Dati bibliografici
Autore: Luca Fiorentini
Tratto da: Linguistica e Letteratura
Numero: XLV
Anno: 2020
Pagine: 51-75
[Desidero ringraziare Lorenzo Geri e Michele Lodone per l’invito al seminario di cui in questa sede si pubblicano gli atti. Esprimo la mia riconoscenza anche a Giuseppe Ledda, che nel corso della discussione seguita al mio intervento, pur non condividendo alcune delle tesi da me proposte, si è dimostrato come sempre un interlocutore generoso; le sue osservazioni mi sono state di grande aiuto]
È dall’ultimo ventennio dell'Ottocento che la riflessione di Guido da Pisa sullo statuto della poesia dantesca riscuote un interesse speciale. Le ragioni sono intuitive: Guido si dimostra certamente il più propenso, tra i primi lettori della Commedia, a elaborare un discorso generale sull'opera di Dante che valorizzi il rapporto che essa instaura con i testi sacri; e soprattutto a conferire alla dimensione profetico-visionaria del poema un ruolo centrale in sede interpretativa. Edward Moore riteneva che l’esposizione del frate carmelitano, in virtù della sua prossimità alle forme dell’ermeneutica scritturale già evocate nel Convivio, fosse «the sort of commentary that Dante himself would have written on the Commedia». Se un simile giudizio può apparire oggi, forse, un po’ troppo ottimistico, non v'è dubbio, com'è stato scritto in anni assai più recenti, che «nel suo commento all'Inferno» Guido da Pisa «stabilisca precise analogie tra la scrittura della Commedia e la tradizione profetica biblica».? Il dato è evidente fin dalle battute iniziali delle Expositiones — sulle quali torneremo, naturalmente. Meno evidenti sono invece i presupposti di questo dato. In che termini la poesia della Commedia può definirsi ‘divinamente ispirata’? Su cosa si fonda la garanzia di una simile ispirazione? E come se ne possono cogliere e razionalizzare le tracce?
Lucia Battaglia Ricci, cui si deve il secondo dei brani citati sopra, ha dedicato lavori essenziali all’approfondimento di questo argomento e alla valutazione dei problemi che pone. Per comodità, procederemo d'ora in poi seguendo passo a passo un saggio edito nel 2008 con il titolo Un sistema esegetico complesso: il Dante di Chantilly di Guido da Pisa. A partire dal quarto paragrafo, ‘Visio’ e ‘fictio’, è offerta una mappatura dei brani delle Expositiones che offrono una riflessione esplicita sulla natura della poesia della Commedia. Il quadro che se ne ricava è, quanto meno in prima istanza, piuttosto ambiguo. Nella deductio in latinum della terzina iniziale del poema, Guido annota: «iste poeta more poetico fingit se istam Comediam, hoc est universa que continentur in ea, in visione vidisse». Poco oltre, all’inizio della sezione dedicata all'esposizione letterale del testo, il frate propone un approfondimento sulle diverse forme della narrazione visionaria in cui il carattere ‘normalmente poetico’ della scrittura dantesca parrebbe decisamente negato:
Hec autem visio quam vidit in somnio iste autor potest dici primo oraculum, quia gravis persona (utputa Virgilius in prima cantica) sanctaque (utputa Cato et Statius in secunda) parensque (utputa Cacciaguida) et sacerdos (utputa sanctus Bernardus, angeli et ipse Deus in tertia) clara sunt sibi visione monstrati. Secundo potest dici visio, quia ipsa loca ad que anime post mortem corporum vadunt ymaginaria visione conspexit. Tertio potest dici somnium, et primo proprium, quia multa in Inferno, Purgatorio ac etiam Paradiso de se audivit, vidit et sensit. Secundo potest dici alienum, quia multa circa alienos et de alienis sibi revelata fuerunt, vel quia quem statum aliorum sortite sunt anime deprehendit. Tertio potest dici commune, quia multa que sibi mixtim et aliis contingere debebant aspexit vel quia eadem loca tam sibi quam ceteris eiusdem meriti didicit preparari. Quarto potest dici publicum quia varietates et mutabilitates non solum sue civitatis sed aliarum quam plurium audivit et vidit. Quinto potest dici etiam generale quia Infernum, Purgatorium, celum, celique cives, ipsamve beatissimam Trinitatem sibi adhuc in carne viventi sunt videre concessa.
Osserva Battaglia Ricci che «i due passi sembrano implicare punti di vista non del tutto coerenti, confortando la sensazione, esplicitata da Francesco Mazzoni, che resti irrisolto nella prospettiva critica del frate il rapporto tra la natura fictiva del libro e la sua dimensione visionaria». Semplificando, le conclusioni che possono ricavarsi dai brani trascritti sono due, e hanno, come si intuisce, segno opposto. Può essere utile anticiparle ora, per vagliarne alcune delle conseguenze più rilevanti.
