Dati bibliografici
Autore: Giovanni Pascoli
Tratto da: Minerva oscura
Editore: Tipografia R. Giusti, Livorno
Anno: 1898
Pagine: 1-7; 90-91; 97; 112-113
Conoscere e descrivere la mente di Dante sarà mai possibile? Egli eclissa nella profondità del suo pensiero: volontariamente eclissa. Io già mi posi in cuore di seguirlo in una di queste sparizioni, nella quale, dopo aver detto, Mirate, egli lascia i nostri occhi in mezzo alla caligine. Se vedo questa volta, io dicevo, vedrò sempre, se lo comprendo in questa parte, lo comprenderò nel resto.
Il luogo oscurissimo è dal VII al IX dell’inferno. E l’ora del tempo è mezzanotte. È mezzanotte quando il Poeta scende con Virgilio ‘a maggior pieta’, mentre era vespro quando si 'apparecchiava a sostener la guerra Sì del cammino e sì della pietate. Cadono le stelle e persuadono il sonno: è l’ora che Enea, con voce che noi sentiamo risonare nei versi di Virgilio, grave e quasi velata, si fa a narrare l’ultima notte di Troia. E Dante che già nella sera, nel silenzio e sopore universale, si sentiva solo a vegliare di tutti i viventi, ora a mezzanotte pare oppresso da un sogno sognato per tutto il durare d’un viaggio notturno. E il viaggio pare uno di quelli che possiamo ricordare d’aver fatti da fanciulli (Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio), un poco a piedi, poi portati di peso in carrozza, poi discesi senza averne coscienza intera, balzati di qua e di là, tra cigolii e schiocchi e scricchiolii e tonfi, con qualche carezzevole parola mormorata all’orecchio in mezzo a un rotolare continuamente e sordamente fragoroso. L’Ombra e il Vivente scendono accompagnati dal gorgoglio assiduo di un fossato di acqua buia, e questo fossato si fa palude, la palude della 'Tristizia’, in fondo alla piaggia. E la palude è piena di strepito d’anime che rissano tra loro e di scoppi di bolle che vengono da altre anime fitte nel fango. Essi girano per un grande arco del margine e si trovano avanti una torre. La torre accenna con due fiamme sulla cima, e un’altra di lontano rende il cenno. Una barca s’appressa nel buio, e il barcaiuolo grida sinistramente. Entrano, vanno. A Dante apparisce, pieno di fango, il nemico morto che non riconosce lui e forse vuol salire nella sua barca; ma è da lui riconosciuto e respinto. Una scena infernale di odio e di sdegno e di giusta vendetta e di rabbia impotente e di battaglia tra morti, tramezza il viaggio della mezzanotte. Il vocio dei dannati s’allontana; ed ecco avanti avanti un immenso lamento, in fondo in fondo un rosseggiare di fuoco: è una città di ferro incandescente, Dite, il vero Inferno. Sbarcano, e per la prima volta Dante vede i 'da’ ciel piovuti’; per la prima volta è lasciato solo; per la prima volta vede il Maestro, con gli occhi alla terra, dubitare e sospirare, l’ode parlare con parole tronche e raccontare una tetra storia di scongiuri e di luoghi fondi e bui. Lo interrompe l’apparizione delle Furie, viene in volta il Gorgon, e Virgilio chiude gli occhi a Dante con le sue mani. Quando egli è così senza vista, sente come l’appressare di un temporale. Viene il liberatore, un Messo del cielo che con una verghetta apre le porte di ferro. È il risveglio, finalmente: e Dante si trova in un cimitero con gli avelli scoperchiati, donde escono fiamme. Tra il sommo del pericolo, quando sulla cima della torre rovente si mostra il Gorgon, e il risveglio, è un ammonimento agli intelletti sani che sembra un lampo il quale aprendo a un tratto le tenebre, le lascia più nere e inerti che mai. Or qui, più che in ogni altro luogo e momento, è dubbio e oscurità. Stige, torri, Flegias, parole di Virgilio, Furie, Gorgon, Messo: tutto mistero. Ma nello Stige, che cinge la città dolente, 'il fummo è più acerbo'.
