Dati bibliografici
Autore: Giovanni Busnelli
Titolo: Lorenzo Filomusi Guelfi, Nuovi studii su Dante; ld., Novissimi studii su Dante
Tratto da: Bullettino della Società Dantesca Italiana
Numero: 20
Anno: 1913
Pagine: 1-44
Con questi Nuovi e Novissimi studii che seguono agli Studii su Dante, il Filomusi Guelfi, «un solitario studioso, per dirla col Parodi, che nel suo eremo abruzzese si assottiglia, con instancabile pertinacia, a seguire in special modo i filoni teologici della Divina Commedia» , compie la raccolta de’ suoi lavori speciali d’argomento dantesco, sicché gli è «parso ormai tempo di far la sintesi; di dare opera, cioè, a un commento generale del Poema (che s’intitolerà: La Divina Commedia interpretata specialmente per il senso allegorico), da ispirarsi, naturalmente, al concetti propugnati in essi tre volumi».
Intanto prima che appaia il nuovo commento, poiché del precedente volume di Studii già s’è ragionato nel Bull. (N. S., XVIII, 161 sgg.) giova esaminare gli altri due, non già con la pretesa di far mutare le opinioni in capo all'autore e distrarlo dalla sua non lieve fatica, ma per chiarire il valore — segnatamente dall'aspetto teologico, tanto studiato dal Filomusi — dei concetti informativi delle sue conclusioni. Alla schiera de’ Nuovi studii precede, come più importante, quello su L'allegoria fondamentale del Poema, già pubblicato nel Giornale Dantesco (XVII, 1909). La quale allegoria, poiché si fonda, quasi su caposaldo e intimo nesso, sul rimprovero che Beatrice fa a Dante nel Paradiso terrestre, tutta si manifesterà nel suo valore quando sia chiarita l’interpretazione che il F. dà a quel rimprovero.
Prima di stabilir la sua sentenza, egli confuta quella di chi stima che Beatrice rimproveri a Dante la lussuria. Perché, primo, questa sarebbe, se mai, interpretazione letterale, e mancherebbe l’allegorica. Ma è ragione che vale pure contro di lui, che, negando il supposto senso letterale di lussuria, vi sostituisce il suo allegorico, come letterale. Secondo, perché del peccato della lussuria Dante si sarebbe già purgato nel relativo ripiano. Ma se ciò può correre quanto all’affare dei peccati e alla dirittura dell’arbitrio per avanzarsi nel Paradiso terrestre, non corre pel resto: altrimenti Dante non direbbe che gli restava ancora da pagar qualcosa per l'invidia e per la superbia , del qual ultimo vizio tanto non si era purgato che, perfino in fatto di nobiltà di sangue, colpa dell’esser ancor viatore,
là, dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai .
Terzo, perché il darsi altrui, da Beatrice rimproverato a Dante, varrebbe darsi ad altri, non già ad altra o ad altre; quasichè il pronome altrui per essere indeterminato, come ammette il F., non si dovesse interpretare secondo il contesto. E però egli concede che «se noi interpretiamo quell’altrui forma (del verso di Mirra che falsificò sé in altrui forma — Inf., XXX, 41 —) per forma d'altra, ciò facciamo per gli altrui versi, non per quello di Dante». Ma perché dunque il darsi altrui per darsi ad altra o ad altre non lo possiamo spiegare per la pargoletta o altra vanità dai versi di Dante, e non di altri? Giacché, se non si vieta di spiegar Dante con versi di altri poeti, chi vorrebbe proibirci di spiegar Dante con Dante?
Meglio trionfa il F. della sentenza dello Scartazzini, che il rimprovero riguardi il dubbio, la speculazione o l'orgoglio filosofico, ma nel difendere la propria spiegazione, che si riduce a quella del Fornaciari, ricade nella debolezza di ragioni mal disputate. Confessa che anche l'interpretazione della colpa come abbandono della contemplazione, a cui era stato da Beatrice indirizzato, per darsi alla vita attiva, non è senza lati deboli; ma in fondo la crede giustissima; e s’industria di darle una base più solida, che non facesse il Fornaciari, e accordarla con la struttura morale del Purgatorio.
La solidità della base sarebbe fornita dai versi in cui Beatrice afferma che i suoi desiri menavano Dante ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s'aspiri ,
cioè, come spiega il F., alla vita contemplativa. Ma è proprio questo il senso primo ed ovvio di que’ versi? Il F. allarga troppo le ali al volo; e, dove le parole altro non dicono ‘se non che i desideri, che nascevano nell'animo di Dante ispirati da Beatrice, lo sollevavano a Dio, poiché quella gentilissima era stata per lui «distruggitrice di tutti — li vizi e regina de le virtudi» e «quando ella apparia da parte alcuna... mi giugnea una fiamma di caritate, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso» , il critico abruzzese fa di questi pensieri e di questi affetti il noviziato di Dante per la vita contemplativa. Ma dunque tutti quelli che, come Dante, alla vista di Beatrice provavano in sé gli stessi sentimenti, erano avviati alla contemplazione? Altro è che nascano degli atti, che si trovano anche nella vita contemplativa, altro è che tutti gli atti d'amor di Dio originati dalle creature non possano essere anche nella vita attiva. Con la stessa carità, onde si ama Dio in sé e nelle creature, e le creature per Dio, si serve e ama Dio nella vita attiva dai secolari e dai religiosi, come dai monaci nella contemplativa . Dante dunque non volle altro dire, se non che Beatrice, in mezzo alla vita attiva in che era occupato, co’ suoi desiri lo menava ad amar Dio, cioè l’amore di Beatrice gli era stimolo ad amare Dio sommo bene; e perciò non dice propriamente che era menato a contemplarlo come somma Verità, né a meditarne nella solitudine i misteri. Di qui è che la donna amata gli rimprovera d’aver seguito false imagini di bene, non già la vita attiva, siccome quella che non è per sé contraria al fine ultimo, né fa piangere per sé stessa, ma sì per le colpe commesse nell'uso de’ suoi beni, onori, piaceri e ricchezze, chi li cerchi con lo sviarsi dall'amor di Dio. La pargoletta o altra vanità con sì brev’uso: ecco le false imagini di bene, seguite da Dante, in cui pose il cuore, che Beatrice gli sollevava a Dio .
Scossa la base, alla causa del F. non giovano né le lucubrazioni aggiunte sui pregi della vita contemplativa, che ben altro posto ottiene nell'economia morale della Commedia; né l’interpretazione che, a questo proposito, dà alle parole di Beatrice e alle risposte di Dante, sparse negli ultimi canti del Purgatorio.
Nell’interrogazione di Beatrice a Dante:
come degnasti accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?
il F. vede il senso: non sapevi tu che qui l’uomo raggiunge la maggior felicità possibile, in sua vita? Cotal felicità consiste nella contemplazione; «e tu, o Dante, dopo la mia morte ti sei straniato dalla contemplazione». Dunque la colpa di Dante sta nell'abbandono della vita contemplativa.
Ma si osservi anzitutto come il F. salti ben quattro canti per arrivare alla parola straniato, pur gravida di forte enigma, e stabilire la sua sentenza. Poi è da esaminare l’argomento in sé, per vederne la debolezza.
La maggior felicità, che l'uomo può godere nel Paradiso terrestre, è quella di Adamo, avanti la colpa, cioè «beatam vitam secundum quendam modum, ut Augustinus dicit, inquantum habebat integritatem et perfectionem quandam naturalem» , e in quanto era stato posto da Dio in quel giardino «ut operaretur sua et custodiret illum». Orbene, vita felice vi mena Matelda, però non contempla, ma va cantando ed iscegliendo fior da fiore, quasi giardiniera, e quindi, com'è ritenuta, simbolo della contemplativa, più che non della vita attiva. Beatrice dunque, parlando della felicità dell’Eden, non allude per sé alla contemplazione intellettuale, ma al complesso di tutti i beni che fan lassù l’uom felice. Di più si può osservare che se l’esser felice nel Paradiso terrestre si restringesse alla contemplazione di Adamo, anche la colpa d’Adamo sarebbe stato avanti tutto uno straniarsi dalla contemplazione. Il che invece conseguì, non come colpa, ma piuttosto come pena, qual è quella «obscuritas quae consecnta est ex peccato, prout scilicet impeditur homo a consideratione intelligibilium per sensibilium occupationem» . Analogamente per Dante: egli si diede, durante la sua vita attiva, alla pargoletta o altra vanità con sì brev'uso; e in ciò consistè il peccato rimproveratogli da Beatrice; del quale fu conseguenza lo straniarsi da lei, simboleggiasse ella o no la contemplazione o la sapienza . Tuttavia, nei versi:
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
alla salute sna eran già corti,
fuorchè mostrargli le perdute genti,
confessa il F. che «si potrebbe, a prima vista, vedere un accenno a qualche cosa di molto grave, a una vita disordinata e viziosa, di gran peccatore». Ma, osserva, bisogna tener conto che Dante voleva mostrarsi umilissimo in tutto e per tutto; che a siffatte esagerazioni soleva portare l’entusiasmo per la vita contemplativa; che, se fosse stato «un volgare peccatore», le tre donne benedette, Maria soprattutto, non avrebbero curato di lui, né Beatrice seguitato ad amarlo, né Dio concessogli la grazia di visitar l’oltremondo. Ma l’umiltà sta benissimo dopo una gran caduta; le esagerazioni d’umiltà, frutti di pensier contemplativi, non fanno capolino nella Commedia: fossero pur stati orribili i peccati di Dante, egli, come il suo Manfredi, non avrebbe mai disperato della divina Cura, ché sapeva che
la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei;
e nel suo concetto, della misericordia di Dio erano appunto simboli Maria e Je altre due donne benedette. Che se Lucia ricorda a Beatrice, per muoverla al soccorso, che Dante l’amò tanto ch’uscio per lei dalla volgare schiera, non so chi possa pensare che la volgare schiera donde uscì per amor di Beatrice il poeta della Vita Nuova e del Canzoniere, fosse quella de’ volgari peccatori per divenir, a onore di Beatrice, peccatore illustre, e rimeritarsi l'amor celeste di lei. Purtroppo anche la gloria può inzaccherarsi di fango. Ma l’amore e la fama di Dante non velano agli occhi di Beatrice le colpe di lui, ed ella non attenua per nulla le supposte esagerazioni, come crede il F., le va anzi aggravando e specificando fieramente, volgendo il suo parlare a lui per punta, che pur per taglio gli era paruto acro.
La donna celestiale riprende il suo fedele d’aver volti i passi suoi per via non vera; e al Filomusi pare che via non vera non valga ‘ via fallace’, ma ‘ men verace’, perché il cammino della vita attiva è solo qualcosa men verace del veracissimo, che è quel della contemplativa. Siffatta stiracchiatura di via non vera a via men verace vorrebbe salvare la presupposta colpa di Dante nel seguir la vita attiva; e dimostra in cambio la via non vera dell'interpretazione del F. Infatti, Dante stesso nel verso che segue spiega la via non vera per via falsa e fallace, non men verace; aggiungendo che andò nella via
… non vera
imagini di ben seguendo false
che nulla promission rendono intera.
Risulta pertanto che le attenuazioni non le fa Beatrice, ma il F. Onde attenua anche il senza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda,
in esiguo, scarso scotto; significato che può avere alcuno quando non si accompagni — così almeno insegnano le grammatiche e i dizionari — con particella negante, com'è la preposizione senza: in tal caso vale nessuno . Beatrice poi non esigno, ma assai gran pentimento richiede: confessione, lagrime, sospiri, svenimenti; che però pel F. «tutti han qui un senso mistico», quasiché il senso mistico non supponga, o escluda il senso letterale. E, nel suo senso mistico, la confessione, le lacrime, i sospiri sarebbero segni ed effetti della consolazione e della gioia della contemplazione: quindi non lagrime di pentimento per la grave colpa commessa, bensì lagrime di amore contemplante, sospiri di gaudio, confessione della grandezza divina. C’è, sì, una contemplazione, da Beatrice proposta a Dante; ma non è proprio la contemplazione di Dio e del Paradiso, bensì dell'Inferno, e delle sue colpe, dell’abisso della sua miseria, de’ suoi demeriti, dell'abuso della grazia, e delle buone ispirazioni: sott'esso grave carco, cioè delle memorie triste del peccato, sgorgano fuori lagrime e sospiri, s’allenta la voce, confusione e paura gli pingono
un tal sì fuor della bocca,
al qual intender fur mestier le viste.
