di Caronte, di Acheronte, di Minos, di Cerbero, di Gorgone, di Stige, di Flegetonte, di Centauri, di Minotauro, di Arpie, di Gerione, di Briareo, di Caco, e di molti altri, che sono in più luoghi del poema figurati quando in atto e quando in rimembranza. À maggior gloria di Virgilio si compiacque immaginare, che per lume di Sibilla il quale tralucesse ne' versi della sua Buccolica, venisse illuminato il poeta Stazio alla Fede. E finalmente volendo significare con esempio il valore infinito della Grazia, prescelse Rifeo trojano, ricordato per giustissimo da Virgilio, e lo collocò fra i beati splendori del ciglio dell’aquila nella sesta sfera di Giove.
Queste cose brevemente notate sono sufficienti a rammentare con quale intelligenza e con quali dottrine debbasi procedere quando alcuno voglia farsi bene addentro nella sentenza della Divina Commedia, la quale se si mostrò difficile, e ben anche rimase non intesa in alcun canto, a coloro che furono esercitati nella vecchia scuola di queste scienze, e di tali speculazioni, d’assai più faticosa si è fatta al presente che per le nuove scienze, pel moderno uso, sono quelle interamente smarrite.
Fatte queste universali ragioni intorno alla origine ed alla materia della Divina Commedia, onde poi meglio dichiarare la particolare dottrina che si asconde nell’ottavo e nono canto dell’Inferno, si vuole prima che sia esposto distesamente tutto quel passo, quale venne dall’Allighieri descritto, e dimostrato l’errore nella sua chiosa introdotto.
Pervenuto adunque Dante con Virgilio al quinto cerchio ove punivansi gl’iracondi sommersi nella palude Stige, che cingeva d’ intorno la città di Dite, vide la sua torre far cenni di fuochi perché Flegias andasse a tragittar Dante di là da quella. Condotto esso con Virgilio dalla nave di Flegias a piè della torre innanzi alle porte di Dite, apparver su quelle più di mille demonj, che diceano stizzosamente: Chi esser costui che senza morte veniva per lo regno della morta gente? A’ quali Virgilio fe’ cenno di voler parlare segretamente. Questi chiusero alquanto il loro gran disdegno, e dissero a lui di venir solo, e che il suo compagno, che sì ardito era entrato per cotesto regno, se ne tornasse solo per la sua folle strada, onde provasse se sapea; e ch’ egli sarebbe quivi rimasto per avergli scorto sì buja contrada.
Sconfortato Dante si raccomandò a Virgilio, che dissegli non temere, dacchè questo passo non potea esser loro tolto da alcuno per esserne da Tale dato. Andò poi a parlare a’ demonj, e senza udire ciò che Virgilio loro porse, vide ricorrer ciascuno di quelli a prova dentro alle porte, e quindi chiuderle nel petto a Virgilio. Questi si rivolse a passi radi verso lui con gli occhi a terra privi d’ogni baldanza, dicendo ne’ sospiri: Chi n’ ha negate le dolenti case!
Virgilio si fece quindi a rincorare Dante, perché non sbigottisse s’ egli si adirava, mentre avrebbe vinta la prova qualunque si fosse dentro che si aggirasse alla difensione; che questa loro tracotanza non era nuova, per averla altra volta usata a quella porta men segreta su cui era la scritta morta, e trovarsi perciò senza serrami. Aggiunse poi che di quà da detta porta era un Tale che di già discendeva l’erta passando senza scorta per i cerchi infernali, e che per lui sarebbe stata aperta la Terra.
Aspettando adunque la costui venuta fermossi Virgilio come uomo che ascolta, poiché l’occhio no’l potea menare a lunga, a cagione dell'aere nero e della nebbia folta: Pure, incominciò a dire, a noi converrà vincere la pugna... se non... Tale ne si offerse.... oh quanto tarda a me che altri qui giunga! Ben conobbe Dante com’egli ricoperse con le ultime le sue prime parole tronche, le quali gli davan paura di trarre forse a peggior sentenza ch’ei non tenne.
Immaginando che tale persona si attendesse dal primo cerchio del Limbo dimandò a Virgilio, se da quel luogo discendeva mai alcuno in cotal fondo della trista conca; alla qual cosa rispose, di rado incontrarsi che alcun di loro facesse questo stesso cammino, ma ben saperlo egli, e però farlo sicuro, essendo stato altra fiata dentro a quel muro della città di Dite, nella quale omai non avrebber potuto entrare senza ira.