Io pensava:
La sua Comedia volle Dante che parlasse 'faticosa e forte’; e certo egli credeva, come e più che per la canzone “Voi che, intendendo„, che radi avessero a essere coloro che intendessero bene sua ragione, pago che la bellezza ne fosse veduta, se la bontà meno ne era sentita. Certo egli avverte nel poema stesso e di nascondere la dottrina sotto il velo dei versi e di volere ben forniti di dottrina i suoi lettori; d’essere cioè forte od oscuro, e faticoso o duro. Avanti le porte di Dite, quando le feroci Erine domandano il Gorgon e il Maestro chiude gli occhi a Dante, questi interrompe il racconto, che séguita col fracasso sonante per le torbide onde, dicendo al lettore:
O voi, che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani.
Così nella valletta dei fiori, finito l’inno della Compieta, prima di narrare lo scendere dei due angeli e il venire del serpente, si volge pure al lettore:
Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
Chè il velo è ora ben tanto sottile,
Certo, che il trapassar dentro è leggiero.
Il velo è della lettera, è la sentenza letterale, il di fuori, e il vero è quello che si nasconde sotto il manto di quella favola: il di dentro, una verità, come egli dice, ascosa sotto bella menzogna. Il velo qui è sottile, il vero dunque facilmente trasparisce: perchè l’invito ad aguzzare gli occhi? Per comprendere la cosa, bisogna rileggere nel Convivio il perchè, quale egli lo espone, della 'fortezza’ o 'gravezza’ non solo delle canzoni, ma 'dello scritto che quasi Comento dire si può’, che ordinato a levare il difetto della durezza in esse, è 'in parte un poco duro’. Dante scrive che per l’esilio e per il vento secco che vapora la dolorosa povertà, la quale ne fu l’effetto, essendo vile apparito agli occhi a molti, e non solo nella persona sua ma in ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare, gli conveniva con più alto stile dare nel Convito un poco di gravezza, per la quale paresse di maggiore autorità. Or, senza voler prendere alla lettera il divino autore della Comedia, bisogna pur credere che sì con l’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e la sottilità dei ragionamenti, egli si proponesse più di essere alto che chiaro, secreto più che accessibile, autorevole più che persuasivo. Certo restringendo il discorso all’allegoria, facilmente si può vedere che se essa fu da Gesù adoperata nella forma di parabola per fare meglio intendere la sua divina parola, da altri fu usata, o per timore dei potenti al fine di schivare la loro vendetta, o per isfoggio d’arte, al fine di colpire d’ammirazione gli uditori. Nei quali casi, non si persegue dall’allegorizzatore il pregio della chiarezza, per la quale il suo pensiero sia aperto a tutti, ma il vanto dell’ingegnosità, con la quale o celi in parte il vero, sì che a questi sia manifestissimo, a quelli occultissimo, o a tutti lo ricopra, sì che bisogni a tutti affaticarsi per trapassar dentro. Or quando il Poeta ammonisce il lettore di aguzzar ben gli occhi al vero, egli, in certo modo, lo sfida, lo mette alla prova indicandogli un velo sottile attraverso il quale si può vedere da tutti, eppure non è detto che da tutti si veda; se ciò avviene d’un velo ben tanto sottile, che sarà dei velami più fitti e dei versi più strani?
Con tali parole adunque Dante ci ammonisce della 'fortezza’ della sua Comedia, per l’allegoria che ne copre la sentenza; con altre ci ricorda la sua difficoltà, per la dottrina che è necessaria a intenderla:
O voi che siete in piccioletta barca
Desiderosi d’ascoltar, seguiti
Dietro al mio legno che cantando varca,
Tornate a riveder li vostri liti,
Non vi mettete in pelago; chè forse
Perdendo me, rimarreste smarriti
L’acqua ch’io prendo, giammai non si corse:
Minerva spira e conducemi Apollo
E nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voi altri pochi, che drizzaste il collo
Per tempo al pan degli Angeli, del quale
Vivesi qui, ma non sen vien satollo,
Metter potete ben per l’alto sale
Vostro navigio, servando mio solco
Dinanzi all’acqua che ritorna eguale.