E pure il F. vede qui la contemplazione di Dio: perché «Beatrice menava Dante ad amar quel bene, che eccede ogni altro bene, cioè Dio, la verità, che è l'oggetto della contemplazione». È uno scambio di carte: Beatrice parla di amor di Dio, come bene desiderabile sopra ogni altro bene; e il F. ragiona di Dio non come bene, ma come verità, oggetto di contemplazione: sostituisce l’intuito all'amore, l'intelletto alla volontà, e a Dio bene e termine della carità Dio verità e termine della fede e della contemplazione. Non che Dio non sia insieme bene e verità; ma per distinzione di ragione, in Dio, il concetto di bene non è il concetto di verità; e però diversamente è termine delle virtù teologali, onde ne segue che si può perder la carità che lo ama come bene senza perder la fede e la speranza che a lui tendono come principio di verità e di beatitudine.
Di qui anche la mala interpretazione degl’impedimenti di Dante (fosse attraversate, catene, agevolezze, avanzi) ad amar Dio, dal F. trasformati in ostacoli alla vita contemplativa, derivanti da’ beni che la vita attiva presenta.
Ma, poiché il F. concede che la vita attiva è buona, e in essa si trova anzi l’imperfetta beatitudine, non si arriva a comprendere come Beatrice con tanta insistenza la biasimi in genere e in sé stessa, posto che sia solo impedimento alla contemplazione. Né le ragioni, che di ciò si recano, sono convincenti, nemmen quella fondata nel simbolo delle tre Marie che vanno al sepolcro. Nelle quali, secondo Dante , sono raffigurate le «tre sette della vita attiva, cioè gli Epicurei, gli Stoici, e i Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente.... e domandano il Salvatore, cioè la beatitudine e non la trovano», ma trovano invece un angelo, ossia la ragione che parla e dice a ciascuna di queste sette che la beatitudine non è qui, cioè nella vita attiva, se non imperfetta, in quanto è operazione di morali virtù. Dante quindi in quel brano del Convivio considera la vita attiva come esercizio delle virtù morali, e tra le sette pone anche quella degli Epicurei, perché anch’essi praticavano le virtù morali per fuggire i dolori del vizio , sostenendo il sommo bene essere «Voluptade cioè diletto senza dolore» . Non fa quindi specie che risguardando le virtù morali, cui in qualche modo praticavano, anche gli Epicurei si potessero dall’Alighieri noverare tra i seguaci della vita attiva, che consiste nelle operazioni delle morali virtù. Risguardando invece i vizii, in che ponevano il piacere, e la via non vera, per cui lo cercavano, non più la vita attiva, ma la voluttuosa vivevano, fermandosi come a fine ultimo nella voluttà presente, e facendo morta l’anima col corpo; e però Epicuro co’ suoi seguaci è tra gli eresiarchi condannato dall'Alighieri nell’Inferno.
Ma domanda il F.: poiché (com’ egli crede) Dante non peccò moralmente nella vita attiva, ov’è dunque la colpa di lui? «Non fu vera e propria colpa, — risponde, — fu errore». E cita in prova le parole di Beatrice:
perché me’ vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta
udendo le sirene sie più forte,
pon giù il seme del piangere ed ascolta.
Ma, di grazia, di che errore parla Beatrice? Secondo il F., l'errore di Dante sarebbe stato nell’aspettar più colpi, dopo fallitogli il sommo piacere nelle faccende della vita attiva: «nell’indugiare a uscir dal campo di preparazione della vita attiva, invece di assalire prontamente la rocca della contemplazione». Il disinganno della vita attiva doveva essergli sprone alla vita contemplativa. Però questo errore non fu intellettuale, ma morale; che non, iscusa, ma porta vergogna . Fu un aspettar più colpi, un indugiare volontario e però colpevole, in quanto, udendo le Sirene, non fu forte, non resistè loro vittoriosamente, ma seguì il falso piacere, le false imagini di bene: però doveva vergognar- sene, e imparare a esser, altra volta, più forte. Beutrice dunque chiama errore la colpa, in quanto l'errore della volontà è l'approvazione del male sotto l'apparenza del bene piacevole, come l'errore della mente è l'approvazione del falso sotto la specie del vero. Del resto ella l'aveva, tre versi prima, appellato peccato , quale era di fatto l’aspettar più colpi, come spiega il F. stesso, «da amori di donna (pargoletta) o da altri vani piaceri (vanità) che poco durano, e che, nella vita attiva, gravano in giù le penne dell'intelletto», o, come piuttosto io direi, della volontà, che era quella che avrebbe dovuto levarsi, di retro a Beatrice, ad amare il sommo Bene.
Pel F., invece, la vergogna, la maggior doglia che Dante doveva prendere, riguardando Beatrice, sarebbe la doglia d’aver alla vita attiva posposto il diletto della contemplazione, cui simboleggerebbe quel crescimento di bellezza in
Beatrice volta in su la fiera
ch'è sola una persona in due nature.
Alla qual vista, dice Dante,
di pentir sì mi punse ivi l’ortica
che di tutt’altre cose qual mi torse
più nel suo amor più mi si fè nemica.
Ma neppur qui quadra tale interpretazione. Dov'è mai il rimpianto del perduto diletto della contemplazione? Davanti alla cresciuta bellezza di Beatrice rivolta al Grifone, Dante sente più forte il pentimento dei suoi traviamenti d’amore, perché quella vista meglio gli fa conoscere le ingiurie da lui fatte a Dio, onde, secondo conveniva, per motivi soprannaturali della Fede e del Verbo per la salute del mondo incarnato, concepisce la più viva contrizione o detestazione de’ suoi falli, col proposito di non più ricadervi, frutto del maggior odio verso ogni cosa dianzi più tortamente amata. E però tanta riconoscenza, cioè riconosci. mento del peccato il cor gli morse, che cadde vinto.
In questa scena, più che il perduto diletto della contemplazione, vibra il concepito dolore della propria miseria, conosciuta, come in uno specchio, nella visione illuminativa della fede; che può dirsi, caso mai, contemplazione causativa non di diletto, ma di pentimento, se è vero che anco la contemplazione de’ grandi misteri della fede recipitur per modum recipientis; e però eccita gioia, dov’ è sicurezza di coscienza e purità di animo; terrore e pentimento, dove è colpa e rimorso.
Insomma anche qui la scena non si svolge nel campo intellettuale, ma nel morale; e la parte intellettuale intanto c'entra inquantoché alla volontà preluce sempre l'intelletto, e agli atti morali e soprannaturali i principi della ragione e della fede, comunque, anche senz’altra contemplazione, ma per semplice riflessione, appresi. Beatrice sembra ripetere a Dante quel di Paolo: Imitatores mei estote, sicut et ego Christi . Fissando il Verbo incarnato, insegnava all'amico col suo esempio la via della perfezione, il modo di purificarsi, abbellirsi e trasformarsi : sicché l'effetto della sua nuova bellezza fosse di far rientrare in sé Dante e avviarlo a conoscere il disordine della vita trascorsa. E però non si può concedere al F. che la purificazione del fiume Lete dovesse aver per effetto l’astergere dall’intelletto del contemplante La memoria delle cose corruttibili, ma sì, com'è proprio di quel rivo, la memoria del peccato ; cosa ben diversa, perché nel cielo i beati, se obliano le colpe del mondo, non han tuttavia perduto la memoria del mondo corruttibile, in che le han commesse.
Alla sua allegoria della contemplazione il F. fa collimare anche il simbolo delle sette donne che seguono il trionfal veicolo, in quanto le quattro virtù cardinali e le tre teologali dispongono e giovano alla contemplazione. Che abbiano anche questa dote, è innegabile; ma la questione sta in vedere se nella scena di Dante esplichino questo o un altro effetto. Dante, tratto di Lete, è consegnato alle quattro belle in porpora vestite che lo coprono del loro braccio, perché, purificato e rimessosi col pentimento in grazia di Dio, riacquisti tutte le virtù morali infuse, connesse con la carità, che le informa, e rappresentate in complesso dalle cardinali, dentro alla cui danza è offerto. Da queste è menato poi agli occhi di Beatrice, giacché le virtù cardinali infuse, nel tendere al loro oggetto hanno per fine l'ordine soprannaturale, o divino, in cui Dio è oggetto delle virtù teologali, le tre Dee che miran più profondo e aguzzan gli occhi di Dante nel giocondo lume della Verità rivelata. Si noti che esse pregano Beatrice a mostrar gli occhi santi al suo fedele, ma non lo prendono nella loro danza, come le altre quattro. Perché? Perché, se Dante con la colpa grave perdette la grazia e le virtù connesse con la carità, non perdette però mai la fede e la speranza, che possono stare informi con ogni peccato mortale che sia loro specificamente non contrario. Dante perciò rivestendosi di grazia rivesti insieme con le virtù morali la carità, ma non la fede e la speranza, che riunite con la grazia e la carità, da cui è tolto l’impedimento del peccato, ridivengono formate e giovevoli a salute.
Nella scena dunque del rimprovero di Beatrice, del pentimento e della purificazione di Dante il primo concetto nascoso è la riabilitazione del peccatore e la ricuperazione delle virtù e dei meriti mercè della penitenza. A tutto ciò segue, come frutto e conseguenza, l'apprezzamento che della grazia ricevuta fa l'intelletto ai lumi delle dimostrazioni (occhi) e delle persuasioni (riso) della Verità rivelata, insieme col maggior studio di penetrare gli ammaestramenti, sia pure secondo i diversi gradi della contemplazione. Altra cosa pertanto sono le disposizioni, in sé considerate; altra la contemplazione. Dante purificandosi si prepara bensì alla contemplazione delle scene seguenti, in cui egli non ha più parte attiva; ma questa preparazione non è contemplazione per sé, sebben le vada congiunta la meditazione e la visione di cose, destinate più che a pascere, come fa la contemplazione, l'intelletto, a muover la sua volontà e il suo cuore a verace e profondo riconoscimento di sé stesso, ossia a un rinnovato pentimento, e a una maggior detestazione de’ peccati già detestati e confessati nelle sette cornici, poiché è da pensare che Dante è entrato già in grazia nell'eccelso giardino, e nella grazia col pentimento venne crescendo. Trasformando invece, come fa il F., tutta la via purgativa in via contemplativa, invece di chiarire non si riesce che a confondere, e avvolger di nuove tenebre gli enigmi danteschi.
L'ultimo argomento, che il F. rechi a sostegno del preteso errore di Dante è tolto dai famosi versi del ce. XXXIII, ove si ragiona del perché Dante non può seguitare la parola volante di Beatrice. Ma per non dilungarci troppo passiamo innanzi, tanto più che di questo ‘ enigma forte! non ci sembra che il F.-G. sia stato l'Edipo. Crediamo ciononostante di aver detto abbastanza per scuotere il ‘caposaldo’ dell'allegoria fondamentale proposta dal F., cosicché scemano di forza gli altri simboli che vi si appoggiano, e potremmo sbrigarcene in poche parole. Per lo meno, sceglieremo tra essi, di alcuni dando soltanto la nuda notizia, e saremo sempre brevissimi.
Secondo interpetra il F., la selva raffigura la vita attiva, nella quale la diritta via era smarrita, non dal solo Dante, ma da tutti i suoi contemporanei; il sonno, ond’era pieno il poeta, quando abbandonò la verace via, l’ottenebramento dell'intelletto, errore di principii, difettivi sillogismi, in chi, datosi tutto alla vita attiva, si allontana dalla contemplativa; la diritta via, quella che mena alla contemplazione; la piaggia deserta, i primi passi contemplativi; il colle, la vita contemplativa; il piè fermo sempre più basso, l'andare di Dante verso la sommità del colle, tendendo alla contemplazione prima in linea retta, secondo il moto retto di Dionisio, poi secondo il moto obliguo , ossia obliquamente, da destra, in modo, cioè, che il piè destro (che sarebbe il fermo) sia sempre il più basso; l'ora del tempo e la dolce stagione, l'ora e la stagione più propria alla contemplazione, ch'è il principio del mattino, e la primavera, quando si risveglia la natura; l’altro viaggio, quello della Teologia morale, contemplata ne' vizi e nelle virtù attraverso l'Inferno e il Purgatorio; viaggio men difficile di quello della Teologia dogmatica, oggetto di più alta contemplazione .