Se si intende la formula «more poetico fingit se istam Comediam ... in visione vidisse» come ‘Dante compone un’opera in cui è narrata una visione poetica, non reale’, allora l’excursus sulle diverse «somnii ... speties»? avrà una funzione puramente retorica. Muovendo da una famosa pagina macrobiana, Guido intenderebbe dimostrare che tutti i tipi di visione attestati nella letteratura antica sono compresenti nella Commedia: l'eccellenza di Dante si manifesterebbe dunque non solo nell’abilità a misurarsi con ogni genere poetico, come affermato nel Prologo delle Expositiones, ma anche nella capacità di accogliere in una narrazione continua forme di racconto visionario che gli autori classici avevano trattato con minore disinvoltura. Il brano non conterrebbe alcuna riflessione, in altre parole, sull'essenza della visio di Dante, o meglio si riferirebbe alle sole modulazioni narrative che essa assume in quanto invenzione letteraria. In questa prospettiva, la formula «Infernum, Purgatorium, celum, celique cives, ipsamve beatissimam Trinitatem sibi adhuc in carne viventi sunt videre concessa» andrebbe letta in termini non sostanziali, ma, appunto, retorici: nella Commedia troverebbe svolgimento la storia di un individuo che ha visitato «in carne viventi» i tre regni oltremondani — una storia generata dall’ingegno umano, come ogni fabula. Descrivere il contenuto di una narrazione e affermarne l’autenticità sono, del resto, due operazioni distinte.
Ma un’altra lettura è possibile, quanto meno se ci fermiamo ai brani esaminati fino a qui. Se si volesse cogliere nel paragrafo sui contenuti visionari del poema l’affermazione del carattere pienamente veridico del racconto dantesco, il termine fictio assumerebbe un significato assai meno vincolante. Originata da un’esperienza visionaria reale, la Commedia sarebbe ‘finzione’ in quanto elaborazione di quell'esperienza secondo le norme della composizione poetica. Queste ultime si applicherebbero alla sola forma tractandi — per impiegare i termini tradizionali degli accessus ad auctores —, senza intaccare in alcun modo il nucleo di verità del subiectum operis.
Il dilemma riguarda, in definitiva, la ‘causa’ che determina il contenuto del poema: l'essere umano Dante, poeta supremo; oppure Dio. L’investitura profetica implica infatti un originario momento di passività: solo successivamente, quando il messaggio divino si appresta a essere trasmesso, l'individuo ispirato assume il profilo di «un autore attivamente concepito». Se Guido da Pisa fornisse indicazioni inequivocabili a riguardo, la discussione sul suo commento — va da sé — si arresterebbe sul nascere; ma indicazioni inequivocabili sembrano mancare. Per sciogliere questo nodo Battaglia Ricci deve quindi ricorrere a una fonte esterna al commento di Guido, cioè a un brano famoso delle Genealogie boccacciane (XIV 8, §§ 6-12) nel quale si spiega che profeti e poeti, pur condividendo il ricorso a un linguaggio impregnato di immagini — questione su cui si dovrà tornare —, differiscono in questo: i primi «Sancto pleni Spiritu, eo impellente, scripsere, sic et alii vi mentis, unde vates dicti, hoc urgente fervore, sua poemata condidere». Da un lato, quindi, la sollecitazione dello Spirito Santo; dall’altro la sola forza dell’intelletto. Che il Dante di Guido da Pisa appartenga alla schiera di coloro che scrissero «Sancto ... Spiritu ... impellente» è desumibile, a parere di Battaglia Ricci, dai paragrafi dell’accessus in cui sono illustrati i diversi fines della Commedia:
Fines vero alii qui possunt assignari in hoc opere sunt tres: primus, ut discant homines polite et ornate loqui; nullus enim mortalis potest sibi in lingue gloria comparari. Re vera potest ipse dicere verbum prophete dicentis: “Deus dedit michi linguam eruditam”, et illud: “lingua mea calamus scribe velociter scribentis”. Ipse enim fuit calamus Spiritus Sancti, cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum. Ipse etiam Spiritus Sanctus per istum aperte redarguit scelera prelatorum et regum et principum orbis terre. Secundus finis est ut libros poetarum, qui erant totaliter derelicti et quasi oblivioni traditi, in quibus sunt multa utilia et ad bene vivendum necessaria, renovaret, quia sine ipsis ad cognitionem sue Comedie accedere non valemus. Tertius finis est ut vitam pessimam malorum hominum - et maxime prelatorum et principum — exemplariter condemnaret, bonorum autem et virtuosorum, per exempla que ponit, multipliciter commendaret; et sic patet que est causa finalis in hoc opere.
Il passaggio cruciale è nella prima parte dell'estratto, là dove Dante è definito «calamus Spiritus Sancti». Alla luce della distinzione formulata da Boccaccio, la «rilevanza ideologica di questa annotazione», conclude Battaglia Ricci, «risulta chiara»: il carattere divinamente ispirato della Commedia è enunciato in termini espliciti, e la relazione tra il ruolo profetico dell'autore e la forma poetica del testo si risolve — citiamo ora da uno scritto di Battaglia Ricci del 2011 — nello «scambio interattivo e ideologicamente non problematico ... tra scrittura sacra e modelli classici, tra profezia e scrittura». Su impulso divino, Dante compone un’opera «more poetico», nella quale i contenuti, ‘dettati’ dallo Spirito Santo, trovano una possibilità di trasmissione anche in virtù del ricorso ai «libros poetarum», rivitalizzati dopo un silenzio secolare («totaliter derelicti et quasi oblivioni traditi»); «il poeta, cui Dio ha dato una lingua esperta, ovvero una lingua che conosce i segreti dell’arte del dire (linguam eruditam), può essere investito della parola di Dio, farsi profeta». Di tutt'altro avviso, è necessario ricordarlo, era Saverio Bellomo, il quale leggeva le parole di Guido da Pisa come un’enfatica celebrazione dell’abilità tecnica di Dante: la collocazione di questo brano «nell’accessus ad auctorem, luogo massimamente formalizzato secondo luoghi comuni», ridimensionerebbe il peso «delle espressioni iperboliche utilizzate»; il riferimento biblico assolverebbe dunque — così Bellomo - «solo al compito di elevare lo stile».