Il pelago o alto sale è la terza Cantica; la barca piccioletta che ai desiderosi d’ascoltare poteva bastare nelle altre due parti del Poema, più non basta. Certo, dottrina occorreva anche allora, ma ora più assai: allora bastava ascoltare e capire, ora bisogna avere dottrina anche di suo, per non rimanere smarriti quando si perdesse un poco di vista il legno del Poeta, e di udito la sua musica voce. Se ne ricava che la difficoltà della terza Cantica è non solo più forte delle altre due, ma di genere differente: si direbbe che in quelle proviene dalle allegorie o dai simboli, che pertengono all’arte del poeta e in questa più specialmente dalla profondità della scienza, che riguarda il filosofo e il teologo. Ma, insomma, egli stesso, Dante, ha confessato di voler essere oscuro e di volere ora esercitare l’acume, ora mettere a prova la dottrina de’ suoi lettori. E guai se questo acume e questa dottrina fosse quanto e quale sarebbero stati necessari a scoprire il velo delle canzoni del Convivio! Starebbero sulla porta della Comedia queste parole di colore oscuro: La vera sentenza... per alcuno vedere non si può, s’io non la conto.
Ma a bene sperare, che il Poema sacro, sebbene volutamente faticoso e forte, sia pure accessibile alle nostre menti, invita una considerazione tra le altre. Il Poeta nel Convivio dichiara che dal suo Comento, un effetto può derivarne al lettore: 'non solamente... diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento, e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture’. Ora, non c’è bisogno di moltiplicare parole per intendere che dal capire la Comedia egli dovesse imaginare al lettore oltre quel diletto e quell’ammaestramento, un effetto di utilità più larga e profonda. Tutto il poema ci attesta che questo effetto il Poeta se lo proponeva come fine, e non aggiungo, principale; perchè principale fine del Poeta è veramente questo: fare poesia. Ma dopo questo, Dante adunque si proponeva un fine d’ammaestramento; e di quante e quali specie, non occorre dire; ma che esso avesse a essere 'vitale’, dice da sè. Ora, come avrebbe egli cinto d’alte mura un fonte di vita? Sperare dunque che libera sia a quello la via, a chi la trovi, è ragionevole. E per trovarla, egli dice che bisogna seguir lui e non perderlo di vista o di udito, e sforzarsi di passare oltre il velo della parola, e dal di fuori entrare nel di dentro. Ebbene: io ricordo che in fine quegli che dà tali ammonimenti e consigli, è, in certo modo, un Dante diverso da quello che prima segue Virgilio e poi Beatrice; è bensì lui, ma esce in quel momento dalla mirabile finzione del suo canto e richiama su essa l’attenzione nostra: non è più l’attore, ma l’autore, che parla. Ora io credo che a noi convenga, per intendere il poema, seguire appunto l’attore, il Dante che figura come ammaestrato e guidato e illuminato continuamente e a mano a mano; prima da Virgilio, poi da Beatrice, e qua e là impara da tutti e da tutto; e finge, per mostrare agli altri come possano condurvisi, di essere tratto esso 'di servo... a libertate’. Da questa parte di Dante io penso che come è naturale che derivi non piccola oscurità, perchè l’autore, fingendo che l’attore sia ammaestrato nella verità via via, non può dire la verità, quale è, d’un tratto; così è sperabile che a noi venga la luce, se non presumeremo di precedere Dante stesso e di veder più di quello che egli stesso dice di aver veduto.
[...]
Il Poeta ha il sole in fronte: è tornato a libertà. Avanti lui è una foresta tutta odore, tepore, gorgheggi. Otto giorni prima vedeva pure il sole su un colle. Allora un’altra selva era dietro lui. L’una era la selva oscura, poco meno amara che morte; l’altra è la divina foresta spessa e viva: l’una il vizio e l’ignoranza, l’altra l’innocenza e la luce. Dante è ora nello stato dell’anima prima avanti il peccato. La ragione illumina la volontà, e questa cavalca agevolmente, come franco cavaliere, il docile appetito sensitivo. Può così scegliere la sua via. Ma non poteva in quell’altro mattino già così lontano; chè prima la lonza, fiera alla gaietta pelle, poi un leone 'Con la test’alta e con rabbiosa fame’, e una lupa, 'che di tutte brame Sembiava carca nella sua magrezza’, lo costrinsero a tenere altro viaggio. In quest’altro viaggio Dante contemplò gli