Dati bibliografici
Autore: Massimo Verdicchio
Tratto ad: Della dissimulazione: allegoria e ironia nella Commedia di Dante
Editore: La Città del Sole, Napoli
Anno: 2002
Pagine: 17-27
Con il termine “allegoria” si vuole alludere ad un discorso narrativo poetico rigorosamente contrapposto all’allegoria teologica in cui, invece, il poetico è subordinato alla sostanza teologica del poema . La distinzione non è puramente nominale in quanto esiste una differenza qualitativa fra l’allegoria dei poeti e l’allegoria dei teologi. Sebbene in entrambi i casi si tratti di allegoria, in realtà ci troviamo davanti a due nozioni diverse se non contrarie. Con l’allegoria dei poeti abbiamo a che fare con un modo di scrivere, con l’allegoria dei teologi con un modo di leggere. Nel primo caso si tratta di una favola poetica costruita con lo scopo di comunicare un messaggio poetico nascosto, nel secondo caso abbiamo un’interpretazione di questa favola secondo un codice “diverso”, in questo caso la teologia, e che opera a livelli diversi: allegorico, tropologico, anagogico.
AI di là di questa differenza qualitativa, le due allegorie si distinguono anche nella lettura adatta ad ognuna di esse. Come sottolinea Dante nella Lettera a Can Grande della Scala e nel Convivio, l’allegoria delle canzoni si riferisce ad un contenuto specifico proposto dal poeta che può essere determinato solo ricostruendo il significato originale e letterale. L’allegoria teologica, invece, non è in prima istanza un modo di leggere la poesia, sebbene sia stata usata per questi fini . Come è ben noto, la lettura allegorica, tropologica ed anagogica sono modi di leggere la storia della redenzione cristiana: la storia degli Israeliti e, per estensione, la storia dell’uomo e dell'umanità rispettivamente. Quando l’allegoria teologica viene applicata alla lettura della poesia, come nel caso di Ovidio o di Dante, si presuppone che, al di là del livello letterale, vi siano nascosti significati cristologici. Poiché questo era l’uso sia prima che durante il tempo di Dante, i critici come Charles Singleton hanno sentito l'esigenza di continuare questa pratica.
Dante chiarisce la differenza tra i due modi di leggere in quel passo molto noto del Convivio in cui parla dell’allegoria:
Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mostrerà . Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti: però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
(Convivio II, i, 1-5, corsivo mio)
La critica ha avuto difficoltà con questa citazione perché essa distingue tra l’allegoria poetica e l’allegoria teologica, e dice chiaramente che Dante non seguirà l’uso dei teologi. Ma dato che la citazione ricorre nel Convivio, alcuni critici hanno dubitato che essa si riferisca alla Commedia. Comunque, non è questa la questione che mi preme discutere a questo punto, ma piuttosto quella dell’interpretazione che Dante dà dell’allegoria di Ovidio, o meglio della sua bella bugia.
L’interpretazione che Dante dà di Orfeo è, in un certo qual modo, molto tradizionale. Orfeo è stato sempre considerato come il prototipo del poeta e la sua abilità nell’ammansire gli animali selvaggi con la magia della sua lira costituisce una perfetta analogia per il compito del poeta, che è quello di rendere docili i cuori selvaggi ed irrazionali degli uomini. Ma è anche chiaro che Dante non sceglie l'esempio a caso. Ciò che è interessante nell'esempio di Dante è il fatto che egli attribuisca a Orfeo lo stesso compito che egli si è assegnato nel Convivio, di addolcire i “cuori crudeli” degli uomini e spingere coloro che sono privi di ragione a migliorare il loro intelletto e la loro moralità. Chiaramente Dante sceglie la storia di Orfeo perché vuole chiarire, prima di tutto, che questo è ciò che i poeti fanno e hanno sempre fatto da tempi immemorabili, o almeno da Ovidio in poi. Perciò, abbiamo qui molto di più di un semplice esempio di allegoria poetica. La lettura che Dante fa di un mito classico stabilisce una continuità nello scopo e nella funzione dell’uso dell’allegoria poetica tra un famoso scrittore classico come Ovidio e sé stesso, assicurandosi così l’autorità necessaria per la sua lettura allegorica delle canzoni. Inoltre, l'esempio di Ovidio mette in chiaro anche che soggetto di ogni favola poetica o allegoria sono sempre la poesia e il poeta, la loro funzione e il loro ruolo nella società. L’allegoria poetica non ha altro referente fuori da questo fine sociale in quanto essa non può avere altro soggetto che sé stessa. Nel Convivio, lo scopo della spiegazione di Dante del significato allegorico delle canzoni è di dimostrare ai lettori che egli non sta facendo niente di più o di meno di quello che hanno già fatto Orfeo ed Ovidio.