Mentre che sì diceva gli occhi di Dante lo aveano tratto verso la cima rovente dell’alta torre, ove in un punto erano apparse le tre Furie infernali, chiedendo Medusa per far Dante di smalto. Virgilio il fece volgere indietro, e tenere il viso chiuso, aggiungendovi anco le sue mani stesse, poiché s’egli veduto avesse il Gorgone sarebbe stato nulla del tornar mai suso nel mondo.
Giunto a questo passo della sua narrazione l’Allighieri invoca la sana intelligenza de’ suoi lettori a ricercare la dottrina che vi è nascosta, dicendo loro: Oh! voi che avete gl'intelletti sani, mirate la dottrina che si asconde, sotto il velame degli versi strani. Siegue poi a narrare, che già veniva su per le torbide onde un fracasso di un suono pieno di spavento, per cui tremavano ambedue le sponde di Stige, non altrimenti fatto che quello di un vento impetuoso per gli avversi ardori, che fiere la selva senza alcun rattenimento, i rami schianta abbatte e porta fuori, dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggire le fiere ed i pastori.
A questo fracasso Vigilio sciolse gli occhi a Dante, dicendogli che gli dirizzasse da quella parte ov’era più acerbo il fumo, e di la vide venire uno, che a piante asciutte passava Stige, menando spesso la sinistra mano innanzi a se, onde rimuovere dal suo volto quell’ aere grasso, sembrando lasso solo di quell’ angoscia. Le anime degl’iracondi fuggivano al passar di Costui, come rane innanzi a biscia nemica. Ben si avvide Dante esser quegli messo per volere del cielo, perché Virgilio gli fe’ cenno di star quieto, e di fargli inchino.
Parea veramente Costui pieno di disdegno, e giunto alla porta l’aperse con una Verghetta, non essendovi alcun ritegno; e dall’ orribile soglia disse a’ demonj: O cacciati dal cielo gente dispetta, donde si alletta in voi questa oltracotanza? Perché ricalcitrate a quella voglia, alla quale non può mai esser mozzo il fine, e che più volte vi ha cresciuta doglia? Che giova dar di cozzo nelle Fata? Il vostro Cerbero, se ben vi ricorda ne porta ancor pelato il mento, e il gozzo.
Dopo le quali parole, come uomo sollecito per altra cura, che non è quella di colui che gli è davanti, si rivolse per la strada lorda, né fece motto a Dante e a Virgilio, che senza alcuna guerra sicuri entrarono nella terra di Dite.
La narrazione di questo maraviglioso avvenimento annunziato dall’Allighieri come cosa la quale nasconda sotto allegorico velame alcuna dottrina da essere mirata da coloro che hanno intelletti sani, fu da chiosatori poco sottilmente ricercata. Fermandosi essi ad alcuna apparenza la quale è nel senso letterale di questo passo, ed all’ atto miracoloso di cotal persona, senza andar più oltre dubbiando intorno alla convenienza di ogni sua parte, immaginarono quella essere un Angelo messo dal cielo per aprire a Dante le porte di Dite, che i demonj a Virgilio aveano negate.
Fermata in tal guisa a principio questa mal fondata opinione, venne poscia seguita dagli altri chiosatori, i quali null’ altro cercando tennero per questo aversi pienamente dichiarata ogni ascosta dottrina. Ben fu alcuno fra questi a cui non parve tal cosa sufficiente, perché conobbe che la supposizione dell’Angelo non rispundeva a veruna parte di quella narrazione, né discopriva dottrina alcuna nascosta. Non pertanto nel ricercare sotto a quel velame si smarrì in altro errore, immaginando in quella vece si fosse Mercurio, che aprisse le porte col suo Caduceo. Altri vi fu ancora, che con più grave ed inescusabile errore pensò che questi fosse il divino Salvatore venuto a dischiudere quella porta.
A provare quanto lungi dal vero siano andate tali chiose, deesi ricordare rispetto a quella dell'Angelo primieramente qual grande maestro in Divinità si fu l’Allighieri, per non dover mai cadere in sì grosso abbaglio di far discendere entro l’inferno alcuno degli angeli di Paradiso, ad esercitarvi qualsiasi ministero. La Grazia divina potea ben valersi di ogni altro messaggio più convenevole a quel luogo, ed a quell’ ufizio.
