Dati bibliografici
Dati bibliografici
Autore: Angelo Jacomuzzi
Tratto da: Il palinsesto della retorica e altri saggi danteschi
Editore: Leo S. Olschki, Firenze
Anno: 1972
Pagine: 117-178
Tra le proposte d'interpretazione e di lettura della Commedia avanzate nel corso del Novecento nessuna ha prodotto un rinnovamento di prospettiva e una ricchezza di verifiche testuali tanto vaste e profonde quanto quella che si lega al nome di Erich Auerbach e in particolare al concetto di «figura» da lui illustrato e adoperato come generale e organico criterio ermeneutico sul corpus della poesia dantesca. È noto come lo spunto dichiarato dell'impostazione degli studi dell'Auerbach sulla Commedia si trovi nel celebre passo dell'Estetica hegeliana (nelle pagine della III Parte, dedicate alla poesia epica) dove è descritto l'epos del poema come sintesi dell'umano con l'eterno, della particolarità storica con il giudizio e la sussistenza definitiva e immutabile; ma è solo col ricorso al criterio della figuralità che il filologo tedesco ha potuto trovare, ancora dichiaratamente, un fondamento teorico all'intuizione hegeliana omogeneo all'oggetto e foggiarsi uno strumento esegetico capace di conferire a quell'intuizione una specificità storica e di mediarla sul terreno concreto delle forme di comunicazione, dell'ideologia, della cultura e, insomma, della Weltanschaung medievale in cui la grande invenzione dantesca s'inscrive.
Quanto di valido e di fecondo è nelle proposte e nel metodo dell'Auerbach è ormai patrimonio acquisito della critica dantesca; e non ci soffermeremo qui a trarne un bilancio anche sommario né a tracciare un panorama delle implicazioni e degli sviluppi che da quelle pagine, tanto singolarmente organiche nei criteri ispiratori quanto fitte di digressioni e affidate intenzionalmente alla tecnica della ripetizione più che a una rigorosa e aprioristica coerenza dimostrativa, si muovono in direzioni molteplici che interessano tutti i livelli della compagine del poema, da quelli più strettamente dottrinali a quelli dell'ideologia letteraria, a quelli, infine, dello stile e della lingua. Può essere però di qualche utilità notare come nell'ambito della cultura italiana l'interesse che ha suscitato la lezione dell'Auerbach e l'influenza ch'essa ha esercitato siano altrettanto diffusi e profondi quanto notevolmente tardivi. I primi scritti danteschi del filologo tedesco che già contengono alcune coordinate fondamentali delle future ricerche (Dante als Dichter der irdischen Welt) risalgono infatti al 1929; ma è facile constatare che nel dibattito critico come nei repertori bibliografici e nei capitoli di storia della critica dantesca il nome dell'Auerbach è assente (ma non è mancata dalla vigile «Critica» crociana una tempestiva, per quanto limitativa, segnalazione) o si riduce a una semplice indicazione informativa senza rilievo, sino alla prima traduzione italiana del suo libro Mimesis (1956) che presentava il notevolissimo saggio su Farinata e Cavalcanti; da quell'anno la fortuna italiana dell'Auerbach andò progressivamente crescendo. Questa immissione tardiva della metodologia e dell'esegesi auerbachiana nel circolo della critica dantesca del nostro paese ha una ragione di fondo nella resistenza di principio e d'interessi che ad essa opponeva la fittissima trama del dibattito critico che pur nella varietà d'intenti, polemiche e revisioni restava sostanzialmente ancorato, nell'adesione come nel rifiuto, ai termini dell'impostazione teorica del Croce, così limpida e rigorosa nella formulazione teoretica quanto insoddisfacente alla prova del testo e della lettura, come non è difficile notare scorrendo le pagine della Poesia di Dante (uno dei libri crociani più infelici sul terreno concreto dell'interpretazione della poesia, del quale solo il ricorso costante, esplicito o implicito, all'impianto teorico, così persuasivamente semplificatorio e pacificamente risolutore dei massimi nodi di un dibattito secolare, poteva far passare sotto silenzio la genericità estrema e talora la compiaciuta banalità di non pochi passi impegnati nell'interpretazione e valutazione critica effettuali).