Nel leggere la favola di Ovidio in questo modo Dante vuole sottolineare che l’allegoria poetica deve essere letta nei suoi propri termini e non in altri. Qui, e per tutto il Convivio, abbiamo a che fare con il modo appropriato di leggere testi poetici, poiché è qui che i lettori delle canzoni non hanno capito. E la questione di leggere bene diventa ancora più importante perché per Dante non è soltanto questione di recepire la favola in maniera corretta ma, come spiega nel suo commento, si tratta di apprendere la “vera” lezione della poesia, che oltre alla creazione di belle composizioni ha il ruolo più importante d’indicare all'uomo la via della felicità. Solo quando la poesia è letta bene, vale a dire secondo allegoria, attraverso una stretta comprensione del testo, si manifesta e si realizza il vero compito della poesia e del poeta. Questo compito, messo in evidenza dalla favola di Ovidio, è quello stesso che Dante sostiene nel Convivio e nella Commedia. Supporre altrimenti equivarrebbe ad accusare Dante di venire meno al suo dovere di poeta, il che non è mai stato messo in dubbio.
La distinzione ha implicazioni importanti per il ruolo dell’allegoria poetica nelle opere di Dante. Prima di tutto, ci rendiamo conto che Dante non è libero di scegliere fra le due allegorie a seconda degli obiettivi che si pone. Egli non è libero di abbandonare l’allegoria poetica del Convivio e di scegliere l’allegoria teologica per la Commedia, come si è asserito, solo perché non più soddisfatto della filosofia o perché convertito alla vera fede. Dante, come tutti i poeti prima di lui, non ha altra scelta che quella di ricorrere a questo modo di espressione. Essere poeta significa scrivere secondo la maniera dell’allegoria poetica. Anche se Dante avesse scelto di abbandonare la filosofia per la teologia, questo non avrebbe minimamente influito sulla scelta dell’allegoria che sarebbe dovuta essere necessariamente “poetica”, poiché avrebbe avuto sempre a che fare con favole poetiche, anche nel caso che Dante le avesse considerate vere. Anche se Dante avesse scelto di scrivere allegorie teologiche, queste sarebbero state pur sempre allegorie poetiche e si sarebbero dovute leggere come tali. Pertanto, non c’è nessuna controversia nel leggere la Commedia come allegoria teologica purché sia chiaro che questo significa un’allegoria poetica della teologia. Quindi, subordinare l’allegoria poetica a quella teologica equivale a sopprimere il ruolo e la funzione poetica di Dante, e a condannare la sua parola poetica ad un esilio ancora più grave e lungo.
La necessità dell’allegoria poetica è ripresa nell’altro testo sull’allegoria, la Lettera a Can Grande, spesso citata per sostenere la tesi opposta. Nella lettera, Dante non parla di due allegorie, ma definisce il suo poema come “polisemos” e spiega la polisemia in questo modo:
Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico.
(Epistole, XIII, 20)
L'esempio usato da Dante per illustrare i diversi livelli dell’allegoria è quello stesso del Convivio, Esodo degli Israeliti dall'Egitto letto nel suo significato allegorico, morale e anagogico. La conclusione è la stessa:
E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola “allegoria” deriva dal greco “alleon” che è reso in latino con “alienum” ossia “diverso”.
(Epistole, XIII, 22)
Alcuni critici hanno messo in dubbio l’autenticità della Lettera a Can Grande perché sembra suggerire una lettura teologica del poema. Ma, secondo me, queste citazioni in nessun modo confutano quello che Dante dice nel Convivio. Nella lettera, Dante cerca semplicemente di spiegare ai suoi lettori che cosa s’intende per un poema allegorico polisenso. Difficilmente avrebbe potuto dimostrare la polisemia menzionando un solo livello allegorico. Inoltre, l'esempio dell’Esodo degli Israeliti è un esempio tipico che Dante usa anche nel Convivio per le stesse ragioni e non per indicare una predilezione per l’allegoria teologica. Nel descrivere il suo poema come polisenso e nel citare l’esempio biblico, Dante vuole richiamare l’attenzione di Can Grande della Scala, al quale dedica la cantica del Paradiso, sul fatto che il suo poema merita grande considerazione. Quando però si accinge a spiegare il significato del poema, Dante parla soltanto di due livelli.
E perciò si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi se s’interpreta allegoricamente. È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera. Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti cor libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.
(Epistole XIII, 23-25, corsivo mio)
Qui i due livelli dell’allegoria poetica vengono delineati chiaramente nei termini della favola dantesca: il viaggio nel regno dei morti (al livello letterale) e la ricompensa e la punizione divina basate sulle azioni dell’uomo, liberamente intraprese (al livello allegorico). Nell’indicare come leggere il poema, la Lettera richiama il Convivio dove Dante spiega al lettore come leggere le canzoni, “come mangiar si dee”, come interpretare la sua allegoria poetica. Ma la Lettera a Can Grande ha un altro punto in comune con il Convivio che, secondo me, dimostra una rassomiglianza tra le due opere nel metodo e nello scopo. Sia la Lettera sia il Convivio mettono in evidenza la funzione didattica della poesia come finalità ultima dell’allegoria. Sappiamo quale è questo fine nel Convivio. Nella Lettera a Can Grande la funzione del poema è indicata dal significato dell’allegoria che riguarda le punizioni e le ricompense. Lo scopo di dimostrare ai lettori come e perché le anime meritano o punizione o ricompensa, per richiamare l'esempio ovidiano di Orfeo, è di renderli mansueti e stimolarli a diventare virtuosi e a raggiungere, come fa il pellegrino nella Commedia, la felicità suprema.