Questa ragione meglio si conferma ponendo a confronto le due opposte descrizioni quali furono fatte dall’Allighieri, quanto della ignota Persona di questo passo, quanto del primo Angelo da lui incontrato nella sua peregrinazione. Questi gli apparve tale veramente al giungere ch’ esso fece con Virgilio in Purgatorio; e narra che mostravasi ben da lungi per vivissima luce, la quale ognora cresceva appressandosi velocemente a lui, tanto che i suoi occhi non poterono sostenerla. Com’ebbe Virgilio conosciuto l’Angelo, gridò a Dante: Fa, fa che le ginocchia cali: ecco l’Angel di Dio: piega le mani: omai vedrai di sì fatti ufiziali. Dichiarando per queste ultime parole, che fino a tal punto non eransi da loro ancora veduti angeli nel percorso cammino; onde non potea essere Angelo quello dell’apertura di Dite.
Veniva questo vero Angelo con le sue bianche ali diritte verso il cielo, trattando l’aere con l'eterne penne che non si mutano come mortal pelo. Nella quale descrizione non vi ha cosa alcuna che si confonda con gli attributi della umana natura.
Facendosi ora a ricercare la descrizione dell’ignoto Personaggio non si troverà somiglianza alcuna con quella fatta dell’Angelo. Costui a prima giunta non si appalesò da lungi per luce chiarissima, ma invece comparve nel mezzo al più acerbo fumo di quella palude. Il muover suo manifestossi per un fracasso di un suono pien di spavento, comparato a quello di un vento impetuoso, che schianta la selva e mette in fuga fiere e pastori, cose tutte che nulla esprimono di angelico, anzi oppostissime a quanto ad Angelo si conviene. Se ’n venne da pedone, e privo di ali, quali sarebbero state convenienti alla sua natura, alla quale sarebbe pure non poco indecente la comparazione con la biscia nemica delle rane. Finalmente l’andar che facea Questi menando spesso la sua sinistra mano dinanzi a se, onde rimuover dal volto l’ aere grasso della palude, sembrando lasso soltanto di quell’angoscia, disvelava vie più ancora la passione propria della umana natura.
Virgilio fece segno a Dante che stesse quieto e inchinasse ad esso, per riverenza a personaggio di gran riguardo, ma non già come ad Angelo, innanzi a cui se fosse stato gli avrebbe fatto piegar le mani, e calar le ginocchia , come fece all’apparire del primo Angelo di Purgatorio.
Pieno di sdegno Costui aperse la porta di Dite con una Verghetta che avea nella sua destra mano, rivelandosi tanto dall’ atto che dallo strumento sempre meglio la sua qualità ben differente da quella dell’Angelo descritto, il quale quantunque operante come celestiale nocchiero, tuttavia avea a sdegno gli argomenti umani, né altro remo, né altro velo volea al suo ufizio che le sole sue ali. Cotal Verghetta fu dall’Allighieri posta in mano a Costui per chiaro attributo significativo di più conveniente ulfiziale.
Le parole usate contro a' demonj provano ugualmente la mondana persona; perché si fece a rimproverare il vano cozzar loro coi Fati, e rammentò i danni di Cerbero, cose che l'Allighieri non volle mai che per bocca di augelo fossero dette. Anzi vi aggiunse che Costui se ne partì come uomo stretto da altra cura, che non è quella di colui che gli è davanti, e non già come angelo, il quale se laggiù fosse venuto, sarebbe stato appunto per la stessa cura di colui che gli era davanti.
Per ciò che riguarda la singolare opinione che costui fosse Mercurio, questa non ebbe seguaci, e fu facilmente confutata. Pertanto vuole notarsi che questa fu di uno de’ maggiori chiosatori della Divina Commedia, il quale se per tale strana supposizione non raggiunse il vero, mostrò non pertanto colla sua ricerca di non convenire nella mal fondata interpretazione dell’angelo; e in questo solo lato giova al presente proposito. La Verghetta colla quale furono aperte le porte di Dite servì a destare la idea del Caduceo, e di Mercurio, cose che null’ hanno a fare col soggetto trattato.
Siccome fu dimostrato non esser angelo, ma persona Colui che comparve sulla palude Stige, non occorre dichiarare quanto erronea sia stata la opinione di chi volle che questi fosse il divino Redentore. Né a questa fa mestieri confutazione alcuna.
Appalesato a questo modo l’errore finora rimasto nella chiosa di questo passo della Divina Commedia, devesi procedere alla nuova esposizione, e dimostrare come la sua ragione alle dottrine dell’Allighieri ed alla materia del Poema più convenevolmente si conforma.