effetti di tre disposizioni che il ciel non vuole: incontinenza, bestialità e malizia. Probabile mi pareva che le tre fiere simboleggiassero appunto queste tre disposizioni; la lonza l’incontinenza, il leone (Boezio scrive nel IV: 'Lo stemperato d’ira fremisce? animo di leone aver si creda’) la bestialità o violenza o ira; la lupa, che s’ammoglia a molti animali e dall’invidia di Lucifero fu scatenata nel mondo, la malizia propria dell’uomo o frode, cui aveva veduto germinare in tante specie di peccati e che fu il primo peccato del primo Angelo e del primo Uomo. Duplice era in verità la malizia, così come Dante interpretava Aristotele: malizia con forza e malizia con frode; bestialità matta e malizia propriamente detta: così che a piè del colle con due figure veniva incontro a Dante. Ma triplice era, teologicamente dividendola; malizia con forza o violenza o ira, malizia con frode in chi non si fida o invidia, malizia, con frode necessariamente congiunta a sè, in chi si fida, o superbia. E la malizia, così triplice, era forse simboleggiata su l’alta torre di Dite nelle tre furie infernali di sangue tinte. Delle quali Aletto (Si tibi bacchatur mens, tunc Alecto vocatur: dice uno dei versi citati da Pietro di Dante), che piange (si ricordi: 'E piange là dove esser dee giocondo’, detto dei violenti o iracondi con ingiuria consumata in Inf. XI 45), è certamente la violenza o ira, e Tesifone nel mezzo sarà il tradimento o superbia, e Megera la frode o invidia. Ora queste tre Furie impietrano l’uomo col Gorgon, come le due Fiere che in due comprendono quelle tre e sono tra loro due simili nella 'fame’, cioè nella cupidità, hanno un consimile effetto, a differenza della lonza, che fa sì volgere per tornare a quando a quando, ma non toglie la speranza di andare e vincere l’ostacolo: il leone dà 'paura’, la lupa porge 'tanto di gravezza Con la paura che uscia di sua vista’, che il Poeta perde la speranza. E ciò mi faceva credere che veramente le due Fiere equivalessero alle tre Furie, e che Fiere e Furie simboleggiassero quello che ho detto e che quello che è Gorgon nelle Furie, fosse nelle Fiere la 'paura’. Or dunque Dante o, meglio, l’Uomo non è libero; e torna addietro nella selva dell’ignoranza e del vizio, ciò della servitù. Come è lontana l’altra foresta, quella della libertà! lontana e opposta. La Ragione si fa a lui sentire, fiocamente sulle prime, si rivela per quel che è, gli propone l’altro viaggio. E l’Uomo la segue, ma dubita: onde la Ragione gli rivela che ella è consigliata dalla Fede o scienza divina, e questa fu richiesta da Lucia e questa da Maria. Allora l’uomo si appaga. Deve dunque visitare, per riacquistare la libertà del suo volere, il regno dei morti. Entra nell’inferno e nel vestibolo trova quelli per cui fu dono vano tale libertà, poi nel primo cerchio, oltre Acheronte, quelli cui tale libertà fu tolta dal peccato primo e non restituita dalla fede in Cristo venuto o venturo. Scende al secondo, al terzo, al quarto cerchio, dove sono quelli in cui il volere fu sommesso all’appetito sensitivo, anzi a quella sua parte che si dice il concupiscibile: lussuriosi, golosi, avari e prodighi. Poi si trova in un quinto ripiano, in una gora che si profonda, nel cui mezzo è la città di Dite, il vero Inferno. Nei fossati e nel pantano intorno alla città rissano e gorgogliano quelli il cui volere fu bensì rivolto al male, per soverchio d’irascibile, ma non lo fece, e quelli il cui volere, per difetto d’irascibile, non rintuzzò il male e vi si quetò tristamente. Di là dalle mura di Dite, sospirano duramente dentro tombe, quelli che per mal volere respinsero la fede che rende la libertà. Dentro Dite, a mano a mano più giù, sono puniti quelli il cui volere si volse al male e lo fece: prima quelli che lo fecero senza concorso di ragione, ma con la sola volontà soggiogata dall’appetito; e lo fecero al Prossimo, a sè stessi, a Dio in sè e nella Natura e nell’Arte; poi quelli che lo commisero contro gli uomini col concorso della ragione insieme alla volontà e all’appetito; infine quelli che lo commisero, col concorso detto, contro Dio e chi di Dio più tiene. Dentro Dite è dunque l’ingiustizia, o l’offesa alla Giustizia, la quale avendo due parti più alte e sacre, la Religione e la Pietà, anche l’ingiustizia che le offende, più