Proprio l'estraneità degli scritti dell'Auerbach al clima dominato dall'impostazione crociana doveva tenerli ai margini del dibattito teorico e degli interessi critici, così come fu la ragione della loro fortuna, quasi come d'una rivelazione liberatoria, quando apparve chiaro che l'impasse della critica dantesca italiana crociana e immediatamente postcrociana (solo un capitolo, ma il più perplesso per la resistenza strenua dell'oggetto, delle inquietudini e incertezze metodologiche della critica letteraria del tempo) non poteva essere risolto semplicisticamente con un sempre più generoso allargarsi dei recinti della «poesia» a scapito della «struttura», né con un affaccendarsi sempre più strenuo e quasi ossessivo intorno al problema dell'« unità» del poema, ma con un superamento in sede teoretica dei termini stessi di quella impostazione, o con un rifiuto almeno sperimentale e operativo che s'affidasse a diversi criteri ermeneutici e ad un'esplorazione del testo almeno preventivamente sgombra da ogni preoccupazione di giudizi di valore e di definizione categorica. Le pagine dantesche dell'Auerbach, e molte delle acquisizioni metodologiche ed esegetiche della sua stilistica storica, offrivano appunto una possibilità di ricerca e di verifica nella quale il dibattito teorico di stampo idealistico crociano e l'impostazione estetica del metodo venivano sommersi e cancellati da un intento ermeneutico volto a individuare le esatte coordinate ideologiche e letterarie per le quali fosse possibile ricuperare una lettura e interpretazione della Commedia congeniale non sul piano della partecipazione lirica o della fruizione estetica, ma su quello dell'aderenza storica e linguistica all'oggetto. La centralità della prospettiva figurale proposta dall'Auerbach veniva così a collocare il poema sull'asse della tradizione biblico-patristica e riportava all'attualità il problema di un'esatta definizione della sua struttura allegorica, già dibattuto dall’allegorismo del primo Novecento del Pascoli, del Valli, del Pietrobono, per fermarsi ai nomi più indicativi, proprio nel giro d'anni in cui le pagine dantesche di Eliot riproponevano una decisa rivalutazione del metodo allegorico dal punto di vista strettamente poetico, come un modo di rappresentazione proprio di un'età cui era familiare il clima delle visioni, e come costitutivo di una poesia alla quale esso conferiva evidenza d'immagini e ricchezza di significati. Il lavoro della critica dantesca era dunque ricondotto, con rinnovati intenti, su quel solco dell'allegorismo dal quale il libro del Croce l'aveva autoritariamente distolto in nome di un'esegesi che navigasse «in altre e più dolci acque»;1 ma mentre l'allegorismo d'ispirazione pascoliana appariva caratterizzato prevalentemente da un gusto e un interesse ermetico-decadenti, la ricerca veniva ora stabilita sul solido terreno della visione biblico-cristiana della storia e delle forme di rappresentazione e trasmissione linguistica in cui quella visione si era tramandata dalla prima età patristica sino agli anni di Dante. La sostituzione del termine «figura» a quello di allegoria operata dall'Auerbach, al di là della sua legittimità terminologica di cui diremo più avanti, non comportava solo una serie di correzioni marginali e una maggiore precisione concettuale, ma significava un mutamento radicale di prospettiva, una nuova possibilità generale di lettura.
Uno sguardo complessivo agli studi danteschi dell'ultimo ventennio ci conferma che proprio in questa prospettiva, nello sfruttamento di questa rinnovata possibilità di lettura che essa offriva, e comunque intorno alla tematica ad essa più strettamente connessa, si sono condotte le ricerche più frequenti e feconde, accanto alla mai interrotta e anzi splendidamente rinvigorita indagine testuale e stilistica. Uno sguardo ad alcuni fra i risultati generali più cospicui di queste ricerche si muove necessariamente su due fronti, quello specifico del testo dantesco e quello più ampio e generico della cultura e della spiritualità cristiana medievale che ne costituisce l'orizzonte comprensivo, con una netta prevalenza, anticipiamo subito, della definizione e dell'approfondimento di questo orizzonte sulle acquisizioni più propriamente letterarie; se ne ricava l'impressione dominante di un lavoro propedeutico, spesso anche quando esso s'applica alla illustrazione delle singole parti del poema, che stringe da tutti i lati l'edificio dantesco a determinare le coordinate entro le quali sia possibile un ulteriore, ma non arbitrario e dilettantesco, tentativo di definizione dell'operazione letteraria in cui consiste l'efficacia esemplare della Commedia. Il primo nome che s'impone alla nostra rassegna è quello del maggior dantista americano d'oggi, Charles S. Singleton, la cui opera è da tempo entrata in diffusa circolazione nell'ambito della critica dantesca italiana, e ormai quasi tutta tradotta e a disposizione di un più largo pubblico di lettori: Dante Studies I: Commedia, Elements of Structure, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1957 (tr. it., Studi su Dante I, Introduzione alla Divina Commedia, Napoli, Scalabrini, 1961); An Essay on tbe Vita Nuova, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1949 1 (tr. it., Saggio sulla Vita Nuova, Bologna, Il Mulino, 1968); Dante Studies II Journey to Beatrice, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1958 (tr. it., Viaggio a Beatrice, Bologna, Il Mulino, 1968)2.
La posizione di rilievo del Singleton appare tanto più significativa in quanto emerge da una ricca e solida tradizione americana di studi storici e filologici di italianistica in genere e in particolare di critica dantesca, nell'ambito della quale essa si segnala anzitutto per una decisa accentuazione antipositivistica alla quale non è estranea l'influenza dello Spitzer a lui vicino particolarmente al tempo del suo primo insegnamento alla Johns Hopkins University (attualmente il Singleton è docente nella stessa Università di Humanistic Studies dopo aver tenuta dal 1948 al 1957 la cattedra di Letteratura italiana all'Università di Harvard) e per aver condotto innanzi con strenua puntigliosità e con criterio sistematico una linea di ricerca volta non tanto all'accertamento filologico o alla valutazione estetica del testo ma alla ricostruzione di una matrice di civiltà e di pensiero entro la quale si condizionano la struttura e il linguaggio del testo stesso3. Tra i saggi danteschi del Singleton quello in cui i fondamenti sistematici appaiono con maggiore chiarezza è Studi su Dante I Introduzione alla Divina Commedia: in esso si indica nella categoria di analogia a il principio comprensivo per il quale il poema rivela la propria struttura e «mostra la propria veridicità»:
(...) l'allegoria e il simbolismo rientrano evidentemente nella categoria dell'analogia; dato che l'allegoria è costruita in modo da risultare ad immagine dell'allegoria di Dio, così come è nel Suo libro delle Scritture, dove si vede che gli avvenimenti additano· al di là di se stessi, verso altri avvenimenti; ed il suo simbolismo è così inteso, da esser fatto ad immagine del mondo creato da Dio, dell'altro libro di Dio, in cui le cose sono anche dei segni. Poi, al suo centro, il poema rivela la propria analogia con la struttura della storia; e la storia, anch'essa, è opera di Dio. Così, in un generale principio di analogia, il poema è in stretto rapporto con un'esistenza che non potrebbe essere più fondamentalmente cristiana (...) (p. 105-106).