In effetti, il nesso che Guido istituisce tra l'eccellenza linguistica del poeta («nullus ... mortalis potest sibi in lingue gloria comparari») e i due luoghi scritturali che immediatamente seguono (Is 50, 40 e Ps 44, 2) rende l’immagine del «calamus Spiritus Sancti» meno nitida di quanto non appaia a un primo sguardo. È poco plausibile, tuttavia, che una qualifica così impegnativa si riferisca alla sola forma del testo, senza entrare nel merito del suo senso; né vi è dubbio che entrambi i versetti veterotestamentari allegati dall’interprete rinviino, come ha osservato di nuovo Battaglia Ricci, a una «zona di profezia messianica». Una difficoltà però sussiste — e non è una difficoltà marginale. Posto che la Commedia nasce «Sancto ... Spiritu ... impellente», come isolare i segni di un'ispirazione di questo tenore? Quali sono, in definitiva, i contenuti dettati dallo Spirito Santo?
Un'indicazione è offerta, probabilmente, già nel brano che stiamo esaminando: Guido dà prova di ritenere che lo Spirito Santo suggerisca anzitutto i criteri in base ai quali Dante «redarguit scelera prelatorum et regum et principum orbis terre», come si legge al centro del passo estrapolato, e come viene ripetuto alla fine («Tertius finis est ut vitam pessimam malorum hominum — et maxime prelatorum et principum — exemplariter condemnaret...»). L'accento batte sulla funzione ammonitrice del profetismo dantesco; di quest’ultimo è lasciata invece in secondo piano, quanto meno provvisoriamente, la dimensione escatologica — cui pure l'interprete accenna quando scrive: «cum quo calamo ipse Spiritus Sanctus velociter scripsit nobis et penas damnatorum et gloriam beatorum». La distinzione tra questi due esiti del profetismo si avverte, negli stessi anni, anche nelle pagine della Cronica di Giovanni Villani dedicate all’opera di Dante; e anche Villani dà l'impressione di intendere le ambizioni profetiche della Commedia «come di natura teologico-politica più che escatologica».
Veniamo così all’interrogativo non ulteriormente rinviabile: se lo Spirito Santo ha ispirato la composizione del poema dantesco, in quali termini, secondo Guido da Pisa, bisognerà interpretarne la lettera? I contenuti di cui Dante è ‘calamo’ coincidono senz’altro con l'oggetto della visio, cioè lo «status animarum post mortem»? Oppure lo Spirito Santo ha agito, per così dire, in modo meno diretto?
In un saggio pubblicato pochi mesi fa, Anna Pegoretti ha colto lucidamente questo problema, e ha proposto di risolverlo tornando al brano delle Expositiones dedicato alla complessa struttura visionaria del racconto di Dante: la Commedia trasmetterebbe, secondo Guido da Pisa, un «messaggio profetico “more poetico” attraverso una forma forgiata dal fabbro-fictor ... che veicola in modo ‘costruito’ una visione: che poi questa sia stata effettivamente goduta, Guido lo dice esplicitamente nella glossa in cui afferma che i regni dell’aldilà “sibi adhuc in carne viventi sunt videre concessa”». A questa conclusione si oppone però quanto scritto dal commentatore alla fine del Prologo:
De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe: quod non debemus credere eos ibi esse, sed exemplariter intelligere quod, cum ipse tractat de aliquo vitio, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum illo vitio plenus fuit in exemplum adducit.
Come segnalato da Michele Rinaldi nella sua nota ad locum, Guido riprende qui un brano di Iacomo della Lana: quando Dante fae mentione d’alcuna persona che non se dé entendere che quella persona sia perçòe in inferno od altroe perch’ è ignoto e secreto a li mondani, ma spirtuale se intende che quello vicio ch'è atribuido a colui, overo vertude, per tale modo è purgado overo remunerado per la custixia di Dio.
Benché non originale, l’avvertimento di Guido ha un peso decisivo: se l’esperienza visionaria descritta nel poema fosse stata «effettivamente goduta», non si capirebbe perché Dante avesse poi deciso di sostituire le anime incontrate nei regni ultimi con altre anime, che non «ibi sunt». Un'operazione simile non potrebbe ricondursi in alcun modo, è chiaro, alle forme di rielaborazione poetica che è lecito attendersi da un «fabbro-fictor» depositario di un «messaggio profetico»; avrebbe anzi qualcosa di diabolico. Nell’estratto del commento di Iacomo della Lana può cogliersi, probabilmente, un'eco di Par. x, 130-142: rammentando che il giudizio divino sulle anime umane «è ignoto e secreto a li mondani», il lettore bolognese sembra voler scongiurare che Dante, distribuendo i suoi personaggi nei tre regni, abbia commesso lo stesso errore di «donna Berta e ser Martino». La precisazione manca in Guido da Pisa, ma il quadro non cambia: se la rappresentazione dell’aldilà non può essere recepita così come si presenta secondo la lettera, ciò significa che non è la visio in quanto tale a restituire il «messaggio» che lo Spirito Santo ha consegnato al poeta.