propriamente si avrebbe a chiamare empietà e irreligione. All’orlo di Dite, dentro e fuori, è la nongiustizia, per così dire: sono ciò è quelli che operarono bene, ma misconobbero Dio, quelli che non operarono male, ma misconobbero la giustizia. Sopra loro sono quelli che trovarono il loro bene nell’appagamento dei sensi. All’orlo dell’inferno, di qua e di là d’Acheronte, sono quelli che operarono bene ma non conobbero Dio vero, quelli che non operarono male, ma non operarono nemmeno bene, non avendo scelto tra bene e male. Tutti sono aversi da Dio. La Ragione, illuminata dalla Filosofia, spiega all’uomo questo ordine di peccati e di punizioni, e dice, poi che Aristotele stabilì tre disposizioni cattive, l’incontinenza, la bestialità, la malizia; che incontinenza è quella punita nei cerchi secondo, terzo, quarto e parte del quinto, e Malizia e Bestialità nell’altra parte del quinto, ossia nel sesto, e nel settimo, ottavo e nono. E più indugiandosi sulle colpe di questi gironi dichiara che la malizia (di bestialità non parla ancora) ha per fine l’ingiuria, che è quanto dire che ella è una cosa con l’ingiustizia, e questo fine adempie o con la forza, e allora si chiama Violenza, o con la frode in chi non si fida o con la frode in chi si fida: distinzione, in parte, di Tullio. Nella frode è l’intelletto, che non è nella violenza, onde questa è poi Aristotelicamente chiamata matta bestialità. La frode in chi non si fida rompe solo i vincoli che ci uniscono agli altri uomini, offende l’Humanitas, come dice Tullio; quella in chi si fida, rompe anche quelli più stretti e più sacri che sono in custodia della Pietas, secondo Tullio, o della Pietas, e Religio, secondo i teologi, che sdoppiarono la parola unica che comprendeva le due idee. Questa la esposizione filosofica o Aristotelica. L’Uomo però ha appreso sicuramente il proprio nome degli speciali peccati puniti nei cerchi secondo, terzo e quarto, e un poco oscuramente e confusamente ha sentito accennare quello della colpa punita nel quinto; con le parole peccator carnali, vizio di lussuria, colpa della gola, nullo spendio con misura, avarizia, mal dare e mal tenere, l’anime di color cui vinse l’ira, tristi... portando dentro accidioso fummo: peccati questi, con più l’eresia, che l’Uomo aveva già veduti quando la Ragione dichiara a lui il sistema delle pene nell’inferno.
[…]
[…] per Dante, certi peccati portano un accecamento e indurimento (excaecatio et obduratio... animi humani inhaerentis malo et aversi a divino lumine: S. 1ª 2ae LXXIX 3), simboleggiato nel Gorgon che è in mano alle tre Furie, che rende se non impossibile il pentimento, almeno così tardivo da costringere i pentiti a lungo indugio nell’Antipurgatorio. E solo l’avessero bramato, questo male, e non fatto, non avevano perciò bisogno di volgersi a Dio col pentimento per essere ammessi al Purgatorio? Avevano: altrimenti, conversi come sarebbero stati a un bene secondo loro, che non solo non è il vero bene ma il male secondo verità, sarebbero stati pur sempre aversi da Dio; e avrebbero avuto luogo tra quelli cui vinse l’ira e quietarono nel male
[…]
[…] E così intende l’autore sopra detto (Hug. de S. V. l. c.): Superbia... dicit, Deum non bonum esse, Invidia et Ira dicunt non benefecisse: illa, quia alii bonum contulit, ista, quia sibi malum intulit. Perciò coi bestemmiatori che rinnegano Dio in un empito di dolore, vanno uniti quelli che rifiutano di generare e di lavorare, respingendo due dolci comandi che fatti da Dio nella sua bontà al primo Uomo prima del peccato, sonarono poi, dopo il peccato, lugubri come una condanna pronunziata da lui nella sua giustizia, e parvero una ingiuria di cui quei peccatori vollero vendicarsi. E su questo ancora è necessità leggere il santo libro, lo Genesi. In tanto con esso libro si accordava la Fisica di Aristotele, come l’Etica rispondeva, quasi esattamente, ai libri teologici riguardo alla divisione delle colpe. Poi che nella malizia sono compresi i tre peccati spirituali, con questo che l’ira è più propriamente quella che Aristotele (non rettamente interpretato) chiama bestialità; e di questa trigemina malizia, di cui l’idea è negli Uffici di Tullio, sono simboli le tre Furie che hanno con sè il Gorgon che accieca e indura; e nell’incontinenza i tre peccati carnali.