La struttura della Commedia si sviluppa, dunque, secondo il Singleton, nelle tre dimensioni del simbolo, o analogia col libro della natura, dell'allegoria o analogia col libro della Scrittura, e dell'analogia con la storia che ha la sua manifestazione culminante e la cifra rivelativa in quello che egli definisce «lo schema al centro» e che coincide con la processione mistico-allegorica degli ultimi canti del Purgatorio. In essa l'apparizione di Beatrice sul carro della Chiesa è vista come figura del Cristo e della sua Rivelazione al centro del tempo e della storia. La storia, appunto, nella sua dimensione di successione cronologica il Singleton vede espressa dal poeta nella rappresentazione che egli fa della processione come un lento e progressivo emergere che simboleggia nella «sacra longitudo» della allegorica teoria dei libri sacri, dal Genesi all'Apocalisse, la descrizione biblica «tam temporum quam aetatum, a principio silicet mundi usque ad diem iudicii» secondo la formula che viene desunta dal Breviloquium di s. Bonaventura. Già il Contini4 ebbe a osservare come la distinzione tra simbolismo (o mimesi della natura, del duplice libro in cui gli oggetti si sdoppiano in loro stessi e nel loro significato simbolico) e allegorismo (o mimesi della Scrittura, del duplice libro in cui gli avvenimenti non subiscono questo sdoppiamento, ma annunziano insieme se stessi e altro, la propria realtà storica e un'altra realtà alla quale sono ordinati), se può apparire acuta nell'ordine teoretico, non arreca per altro un sussidio apprezzabile all'esegesi, non autorizzando «l'abito così rapinosamente interpretativo» dell'uomo del medio evo una distinzione, soprattutto al livello dei testi letterari (sia pure di estrema sapienza e consapevolezza come nel caso della Commedia), tra ermeneutica simbolica ed ermeneutica allegorica, che non sia, al più, quella tra sovrasenso statico e sovrasenso dinamico. Si potrebbe ancora aggiungere che l'interpretazione allegorico-figurale che con tanta entusiastica proliferazione di schemi e significati l'età medievale ha applicato ai libri divini implica un'adesione a una generale strutturazione simbolica del reale che sta a quella scritturale come il generico e il derivato sta allo specifico e divinamente autorizzato, e che un libro come il dantesco «poema sacro» si colloca appunto nell'ambiguità tra i due piani, deducendo dalla certezza del modello scritturale le forme della propria ricostruzione allegorica della natura e della storia;5 si che il sovrasenso statico del simbolismo naturale appare sempre teso e disponibile ad essere assunto nella prospettiva figurale dinamica. Il discorso si riconduce dunque sempre a una retta definizione e a un approfondimento del significato del valore e dell'uso dell'allegoria nell'ambito della Commedia, e alla decisione preliminare se essa sia da assimilare all'«allegoria dei teologi» o all'«allegoria dei poeti», secondo la distinzione che Dante stesso fa nel secondo trattato del Convivio.6 Su questo punto il Singleton, sempre nel primo degli Studi su Dante, prende posizione con estrema chiarezza, lungo tutto l'arco del libro e particolarmente nel cap. I («Allegoria») e nell'Appendice (« Le due specie di allegoria»): l'allegoria della Commedia è quella biblica e dei teologi, per la quale un evento reale designato nel racconto (in verbis) riflette (in facto) un altro evento; non quella dei poeti, che stabilisce un rapporto convenzionale, senza il certo della mediazione storica, tra eventi· fittizi e significazione allegorica. Si viene così ad affermare un'intima analogia fra il metodo d'interpretazione dei testi sacri e la ricostruzione degli avvenimenti qual è da Dante attuata nella Commedia e autorizzata nell'Epistola a Cangrande, si impone una rivalutazione energica del senso letterale non più abbandonato a un'esegesi liricizzante ma colto nel valore istoriale e aperto come tale al significato ulteriore, come «umbra futurorum», e si entra anche nell'ambito metodologico e nella prospettiva ermeneutica dell'Auerbach.
Un confronto, su questo punto di decisiva importanza, tra la posizione del Singleton e quella dell'Auerbach può riuscire di qualche utilità, e non solo ai fini di una definizione della diversa fisionomia del metodo dei due studiosi. L'allegoria dei teologi di cui parla il Singleton è infatti un analogo del concetto auerbachiano di figura, ma la differenza di terminologia non si riduce naturalmente solo a un fatto di scelta e preferenza lessicale. L'Auerbach sostituisce sistematicamente il termine «figura», attenendosi alla terminologia «creata e preferita dai Padri della Chiesa», a quello di allegoria identificando senza residui quest'ultima con l'allegoria fittizia o pagana o letteraria:
Gli studiosi moderni per i quali la concezione medievale della realtà è una cosa estranea, sono stati indotti a non tenere distinte la figurazione e l'allegoria e per lo più hanno capito soltanto la seconda (...). Per evitate equivoci ricorderò che Dante e i suoi contemporanei definivano allegoria il senso figurale, senso morale o tropologico quello che qui chiamiamo allegoria. Certamente il lettore capirà e consentirà che in questo studio storico noi restiamo alla terminologia creata e preferita dai Padri della Chiesa.