Non è lecito concluderne, tuttavia, che la formula «calamus Spiritus Sancti» vada intesa come una semplice espressione iperbolica; piuttosto, si direbbe che essa abbia un significato più complesso di quelli evocati fino a qui. Per provare a chiarirlo, può essere utile evidenziare un'importante variazione operata da Guido da Pisa sulla fonte di Iacomo della Lana. Quest'ultimo spiega che la collocazione delle anime «in inferno od altroe» vale, nella Commedia, in senso non sostanziale ma «spirituale». Il frate carmelitano traduce l'osservazione del Lana servendosi di termini meno generici: «exemplariter», «in exemplum adducit». Lo stesso rilievo, si noterà, emerge già nelle battute finali della pagina delle Expositiones in cui Dante è qualificato come sappiamo:
Tertius finis est ut vitam pessimam malorum hominum - et maxime prelatorum et principum — exemplariter condemnaret, bonorum autem et virtuosorum, per exempla que ponit, multipliciter commendaret; et sic patet que est causa finalis in hoc opere.
Il riconoscimento del valore emblematico della rappresentazione oltremondana non esclude che essa possa recare un'impronta divina: al contrario, lega quell’impronta alla componente propriamente poetica del testo — l’invenzione narrativa, la traduzione dei concetti in immagini e dei precetti morali in «exempla». Agli occhi di Guido da Pisa lo Spirito Santo presiede alla fictio dantesca nel senso che ne orienta lo svolgimento, garantendo che esso segua il tracciato della dottrina. Nella sua Introduzione alle Expositiones, Rinaldi ha ipotizzato che l’espressione «calamus Spiritus Sancti» possa dipendere da un luogo dell’Antidlaudianus di Alain de Lille («maiorem nunc tendo liram totumque poetam | deponens, usurpo michi nova verba prophete | ... carminis huius ero calamus, non scriba vel acto»). Sembra più probabile, invece, che Guido traesse spunto da una pagina di Bonaventura da Bagnoregio (Collationes in Hexaemeron XII, 17):
Est autem omnis Scriptura cor Dei, os Dei, lingua Dei, calamus Dei, liber scriptus foris et intus. In Psalmo: “Eructavit cor meum verbum bonum, dico ego opera mea regi. Lingua mea calamus scribae velociter scribentis”: cor Dei, os Patris, lingua Filii, calamus Spiritus sancti. Pater enim loquitur per Verbum seu linguam; sed qui complet et memoriae commendat est calamus scribae. Scriptura ergo est os Dei ... Item, est lingua, unde “mel et lac sub lingua eius”. “Quam dulcia faucibus meis eloquia tua, super mel ori meo!”. Haec lingua cibos saporat; unde haec Scriptura comparatur panibus, qui habent saporem et reficiunt. Item, est calamus Dei, et hoc est Spiritus sanctus; quia, sicut scribens potest praesentialiter scribere praeterita, praesentia et futura; sic continentur in Scriptura praeterita, praesentia et futura. Unde est liber scriptus foris, quia habet pulcras historias et docet rerum proprietates; scriptus est etiam intus, quia habet mysteria et intelligentias diversas.
L'esegesi di Bonaventura muove dallo stesso Salmo citato dal frate carmelitano («Re vera potest ipse dicere verbum prophete dicentis: “Deus dedit michi linguam eruditam”, et illud: “lingua mea calamus scribe velociter scribentis”). Lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio, è il ‘calamo’ che porta a compimento il Verbo divino, consegnandolo alla storia («qui complet et memoriae commendat est calamus scribae»). In un sermone di Guillaume d’Auvergne, a essere definiti «calami Spiritus Sancti» sono gli apostoli e i Padri della Chiesa: «Ad scribendam [divinam sapientiam] misit Dominus Apostolos et doctores, qui sunt calami Spiritus Sancti». A fronte di ciò, si può concludere che per Guido da Pisa Dante sia il ‘calamo dello Spirito Santo’ in quanto la sua creazione poetica riattualizza il Verbo ponendosi in un rapporto di stretta continuità con le Scritture. Nella Monarchia, i testi sacri sono indicati come la ‘tromba dello Spirito Santo’ (I XVI, 5: «tubam sancti Spiritus»); e i libri veterotestamentari sono il mezzo attraverso cui lo Spirito Santo ha trasmesso agli esseri umani la verità soprannaturale, prima che essa fosse definitivamente rivelata «per coecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos» (III xvi, 9). Allo stesso modo, gli autori delle Sacre Scritture sono definiti in Par. XXIX, 41 «scrittor dello Spirito Santo». Il Dante di Guido da Pisa può porsi in questo solco in virtù del fatto che le immagini poetiche contenute nella Commedia — prima fra tutte, la figurazione dello «status animarum post mortem» — prendono forma da concetti che non sono in contraddizione con le verità scritturali.