Si può notare anzitutto che il F, pone la diritta via entro la selva, mentre Dante afferma d'esservisi ritrovato come per caso, perché la diritta via era stata da lui smarrita, certo fuori della selva e prima dell'ingresso in quella. Non può dunque la selva selvaggia ed aspra e forte contenere la diritta via che mena alla contemplazione, né esser la vita attiva, la quale per sé è buona, cioè operazione di virtù, e però, ove divenga cattiva o viziosa, scade del suo essere e si fa vita erronea, voluttuosa; confina e mena nella selva oscura. Quindi se la diritta via conduce alla contemplazione, sarà, se mai, essa la vita attiva, non la selva, l’entrar nella quale falsamente il F., per sostener la sua opinione, spiega coll’internarvisi, verbo che dice qualcosa di più che non l’entrare, ossia il passare dal di fuori al di dentro. La selva altro non è che il terreno fatto maligno e silvestro col mal seme e non colto . È l'amara selva di questo mondo , posto nel maligno delle famose concupiscenze della carne e degli occhi, e della superbia della vita, figurate nelle tre fiere. Migliore pertanto dell’interpretazione del F. ci pare la tradizionale e comune, che spiega la selva per vita viziosa e peccaminosa.
Per il leone, simbolo della superbia, e per la lupa, simbolo dell'avarizia, il F. s'accorda coi più; ma per la lonza sta co' pochi, e crede simboleggi l'invidia, perché, a differenza della lussuria, è vizio spirituale, e poi «conveniva specialmente che a Dante attraversassero la via della contemplazione le passioni spirituali in genere anziché le carnali». A me pare invece più conveniente il contrario, nel caso di Dante; perché la lussuria, come con S. Tommaso ricorda il F., «più d’ogni altra passione distoglie dalla contemplazione», e il suo simbolo, la lonza, è anche il primo ostacolo che si oppone a Dante, sebbene con minor furore del leone e della lupa; il che non vuol dire che non impedisca a Dante la via. Nè giova all'opinione del F. la citazione del Liber de contritione cordis, c. 5: «Isti annt inimici miseri hominis, superbia, invidia, inanis gloria». Questo ternario, tolto da una preghiera di Anselmo , può alludere ai peccati o alle tentazioni di un monaco contemplativo, o di un santo; non già di un uomo di mondo, qual fu l’Alighieri; non fos- s'altro, perchè, con l'invidia e la superbia, non novera, come pare sup- ponga il F., l’avarizia, ma un vizio, omogeneo alla superbia, l’inanis gloria. Di più il ternario dei tre vizi proposti dal F. non può competere, per vigor di tradizione, di diffusione e di fama, con l'altro ternario di ambitio, avaritia, luxuria, vizi, per aggiungere qualcosa a quel più che altrove ne ho detto , che fin da’ loro tempi i due Catoni rinfacciavano ai nobili romani, e nell’età prossima a Dante Caterina da Siena vituperava, come tre colonne di vizii, nella Chiesa e nel mondo .
Contro l’avarizia, simboleggiata nella lupa, verrà il Veltro, che, secondo il F., «non è né Benedetto XI, né Arrigo VII, né Uguccione della Fagiuola, né Cangrande della Scala, né Castruccio Castracani, né lo stesso Dante, né alcuno de' molt’altri personaggi determinati, a cui si son rivolti, dal secolo XIV ad oggi, gli sguardi indagatori degl’ interpreti», ma lo Spirito Santo, il cui terzo regno, dopo quelli del Padre e del Figliuolo, era stato antiveduto dall'abate Gioacchino «di spirito profetico dotato». Chi se lo sarebbe imaginato? Esso però non s’identifica col DXV: questi sarà «un salvatore, una specie di Noè... tipo, figura dello Spirito Santo, del secondo vero Salvatore, del Veltro». Per dimostrar quest’interpretazione ricorre alla preziosa cabala di Rabano Mauro, giusta la quale il cinquecento ricorda i 500 anni di Noè, secondo capostipite e salvatore del genere umano, quando, in quell'età de’ giganti, pose mano all’arca; il dieci e cinque, cioè quindici, contiene ì misteri del 7 e 8, simboli. della legge dell’Evangelo, e della quiete e della risurrezione . Al che il F. aggiunge di suo che il quindici misura pure l’altezza de’ cubiti dell’acque del diluvio sulle montagne. Ma più che al 7 e 8 il F. avrebbe dovuto, come suggeriva Dante, pensare al 10, simbolo del decalogo e della perfezione dell’opera, e al 6, figura del Pentateuco e de’ cinque sensi; che forse gli avrebbero risparmiato di straniarsi troppo dall’Alighieri. Comunque sia, dalla cabala di Rabano il F. deduce che il DXV è un pacificatore per la quiete, un purificatore pel battesimo del diluvio, un salvatore per la figura di Noè, preveduto forse in Arrigo VII. Neppure dunque il prezioso aiuto di Rabano Mauro ci accerta il personaggio, e nulla di più di quel che già sapevamo o indovinavamo ci fornisce la sua cabala.
Di maggior considerazione è l’allegoria delle cinque guide: «Virgilio simboleggia l'intelletto de' principii; Stazio e Matelda, la scienza delle conclusioni, che, sebbene dall’intelletto dipenda, pure contiene in sé qualche cosa di più che non l'intelletto de’ principi; Beatrice simboleggia la sapienza come virtù o abito intellettuale speculativo principalissimo, e dal quale dipendono l'intelletto e la scienza; infine, San Bernardo la sapienza come dono dello Spirito Santo, cioè come eroica, divina virtù».
Contentiamoci di vedere quel che ne risulta per Virgilio. Egli dunque sarebbe l’abito intellettuale speculativo o virtù intellettuale, che si chiama intellectus e habitus primorum principiorum, de’ quali principii primo è quello di contradizione, cui seguono gli altri universalissimi, del tutto maggiore della parte, dell'effetto esigente la causa, ecc. Il simbolo di Virgilio vien così ridotto a’ minimi termini, alla più imperfetta cognizione che si possa dare delle cose, poiché consisterebbe in «contemplatione quae est secundum intelleetum principiorum, quae est imperfectissima, sicut maxime universalis, rerum cognitionem in potentia continens, et est principinum, non finis humani studii, a natura nobis proveniens, non secundum studium veritatis» . Infatti la cognizione de’ primi principii è a tutti comune, dotti e ignoranti che siano, siccome indita all'uomo, senza studio profondo, dalla natura stessa. E il F. attenua ancor più il simbolismo di Virgilio ne' Novissimi studii , dove, ragionando del disdegno di Guido, lo interpreta come un modo poetico d’'esprimersi, null’altro, sotto cui si cela il vero senso allegorico di Virgilio, simbolo non della ragione, ma dell'intelletto, quale risulta dal senso allegorico del nuovo ufficio di guida per la valle buia, secondo cui Virgilio è anche simbolo del nuovo carattere della teologia e filosofia tomistica, consistente nel nuovo concetto di intelletto attivo o agente e intelletto passivo o possibile sostituito da S. Tommaso al concetto averroistico . Sicché l'intelletto come distinto in possibile e agente, quale è in ogni anima, «è precisamente il concetto simboleggiato nel Virgilio di Dante, prima guida alla vita contemplativa»; e in tal senso Guido Cavalcanti avrebbe disdegnato Virgilio. Con questa nuova dilucidazione il F., mentre crede di chiarire il simbolo di Virgilio, lo peggiora e oscura.
Ridotto infatti Virgilio a figurare «l’intelletto come San Tommaso lo concepì» di fronte ad Averroè, si sveste della giornea dell’habitus primorum principiorum; perché quello è la potenza o facoltà naturale, questo ciò che primo emana da quella potenza; quello è il principio dell’intendere, questo la somma delle prime cose intese; quello la cansa, la luce per cui si vede, questo l’effetto, la cosa veduta ai primi lampi di essa luce. Né l’uno si può confondere o pigliar per l’altro nella dottrina tomistica, senza frantendere tutta la teoria scolastica dell’intellezione. Se dunque il F. risolve il suo Virgilio allegorico nell’intelletto agente e possibile, lo riduce su per giù a tabula rasa in qua nihil est scriptum.
Ma Virgilio è invece per Dante ‘il mar di tutto il senno’, ecc. Lo ammette pure il F., anzi arriva a dire che Virgilio rappresenta «la massima altezza a cui l'intelletto umano, considerando i principii in sé, potesse innalzarsi, fino al punto cioè, d’indovinare, sia pure inconsciamente, senza la fede, uno de' più riposti misteri della fede», cioè la venuta di Cristo. Dal che si pare la confusione che il Filomusi fa dei concetti, a che può prestarsi la dizione di intellectus principiorum; è l'estensione inaudita che le dà, non certo, come vuol far credere, secondo la filosofia e la teologia tomistica. L’intelletto che prima era ristretto alla facoltà pura di intelletto agente e possibile, o virtù intellettuale contenente i primi principii, qui si allarga, s'innalza a superare perfino i limiti della ragione e approssimarsi all’ispirazione di un inconscio profeta. Ma ciò non può stare. Per quanto Virgilio considerasse i principii in sé, che sono poi i principii e gli assiomi indimostrabili della cognizione e della scienza, da non confondersi co’ principii dell’essere e delle cose, e molto meno col principio dell'universo o Dio, non avrebbe potuto, solo per quelli, innalzarsi, non che all’intuizione di alcuna verità della Rivelazione divina, a grande altezza nella conoscenza naturale.
La confusione del F. nasce dal ravvicinare e identificare, sotto l’inganno del vocabolo intelletto, diversi sensi a che può estendersi; e quindi arriva a vedere in Virgilio, non più il semplice habitus primorum principiorum, ma la somma potenza dell'umano intelletto sì nella scienza, come nell'arte della poesia, la quale, dopo Virgilio, non aveva più parlato sì bene, e però egli per lungo silenzio parea fioco. Identifica quindi, a poco a poco, con l'intelletto delle prime nozioni anche le altre virtù dell'arte e della scienza, che spettano non all'intelletto, ma alla ragione; e scambiando, senz’accorgersi, la somma di pochi principii del. l’intelletto con la scientifica e artistica perfezione della ragione, conclude, con la più tranquilla sicurezza, che «Virgilio tanto propriamente si dirà intelletto, quanto impropriamente è stato detto ragione» .
Né giova molto al F. l'argomento dedotto da S. Tommaso, che chiama l'intelletto, più principale, o perfetto, della ragione, come la quiete è più perfetta del moto; perché si tratta di perfezione non assoluta, essendo intelletto e ragione la stessissima potenza, ma di perfezione relativa, in ordine all'atto particolare, che nell'intelletto tiene dell’immobilità dei primi principii, nella ragione s'informa della successione delle conclusioni per via di raziocinio. Ma, come l’essere universale, su cui si fondano i primi principii, ha solo perfezione di radice, per quanto necessaria, nella costituzione della natura di uomo, che in sé molte altre perfezioni inchiude oltre al semplice essere; così i primi principii han perfezione di fondamento immobile riguardo alla scienza che sopra vi si costruisce: ma questa, come casa edificata, è assai più perfetta che non la rupe immobile, su cui posa. Tale è il concetto tomistico dell'intelletto e della scienza, chi non voglia far dire all’Aquinate quello che mai non sognò . A Virgilio succede nel magistero e nella scuola Beatrice, che, secondo il F., «simboleggia la sapienza come virtù e abito intellettuale speculativo, principalissimo, dal quale dipendono l'intelletto e la scienza, mentre San Bernardo, che nell’Empireo subentra a Beatrice, simboleggia la sapienza come dono dello Spirito Santo, cioè come eroica, divina virtù». Anche nella spiegazione di questi simboli il F. non ischiva le inesattezze filosofiche e teologiche, ma non ci soffermiamo, perché la via lunga ci caccia innanzi.
In mezzo a sì nuova Ince di simboli, di che è dunque imagine il protagonista, Dante? Non simboleggia, risponde il F., l’uomo «prout merendo vel demerendo per arbitrii libertatem, Iustitiae praemianti vel punienti obnoxius est». Perché, se così fosse, «simboleggerebbe prima il più gran peccatore che mai fosse stato al mondo, inquanto avrebbe commessi tutti i peccati possibili; poi il peccatore che, pentitosi, si purga su per le cornici della sacra montagna: infine, l'uomo virtuosissimo, inquanto» ché avrebbe avute tutte le possibili perfezioni». E, per conseguenza, avrebbe dovuto provare tutti i supplizi dell'Inferno, tollerare tutte le pene del Purgatorio, gustare tutti i diletti del Paradiso, vedere e il proprio seggio, come quel d’Arrigo, preparato nell’ Empireo, e tutti i misteri divini. Invece: semplice spettatore, esce d'Inferno, rigira il sacro monte, e vola a Dio; e in nessun luogo vede il suo seggio.