Ma la correzione, prescindendo dai fini esplicativi e di aderenza storica generale a cui l'Auerbach fa riferimento, non appare veramente giustificata in quanto si riferisca alla terminologia dantesca, quando si pervenga a una netta differenziazione, nel genere e non solo nella specie, tra le due forme di allegoria, la letteraria e la biblico-cristiana, in armonia con tutta una ricchissima e mai interrotta tradizione di esegesi biblica di cui Dante rivela chiara consapevolezza sia nel passo del Convivio sia in quello dell'Epistola a Cangrande dedicati appunto a tale questione e precisazione terminologica e concettuale. Tale differenziazione, che in effetti non appare nelle pagine dell’Auerbach, consente di ricuperare tutta la validità della proposta figurale senza dover pervenire a uno spostamento della classificazione dantesca dei sensi delle scritture e del suo poema, che viene condotta secondo la più rigorosa aderenza, nei termini e nella loro significazione, a un processo secolare di definizione colto al suo livello più alto e nel punto estremo di maturazione. In realtà non è possibile tenere distinte figurazione e allegoria nel significato che questa assume nell'indagine sui sensi della Scrittura, il secondo termine essendo costantemente inclusivo del primo. Questo intendono tutti gli esegeti medievali, questo vogliono dire, per valerci di qualche citazione esemplare, Cassiano, quando nell'esplicazione del significato dell'allegoria, così scrive: «ea quae in veritate gesta sunt, alterius sacramenti formam prefigurasse dicuntur», o Agostino quando riferendosi all'allegoria in s. Paolo scrive: «Ubi allegoriam nominavit, non in verbis eam reperit, sed in factis». Dante è nella linea di questa tradizione quando chiama allegoria il senso figurale che per lui veniva immediatamente a mutare, riempire e trasferire in un contesto radicalmente diverso, stoirco-profetico, il termine ereditato dall'esegesi letteraria dell'antichità. È vero che l'influsso del platonismo e la scolastica minacciavano ormai sensibilmente, nel tempo cli Dante, il significato figurale, messo in ombra da un'interpretazione intellettualistica dell'allegoria. La scelta e l'accentuazione del termine «figura» operata dall'Auerbach hanno quindi l'efficacia cli ricuperare il senso autentico che l'allegoria cristiana assume nella mente cli Dante, ma autorizzando una intima assimilazione dei due termini piuttosto che una loro dissociazione. Bisognerà quindi dire che gli «studiosi moderni» proprio perché non hanno capito l'allegoria biblico-medievale non hanno potuto capire il senso della figura che a quello è inscindibilmente connesso. La terminologia adottata dal Singleton, fondata su un'esplicita distinzione fra «due specie di allegoria», appare quindi non solo materialmente più aderente alla lettera dantesca, ma storicamente più propria e motivata anche se bisogna subito aggiungere che essa viene adoperata nelle sue pagine con un tecnicismo e un gusto della accumulazione delle citazioni di assai meno ampio respiro e in una prospettiva meno ricca e organica che non avvenga nelle pagine mirabili dell'Auerbach alle quali si ritorna sempre con frutto per la capacità che esse possiedono di collocare il testo dantesco nel cuore stesso della visione cristiana della storia e nelle forme della sua trasmissione, senza compiacimenti estetizzanti e col soccorso continuo della citazione appropriata e calzante, pervenendo a risultati di effettiva illuminazione e penetrazione storica e non solo, come talora avviene nello studio del Singleton, di testimonianza estrinsecamente solidale. Malgrado infatti il sontuoso apparato delle fonti dirette e indirette esplorato soprattutto nelle regioni della mistica bernardina e bonaventuriana e della filosofia tomistica, l'ingegno critico del Singleton fa le sue prove più acute e persuasive non tanto nella ricostruzione organica delle fonti e delle prospettive storiche definite quanto nello sfruttamento puntuale delle notizie desunte da un comune pattern of thought medievale ai fini di una interpretazione globale della struttura del poema dantesco. La corretta definizione dell'allegoria dei teologi gli consente così di descrivere l'allegoria fondamentale della Commedia come un viaggio reale compiuto dal pellegrino Dante nella sua irrepetibile singolarità e insieme come lo schema sempre ripetibile di un itinerarium ad Deum di ogni anima cristiana, hic et nunc, nello stato presente di creatura in cammino verso la perfezione; in una forma che esclude ogni estrinseca sovrapposizione fra i due piani del significato ed ogni attenuazione della consistenza reale dell'evento designato dalla lettera, che, sul modello dell'Esodo biblico, viene presentato come avvenimento assolutamente storico portatore in se stesso cli un significato universale cli conversione e liberazione morale. Questa è, secondo il Singleton, l'allegoria generale del poema che, in armonia ancora con la posizione dell'Epistola a Cangrande, viene presentata come allegoria essenzialmente morale, con una decisa accentuazione del senso tropologico (quid agas) su quello allegorico in senso stretto (quid credas) e analogico (quo tendas). A meglio determinare la concretezza figuralmente aperta del