Naturalmente, una tesi tanto onerosa chiede di essere dimostrata; ed è qui che emergono le difficoltà. Le oscillazioni maggiori, nell’esegesi di Guido da Pisa, si colgono proprio nei reiterati tentativi di dare un sostegno adeguato alla «perentorietà» delle affermazioni contenute nelle pagine iniziali delle Expositiones. In primo luogo, è necessario richiamare un aspetto del problema cui finora non abbiamo accennato: anche la lettura di Guido da Pisa, come molte letture coeve, manifesta un marcato intento apologetico. È noto che i commentatori trecenteschi della Commedia alludono ripetutamente a misteriosi detrattori di estrazione ecclesiastica — indicati genericamente come ‘teologi’ — che si espressero sfavorevolmente nei confronti di Dante. Stando alla loro tradizione indiretta, le voci polemiche che accompagnarono la prima diffusione del poema sembrano seguire due direttrici, che rivelano prospettive parzialmente diverse circa l'oggetto in questione: il rifiuto della Commedia in quanto opera di poesia, cui è di norma presupposto un rifiuto del discorso poetico in quanto tale; e la preoccupazione per l’occasionale disponibilità dantesca a riformulare argomenti di fede forzando i limiti della dottrina.
I termini precisi del conflitto non sono tuttavia di immediata decifrazione. L'accordo tra i documenti indiretti — le tensioni registrate dai lettori danteschi — e quelli diretti — le concrete ingerenze dei ‘teologi’ — è infatti approssimativo, poiché i secondi risultano oggi numericamente più esigui e ideologicamente meno compatti dei primi. Circa la riduzione della Commedia a una menzogna poetica da respingere in blocco, è noto il precoce intervento (1327-29?) del domenicano Guido Vernani, il quale poteva aprire e rapidamente chiudere il discorso sul poema di Dante limitandosi a rinviare alla Consolatio di Boezio:
Habet ... mendax et perniciosi pater mendacii sua vasa que, in exterioribus honestatis et veritatis figuris fallacibus et fucatis coloris adornata, venenum continent tanto crudelius et pestilentius quanto rationalis anima, vita divine gratie illustrata, a qua ille decidit qui cadens per superbiam in veritate non stetit, corruptibili corpori noscitur preminere. Inter alia vero talia sua vasa, quidam fuit multa fantastice poetizans et sophista verbosus, verbis exterioribus in eloquentia multis gratus, qui suis poeticis fantasmatibus et figmentis, iuxta verbum Philosophie Boetium consolantis, scenicas meretriculas adducendo, non solum egros animos, sed etiam studiosos dulcis syrenarum cantibus conducit fraudolenter ad interitum salutifere veritatis.
Le immagini elaborate dal «sophista verbosus» conducono alla rovina non solo gli animi più fragili («egros animos»), ma anche quelli sorretti dalla scienza («sed etiam studiosos»). La ‘scena primaria’ della Consolatio Philosophiae, la cacciata delle Muse della poesia «sotto il segno della rivelazione della verità», è qui ridotta, non innocentemente, a un punto di non ritorno. Nella lettura di Vernani la creazione poetica si risolve di necessità nella generazione di fantasmi — di immagini fittizie che offuscano, fino a stravolgerla, la visione del vero.
Obliterando la questione fondamentale posta nella fonte boeziana — la cacciata non della «poesia tout court», ma della «poesia del mondo e delle sue immagini» —, Vernani esclude in linea di principio che il poema di Dante possa contenere altro che non sia un'imitazione fallace dei principi costitutivi della verità («vasa ... in exterioribus honestatis et veritatis figuris fallacibus et fucatis coloris adornata»). Non è dunque in gioco, si comprende, una censura delle immagini poetiche in quanto espressioni del «grado più basso della concettualizzazione». Non v'è dubbio che le finzioni cui allude il domenicano siano del tutto estranee al dominio della realtà sensibile, delle passioni e della contingenza: da cui la sostanziale forzatura nel richiamo a Boezio.
Ma è proprio in questo slittamento che prende forma l’argomento più grave avanzato da Vernani. Il pensiero cristiano non nega infatti che le immagini elaborate dalla poesia (e dalla pittura) possano porsi al servizio di verità di ordine non sensibile. La garanzia è data per i teologi dalla «somiglianza tra creatore e creatura affermata nel Genesi», e poi dall’incarnazione, in virtù della quale il ‘Dio invisibile’ si è reso visibile «mediante la partecipazione alla carne e al sangue»: tanto che la «theologia» per prima — così l’Anonimo Teologo, in una chiosa a Par. IV, 43-48 — «condescendens nostro intellectui atribuit Deo corpus, et ecclesia permitit angelos depingi in forma humana». È tuttavia evidente che a giudizio di Vernani le immagini della Commedia non ‘assomigliano’ in alcun modo al vero — alla causa prima che produce un effetto sibi simile, consentendo in tal modo la propria rappresentabilità —, ma ne costituiscono piuttosto la falsificazione: sono dunque da intendere come immagini diaboliche («... dulcis syrenarum cantibus conducit fraudolenter ad interitum salutifere veritatis»).