Ma, per essere imagine dell’uomo peccatore, penitente e beato, è proprio necessario l'aver commesso tutti i peccati, anche gl’incompossibili, il soffrire tutte le pene, e il veder già fisso il proprio posto nel cielo? Via: anche un sol peccato mortale, un sol atto di penitenza, come quel del buon ladrone, un sol atto di fede, come quel di Traiano, basta a porre l’uomo tra i peccatori, tra i penitenti, tra î beati, e gli dà il diritto di rappresentare tutta la classe in genere o de’ peccatori, o de’ penitenti, o de’ beati; in quanto con essi conviene in una nota specifica differenziale e costitutiva. Di più: Dante simboleggia l’uomo ‘vivo, non morto; e però passa attraverso l’oltremondo, non come anima senza corpo, dannata, purgante o beata, ma come viatore vestito ancora di quel d’Adamo; in statu viae, non in statu termini; in quanto, ancor merendo vel demerendo, sta di fronte alla divina giustizia, e vede le pene e i premii che Dio giudice tiene preparati a chi muore con buoni o cattivi meriti, sieno pochi o molti, di questo o di quel genere. Dante, come individuo, mentre passa innanzi alle pene o al gaudio altrui, si ricorda del suo male e del suo bene individuale, e ne prova aborrimento, dolore e gioia speciale; dà in sé l’esempio di quel che può aver fatto, e de' sentimenti che proverebbe un individuo, non tutto il genere umano; come individuo, di tutti i morti in specie, non dei singoli, ma di alcuni, considera i delitti, le pene e le gioie; e per questa considerazione basta l'occhio del corpo e della mente, non occorre aver la piena reità o purità morale né il rimorso o il merito di tutto ciò che di male o di bene fuori si contempla.
E altro si potrebbe dire: ma affrettiamoci piuttosto a imparare dal F. che cosa Dante simboleggi. Simboleggia nel senso allegorico lo studioso di Teologia, che, diversamente da quanto si praticava e tuttora si pratica nelle scuole de’ religiosi, incomincia dalla Teologia morale, e poi passa alla dommatica; nel senso morale rappresenta l’uomo, che non avendo trovata la perfetta beatitudine nella vita attiva la cerca e la rinviene quasi perfetta nella vita contemplativa, cioè nell'operazione delle intellettuali virtù simboleggiate nelle tre principali guide, Virgilio, Matelda, Beatrice; infine nel senso anagogico figura l'uomo che, uscito dalla servitù della corruzione, acquista quella libertà che è dov'è lo spirito del Signore; e per la quale, contemplando a faccia scoperta la gloria di Lui, siamo trasformati nella sua stessa imagine; «in altre parole, e d'accordo con Gioacchino Calabrese, raggiunge la libertà della contemplazione, ascendendo per i quattro gradi della scala del Paradiso, lectio, meditatio, oratio, contemplatio». Qui basti osservare quanto al senso allegorico, che Dante, come studioso di Teologia, nella visita dell’oltremondo, perde più tempo a guardare, che a sentir lezioni: e la Teologia morale, che a' suoi di non si separava dalla dogmatica, l'apprende tanto, quanto s'impara il codice penale nella visita dei reclusorii e delle prigioni, con la guida di un avvocato. Nel Paradiso c'è più dogmatica; ma, tutto sommato, è troppo poca, e se basta pe’ problemi del momento, non basta per tramutare il visitatore in studioso di Teologia. Dante le aule teologiche le aveva già frequentate, né erano nell’oltremondo. Pensava meglio il Benassuti, quando interpretava il viaggio dantesco applicandovi il metodo degli esercizi spirituali. Gli altri due sensi, il morale e l’anagogico, con parole diverse, dicono il medesimo; tanto più che la spiegazione del senso anagogico fondata su Gioacchino esclude la visione immediata di Dio dalla contemplazione di quaggiù. Infatti, come il senso morale principia dalla vita attiva, in cui Dante, peccando, si smarrì, per arrivare alla vita contemplativa; così l’anagogico muove dalla servitù della carne e della corruzione, ch'è nella vita attiva, per raggiungere la libertà della contemplazione. E, del resto, è falso che nella vita attiva non ci sia felicità, quando le operazioni delle virtù morali sieno indirizzate a Dio; c'è pure una felicità imperfetta, che appaga tante anime religiose occupate nelle faccende della vita attiva.
In conclusione, il concetto fondamentale che sorregge l’allegoria proposta dal F., tien troppo dell’intellettivo a scapito del morale: il ridurre tutto alla contemplazione intellettuale scema o sopprime l’azione morale che più dà vita al poema. La visita dell'oltremondo dantesco diviene visione di scene da cinematografo; Dante che pur tratta con quelli che vede, cessa di esser parte del dramma, e attore principale, a cui salute si muove il Cielo, si oppone l'Inferno, il Purgatorio suona de’ più fieri rimproveri della donna amata, e tutto il Paradiso è in moto a far segno di sua gloria.
Non possiamo fermarci a considerare ad uno ad uno altri nuovi studi, che seguono all’allegoria fondamentale. Solo de’ più notevoli toccheremo, e più brevemente che ci verrà fatto.
Sulla questione intorno al peccato degli antichi spiriti del Limbo e alla durata della loro pena, il F. confessa d’aver meditato forse più a lungo che su ogni altra, e di nessun'altra conclusione essersi tanto compiaciuto come di quella a che è giunto. Ma, certo più di lui, vi meditò il Bottagisio , rimasto ignoto al F., che perciò afferma il peccato di quegli spiriti non essere stato ancora teologicamente definito, neppure dai commentatori teologi. Ad ogni modo, per quanto questo paia al suo autore uno de' suoi migliori studi, è però bisognoso di non lievi correzioni.
Sta bene che il non adorare debitamente Dio ricordi quel genere di superstizione, che consiste nel prestar culto al vero Dio, ma in modo indebito; e che uno di questi modi sia il difetto che ritrae il culto esterno dalla mancanza interna che fu, in quei del Limbo, delle tre virtù teologali. Tuttavia il processo logico avrebbe dovuto essere diverso, anzi andrebbe rovesciato, Il F. meglio avrebbe fatto, se, stabilito prima dalle parole di Dante il concetto del peccato di quegli spiriti, l'avesse poi chiarito con S. Tommaso e S. Agostino; invece fissato secondo la loro dottrina quel peccato, come genere di superstizione, tira Dante a sottoscrivervi. Stando al poeta, quegli spiriti non peccaro, e quindi non si gravarono del peccato di superstizione: non per fare, ma per non fare perdettero di veder Dio, cui, come autore dell'ordine soprannaturale della grazia, tardi, cioè nella discesa di Cristo al Limbo, conobbero; non per altro rio lo Ciel perdettero che per non aver fè, non avendo vestito le tre virtù, per quanto avesser senza vizio conosciute e seguite tutte le altre; hanno però mercedi, cioè meriti per il bene fatto, non valevoli tuttavia a vita eterna, benché sufficienti a esimerli dalla pena del senso nell’Inferno. Se alcuni hanno la scusa d’ essere stati dinanzi al cristianesimo, non l'hanno già Lucano, Seneca, Saladino, Averroè; tutti però non adorar debitamente Dio, in quel modo almeno che si esigeva nell'ordine soprannaturale per salvarsi; perché del resto nel culto naturale di Dio Dante suppone non abbiano peccato, né per parte dell'oggetto, adorando ciò che non era Dio, né per via del modo, usando formole e cose con rito sconveniente o peccaminoso .
A spiegar quindi la colpa degli spiriti del Limbo meglio era, come fecero il Bottagisio, il Flamini e altri, ricorrere al concetto tomistico dell’infedeltà negativa, che non alla positiva, come propone il F., che fa consistere quella colpa in renitendo fidei nondum susceptae, per positiva renitenza, secondo spiega ivi l’Aquinate . Infatti l'essere stato Virgilio ribellante alla legge di Dio va preso, nel senso negativo, per semplice ignoranza, la quale in lui piuttosto che colpa è pena del peccato originale, non avendo egli, come Dante suppone, nulla udito della fede .
Sennonchè il F. afferma che «per il tramite de’ filosofi, Virgilio conosceva la legge» di Mosè o almeno il precetto di non fare scolture o imagini delle creature, relativo al culto a cui si ribellò. Ma oltreché legge di Dio è anche la legge naturale, che pur vieta l’idolatria, gratuitamente si afferma la conoscenza del precetto mosaico, per esser ribelle a Dio, nel caso di Virgilio. Il quale, secondo la sentenza di Dante, e l'ammette il F., non avrebbe conosciuto Dio come autore dell'ordine della grazia, in cui entra pure la rivelazione mosaica; e pure avrebbe, secondo il F., conosciuto quel precetto mosaico, non in quanto è per sé dettato anche dalla legge naturale, ma proprio sotto la ragion di legge emanata dal Dio vero, e obbligatoria come tale. Che se concede il F. che Virgilio vi era tenuto, perché anche precetto naturale, in tal ipotesi, poiché la legge mosaica non obbligava per sé se non gli Ebrei, Virgilio non poteva, caso mai, se non peccare come ribelle al precetto naturale di non adorare gl’idoli. Anche perché, mentre agli Ebrei non era lecito far nemmeno altre imagini o statue, posto pure che non le adorassero, potendo nascere pur sempre, per lo scandalo de’ popoli vicini, un tal pericolo, Virgilio, se fosse stato Fidia o Policleto, avrebbe potuto scolpire senza colpa, se non statue di dei, almeno statue ornamentali e d’altri personaggi. Ma il vero si è, nel concetto dantesco, che Virgilio non peccò neppure contro il precetto naturale, contenuto nel precetto mosaico; e fu ribelle solo come infedele negativo, per ignoranza della legge rivelata antica e nuova, non già della legge naturale, a cui, poiché non peccò, non può dirsi sia stato positivamente ribellante.
«Virgilio, scrive il F., dice dei suoi compagni di pena che la seconda morte ciascun grida» . Ora, si badi, questo verso è da' commentatori applicato in genere a’ dannati; oltredichè, pigliando pure grida per in- voca, mal s’attaglia agli spiriti del Limbo. E peggio poi conviene loro la nuova interpretazione di seconda morte, che il F., frantendendo S. Agostino , formala così: «che nella seconda risurrezione, che è quella dei corpi, potrà per alcuni de’ miseri, non esser riconfermata la sentenza di morte, cioè di dannazione; onde la morte seconda non sarà per loro». E gli antichi spiriti l’invocherebbero «per una vaga lontana speranza, che essi possano essere tra quei miseri».
Ma, pur troppo, «questa alta e liberale dottrina di S. Agostino (cioè ‘appiccicatagli dal F.) ...non trionfò nella Chiesa cattolica: trionfò invece quella più rigida, formulata da S. Tommaso; per la quale, neppure una vaga, lontana speranza di miglioramento sarebbe possibile che allignasse negli antichi spiriti del Limbo dantesco». Così il F., dilettante, com’ei si battezza, di teologia, mette tra loro in contrasto, con una nuova storia de’ dogmi, Agostino e Tommaso, su questo punto più che mai consenzienti; e fa dire a «Dante poeta e lirico, che ebbe pure, in materia di teologia, i suoi ardimenti», cose che mai non sognò; che cioè gli antichi spiriti « invocano il tempo della seconda morte, della dannazione definitiva; quando, per la bella dottrina di S. Agostino, potrà pure la misericordia di Dio risparmiare ad alcuni miseri la seconda morte».
Ma nel concetto dantesco gli spiriti del Limbo sol per pena han la speranza cionca, ossia non debole o zoppicante, come spiega il F., ma tronca, mutila, mozza, secondo quel che Dante, chiarendo il suo pensiero, altrove dice, che cioè quegli spiriti senza speme vivono in disio, quasi volesse metterci sull'avviso che speranza cionca val senza speme, come uomo con gamba cionca vale uomo senza gamba, e cane con coda cionca vale cane senza coda. Invece della speme rimane loro un desio insoddisfatto, non quetato,
ch’eternalmente è dato lor per Iutto.
Ed è il desiderio naturale di conoscere la causa prima, che solo nella visione beatifica ha il pieno suo appagamento; desiderio che fa in loro senza frutto, ossia senza soddisfacimento, perché la ragione umana, che non può veder tutto, non valse senza la divina rivelazione a veder la possibilità della redenzione nell'ordine soprannaturale:
State contenti, umane genti, al quia;
che, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era partorir Maria .
È un desiderio nella sua pena eterno, infinito, perché desiderio del fine ultimo .
Allo studio sul peccato degli abitatori del nobile Castello seguono cinque altri sulla scena dell'ingresso di Dante nella città di Dite.