viaggio dantesco, lo studioso americano confronta il poema da un lato con le formulazioni centrali della fede cristiana, dall'altro con la dottrina platonica del mito. Il «realismo» della Commedia, sia nel senso dell'evidenza persuasiva della visione sia in quello della fisica consistenza dei suoi oggetti, si può solo motivare, secondo il Singleton, col ricorso al dogma dell'Incarnazione (e ritorna qui un motivo principe degli studi dell'Auerbach) e a quello della resurrezione cli Cristo e, per essa, della carne cli ogni uomo: «Verbum caro factum est può sorreggere molto. Un giorno secondo la fede tutto l'uomo, corpo e anima, parteciperà alla beatitudine e alla dannazione. E qui allora abbiamo una misura del limite che è tra la fede e il mito. Il mito dice soltanto: se avverrà un giorno, perché non ora?» (p. 126): l'invenzione mitopoietica della Commedia è dunque una forma autorizzata e sorretta dalla certezza realissima della verità della fede. A questo punto cade il confronto col mito platonico che lo studioso traccia con ampiezza dalla Vita nuova al poema con l'intento di mostrare come l'invenzione mitica di Dante che traduce le realtà della fede nulla ha in comune con la mitologia classica, con il pur ammiratissimo modello ovidiano, ma, tutta modellata sull'esempio biblico, realizza pienamente, potenziandoli, i caratteri platonici del mito come «menzogna verace», come forma di comunicazione metaforica da parte di un poeta che sa la verità; ma tale realizzazione registra anche un salto qualitativo in cui consiste la sua novità cristiana e in cui si ravvisa il fondamento della veridicità sostanziale dell'invenzione dantesca: mentre il mito platonico si presenta come un complemento al livello inferiore del superiore discorso razionale, «necessario solo perché c'era una parte dell'uomo che lo richiedeva» (p. 113 ), la visione dantesca si colloca al di sopra del discorso razionale, come proiezione metaforica fondata sulla Rivelazione, da essa autorizzata e continuamente reintegrata, mediante il rinvio allegorico, nella sua significazione autentica. È essenziale alla strutturazione del poema e alla sua lettura «la ferma convinzione che in qualche modo al di là delle sue parole esiste una realtà che rimarrebbe anche se le sue parole venissero tolte» (p. 135); si tratta in ultima analisi di un analogo sul piano della visione poetica della formulazione scolastica fides quaerens intellectum; praecedit fides, sequitur intellectus che il Singleton ripropone in una variante, fides quaerens visionem; praecedit fides, sequitur visio, che vuol essere in qualche modo la definizione della qualità ultima del mondo poetico dantesco, la qualità di una narrazione di eventi che si svolge in uno spazio dove non c'è posto per la finzione illusoria e di fronte alla quale ogni estetica come scienza del bello trova «suo cammin riciso», una qualità propria del Genesi e del mito di Platone. Questa visione di un ordine obiettivo di cose secondo la sua bontà e la sua giustizia viene giudicata dal Singleton come un evento eccezionale, e comunque unico nella letteratura italiana, come un termine di paragone costante al di qua di una svolta dopo la quale nulla di simile avverrà più nel corso della storia poetica italiana: «Lo spazio della fantasia del Petrarca è già uno spazio d'illusione» (p. 136).
Ci siamo diffusi sulla concezione dell'allegoria dantesca quale emerge dalle pagine del Singleton e sulle conseguenze che ne derivano nella valutazione complessiva della struttura della Commedia e nei modi della sua visione, perché essa costituisce il principio animatore e il quadro fuori dei quali non è possibile valutare il senso e il rilievo dell'esegesi particolare che lo studioso esercita sulle singole parti del poema, con una minuzia d'argomentazione e insieme con una sorta di teleologismo critico che in quel quadro e secondo quel principio s'illumina nelle linee fondamentali, mentre lascia talora perplessi sul valore probante delle prove locali e sul grado di specificità con cui è adoperato a sciogliere i nodi più ardui del poema.
Il libro in cui meglio si manifestano le due componenti fondamentali della critica del Singleton, l'indagine estremamente acuta e minuziosa e la subordinazione dei risultati particolari ad alcuni principi generali ai quali si ordinano in un organismo di estrema consapevolezza e perfezione strutturale, è quello dedicato agli ultimi canti del Purgatorio, il Viaggio a Beatrice, che costituisce il secondo volume degli Studi su Dante e nel quale trovano più ampio sviluppo gli spunti già accennati nel cap. «Lo schema al centro» del primo volume. L'opera si presenta divisa in due parti: la prima, che dà titolo al volume, «Viaggio a Beatrice», imposta nuovamente il discorso generale intorno all'allegoria fondamentale che sta alla base della Commedia e si sofferma quindi diffusamente sul significato dell'apparizione, «avvento», di Beatrice sulla vetta del Purgatorio; la seconda, «Il ritorno all'Eden», è un tentativo d'interpretazione organica del significato teologico-morale che assumono in Dante il concetto di giustizia originale e la sua proiezione figurativa nell'ambito del Paradiso terrestre e nella figura centrale ed enigmatica di Matelda.