Nei primi decenni del sec. xv, a circa un secolo di distanza dalla Reprobatio di Vernani, un altro domenicano, l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, potrà riaccendere la polemica contro la poesia dantesca seguendo una traccia leggermente diversa:
... nec sufficienter defendunt eum qui dicunt istud non sensisse, sed ut poetam finxisse secundum opinionem aliquorum, quia cum liber ille sit in vulgari compositus et a vulgaribus frequentata lectio eius et idiotis, propter dulcedinem rythmorum et verborum elegantia, nec sciant discernere inter fictionem et veritatem rei, facile possunt credere esse talem statum in alia vita, quem fides Ecclesiae reprobat.
La riflessione di Antonino muove dalla constatazione di un grave errore dottrinale di Dante, ossia la collocazione «in Campis Elisiis» — così l'arcivescovo — di quei sapienti che «propter errorum elationem et infidelitatem» sarebbero stati da destinare all’inferno. Si tratta con ogni evidenza di un rilievo poco motivato, ma non privo di importanza: tra gli esegeti trecenteschi, era stato proprio Guido da Pisa a suggerire un'analogia tra il «nobile castello» del Limbo e l’Elisio pagano. Ciò che più interessa, però, è quanto segue. Scrive Antonino Pierozzi che non è sufficiente affermare, come vorrebbero alcuni, che Dante descrisse poeticamente i ‘Campi Elisi’ senza che questo implicasse da parte sua alcuna concessione a tale dottrina, poiché per sua natura la Commedia ha ampie possibilità di penetrazione presso i profani: non è dunque inverosimile che popolani e ignoranti, sedotti da una lingua facilmente accessibile («cum liber ille sit in vulgari compositus») e dalla dolcezza del metro, confondano tra loro «fictionem et veritatem rei» e facciano proprie idee irricevibili per la fede cattolica. Il domenicano non mette in discussione la natura del discorso poetico in sé, quanto piuttosto il suo effetto su chi non è preparato a riceverlo: e l'invenzione dantesca, avendo per 0ggetto lo stato delle anime dopo la morte, appare in questo senso particolarmente insidiosa. Non è difficile cogliere nelle parole di Pierozzi un'eco delle note finali del Prologo delle Expositiones: «De illis autem personis quas ibi ponit hoc accipe: quod non debemus credere eos ibi esse...».
Il rilievo polemico dell’arcivescovo fiorentino — «nec sufficienter defendunt eum qui dicunt istud non sensisse, sed ut poetam finxisse» — sembra valere dunque come un puntuale e deliberato contrappunto a una linea di lettura analoga a quella adottata diversi decenni prima dal frate pisano. Per altro verso, la propensione di Guido da Pisa alla svalutazione della lettera del poema è evidente fin dai primi versi della Declaratio super «Comediam» Dantis. Altrettanto evidente è che tale svalutazione rispondesse, nelle intenzioni del commentatore, a un disegno apologetico (Declaratio i, vv. 1-12):
Come dicon li savi naturali,
l'ignoranza fu madre de l'errore,
onde dale’ procedon tutti mali.
Per ciò ammirazion non ho nel core
se l’ignoranti biasiman la luce
da che nelli occhi han sì fatto liquore.
Ei biasman quella luce ove riluce
la fede cristiana et la dottrina
la quala vita eterna ci conduce;
vegion la rosa nata in su la spina:
tanto li accieca l'ignoranza ria
che lasciano ’l fiore et prendon la spina.
Particolarmente esplicito, circa i temi di nostro interesse, è l’autocommento ai vv. 5-12:
5. Se l’ignoranti et cetera. Ignorantes enim vituperant illam lucem in qua Christiana fides atque doctrina, quem omnem hominem recte credentem et bene operantem ad vitam deducunt eternam. Ista enim duo - scilicet vera fides, et bona doctrina — in Comedia Dantis, si quis recte intellexerit, clara luce refulgent. 7. È biasman. Ignorantes, ut manifeste videmus, lucida eletione privantur, qui tantam doctrinam, que continetur in Comedia, propter ipsum poeticum nomen, et quia vulgari sermone conscriptam, fugiunt et abhorrent et — quod peius est — canino dente lacerare conantur. Quis unquam, nisi freneticus vel insanus, rosam, que est pulcerrima florum, propter spinam, de qua nascitur, colligere vel odorare fastidium sibi esset? Ignorantes vero, multo peiores freneticis vel insanis, audientes hoc nomen Comedie, et videntes ipsam vulgari sermone compositam, fructum qui latet in ipsa querere negligunt et abhorrent, et sic florem qui refocillat animam linquunt, et spinam, que ipsos errorum vulneribus vulnerat, capere delectantur.
Guido da Pisa registra voci critiche di diversa natura. Le prime riguardano l’opzione linguistica alla base del poema dantesco («quia vulgari sermone conscriptam»), e sono certamente riconducibili agli ambienti del nascente umanesimo, particolarmente ostili, com'è noto, alla lingua in qua et muliercule comunicant. Le seconde alludono invece all’oggetto della nostra indagine, il valore di verità della poesia della Commedia. Anzitutto, ci sono ‘ignoranti’ — così il commentatore — che disprezzano l’opera di Dante «propter ipsum poeticum nomen»: cioè, semplicemente, in quanto opera di poesia. Il termine «spina», che occorre sia nei versi della Declaratio (v. 10) sia nella glossa, ha un'immediata implicazione boeziana: nella prima prosa della Consolatio (1 pr. 1, § 9), la Filosofia caccia le Muse poetiche figurando appunto come ‘spine’ le passioni (affectus) che esse alimentano, e con le quali annebbiano la ragione («‘Hae sunt enim quae infructuosis affectuum spinis uberem fructibus rationis segetem necant hominum que mentes assuefaciunt morbo, non liberant’»). Poco oltre, nel commento ai vv. 13-15 del primo canto della Declaratio, il frate tenta addirittura di invertire di segno l’immagine impiegata da Boezio, spiegando che la poesia, anticamente paragonata alle ‘spine’ in quanto attività lucrativa («erat antiquo tempore scientia lucrativa»), è definibile come tale anche «propter sui obscuritatem, et propter latentes figuras». La conclusione del ragionamento porta su una prospettiva esegetica generale: «Sed nichilominus de ista spina nascitur rosa, quia de lictera — que videtur aspera et dura — oritur allegoricus et divinus quodammodo intellectus, qui est vere animam refocillans».