Per città di Dite il F. intende solo il sesto cerchio: sentenza assai poco plausibile, come l’altra che «l’idea del nome di città di Dite venne certamente a Dante più assai che da Ovidio e da Virgilio, dalla civitas Babylonis di Sant'Agostino, che è l’antitesi della civitas Dei». Ma più di questo, richiama l’attenzione nostra il problema delle Furie e di Medusa. Pel F., le tre Furie simboleggiano le tre concupiscenze: Aletto, la concupiscenza della carne; Megera, la concupiscenza degli occhi, ch'egli riduce all’invidia; Tesifone, la superbia. E questa sua interpretazione allegorica egli la crede non «facilmente contestabile» e la difende contro le critiche mossegli da A. Farabino .
Anzitutto il principio donde parte, che cioè i peccati dell’Inferno dantesco sieno distinti secondo le cause, ignoranza, passione e malizia, ha men sicuro fondamento che non il principio delle tre male disposizioni, esplicitamente affermate da Dante. Inoltre il Filomusi, mentre riduce tutte le cause di peccato alle passioni disordinate dell’ appetito concupiscibile, a cui con S. Tommaso connette la concupiscenza della carne e degli occhi, e a quelle dell’irascibile, a cui va ridotta la superbia della vita ; dimentica qui le due altre cause, l'ignoranza e la malizia, da lui prima additate, che non sono contenute, come può ognuno vedere presso l’Aquinate, nelle passioni, cause generali di peccato solo ex parte appetitus sensitivi, laddove l'ignoranza ne è causa ex parte rationis, e la malizia ex parte voluntatis . Come dunque le tre Furie possono essere il simbolo di tutte le cause di peccato, se simboleggiano le tre concupiscenze, a che si possono ridurre solo «omnes passiones quae sunt causa peccati»? E perché con quel simbolo in testa di peccati di passione, debbono star per l’appunto sulla soglia della città della malizia, sentinelle di difesa, in luogo non proprio? In terzo luogo; lasciamo pure che qui si avrebbe un duplicato delle tre fiere; ma non è forse cosa nuova il tirare la concupiscenza degli occhi a equivalere all'invidia, mentre la sentenza comune de’ Padri e de’ Dottori vi vede dentro o la curiosità ovvero la cupidigia, cioè l’avarizia? In quarto luogo non quadra il paragone fra le Furie e la femmina balba o incantatrice del Purgatorio: certo ai dolci allettamenti di questa mal rispondono gli atti violenti e le minacce di quelle; onde il simbolo vuol esser tutt'altro.
Le Furie invocano Medusa contro Dante: ma che cosa simboleggia il Gorgone? «L'obduratio, nel senso di subtractio gratiae; e più precisamente, dell'una delle due cause di essa, ille qui opponit obstaculum gratiae; ché l'altra causa... è Dio, il quale cujus vult miseretur et quem vult indurat». Questo ‘vero simbolo’ di Medusa, l'aveva intuito anche il P. Berthier; ma l'ha poi, nell’accordarsi con gli altri interpreti, sciupato; e il F. lo critica perché «ad ogni modo... la dottrina del P. Berthier non s’accorda con quella di S. Tommaso».
Ma vediamo, senza pregiudizio del P. Berthier, se il F. vi si accordi meglio. Medusa per lui sarebbe l’ovduratio, come procedente da ille qui opponit obstaculum gratiae, e però è causa meritoria della subtractio gratiae, mentre n’è causa efficiente Dio, che, «proprio judicio lumen gratiae non immittit illis, in quibus obstaculum invenit» . Orbene, intesa così, l’obduratio altro non è che il motus animi humani inhaerentis malo et aversi a divino lumine; cioè proprio una delle due cose importate nell'obduratio stessa, ma distinta dalla subtractio gratiae, come causa dall’effetto, ossia colpa escludente la grazia. Perciò il F. si stacca dal linguaggio di S. Tommaso, che non restringe il senso di obduratio all'una sola delle due cause; ma afferma che le importa tutte e due, l’uomo e Dio. Un altro difetto di espressione è quello di dire che l’obduratio nel senso di subtractio gratiae, significa colui che pone ostacolo alla gratia. Obduratio nel senso di subtractio gratiae significa non l'atto del libero arbitrio che si ostina e indura, ma l’altra causa, cioè Dio che indura col sottrarre la grazia. Ma pare il F. voglia intendere in modo nuovo la subtractio gratiae, cioè che l’uomo induri sé stesso in quanto subtrahit se gratiae. In ogni modo, al concetto del F., oltre la chiarezza del contenuto, fa difetto la proprietà del linguaggio teologico, contro cui certo non pecca il P. Berthier.
Non perciò è da stimare inaccettabile l’interpretazione che Medusa figuri l’induramento del cuore e l’accecamento dell'intelletto. Ma poiché, secondo il F., «Medusa altro non è che un’emanazione delle passioni», in luogo delle passioni ossia delle tre concupiscenze converrebbe porre le cause immediate dell’obduratio, che, stando all’Aquinate, sarebbero tre altre: l’impeto della passione, l'inclinazione dell'abito contratto e il falso giudizio della ragione nell’elezione particolare .
In altre parole e con un concetto più comune si può dire che Medusa rappresenta l’impenitenza finale, che è tutt'uno con l’obduratio e l’obcaecatio; e le tre Furie i prerequisiti che la determinano, contrari alle tre virtù teologali: queste, ancelle della beatitudine, a cui mena Beatrice o Maria; quelle, meschine della dannazione, di Proserpina, la regina dell'eterno pianto. Le quali meschine potrebbero simboleggiare nel genere di falso giudizio della ragione, l’infedeltà (ceraste, di color grigiastro contro il bianco della fede) con Megera; nel genere dell’inclinazione dell'abito, l’odio (di sangue tinte contro il rosso della carità) con Tesifone; nel genere dell’impeto della passione, la disperazione (idre verdissime contro il verde della speranza) con Aletto. Siffatti simboli, chi li credesse accettabili, meglio si accorderebbero, se mai, col fondamento dell’impenitenza finale, causa immediata di dannazione.
Contro la opposizione delle tre Furie e de’ demoni alle porte di Dite scende il Messo celeste. Questo pel F. altri non sarebbe se non Aronne, e noi lasciamo correre, benché un poco meravigliati. Altra figura importante è il Gran Veglio di Creta, e in lui il F. vede il simbolo della superbia: superbia buona, ossia la gloria, celeste o terrena, che vien da Dio; e superbia cattiva, che, nascendo da’ beni commautabili, simboleggiati nell’argento, nel rame, nel ferro, e nella terra cotta, origina tutti i vizii capitali, de’ quali sono immagini i quattro fiumi dirocciantisi nell’Inferno. Questa nuova interpretazione inchiude l'equivoco di superbia buona, ossia abbondanza di beni con virtù, e superbia cattiva, ossia peccato. Ma tra le due non c'è che pura analogia etimologica di vocabolo e, come osserva S. Tommaso, materiale, non formale : di fatto non è superbia la gloria che vien da Dio. Inoltre, se anche il Veglio rappresenta la superbia, troppi simboli d’una stessa cosa si avrebbero, con quasi nessuna ragione plausibile.
Trascorro sul peccato di Brunetto Latini e passo, ma non per discutere, a colui che al giudizio divin passion porta. Il F., spiegando il verbo portare per recare, vuole che quei versi:
chi è più scellerato di colui
che al giudizio divin passion porta ,
significhino: «nessuno è più scellerato di colui che attribuisce passioni al consiglio di Dio»; pretende cioè, con le sue sacrileghe arti, di legarlo o scioglierlo a suo talento. Colui, dunque, che al giudizio divin passion porta, sarebbe l’indovino . Ma, con quelle parole, si domanda il F., «poteva Virgilio pretendere d’aver chiaramente designato gl’indovini? A me uditore profano di studi teologici, no, certamente; e forse nemmeno ad uno, che, come Dante, si fosse trovato ai primi gradi della vita contemplativa...». Dunque quella definizione dell’indovino era oscura anche per Dante. «Ma che perciò? Virgilio stesso non aggiunge subito: Ecco Anfiarao? Non per altro, se non per meglio spiegarsi» con quell’esempio, e fargli intendere che Anfiarao, perché volle veder troppo davante, attribuì le passioni al giudizio divino, secondo quel che dice S. Agostino: «Porphyrius, per nescio quam theurgicam disciplinam etiam ipsos Deos obstrictos passionibus et perturbationibus dicit» .
Nello studio sui ladri e le loro pene, il F. distingue con buone osservazioni i gradi delle trasformazioni proporzionate alle colpe, e le quattro specie di ladri: rei di furto semplice (Puccio Sciancato), di sacrilegio (Vanni Fucci), di peculato (Cianfa Donati e Agnello Brunellesco) e di plagio o furto d’uomini (Buoso degli Abati).
Ma curiosa è poi l’interpretazione dell'episodio d'Ulisse, che non sarebbe già, come si pensò il Fornaciari, la personificazione più spiccata dell'ingegno greco, o, come disse il Parodi, uno dei simbolici eroi dello spirito umano, o, come spiegò il Flamini, l’ esempio tipico dell’ anima umana pagana, che intravede da lungi la via del cielo, ma non la raggiunge; sibbene, secondo il F., il falso sapiente, per giunta, un po’ pusillanime nella sua temerità e sfornito di verace prudenza, e solo maestro nell’astuzia, che si punisce in quella ottava bolgia. E tale lo dimostrerebbe la narrazione stessa del suo viaggio nell’occidente, nel quale, dove altri vede smania di sapere, accorgimento e ardire da Cristoforo Colombo, pel F. invece tutto è temerità, falsa sapienza e furberia fallita. Diciamo il vero, ci dispiace che il F. non abbia saputo comprendere o sentire l’Ulisse di Dante meglio di così.
Dei rimanenti articoli, considereremo ancora quello A proposito d’alcuni studi del Ronzoni, del Parodi e del Proto sul ‘Paradiso’; e lo uniremo con un altro dei Novissimi studii, intitolato La struttura morale del Paradiso secondo il P. Busnelli. Certo nei Novissimi studii anche altre ricerche attirerebbero la nostra attenzione, per es. Le quattro stelle e le tre facelle; oppure / corpi fittizii, l'eterna questione, tanto dibattuta anche negli ultimi tempi, sulla ‘solidità delle ombre’, questione che però non crediamo si possa porre come fa il F.; La ‘donna santa e presta’, che noi pensiamo, molto diversamente da lui, che sia Beatrice (e cfr. anche Bull., N. S., XI, 184); La ‘seconda bellezza’ di Beatrice, ecc. Ma il lettore comprende, senza bisogno di altre scuse, che questa recensione non può diventare un libro; e d'altra parte il metodo del F. è sempre quello, i nostri dubbi sempre della stessa natura metodica di quelli che abbiamo già espresso.
Nel primo dunque dei detti articoli, il F. per sostenere contro il Parodi e il Ronzoni la corrispondenza perfetta tra il Paradiso delle sfere e quello dell’Empireo, scioglie la difficoltà nata da ciò che S. Benedetto nell' Empireo non ha un posto rispondente a quel delle sfere, col distinguere l’aurea, o premio essenziale de' beati, dall’ aureola, o premio accidentale, che di quella può essere maggiore o minore. L’aurea si paleserebbe nelle sfere, e ne sarebbe segno o indice uno de’ doni dello Spirito Santo; l’aureola invece si vedrebbe nell’ Empireo, e, se come tale spetta ai martiri, alle vergini e a’ dottori, in senso largo, o meglio, per la povertà volontaria, per l'obbedienza e per altre supererogationis opera sarebbe di quanti han la judiciaria potestas, promessa da Cristo agli Apostoli e ai credenti nel finale giudizio. Orbene chi mai nell’ Empireo appare col segno di questa judiciaria potestas? Que' che fan la cerna o cernono, dice il F., cioè quelle due file di beati, uomini e donne, che dividono in due semicircoli l’Empireo. «Or far la cerna, cernere significa giudicare»; e que’ beati mostrano quindi la judiciaria potestas promessa da Cristo. Non crediamo di dover aggiunger parola a confutare questa singolare e bizzarra trovata. Ma è poi gratuita l'asserzione che i beati nelle sfere manifestino il grado del loro premio essenziale, e nell’Empireo quello dell'accidentale, s’accordi o non s’accordi coll’essenziale. E si veda a che cosa giunge il F., preso nelle strette del suo sistema: nell'ordinamento dell'Empireo, dove le mansioni sono fisse perché ivi i meriti le sortiscono eternamente, Dante, invertendone il valore distributivo, sacrificherebbe il criterio del premio essenziale a quello del premio accidentale, così da dar più peso all’ accidente che alla sostanza! Come, cioè, se il premio accidentale, o gloria speciale di opera singolare, posto che sia maggiore o minore dell’essenziale, e circondi il beato di luce privilegiata, come fa quella de’ martiri, delle vergini e de' dottori, valga a far variare la mansione dovuta nell’ Empireo al grado sostanziale della carità, ragione primaria della distinzione de’ seggi in cielo, e della più o meno beatitudine sgorgante dalla visione beatifica: o come se l’aureola, insomma, qualunque sia, possa trascendere l'aurea, e un soldato, per aver avuto la medaglia, prenda nella gerarchia il posto di un capitano!