Vuolsi quindi primieramente rinvenire chi sia la ignota Persona che aperse le porte di Dite, ed a tal fine gioverà ricercare ne’ precedenti avvenimenti se dall’ Allighieri ne venga dato verun indizio. Perciò incominciando dal punto in cui a Dante si offerse Virgilio, è da rammentare che questi si manifestò a lui dicendogli esser esso stato poeta, che avea cantato di quel giusto figliuolo di Anchise, e lo invitò a salire il dilettoso monte della scienza ch’ è principio e cagion di tutta gioja. Avvisandolo doversi da lui tenere altro viaggio, onde campare dal luogo selvaggio ove erasi smarrito, e gli promise esser sua guida onde trarlo di là per luogo eterno, alla contemplazione della colpa; e poi della penitenza, per incontrare anima più degna che lo avrebbe condotto alle beate genti. Non volendo l’Imperatore che lassù regna ch’esso il conducesse in sua santa città perché era stato in vita ribellante a sua legge.
A tale invito Dante ancor timoroso così rispose a Virgilio. Tu dici nel tuo libro che Enea padre di Silvio essendo ancor vivo, e perciò corruttibile andò a secolo immortale e fu ciò sensibilmente. Peraltro se Iddio, avversario di ogni male, fu sì cortese verso di lui, ciò non deve parere indegno ad uomo di sano intelletto, pensando l’alto effetto che dovea uscire di lui, e ’l chi, e ’l quale; poiché egli fu eletto nell’ empireo cielo per padre dell’alma Roma, e del romano impero, la qual Roma, e il quale impero furono stabiliti per lo luogo santo dove risiede il successore del maggior Piero. Per questa sua andata onde tu nel tuo libro gli dai vanto intese Enea cose, le quali furono cagione di sua vittoria e del papale ammanto, Finalmente conchiuse non essere Enea, né credersi da lui, né da altri esser esso degno di ciò, onde temere la sua venuta non fosse folle. Persuaso da Virgilio essergli questa conceduta per dono della grazia, figurata per le tre Donne benedette della corte del cielo; preso lui per duce e maestro entrò pel cammino aspro e silvestro della sua peregrinazione.
Gli venne quindi da Virgilio mostrato il Limbo qual sua dimora insieme agli altri grandi poeti, e con loro in luogo aperto luminoso ed alto del nobile castello delle scienze vide i spiriti magni di Enea, di Cesare, di Camilla, di Pantasilea in compagnia di Elettra, e di molti altri, i quali all’ alma Roma, alla fondazione dell’impero; e all’Eneide di Virgilio si appartenevano.
Da questa dimora discendendo i cerchi infernali fu Dante guidato alle mura della città di Dite fatta a guisa di fortezza difesa da’ demonj. A Virgilio venne quivi negata l’entrata perché avea seco Dante ancor vivo, a cui mostrar volea le colpe onde ritrarlo dalla dannazione alla penitenza; alla qual cosa opporsi doveano i demonj, se non si faceva contra loro alcun manifesto segno del divino volere.
Questo segno che aprir dovea quelle porte era dato a Virgilio da Tale, siccome avea detto a Dante, che non potea dubitare che quel passo potesse venir loro tolto da alcuno. E disse che Tale gli si fu offerto, il quale non potea essere certamente che nel Limbo, luogo di sua dimora.
Questi, che già altra volta avea aperto le dolenti case colla fatale Verghetta, esser dovea Enea, quegli ch’avea Dante rammentato in principio per iscusa, dicendogli non essere esso Enea e temere la sua venuta in Inferno non fosse folle; e quegli mostrossi pure sul verde smalto del nobile castello del Limbo, il quale ora novellamente per Virgilio discendeva sulla palude Stige per umbram perque domos Ditis, avendo in mano il venerabile donum fatalis Virgae, onde la porta fosse dischiusa.
Ciò si affermò pure da Virgilio che disse a Dante che di quà dalla prima porta d’ inferno era un Tale che discendeva l’erta, e che per lui sarebbe stata aperta la Terra.
E di quà da quella porta era il primo cerchio in cui trovavasi il Limbo; ed in, quello era Enea, nel solo che doveva essersi offerto a Virgilio per quell’ufficio, come suo Eroe, già altra volta vincitore di quella fortezza. Il fracasso di un suono pien di spavento onde tremavano le sponde, alla venuta di uno che passava Stige a piante asciutte; il fuggire e l’ appiattarsi delle anime degli iracondi innanzi a quello; la comparazione del vento fatto impetuoso dagli avversi ardori, che ferisce la selva, schianta, abbatte , porta fuori i rami, e mette in fuga fiere e pastori; sono cose che ben valgono a raffigurare nella descrizione immaginato il combattere ed il vincere proprio di Enea, dall’Allighieri in questa sua apertura di Dite voluta velatamente significare, tanto in ossequio di Virgilio quanto del fondatore del romano impero, a seconda di quelle dottrine da lui seguite, delle quali a principio si è fatta parola.