La lettura allegorica della Commedia reagisce dunque al problema posto dallo statuto ambiguo delle immagini poetiche; Guido da Pisa non nega che esse possano avere una sembianza ‘aspra’, ma intende quest’ultima come l'involucro di concetti derivati da un'ispirazione divina («oritur allegoricus et divinus quodammodo intellectus»). L'osservazione, si comprende poco oltre, serve anche a respingere il sospetto che Dante si allontani di tanto in tanto dalla dottrina cattolica (Declaratio ii, vv. 13-18):
Non t'ammirar, Lucan, se contra fé
in questa prima cantica infernale
alquanto parla: ch'ei fa ciò che de’;
che ’n questa prima parte infortunale
ragion lo mena, però qui Virgilio
è la sua guardia giù per l’aspre scale.
13. Non t'ammirar, Lucan. Quia in pluribus locis, et maxime prime Cantice, videtur autor loqui contra catholicam veritatem, ideo hic admonetur lector sive auditor ut ipsum autorem non damnet, quia poetice loquitur et fictive; nam vedere et clare intelligenti non apparebit error sua fictio vel doctrina, sed virtus lucida et preclara.
L’argomentazione, ancora una volta, si riduce a un’affermazione perentoria — e presto vacillante. Non può sfuggire infatti la dissonanza che viene a crearsi tra versi e commento. Nei primi, il parlare «contra fé» è ricondotto all’intelaiatura razionalistica che sostiene la cantica infernale, la quale si svolge sotto il segno di Virgilio, figura della ragione umana; mentre nell’autocommento le asperità concettuali e le loro potenziali ricadute ‘erronee’ sono risolte grazie alla nozione di fictio poetica. In un caso e nell’altro, è patente la contraddizione con i brani del Prologo discussi nella prima parte di questo saggio: all’ispirazione divina, presupposto necessario di ogni investitura profetica, si oppone la «ragion», l'ingegno umano (si rammenti il brano delle Genealogie citato da Battaglia Ricci). Non solo: il concetto di fictio è qui evocato in aperto ed esplicito contrasto rispetto alla «catholicam veritatem» («videtur autor loqui contra catholicam veritatem ... quia poetice loquitur et fictive»).
La tensione giunge alle sue conseguenze ultime nel commento al v. 91 del canto proemiale del poema. Anzitutto, Guido ribadisce l’idea che alla base dell’Inferno dantesco debba riconoscersi un pensiero che mai travalica, né ambisce a travalicare, il perimetro degli argomenti affrontabili dall’humana ratio; tali argomenti sono tuttavia svolti poetice, ossia tramite immagini che rinviano a concetti («secundum rationem humanam poetice pertractando [auctor] dirigit vias suas»). Ma gli argini non reggono: alla fine della chiosa il tono si fa preoccupato, tanto che il lettore finisce per prendere apertamente le distanze dal suo poeta:
Et ego, simili modo exponens et glosans, non nisi itinera sua sequar, quia ubi loquitur poetice exponam poetice, ubi vero theologice, exponam theologice, et sic de singulis. Non autem intendo vel contra fidem, vel contra Sanctam Ecclesiam aliquid dicere sive loqui. Si autem aliquid inepte dicerem, volens textum autoris exponere, ne aliquid remaneat inexcussum, ex nunc revoco et annullo, et Sancte Romane Ecclesie et eius officialium correctioni et ferule me submitto. Quia si in ista Comedia esset aliquod hereticum, quod per poesiam seu aliam viam sustineri non posset, non intendo illud tale defendere vel fovere; immo potius, viso vero, totis conatibus impugnare.
Non sappiamo chi fossero gli avversari cui Guido da Pisa ha indirettamente dato voce, e che ha ritratto, nemmeno troppo implicitamente, come individui mossi da una qualche ferocia («canino dente lacerare conantur»). Gli anni dell’attività esegetica del frate carmelitano sono gli stessi in cui Vernani muove il suo attacco all’opera di Dante; non è quindi irrealistico supporre che le tensioni di cui Guido da Pisa si è fatto ricettore echeggiassero argomenti prossimi a quelli formulati nel prologo della Reprobatio.