La sfera più bassa, la Luna, al F. era prima parso che non avesse rispondenza nella candida Rosa ; onde ne nasceva una nuova difficoltà contro il suo sistema d'accordare pienamente le sfere con l'Empireo. A eliminare anche questa, sostiene ora che gli spiriti della Luna sono da collocare non su per le soglie degli adulti o de’ bambini, ma sotto di questi, nell’infima laguna ch’è il giallo della Rosa. «Come la sorte di Piccarda par giù cotanto, così il giallo è la parte più bassa della Rosa; esso, dunque, rappresenta nell’ Empireo il grado infimo di beatitudine, la sfera celestiale che ha men salita, di cui fa segno l’apparir di Piccarda e di Costanza nella Luna».
Ma è lecito andar avanti così a furia di ripieghi? Dove si arriverà mai? È una vera tortura a cui è sottoposto il senso letterale di Dante, costringendolo a smentire e falsare sé stesso, non si sa poi con quale scopo o vantaggio. Poiché questo ripiego novissimo non solo non toglie la difficoltà di che si tratta, ma l’accresce e ne aggiunge dell’altre. La rispondenza infatti che prima si poteva supporre trovassero in qualche modo gli spiriti della Luna, almeno nella fila delle Ebree innominate, che succedono a’ pie’ di Ruth, — dal cui settimo grado in giù non è da credere che le Ebree non siano donne come Ruth, ma bambine non pervenute all’uso di ragione — codesta rispondenza, dico, non è più possibile tra le scale dell'eterno palazzo, le foglie della Rosa. Si frammettono fra gli adulti infimi che stanno nel giallo e i superiori le schiere de’ pargoli innocenti; che pure non han pianeta veruno, tra la Luna e Mercurio, in cui siano scesi a mostrarsi. C'è dunque nell’ Empireo un salto che non riscontriamo nelle sfere. E perché? Perché Dante, risponde il F., «dà al peccato di pusillanimità nell’Inferno una gravità maggiore che gli diano i teologi»; e gli spiriti della Luna «sono un po’ i pusillanimi del Paradiso. Nessuna meraviglia, dunque, se, nella Rosa, essi si trovassero più giù dei bambini». Stando così le cose ci sarà, dunque, se mai, rispondenza tra l'Inferno e l’Empireo, non già tra l’Empireo e le sfere.
Che poi gli spiriti della Luna siano da ragguagliarsi un po’ ai pusillanimi dell'Inferno, perché non ebbero intero il volere, né la salda voglia di Scevola e di Lorenzo, è un ‘altro salto infernale, e si strabilia leggendo ciò che il F. aggiunge, quasi a rincalzo, a confutare anticipatamente una ben facile obbiezione: Dante, dice, non mostrò di accorgersi di questi beati ‘pusillanimi’ nel giallo della Rosa, per una ragione simile a quella che, rispetto ai dannati pusillanimi, aveva detto nel verso: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Benché gli spiriti della Luna abbiano, rispetto agli altri beati adulti, meriti minori, nessuna teologia permetteva a Dante di disconoscere quella qualunque buona voglia, che con la grazia posero in far bene: non poteva né doveva non tenerne conto, e farli da meno de’ bambini, col relegarli in fondo all'infima laguna dell’Empireo. E ciò è tanto vero che, secondo il F. stesso, Dante «col vedere i bambini più in basso degli adulti, apprende che i meriti altrui pesano bensì sulla bilancia di lassù, ma meno de’ meriti propri» . Come dunque con questo si concilia lo star degli adulti della Luna sotto i gradi, dove
per nullo proprio merito si siede?
Ma la bilancia del F. non è la bilancia di lassù; né è quindi da maravigliarsi se per lui quegli adulti co’ loro meriti sieno più bambini de’ bambini.
Però ragione perentoria che esclude l'opinione del F. (se pur è necessario discuterla ancora) sta in ciò, che secondo la topografia dell’Empireo, il giallo della Rosa, che si distende in circolar figura, è lume rilucente, la cui parvenza fassi di raggio riflesso al sommo del Mobile Primo, onde è sì terso, e però privo di seggi e di beati che l’ingombrino, che Dante,
come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi adorno,
quant’è nel verde e nei fioretti opimo,
sì soprastando al lume intorno intorno,
vide specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi lassù fatto ha ritorno .
Se dunque i beati della Luna avessero avuto i loro seggi nel giallo, come vi si sarebbero specchiati tutti i beati della Rosa? Come mai uno specchio coperto o, meglio, per usar la similitudine dantesca, come mai un'acqua cosparsa di fiori avrebbe riflesso «quanto di noi lassù fatto ha ritorno»?
Col Ronzoni, che nega ci possano essere corrispondenze tra le sfere e l’Empireo, s’accorda il Parodi, nella recensione che ha fatto dell’ultimo studio di lui, sopra I fondamenti dell'ordinamento morale della Divina Commedia ; e le ragioni, su cui si fonda quest’ accordo, sono dal F. pigliate come obbiezioni alla propria sentenza.
Osserva anzitutto il Parodi che Dante si contraddirebbe, se, dopo l'avvertimento di aver disposto le anime nei vari corpi celesti, perché, a intender l'ordine de’ beati, così parlar conviensi al nostro ingegno, ci lasciasse poi capire che l'ordinamento dell’Empireo fu da lui trovato identico a quel delle sfere, e che, volendo, egli avrebbe potuto fare la sua esposizione dimostrativa lassù . Al che il F. risponde che Beatrice, ammonendo Dante, con quei versi:
così parlar conviensi al nostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno,
vuol dire: poiché dal senso si apprende il più certo principio di una cosa, anche il principio o fondamento della vita beata ora conoscerai da sensato; vedendo in questa più bassa sfera alcune anime farti segno che il loro è l’infimo grado di beatitudine; donde, come da principio, dedurrai poscia con l'intelletto che i seguenti gradi di gloria sono gradatamente significati dalle anime de’ pianeti superiori, fino ad arrivare nell’Empireo, a capire il suo ordinamento. Il quale ordinamento, domanda il F., come potrebbe esser lassù impossibile, se di fatto ne fa la dimostrazione con l’additare sommo il seggio della Vergine, e gradatamente sotto di lei gli altri seggi?
Ma, per vero, in quei versi Beatrice non risguarda che il fatto presente, e ciò che se ne cava immediatamente. Vuole che Dante apprenda da sensato, cioè dall’apparizione di quell’anime nella sfera più tarda il loro infimo grado di beatitudine: questa è la cognizione intellettuale ch’egli raggiunge: tirar fin d'ora in mezzo l'Empireo, del quale non si sa nulla, attribuire ad esso la frase ciò che fa poscia d'intelletto degno, è un puro arbitrio. E quale sensato gli ha detto o dirà qui ciò che apprenderà nella Rosa circa gli Ebrei o circa i bambini? Se a questo s'aggiunga che quel che Dante apprende da sensato nelle varie sfere sì differenzia da sfera a sfera, non solo per intensità di luce o grado di gloria, ma e per intreccio di danze e di canti, di simboli e di scene, è tutto si ordina a far segno della sfera celestiale, propria di questa o quella classe di beati, non sarà difficile intendere perché il Parodi asserisca che Dante, supposto il disegno che aveva preformato, non avrebbe potuto nell’anfiteatro pacifico e contemplativo della candida Rosa fare quella esposizione dimostrativa de’ gradi di gloria, che intendeva fosse proprio effetto delle varie apparizioni nei sottostanti cieli.
Gli è perciò che giustamente il Parodi col Ronzoni osserva che nell'Empireo Dante non vede più traccia de’ nove cori angelici , che son confusi tra loro come schiera d'api. Che se non son distinti per cori, ribatte, non so su qual fondamento il F., son ben distinti per fulgore, per arte, per ufficio. Però, a guardar bene, quando pure fossero così distinti, una tal distinzione, come è troppo generica, incerta e permista in quella plenitudine volante, così non risponde alla chiara visione de’ nove giri concentrici osannanti nel Primo Mobile. Anzi è qualcosa di diverso, come diverso è l’atteggiamento de’ beati nella Rosa da quel che hanno nelle sfere. Di fatto poi non è nemmeno ammissibile quella distinzione per fulgore, per arte e per uffici, perché lassù, proprio come schiera d'api, tutti gli angeli han parimente le facce di fiamma viva, l’ali d’oro e il resto bianco, tutti scendono e risalgono, tutti porgon della pace e dell’ardore di banco in banco.
Come dunque non sì può pareggiare la pretesa distinzione degli angeli nell’Empireo col loro ordinamento apparso nel Primo Mobile, così a ragione il Parodi confessa di non sapere «come si possa confrontare l'ordinamento degli spiriti nelle sfere secondo le perfezioni o gli stati di vita con quello della Rosa, dove son divisi in cristiani ed ebrei, adulti e bambini, o come si possa tentar di metter in equazione, per così dire, le poche sfere con le più che mille soglie del mistico fiore» . Di questa difficoltà il F. si disimpaccia, dicendo che le divisioni dell’Empireo completano, ma non distruggono la conoscenza da sensato acquisita nelle sfere, «poiché anche nella Rosa, oltre quelle due divisioni, ci sono i gradi, dal primo, ove siede Maria, al settimo, ove siede Ruth; e poi quelli, che parimente dirimono Ebree, riservati ai bambini: a che questi gradi, se non a indicare una scala di perfezioni, come nelle sfere?». Ma, quand’anche quei gradi indicassero una scala di perfezioni, non ne segue che le debbano indicare allo stesso modo, con lo stesso numero di giri di seggi, come nelle sfere, sicché solo un giro o ordine di seggi risponda a un pianeta, quando Dante parla di più di mille soglie o ordini di seggi, e i pianeti son sette, e otto con l'ottava sfera. Ma no, risponde il F.: le soglie, come io ho dimostrato , equivalgono a seggi, non a gradi: più di mille soglie val quanto più di mille seggi.
Qui, poiché il F. sostiene che il vocabolo soglia, sebbene presso Dante, in senso figurato, significhi anche gradino , per sé vale seggio, e in tale accezione va preso nell’ Empireo, è da vedere se il contesto di quel passo del Paradiso esiga il senso vero o il figurato. L’interpretazione del F. è senza dubbio uno dei suoi più gravi, insostenibili e, quasi mi spingerei fino a dire, inescusabili errori; nondimeno, poiché così egli vuole, discutiamo, con la speranza che da questo errore possa essere liberato per sempre il campo dantesco. Dante scrive:
Sì soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi lassù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sè raccoglie
sì grande lume, quant'è la larghezza
di questa rosa nell’estreme foglie?
La vista mina nell'ampio è nell’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e il quale di quell’allegrezza .
Sì soprastando al lume che stava in fondo dell’infima laguna, cioè da monte andando a valle, non ricirculando, vide specchiarsi in più di mille soglie i beati nel fondo luminoso della Rosa: considerò dunque prima l'altezza o profondità della Rosa, guardando dall’alto al basso, dove ne rivide specchiata l'imagine. Le più di mille soglie misurano quindi l'altezza. Arrivato coll’occhio al fondo, e vedendovi sì grande lume raccolto dentro il cerchio dell’infimo grado, chiede a sé stesso non più quant'è l'altezza, ma l’altra dimensione, cioè quant'è la larghezza della Rosa nelle foglie o gradini estremi o più alti. E nota che la vista sua davanti a quelle enormi grandezze, dell'ampio e dell'altezza, non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e il quale fino alle più piccole particolarità, come infatti dirà del sorriso e del guardo di Beatrice, tornata al suo posto nel terzo giro del sommo grado . Se le più di mille soglie significassero i seggi di un giro, Dante non ci avrebbe fornito idea alcuna dell'altezza, sì due idee dell’ampiezza; né si capirebbe, se i giri fossero sì pochi, poco più d'una dozzina, come sostiene il F., perché sì meravigli il poeta del non ismarrirsi di sua vista, anche nell’altezza.