L'allegoria fondamentale del poema è confermata come rispecchiamento figurale dell'itinerarium mentis in Deum di ogni cristiano nella cui coscienza ed esperienza di pellegrino il viaggio di Dante si ripete e sviluppa tutte le sue implicite significazioni. Nei confronti del libro precedente tale itinerarium viene però qui ulteriormente precisato come momento della mente e del cuore, con un diffuso richiamo alla dottrina tomistica dell'intelletto e della volontà e dei loro rapporti. Due schemi o paradigmi fondamentali presiedono dunque alla strutturazione dell'allegorico viaggio, quello della volontà e quello dell'intelletto, che s'intrecciano costantemente e si dispongono secondo la linea ascendentale delle tre guide: Virgilio, Beatrice e san Bernardo. Tutta la Commedia è vista dal Singleton dispiegarsi, quanto alla concezione di fondo, dallo schema binario dell'intelletto e dell'agostiniano « cuore inquieto», e quanto alla realizzazione figurale nell'essenziale schema ternario delle guide che a sua volta si definisce in rapporto all'intelletto secondo la triplice classificazione delle tre «luci», e in rapporto alla volontà secondo l'altra classificazione delle tre «conversioni» che lo studioso desume esplicitamente dai testi dell'Aquinate: Virgilio o il «lumen naturale» e la «conversio… per quam aliquis praeparat se ad gratiam habendam», Beatrice o il «lumen gratiae» e la «conversio... quae est meritum beatitudinis» e per la quale «requiritur habitualis gratia, quae est merendi principium», Bernardo o il «lumen gloriae» e la conversione suprema in Dio che si realizza per «dilectionem perfectam». In questa proposta generale di organici schemi ordinatori e insieme esplicativi, sontuosamente arricchiti col ricorso frequente alle citazioni e alle fonti dottrinali, e nei modi della loro concreta applicazione ai testi, è già possibile cogliere il rilievo e l'utilità fondamentale delle ricerche del Singleton e anche i limiti che vi sono connessi, le integrazioni o gli spostamenti di prospettiva che richiedono per essere utilizzate ai fini di una esegesi volta direttamente a esplorare il poema nella sua specificità di rappresentazione simbolica e realizzazione linguistica di un mondo e di una cultura. Una serie imponente di auctoritates è infatti raccolta dallo studioso a testimoniare i dati fondamentali della teologia e dell'ascetica medievali che non potevano non essere lo sfondo di fede e di pensiero operante nell'organizzazione del mondo dantesco, secondo un progetto d'indagine volto a riaccostare il lettore, pur nella lucida consapevolezza d'una distanza e d'uno iato insormontabile (che per il Singleton è essenzialmente determinato dall'intervento della cultura rinascimentale), al milieu in cui s'è prodotto l'evento della Commedia, volto a sanare quella che al critico sembra la lacuna più vistosa della moderna lettura del poema sacro: «la conoscenza che ci fa difetto non è erudizione ma consapevolezza; non di fatti sparsi, ma di schemi concettuali» (p. 86). In questa ricostruzione delle coordinate mistiche, ascetiche e concettuali gli studiosi di Dante possono trovare nelle pagine del Singleton non solo alcune acquisizioni utili e talora necessitanti, ma anche la possibilità di intrattenersi, per quelle pagine, in un clima ideologico congeniale alla mente del poeta, fecondo di eventuali spunti e proposte e animato da un fervore mantenuto sempre desto dalla tecnica peculiare allo scrittore che procede non tanto per approfondimenti storici e ideologici quanto per ripetizione e accumulazione didascalicamente efficaci. Dove il limite si fa sensibile e si fanno necessarie le integrazioni e le verifiche supplementari è nel passaggio da questo clima ideologico alla concretezza e individualità del testo, dal generico allo specifico, dagli ineliminabili e illuminanti condizionamenti culturali dell'esegesi all'esegesi in atto. Qui si ha talora l'impressione che le strutture dell'invenzione e i luoghi particolari siano troppo immediatamente subordinati agli schemi generali, per una sorta d'immanente e rigida teleologia, quasi che l'interpretazione sia deducibile da quegli schemi per un privilegio e una prevaricazione della storia delle idee sul certo della filologia. Queste costatazioni e queste riserve ricevono anche conferma da un facile rilievo statistico delle citazioni, che sono tratte prevalentemente dalla letteratura scolastica, con una netta preminenza dei testi di s. Tommaso, poi dalle opere di Agostino, dalla mistica vittorina e di s. Bernardo, per indicare gli elementi caratterizzanti, molto più saltuariamente e raramente da passi biblici, mentre appare assente ogni riferimento consistente alle retoriche e poetiche medievali e agli esemplari della tradizione romanza. I problemi posti dalla specificità