La domanda che a Virgilio fece Dante: Se alcuno di loro del primo cerchio del Limbo discendeva mai in quel fondo infernale, fu conseguente alle parole di Virgilio, che aveagli detto un Tale esserglisi offerto per l'apertura di Dite; non altri potendo questi essere che alcun suo consorto di Limbo, che con quella apertura e con Virgilio avesse relazione: e questi dovea essere Enea senza meno, perché per ogni riguardo conveniente al proposito. Dalla narrazione degli avvenimenti precedenti rilevasi pure, che nessuna persona tranne Beatrice erasi offerta a Virgilio per l’ajuto di Dante in questo suo viaggio, la quale non fosse di coloro ch’erano nel Limbo sospesi.
Né deve opporsi a questa nuova dichiarazione il non aver Dante riconosciuto Enea allorquando giunse ad aprire le porte di Dite, poiché quando egli lo vide la prima volta nel Limbo fra gli spiriti magni del nobile castello si fu in luogo aperto luminoso ed alto, e quando discese nel fondo sulla Stige palude fu in mezzo al fumo più acerbo, ove l’occhio suo no ’l potea menare a lunga per l’aere nero e per la nebbia folta.
La dottrina che volle l’Allighieri che si ascondesse sotto il velame de’versi strani, fu che Enea dovesse servire come strumento provvidenziale all’apertura di Dite, dappoichè Beatrice avea eletto Virgilio per guida di Dante nella infernale peregrinazione. La figura di Enea aprendo quelle porte, fu dall’Allighieri posta per significare con questa origine tutti gli avvenimenti i quali prepararono la vera apertura fatta per Colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, onde poi senza serrame erane rimasta la porta su cui Dante veduto aveva la scritta morta.
Che tali fossero le dottrine dell’Allighieri in ossequio di Enea ed in questo passo nascoste, rilevansi anche dal libro del Convito, dove trattando dello stesso soggetto così dice. E fusto questo fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troja in Italia che fu origine della nobilissima città romana, siccome testimoniano le scritture. Perché assai è manifesta la divina elezione del romano Impero per lo nascimento della santa Città, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria... Certo manifesto esser dee questi eccellentissimi esser stati strumenti, colli quali procedette la divina provvidenza nello romano Impero, dove più volte parve esse braccie di Dio esser presenti.
In altro luogo dello stesso libro, trattando di nobiltà, la quale vuole che in giovanezza sia temperata e forte, perché l’appetito suo sia cavalcato dalla ragione con freno, e con isproni, dice... e così infrenato mostra Vigilio, lo maggior poeta nostro, che fosse Enea nella parte della Eneida ove questa età si figura... Questo spronare fu quello, quando esso Enea sostenne solo con Sibilla a entrare nello inferno a cercare dell'anima del suo padre Anchise contro a tanti pericoli...
Nel libro de Monarchia ugualmente trattando di questo soggetto conferma tale sua opinione di Enea dicendo... Nam divinus poeta noster Virgilius, per totam Aeneidem, gloriosum regem Aenceam patrem romani populi fuisse testatur în memoriam sempiternam... Quì quidem mitissimus atque piissimus pater, quantae nobilitatis fuerit non solum sua considerata virtute, sed et progenitorum suorum, quorum utrorumque nobilitas hereditario jure in ipso confluxit, explicare nequirem... lis itaque ad evidentiam subassumptae praenotatis, cui non satis persuasum est, romani populi patrem, et per consequens ipsum populum, nobilissum fuisse sub coelo? Aut quem in illo duplici concursu sanguinis, a qualibet mundi parte in unum virum praedestinatio divina latebit? Ilud quoque quod ad sui perfectionem miraculorum suffragio juvatur, est a Deo volitum etc. E nella lettera scritta ad Arrigo Settimo parimente si fa ad invocare la sua venuta dicendogli ch’esso apparisca al mondo, in figura di Enea, e suo figlio Giovanni in quella di Ascanio, per spegnere i malvagi, i quali alla pace ed al bene della sua patria iniquamente si opponevano.