Si capisce benissimo, replica il F., perché, se è vero che Beatrice, nel trono che i suoi merti le sortiro, distava dalla vista di Dante più che non disti dalla parte più alta dell'atmosfera terrestre occhio mortale che scende giù nella più profonda voragine del mare, quei gradini erano altissimi, più che monti sovrapposti a monti. Se così fosse, immense sarebbero le distanze tra un giro di seggi e l’altro, e tra Maria ed Eva che le siede a’ piedi, quando pur non si volesse dire che i beati nell’Empireo acquistino una statura gigantesca, maggiore di quella di Lucifero nell’Inferno. Ma, se, come pare da Beatrice, conservano le dimensioni naturali, i beati apparirebbero a Dante, rispetto all'enorme altezza delle scalee, come punti allineati in giro, circoli di figurine, né ci sarebbe alcuna proporzione tra le distanze orizzontali e le verticali de' seggi, mentre invece quella distanza dovrebbe essere analoga a quella che ci presenta ne’ suoi seggi l'alta opra di Roma, cioè il Colosseo, imagine dell’Empireo .
Ma il F. ribatte, segnatamente contro il Proto, il quale ritiene impossibile tanta sproporzione d’altezza, che il principio umano di tali relazioni d'altezza può ben esser violato, dove la legge natura! nulla rileva. Senonché, in primo luogo, come ben osserva il Proto, Dante dice solo che il presso e il lontano li non hanno valore rispetto alla vista, e non c’è altro indizio di contrasti con la legge naturale; in secondo luogo, poi, il F. cade nella solita illusione che s’abbia a fare con una realtà, non con la poesia di Dante. E la poesia, di Dante sarebbe antipoetica e mostruosa, se ci obbligasse a imaginare spettacoli innaturali.
Eppure contro l’altra interpretazione di soglie il F. oppone un argo- mento, ch’ei dice lampante, nei versi:
puoi tu veder così di soglia in soglia,
giù digradar, com’io che a proprio nome
vo per la rosa giù di foglia in foglia .
Qui, secondo Ini, la frase di soglia in soglia varrebbe di seggio in seggio: altrimenti, se «valesse qui di grado in grado, essa ripeterebbe oziosamente un'idea già contenuta pienamente nel verbo digradare», che, come insegna la Crusca, significa scendere di grado in grado . Vale a dire che una sottigliezza grammaticale contrappesa da sola in un piatto della bilancia tutta l'evidenza, le innumerevoli ragioni e il buon senso contenuti nell’altro piatto! Ma in quella frase, quand’anche soglia stesse per seggio, varrebbe sempre di seggio in seggio per linea verticale dall'alto al basso, e segnerebbe più il digradare della scalea che non il seggio stesso, come fa pure l’essere di soglia in soglia nelle sfere , e lo scendere di banco in banco nell’ Empireo : ripeterebbe quindi non oziosamente, ma con la determinazione di soglia o seggio il digradare. Ma soglia deve ivi prendersi per limen o grado, perché, sebbene nel digradare sia già inchiuso lo scendere di grado in grado, pure di soglia in soglia meglio e con nuova idea esprime il concetto o oggetto interno del verbo: un maestro di retorica direbbe che la radice della voce soglia diversa da quella del verbo digradare accresce eleganza . Non può dunque il F., sull’autorità del Landino, sostenere che soglia nell’Empireo significhi seggio, senso che non solo non si deduce dagli altri luoghi del Poema, dove ha sempre il significato latino di limen, limitare o gradino , ma non è dato da’ dizionari se non una volta, citando la fallace interpretazione del Buti alle più di mille soglie. Sul significato di soglia non è pertanto lecito appoggiare la perfetta rispondenza de’ due Paradisi.
Non è però da negare che una qualche corrispondenza non ci sia. Onde anche il Parodi concede entro questo limite che i due Paradisi delle sfere e dell'Empireo «si corrispondono: ma l'uno possiamo intenderlo e classificarlo razionalmente, l’altro no» . Se così fosse, obbietta il F., non si corrisponderebbero. Adagio un pochino. Codesta corrispondenza, come l’intende e si esprime il Parodi, è quella dell'analisi alla sintesi, dell’edifizio al coronamento. L'analisi che avviene su per le scale dell'eterno palazzo, ci fa intendere e classificare secondo certi principii il Paradiso delle sfere; la sintesi che ci sì presenta nell’Empireo e corona là l’edifizio, assorbe e copre non solo tutte Je parti dell'analisi, ma ancora la precedente loro distinzione, e non ci lascia più vedere che le linee generali, e quelle nuove derivanti dalla sintesi stessa e dal coronamento costituito dalle due divisioni di cristiani ed ebrei, adulti e bambini. Siffatta corrispondenza nelle linee generali, indistinta nei gradi inferiori delle più di mille soglie, e solo delineata negli altissimi, qual misura degli altri che il ragionamento poi congettura, è quasi conclusione necessaria, ammessa dal Parodi . Essa, naturalmente, importa che «lo schema secondo le Virtù rimane offuscato nell’ordinamento affatto individuale dell’Empireo», a quel modo che l'offuscamento di un dipinto può scemar tanto e velare le multiformi sfumature de’ sette colori, da lasciarvi. solo percepibili le tracce delle maggiori masse di lume.
Ma, replica il F., «s'offusca dunque in tal modo o non piuttosto sì completa — come vuole il grado di conoscenza che Dante acquista nell’Empireo — l'ordinamento de' beati, appreso da Dante nelle sfere?». Rispondo: s'offusca da un lato, e si completa dall’altro. Cioè, Dante non dimentica, o perde la acquistata conoscenza, ma non rivede né ricontempla — e in ciò sta l'offuscarsi dell'ordinamento de' beati nell’ Empireo — le identiche spiccate distinzioni de’ gradi di gloria conosciute già nelle sfere, sì solo mira un crescendo di allegrezza come da valle a monte per più di mille soglie fino all’orifiamma di Maria, con angeli volanti come schiera d’api di banco in banco: un quasi incognito indistinto di visi suadi di più e più carità, e sopra tutto questo, come coronamento o complemento di quella conoscenza che fece degna del suo intelletto, e ancor ritiene in sé, mira, quasi doppia croce sublime che distingue i due aspetti della fede, principio della salvezza umana per propri o per altrui meriti, le due linee intersecantisi, e separanti e distinguenti i cristiani dagli ebrei, gli adulti dai bambini. Come dunque si può dire che la conoscenza di Dante non potrebbe accrescersi nell'Empireo, senza vedervi chiare le sette distinzioni delle sfere? E che bisogno aveva lui di veder più chiaramente nell’Empireo ciò che chiarissimamente già aveva a suo agio contemplato, ammirato e misurato nelle sfere? .
Ci sembrerebbe soverchio star a discutere ora col F. della sfera spiritual o celestial, e rimanderemo al Parodi, oltreché Bull. XV, 191, anche e in modo un poco diverso e nuovo nell'articolo della Miscellanea Rajna (che abbiam ricordato pur ora in nota), pp. 925-7. Contro la rispondenza numerica delle sfere ai gradi della Rosa fece buone osservazioni anche il Proto (2); e il F. si studia di rispondervi, adducendo argomenti del peso che finora abbiamo veduto, scemi anche di novità e d'importanza. Sorvolo pertanto a questa parte della sua polemica, e anche a quella, con cui combatte il criterio dell'ordinamento morale de’ beati proposto dal Parodi; e vengo — certo non per far polemiche — alla pugna in cui io stesso son preso di mira, per conchiudere in fine anche questa non breve disamina dell'opera del F.
Nel novissimo studio su la struttura morale del Paradiso secondo il P. Busnelli , il F. esamina il mio lavoro sul concetto e sull'ordine del Paradiso ; ma, saltato il primo volume, fa alcune osservazioni sul secondo, notando subito col suo maggiore rincrescimento che con questa mia recente fatica pare che io non giovi, come avrei potuto, a dar credito a un metodo, ottimo per sé e per il quale egli è corso in guerra di molti; quello cioè d'interpretar Dante con la teologia alla mano. Secondo lui, «il fondamento su cui io edifico, non è sempre sicuro, perché più di una volta urta contro dottrine teologiche, che, pur non essendo dogmi, furono accolte da teologi autorevoli, onde non è probabile che Dante se n’allontanasse». È quindi la sua critica una lezione di teologia, indirizzata a me; ed io l’accetto volentieri, ma col benefizio d'inventario.
A lui non garba ch'io chiami Paradiso in moto le schiere de’ beati, i trionfi di Cristo e di Maria e degli angeli scesi a mostrarsi a far segno della loro sfera celestiale nelle sfere corporali; perché il Paradiso è il complesso delle mansioni, luogo di quiete, l’Empireo, cielo immobile: «parlar dunque d’un Paradiso in moto è vera e propria contradizione ne’ termini». A dire il vero il F., per il suo spunto polemico, deve tacere che io ho parlato anche del Paradiso in quiete, e chiamato così quello dell’Empireo, a cui è contrapposto con l’altra dizione di Paradiso in moto quel delle sfere. Identificando i due Paradisi, come io non feci, e fa il F., il moto diventa quiete, la quiete moto ed ecco trovata la contradizione .
Ma è meglio passare ad altro. Ammette il F. essere innegabile che il criterio fondamentale dell’ordinamento de’ beati sia la carità, ma crede «che a Dante sarebbe riuscito ben difficile pesare il grado di carità delle singole anime, secondo il quale doveva loro assegnare un maggiore o minore grado di beatitudine». Ma una tal difficoltà che avrebbe sperimentata il poeta, l’avevan già superata i teologi medievali, suoi maestri. S. Tommaso gl’insegnava chiaramente la distinzione de’ tre gradi di carità, incipiente, proficiente e perfetta, con altre suddistinzioni , e gli forniva la bilancia per ponderarne le differenze con un principio notissimo di S. Gregorio, ammesso anche dal F., che cioè probatio dilectionis exhibitio est operis . È la ragione sicura e profondissima sta in questo che la carità, come ha atti propri o eliciti, così ha atti imperati, in quanto muove tutte le altre virtù a’ loro atti in ordine al fine soprannaturale; sicché ogni atto può rivestire, da qualunque virtù o dono proceda, la forma di carità, e misurarla.
Posto ciò, che meraviglia, se, poiché dagli atti si conoscono gli abiti e le virtù, si possa e si debba con un sottocriterio che riguardi gli atti, qual è quello dell’opera, della volontà e dell'intelletto, cercar di determinare come i tre gradi generali della carità influiscano nella classificazione de’ beati seguita da Dante, e quindi negli atti speciali e conseguentemente nelle virtù, donde procedono gli atti, buoni, per cui si distinguono i beati? La distinzione di opera, volontà e intelletto e quella delle virtù che ne derivano, non importa un grado diverso nell’intensità della carità, ma specifica quel medesimo grado essenziale, dal quale non sì può prescindere, con qualcosa di materiale e accidentale, con atti cioè che sono sotto la forma generica di carità, propri di questa o quella virtù speciale. Se la carità, come concede il F., è criterio fondamentale dell'ordinamento morale del Paradiso, come mai potrebbe saltarsi o porsi da parte, senza sconvolgere tutta la teologia, su cui si fonda la grande concezione dantesca?
Non entro in più minuti particolari, come potrei. Ma queste verità teologiche, semplici per ogni teologo, paiono al F., che si professa dilettante di teologia, troppo complesse; e però egli dà nell'ordinamento de’ beati maggiore importanza a’ sette doni. dello Spirito Santo che non alla carità, in quella che rimprovera me d’aver attribuito a’ doni un posto molto secondario, alterandone per soprappiù l’ordine che hanno in S. Tommaso in Isaia. Sarebbe questo dunque un nuovo urto della mia sentenza contro le teologiche dottrine accolte da’ dottori autorevoli.
Ma la mia colpa, se colpa è, nello spostare i doni è assai minore di quella commessa dal mio critico nell’applicare all'ordinamento de’ beati i doni secondo quell'ordine materiale ch'è in Isaia, e non, come si conveniva, secondo l'ordine di dignità, quale è dichiarato da S. Tommaso , e nemmeno secondo il nuovo ordine materiale proposto dal medesimo Dottore. Ingannato dal riportar che questi fa l'ordine d'Isaia, il F., senza badare al nuovo ordinamento tomistico, credette di aver posto il più perfetto principio teologico per la sua costruzione morale del Paradiso.
Ma il guaio maggiore della teoria del mio oppositore, sta nel suo concetto di dono, che urta non poco contro le dottrine tomistiche e ricevute. «Se si aggiunga, scrive, che i doni, avendo qualcosa che supera la comun ragione della virtù, sono eroiche, divine virtù; e quelli che le esercitano son detti divini; non sembra davvero da dubitare che l'esercizio del dono, in quanto accresce la carità, non la perfezione, e quindi non porti a un grado maggiore di beatitudine che non la carità; se anche questa sia radice del dono, e se anche, a sua volta, la carità perfezioni il dono, mettendolo in atto».