D'altra parte, anche il riconoscimento del carattere allegorico della scrittura dantesca può sostenersi solo là dove sia possibile dimostrare che le immagini plasmate dal poeta e la matrice veritiera che esse sottendono vivono in un rapporto di perfetta continuità. È questo, con ogni evidenza, il punto moralmente non scontato: la relazione di somiglianza tra le forme dell’elaborazione poetica e la loro causa, la «Christiana fides atque doctrina». Proprio sul presunto pervertimento di questa relazione si fondava, come abbiamo osservato, il breve discorso contra Comediam di Vernani. Guido da Pisa entra nel merito del problema fin dalle prime battute delle sue esposizioni:
Scribitur Danielis quinto capitulo quod, cum Baltassar rex Babillonie sederet ad mensam, apparuit contra eum manus scribens in pariete: ‘mane, thechel, phares’ [Dn 5, 5 e 25]. Ista manus est noster novus poeta Dantes, qui scripsit, idest composuit, istam altissimam et subtilissimam Comediam, que dividitur in tres partes: prima dicitur Infernus, secunda Purgatorium, tertia Paradisus. His tribus partibus correspondent illa tria que scripta sunt in pariete. Nam Mane correspondet Inferno; interpretatur enim ‘mane’ numerus, et iste poeta in prima parte sue Comedie numerat loca, penas et scelera damnatorum. Thechel correspondet Purgatorio; interpretatur enim ‘thechel’ appensio, sive ponderatio, et in secunda parte sue Comedie appendit et ponderat penitentias purgandorum. Phares autem correspondet Paradiso; interpretatur enim ‘phare’ divisio, et iste poeta in tertia parte sue Comedie dividit, idest distinguit, ordines beatorum et angelicas ierarchias. Igitur manus, idest Dantes — nam per manum accipimus Dantem: manus enim dicitur a ‘mano, manas’ et Dantes dicitur a ‘do, das’, quia sicut a manu manat donum, ita a Dante datur nobis istud altissimum opus - scripsit, dico, in pariete, idest in aperto et publico, ad utilitatem omnium...
Di nuovo, non è in gioco in questi brani l’autenticità dell’esperienza visionaria narrata nella Commedia, ma piuttosto l'affermazione della natura veridica, poiché divinamente illuminata, delle immagini che essa contiene. Al contempo, l'analogia che il commentatore istituisce tra sé stesso e Daniele nel segno della decifrazione di un messaggio occulto serve a porre in primo piano, come un’acquisizione fondamentale, la qualità allegorica della poesia dantesca. La theia mania che in Platone caratterizza l’attività dei poeti era «già stata trasformata in ispirazione divina dai Padri della Chiesa»: sulla stessa linea tenta di porsi il frate carmelitano quando scrive che Dante, «quamvis theologus et fidelis, tamen ad cognoscendum Deum et adscendendum ad ipsum poeticas scalas facit. Etinhocimitatus est non solum Platonem et Martialem, sed etiam Salomonem, qui more poetico condidit Cantica Canticorum». Ma anche in questo caso la tensione non si risolve del tutto, come dimostra la concessiva iniziale: «quamvis theologus et fidelis, tamen... poeticas scalas facit». In un altro luogo del Prologo, Guido tenta di ridurre lo iato tra ‘sacra scrittura’ e ‘poesia’ giovandosi di una famosa citazione varroniana (mediata da Agostino):
... currit enim in hoc poesia cum theologia, quia utraque scientia quadrupliciter potest exponi. Imo ab antiquis doctoribus ponitur poesia in numero theologie. Scribit enim beatus Augustinus vu libro De Civitate Dei quod Marcus Varro tria genera theologie esse posuit: unum scilicet fabulosum, quo utuntur poete; alterum naturale, quo utuntur philosophi; tertium vero civile, quo utuntur populi.
All’apparenza tutto torna; ma in verità il rinvio contiene una forzatura clamorosa. Il frate carmelitano omette infatti di riportare — e si capisce perché — il giudizio aspramente negativo pronunciato da Varrone-Agostino sulla theologia fabulosa o mythica: «illa mendacia spargit, ... illa res divinas falsis criminibus insectatur, ... illa de diis nefanda figmenta hominum carminibus personat» (De civitate Dei vi 6, § 2). Con ogni evidenza, la rimozione è deliberata: non altrimenti potrebbe sostenersi la legittimità di un percorso orientato alla conoscenza di Dio che si ostini a procedere lungo rampe ‘poetiche’.
Il carattere inquieto della lettura di Guido da Pisa lascia un’eloquente traccia di sé anche nelle miniature della carta incipitaria del ms. Musée Condé 597 di Chantilly (c. 1). Chiara Balbarini ha osservato che la posa di Dante, nel capolettera ‘N’, «richiama l'iconografia dell’evangelista che attende l’ispirazione divina», e ne ha dedotto che «l’immagine traduce la definizione che Guido dà di Dante, “calamus Spiritus Sancti”». Ma, come è evidente, il Dante che «nella mano destra tiene sospeso il calamo» rivolge il proprio sguardo non a Dio ma «a Virgilio», «che dialoga con l’autore al tavolino, il dito alzato a rappresentare la funzione docente da lui qui assunta». Tenendo conto del significato che Guido attribuisce al Virgilio dantesco («se contra fé | in questa prima cantica infernale | alquanto parla » è perché «ragion lo mena, però qui Virgilio | è la sua guardia...»), l’immagine, più che celebrare lo «scambio interattivo e ideologicamente non problematico ... tra scrittura sacra e modelli classici», sembra piuttosto manifestarne i limiti.