letteraria del testo sono sostanzialmente ignorati dal Singleton: il che, se conferisce alla compattezza e al rigore della sua linea di ricerca, ne costituisce anche un limite intrinseco, poiché tale specificità, proprio perché non è vista dal Singleton appoggiarsi estrinsecamente, come la crociana «poesia», sulla «struttura» dottrinale, s'impone come il registro autentico sul quale ogni chiarificazione teologica può trovare la propria definizione utilizzabile e provare la propria efficacia normativa e orientativa dell'opera che si viene costruendo. Vogliamo dire, insomma, che la Commedia è sempre presente nelle pagine del Singleton come testo capitale della spiritualità e della cultura medievale, con ricchezza di approssimazioni e novità di accostamenti, ma solo per eccezione è presente come capitale ed esemplare esito letterario di quella spiritualità e di quella cultura e di una concezione della funzione poetica. La questione squisitamente letteraria affiora nel Viaggio a Beatrice, quando a proposito del passaggio da Virgilio a Beatrice, dal lumen naturale al lumen gratiae e alla Rivelazione si osserva felicemente come la formula tomistica relativa alla «divina veritas» la quale «per modum revelationis ad nos descendit» abbia la sua corrispondenza figurativa nel discendere delle anime dall'Empireo nei singoli cieli per rendersi a Dante distintamente visibili, secondo la nota motivazione che ha il suo fulcro nella terzina: «Così parlar conviensi al vostro ingegno / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poi d'intelletto degno», e si aggiunge:
Tali versi ci inducono a riflettere su almeno una differenza notevole esistente a questo proposito tra l'opinione del poeta Dante e quella del teologo s. Tommaso. Abbiamo visto quest'ultimo osservare esplicitamente che la verità della rivelazione si manifesta all'uomo «non quasi demonstrata ad videndum, sed quasi sermone prolata ad credendum». Nessun poeta potrebbe mai accettare una posizione del genere, ed è interessante notare quanto Dante afferma nei versi succitati. Il poeta deve vedere (perché a nostra volta anche noi possiamo vedere): deve quindi insistere che l'uomo apprende solo dalla esperienza sensoriale, anche a queste altezze trascendentali. Ecco allora che tutto il regno del Paradiso, attraverso cui guida Beatrice, deve discendere (condiscendere!) per parlare a lui (e a noi) sensibilmente. Tale è il «modus operandi» della poesia, ma s. Tommaso non lo teneva in gran pregio. Eppure, questa radicale differenza tra i due punti di vista, del poeta e del teologo, non può indurci a negare a Beatrice l'appellativo di «Rivelazione» quando ella guida per l'alto regno delle sfere celesti. Questo è il dominio della verità rivelata, e si comprende perché un poeta voglia lasciare senza risposta la domanda se egli sia stato lassù «sive in corpore... sive extra corpus»; infatti, quale che possa essere la risposta, Dante vuole contemplare questo regno da poeta, nel modo in cui nessun teologo tenterebbe mai di vederlo: eroe sensibilmente… Comunque, nonostante tutta la ricca esperienza «sensoriale» fatta in questa alta sfera in cui guida Beatrice, il poeta ha messo inequivocabilmente in chiaro che il viaggio con lei «oltrepassa l'umano intelletto» (p. 35).
È facile scorgere subito come la questione qui prospettata non tocchi solo qualche aspetto della Commedia, ma investa invece frontalmente il problema del poema costruito secondo allegoria e in linguaggio metaforico, come il Singleton bene avverte quando riconosce che qui è la «radicale differenza fra i due punti di vista, del poeta e del teologo» per poi ritornare immediatamente a ribadire la effettiva funzione rivelatrice della guida di Beatrice, «nonostante la ricca esperienza sensoriale». Affrontare tale problema mi pare pregiudiziale per dare un senso preciso e una prospettiva aderente all'oggetto a ogni organica ricerca sia che questa si collochi sul versante degli elementi della lingua e dello stile che su quello dei dati ideologici e dottrinali. Né con questo ci si condiziona necessariamente a un'«autonomia» dell'estetico e a un rapporto di distinzione dialettica tra struttura e poesia, se quella «radicale differenza» del teologo e del poeta si trasformi da principio estrinseco di distinzione e di valutazione in consapevolezza e criterio operativi all'interno del poema, tali da condizionare e costituirne tutta la strutturazione. Il problema di fondo di ogni letteratura religiosa, quando il sostantivo sia preso in tutta la sua specificità, si ripropone, insomma, nell'unica forma che appare utile e appropriata, in maniera cogente per la Commedia, che offre a tale problema un testo di assoluta resistenza a ogni soluzione unilaterale e pacificatoria e un campo di sperimentazione incomparabilmente ricco.