Osserviamo anzi tutto che dal paragone che l’Aquinate fa de’ doni dello Spirito Santo con le virtù eroiche o divine dell’Etica Nicomachea, non segue che i doni sieno le virtù eroiche, perché S. Tommaso dice solo che sono quaedam virtutes divinae, le quali pe’ pagani, che facevano divini gli eroi, sarebbero le eroiche. Sono divine e nel senso pagano eroiche, in quanto hanno qualcosa di più della virtù comune; come pure virtù divine, superiori a’ doni, e quindi eroicissime sarebbero le tre teologali, e generalmente più o meno eroiche tutte le soprannaturali infuse. Ma i doni più che propriamente virtù sono, secondo l’Aquinate e i teologi, perfezioni soprannaturali, medie tra le virtù teologali e le intellettuali e morali, per cui l'uomo diventa pronto a muoversi sotto la divina ispirazione ; né sono da confondersi coi doni gratis dati .
Di qui si vede quanto vada lungi dalle dottrine teologiche l’asserzione del F. che «queste più alte perfezioni, quest’eroiche o divine virtù» son quelle «che i teologi chiamano doni» . I teologi chiamano virtù eroiche le virtù, non i doni; e chi vuol capacitarsene legga le opere famose di Benedetto XIV sulla canonizzazione de’ Santi .
Da siffatta confusione non fa meraviglia che il F. derivi l’esercizio de’ doni come principio dell'ordinamento dei beati, e non dubiti «che porti a un grado maggiore di beatitudine, che non la carità» . Se così fosse, questa, da criterio fondamentale che era della misura del premio, innegabilmente ammesso dal F., passerebbe in seconda linea; e si avrebbe uno stridentissimo urto non solo contro le dottrine dell’Aquinate e de’ teologi medievali, ma contro tutta la tradizione cattolica, secondo la quale li carità, come somma tra le virtù, fu sempre ritenuta l'unica misura del merito e del premio. Né la novissima teologia del F. si salva col dire che l’esercizio del dono porti a un grado maggiore di beatitudine accidentale, che non la carità. Perché la beatitudine accidentale, se può essere più brillante in ragione dell’opera, non supera mai la sostanziale del merito della carità, essendo di ordine affatto diverso. Quindi è che le aureole de' martiri, delle vergini, dei dottori abbelliscono sì le loro fronti; ma non li fanno mai uscire dalla schiera, in che li ha posti il grado di carità, a cui pervennero.
Non si può dunque spingere l’eroicità de’ doni a segno da lasciarsi addietro quella della carità e delle virtù ch’'essa muove, per quanto tra le virtù teologali, di cui principe è la carità e le virtù intellettuali e morali frammezzino i doni, che influiscono, secondo la mozione dello Spirito Santo, negli atti non di una sola virtù, ma di parecchie. Onde S. Tommaso afferma che i doni dell’intelletto, della scienza, della sapienza e del consiglio, sebbene abbiano particolar rispondenza a virtù speciali, sono però speculativi e pratici insieme , e si estendono a ogni atto, in quanto rafforzano le potenze dell’uomo a seguire l’ispirazione divina nella pratica della virtù, qualunque essa sia. Gli atti singoli pertanto, onde eccellono i santi, immediatamente procedono dalle virtù e da esse sono specificati, in questa o quella formalità particolare, vuoi di fortezza, vuoi di temperanza, vuoi di pazienza ecc.; e secondo tali atti di virtù si distinguono e segnalano i santi, non proprio per l’'esercizio de' sette doni, indipendentemente dalla schiera delle virtù.
Va pur notato che le virtù, che Dante dà ad alcune classi di beati come distintivo speciale, riguardano anche il prossimo, come l’attività di Giustiniano, la scienza di Salomone e di S. Tommaso, la fortezza di Carlomagno, la giustizia di Traiano e Davide ecc.; laddove i doni dello Spirito Santo si restringono, come ripete spesso l’Aquinate, all’individuo e lo guidano in his quae sumt necessaria ad salutem, s'intende propriam, non in quello che ha rispetto agli altri. E però i doni della scienza, della sapienza, del consiglio, della fortezza ecc. reggono l’uomo nell'acquisto della propria salute eterna, ma non bastano per esser maestri ad altri, o campioni di Cristo, senza una virtù più speciale che sia o naturalmente acquisita, come la scienza in S. Tommaso, la grammatica in Donato, la giurisprudenza in Giustiniano, il valore nel Guiscardo; o divinamente infusa, o gratis data, come la sapienza in Salomone, la quale non fu già, come contro il Parodi sostiene il F., uno de’ sette doni dello Spirito Santo , comune a tutti che sono in grazia di Dio, e che si perde col peccato mortale, ma un dono specialissimo gratis dato di sapienza naturale, acciocché re sufficiente fosse, né lo perdé quando ebbe apostatato da Dio .
Quanto alle virtù, al F. pare strano che io approvi il Parodi, per il quale i beati della Luna «in qualche modo mancarono a tutte» le virtù cardinali. Perché, dice il critico, «certo lavarono le loro colpe col sacramento della penitenza; e la penitenza come sacramento reintegra tutte le virtù». Ma dunque, se la penitenza reintegrò in loro insieme con tutte le virtù anche le cardinali, le infuse, s'intende, non le acquisite, vuol dire che col peccato le avevano perdute, e in qualche modo, direttamente o indirettamente, vi avevano mancato. «Il vero è, soggiunge il F., che a nessuna delle virtù cardinali esse mancarono — neppure alla fortezza, in grado di virtù comune — perché patirono violenza: solo quella fortezza in grado eroico, che fa il martire e che è dono dello Spirito Santo, questa non esercitarono Piccarda e Costanza».
Ma chi ben consideri, vedrà come il Parodi abbia ragione di sostenere che mancarono a tutte le virtù cardinali: alla prudenza, vera e perfetta, che ripugna per sé al peccato, e rettamente consiglia, giudica e ordina al fine della vita eterna, perché consentirono alla violenza che le strappava dal chiostro; alla temperanza, perché cedettero fino ad accettare il matrimonio contro il voto di castità fatto a Dio; alla giustizia, infrangendo così la promessa di religione; infine alla fortezza, anche in grado di virtù comune, perché non superarono il timore, per cui ebbero a lasciare di fatto il velo, paghe, come i cristiani libellatici, di portarlo nel cuore . Onde non ebbero scusa, per patir che fecero violenza, perché non fu assoluta: possendo ritornare al santo loco . Non solo dunque le anime incostanti della Luna non ebbero la fortezza eroica, ma vennero meno anche alla comune virtù della fortezza, e al dono della fortezza, che non è già come vuole il F., fortezza in grado eroico, perchè «domum fortitudinis respicit virtutem fortitudinis non solum secundum quod consistit in sustinendo pericula, sed etiam secundum quod consistit in quocunque arduo opere faciendo» . Costanza e Piccarda non ebbero il volere, come dice lo Scartazzini, costante nel proposito, al par di Lorenzo e Muzio, che durarono fino alla morte; ma si appagarono dell'amore del buon proposito, quando potevano, come non poterono Muzio e Lorenzo, tornare per la strada ond’eran tratte.
Altre osservazioni il F. fa per dimostrare che io non sono stato felice nell’applicare alle classi de’ beati il capitolo del Contra Gentites (III, 68): Qualiter in illa ultima felicitate completur omne desiderium hominis, distinguendo questo desiderio, come fa l’Aquinate, secondo la vita attiva, contemplativa, voluttuosa. Al F. ciò non garba. Ma se garbava a un Santo, qual fu l’Aquinate, e teologo angelico per giunta, può garbare a me, e anche al Parodi, che ebbe giust'appunto, come dice il F., la luminosa idea di distinguere i beati che appaiono a Dante nelle sfere, secondo che seguirono la vita voluttuosa o la civile o la contemplativa.
Di questo mio accordo col Parodi si ammira il F.; e tra le altre cose, da lui notate prima e qui, che trasvolo per brevità, non perché non ci sia nulla da ridire, nega che il passo che io, per accordarmi col Parodi, applico di quel capitolo a' beati di Venere, autorizzi a dire «che esiste per S. Tommaso un rapporto tra la vita voluttuosa e la celeste beatitudine». Orbene, basta tener presente il titolo su citato del capitolo e leggere il passo stesso, per confutare a luce di sole l'asserzione del F. . Quando l’Aquinate ivi non dimostrasse che nell'ultima felicità si compie il desiderio de’ diletti mondani, non si capirebbe più che cosa fosse dimostrazione. E io vorrei che il F. mi spiegasse perché S. Tommaso metta in rapporto la vita voluttuosa con l’ineffabile allegrezza del Paradiso. Perché non basta dire che, sì, tra i desideri che trovano il perfetto soddisfacimento nell'ultima beatitudine, egli annovera anche quello de’ diletti della vita voluttuosa, «ma s’affretta ad aggiungere» che nell'ultima beatitudine il diletto perfettissimo supera di tanto quello de’ sensi, accessibile anche ai bruti, di quanto l'intelletto è più alto del senso; bisogna trovare o dar la ragione di quest’affrettarsi del gran Teologo a far rispondere al desiderio dei diletti carnali, non le ebbrezze corporee del Paradiso di Maometto, ma il diletto perfettissimo intellettuale della vita celeste. Bisogna dimostrare che questo non è un rapporto; che quell'articolo dell’opera Contra Gentiles non dice nulla; che l’Aquinate, alla men peggio, sonnecchiò nello scriverlo, e male fin qui fu interpretato da quanti prima del F. vi ebbero sopra affaticato l'occhio e la mente . Finché il mio oppositore non avrà ciò dimostrato, tutti avranno il diritto di credere che S. Tommaso in quel capitolo, contrapponendo i desideri della vita attiva, contemplativa e voluttuosa, alla perfezione dell'ultima felicità, vi pone un rapporto, perché questa è il soddisfacimento ineffabile di quelli.
Ma contro il S. Tommaso della Somma contro i Gentili il F. si difende citando il S. Tommaso della Somma teologica, dove «trattando delle varie vite, non distingue ché l’attiva e la contemplativa», e solo fa cenno in una obbiezione della vita voluttuosa, per dire che «non comprebenditur sub praesenti divisione, prout vita humana dividitur in activam et contemplativam» . E sta bene. Secondo i diversi principii, che reggono quella presente divisione, fondata sulla distinzione dell’intelletto in pratico e speculativo, la vita voluttuosa non c’entra; ma in altra divisione — e l'Aquinate era padrone di farne quante gliene venivano in taglio pe’ suoi intenti scientifici — ispirata dal principio biblico che ogni desiderio si compie nell'ultima felicità, poteva ben comprendersi, come fece pure Aristotele, ragionando del fine dell'uomo, anche la vita voluttuosa. E se l’Aquinate, nella Somma contro i Gentili, a quel proposito non si vergognò di far conto anche della vita voluttuosa, lo possiamo fare anche noi; e con opportunissima ragione, recata dal medesimo Dottore nella Somma teologica, là dove scrive nella Prima Parte che «alio modo dicitur vita ipsa operatio viventis, secundum quam principium vitae in actum reducitur; et sic nominamus vitam activam vel contemplatiram vel roluptuosam; et hoc modo vita aeterna dicitur ultimus finis» . «Qui veramente, — conchiuderò senza ironia, con le ironiche parole del F. — qui veramente vede ognuno (il corsivo non è mio) con quanta opportunità si citino Aristotele e S. Tommaso, a sostegno della ipotesi che anche la vita voluttuosa trovi posto nel Paradiso di Dante» .
E conchiudiamo, senza rilevare l'osservazione del F., circa i pericoli che corrono i lettori coi teologi veri e proprii (tra i quali ha la bontà di metter me pure) e i vantaggi che offrono invece i teologi dilettanti. È chiaro che l'argomento si presta troppo bene alla ritorsione. Nella critica di questi due volumi del F., che preludiano al suo nuovo commento del Poema, avrei voluto trovar maggiori occasioni di lodi; ma non vorrei esser sembrato troppo severo col chiarissimo dantista, e ad ogni modo mi scusi anche con lui la schietta convinzione che ho di aver detto il vero, e l’amore del vero. Senza dubbio, nell'opera sua, come scrisse il Parodi, v'è più sottigliezza e minutezza che acume o profondità; ma io sono pronto a far mio anche ciò che nel giudizio del Parodi suona elogio del F. : «l’autore, con la sua quieta instancabilità, con la sua pertinace diligenza, col suo sincero amore ispira fiducia e rispetto, e, se non senza fatica, certo non senza frutto consulteranno i suoi copiosi volumi gli studiosi di Dante, almeno, dunque, quel ridottissimo pubblico di studiosi, che non rifuggono dallo studiare con fatica».