In una lettura che prediliga il significato teologico rispetto a quello allegorico, quello che viene a mancare è precisamente l’aspetto didattico, che non è una funzione supplementare del poema tanto da poter essere minimizzata o eliminata, ma, come l’esempio di Ovidio rende evidente, è una parte essenziale ed integrante della poesia e dell’allegoria poetica. Ironicamente, col sopprimere il significato didattico, la lettura teologica compromette il progetto “divino” di Dante perché falsifica il rapporto fra lettore e testo, mettendo a repentaglio la sua salvezza che solo l’autoconsapevolezza del lettore può garantire: una conoscenza corretta dei motivi per i quali le anime vengono punite o premiate, un processo che, siccome coinvolge il pellegrino dantesco, inevitabilmente chiama in causa, per analogia, anche il lettore. La lettura teologica o qualsiasi “altra” lettura non condotta secondo i termini dettati dalla poesia o dall’allegoria poetica, comportano una trasformazione del lettore da “pellegrino” o “studente” della Commedia, che solo in questo modo può ricavare “nutrimento” dal poema, a censore e critico del poema, vale a dire, ad una posizione di potere e di controllo sul testo poetico dantesco. Ciò che rende la lettura teologica del poema dantesco così seducente è precisamente l'opportunità di comprendere il significato completo della Comedia tramite l’accesso ad un significato teologico preconfezionato. Il significato teologico offre al lettore una facile via d’uscita, una scorciatoia per il Paradiso, la stessa desiderata dal pellegrino e per cui implora Virgilio inutilmente all’inizio del poema . L’allegoria poetica, invece, è sia un modo di scrivere sia un modo di leggere. Il poeta costruisce una favola per alludere ad un significato che non è né morale né anagogico, ma poetico, perché il suo unico referente è il significato letterale. Questo è chiaro nel Convivio dove Dante insiste sulla dipendenza del significato allegorico da quello letterale:
Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come nella casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che ’l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è a l’altre venire prima che a quella.
(Convivio II, i, 11-12)
Il poeta costruisce il significato letterale o il suo soggetto con la stessa cura con cui il muratore costruisce le fondamenta di una casa. Ma in gioco non è soltanto la struttura di un edificio, bensì l’edificio della conoscenza che permetterà al lettore di realizzare la potenzialità inerente alla sua natura umana e razionale per il proprio sviluppo personale, per la comunità e per la nazione.
La realizzazione di queste prospettive come pure la costruzione di questa conoscenza dipendono, perciò, da un'analisi attenta del significato letterale con un occhio alle “altre” e “diverse” implicazioni che ha in serbo per il lettore. Questo è un compito tutt’altro che facile. Quando i suoi lettori non compresero il significato allegorico delle canzoni, Dante si sentì obbligato a scrivere il Convivio per spiegare il loro vero significato allegorico. Con la Commedia i lettori non sono così fortunati e devono fare tutto il lavoro da soli. Ma l’avvertimento del poeta appena citato si applica perfettamente al poema. Il lettore deve esaminare attentamente il testo delle diverse favole o allegorie, per comprendere prima di tutto i significati fondamentali che vengono suggeriti dal significato letterale. Questo comporta non soltanto uno studio del livello narrativo, ma anche una precisazione delle contraddizioni inerenti in esso. Al livello letterale, questo significa che il lettore deve resistere a qualsiasi tentativo di risolvere le apparenti contraddizioni che vi trova, come invece fa, spesso lamentando una svista da parte di Dante, oppure accusandolo di avere male interpretato i testi a cui fa riferimento. Soltanto dopo aver determinato il significato letterale in tutte le sue implicazioni e contraddizioni apparenti è possibile determinare il suo necessario ed inevitabile significato allegorico complementare. Così procede Dante nel Convivio, dove spiega prima il significato letterale e poi quello allegorico, che chiama la “nascosa veritade”:
ragionerò prima la litterale sentenza e, appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade.
(Convivio II, i, 15, corsivo mio)
In questo studio ho cercato di seguire questo procedimento, sebbene non abbia tanto applicato una teoria dell’allegoria alla Comedia quanto abbia cercato di seguire da vicino le implicazioni ermeneutiche che di tanto in tanto emergono da una lettura attenta del poema. Come risulta chiaro dall’analisi che segue, leggere la Commedia in modo corretto e appropriato, cioè allegoricamente, è di per sé un problema sollevato dal poema e legato ad una epistemologia della verità e dell’errore che caratterizza l’intero progetto poetico dantesco.