Quanto s'è detto fin qui può forse giovare a definire sia pure sommariamente il punto di vista dominante dello studioso americano e anche a indicare la direzione nella quale le sue ricerche possono offrire i contributi più validi a chi voglia accostarsi alla lettura del poema con una informazione non inadeguata, almeno su quelle che sono le premesse fondamentali sulle quali l'invenzione dantesca ha operato e che il Singleton addita con felice insistenza e con l'accostamento delle voci e delle fonti più diverse chiamate a trasmettere al lettore un modo di vedere, di pensare e di comunicare la realtà nella luce della rivelazione, fuori del quale il mondo della Commedia resterebbe comunque impenetrabile; ed è forse un'utile premessa a valutare nel loro giusto rilievo le parti del volume nelle quali l'indagine si fa più fitta e più strettamente condizionata ai testi: il capitolo quinto dedicato all'avvento di Beatrice sulla vetta del Purgatorio nella prima parte, e tutta la seconda parte dedicata al «Ritorno all'Eden». Non è qui possibile tentare anche solo un elenco di tutte le questioni che vengono trattate nella seconda parte; diremo soltanto che essa ha il suo centro d'interesse e i suoi punti di convergenza nel tema delle «quattro stelle / non viste mai fuor ch'alla prima gente» del primo canto del Purgatorio, riaccostato con sottili, elaborate ma suggestive ipotesi a quello dei fiumi paradisiaci, nel tema cioè della giustizia originale, sul quale lo studioso propone soluzioni nuove e convincenti, come la distinzione tra virtù cardinali infuse dei progenitori e acquisite dei giusti pagani, per risolvere alcune ardue questioni testuali, con una varietà di illustrazioni e di documentazioni che rende necessario il rinvio alla lettura diretta; e nel tema di Matelda, che è immagine, secondo il Singleton, della giustizia originale, a proposito del quale si avanza una precisa ipotesi di tecnica letteraria che fa eccezione nel tessuto teologico-dottrinale del libro: l'episodio della «bella donna» viene ricondotto non all'atmosfera tradizionale dello stilnovismo ma al genere romanzo della «pastorella». La significazione allegorica di Matelda fa dell'incontro di Dante con lei una «pastorella» senza lieto fine: il poeta non perviene a possedere la donna, contrariamente alla situazione topica del genere, come il pellegrino (e con lui ogni uomo) non può attingere la giustizia infusa originaria che nel suo lieto splendore la «soletta» irradia e rappresenta. Ma i risultati più interessanti il Singleton raggiunge nel cap. V dedicato all'avvento di Beatrice che viene descritto sulla trama del triplicem adventum Christi esemplato soprattutto sulle pagine dei Sermones de tempere di s. Bernardo di Chiaravalle. Dei tre avventi di Cristo che la mistica bernardina addita al cristiano (in carnem, in mentem, ad iudicium), la Beatrice dantesca rappresenta l'analogo, quanto all'avvento in carnem, nella giovinezza del poeta e nella Vita nuova, sulla vetta del Purgatorio quanto al secondo e al terzo. Anche qui solo il ricorso diretto alle pagine può evitare il rischio di un arido schematismo riassuntivo, tanto ricca di digressioni, animata e fitta di notizie particolari è la strategia dimostrativa del Singleton. Basti qui sottolineare la tesi centrale del capitolo, il rapporto analogico Beatrice-Cristo, che tocca una questione fondamentale per l'esegesi della Commedia e di tutta la biografia poetica di Dante. A conforto di tale tesi il Viaggio a Beatrice richiama esplicitamente le analisi e le prove che già erano state oggetto di studio nel primo volume degli Studi su Dante, l'Introduzione alla Divina Commedia, e si avvale soprattutto della ricerca condotta nell'altro libro, il Saggio sulla Vita nuova, sviluppandone le implicite conseguenze e additandone la fecondità esegetica e la convenienza strutturale. Benché il Saggio rimanga rigorosamente entro i limiti del libello giovanile e non tocchi quindi direttamente l'oggetto di queste note, è necessario tuttavia rilevare alcuni fra i suoi risultati maggiori, soprattutto per quanto attiene all'interpretazione della figura di Beatrice, poiché tale questione appare centrale in tutto l'arco delle ricerche del Singleton e perché il «mito» dantesco di Beatrice richiama sempre in causa a tutti i livelli l'intero itinerario poetico di Dante, dalla Vita nuova alla Commedia. L'analisi della figura di Beatrice è compiuta dallo studioso americano nel Saggio sulla Vita nuova all'interno di una descrizione e ricostruzione critica della struttura del libello condotta con un'eleganza e una coerenza che ne fanno il più armonico e il più felice, a nostro avviso, dei suoi studi danteschi. La Vita nuova è vista essenzialmente e totalmente come una realizzazione esemplare della metafora del «libro della memoria» secondo l'incipit stesso del libello («In quella parte del libro della mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendìmento d'assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia») nell'ambito di una simbologia tipica della letteratura medievale, già illustrata dal Curtius e dal Singleton esplicata e ripercorsa attraverso alcune fra le sue manifestazioni più significative. A una prima osservazione tale «libro» presenta subito una caratteristica strutturale assai significativa: in esso Dante si sdoppia sistematicamente nel protagonista che attraversa la vicenda secondo l'ordine degli avvenimenti e nell'autore che è il lettore e il trascrittore delle parole scritte nel libro della Memoria (è la funzione fissata nelle immagini del testo originario come essemplo memoriale e dello scrivere come assemplare) e che come tale conosce già la fine, la metà e il principio di ciò che è accaduto. Secondo il primo piano il libro appare come biografia e si svolge nella dimensione della successione temporale, per accumulazione progressiva di avvenimenti; secondo l'altro piano la biografia viene ribaltata nella consapevolezza anticipata del significato spirituale degli avvenimenti, in una successione d'interpretazioni simboliche che Dante traccia dopo la morte cli Beatrice e dall'alto della vicenda già compiuta, sì che una serie di episodi diventa un organismo cli segni rivelativi. Spingendo lo sguardo alla Commedia si può già intravvedere in nuce in questo rilievo strutturale del Singleton la dialettica del personaggio e del poeta che è chiave indispensabile ed estremamente complessa per la lettura del poema, e che chiude tanto il poema stesso quanto la Vita nuova a ogni tentativo di decifrazione unilateralmente documentaria e biografica.
Guardando poi analiticamente al libro della Vita nuova nelle componenti della sua struttura, il Singleton lo vede definirsi per tutta la sua estensione secondo il modello del libro sacro, la Bibbia, come poteva apparire anche materialmente agli occhi d'un lettore del tempo di Dante. In esso vi è una parte, i testi poetici e le «ragioni» o chiose in prosa, che Dante si limita a trascrivere così come sono state scritte nel libro della Memoria, «e se non tutte, almeno la loro sentenzia», e una parte che è opera dello scrittore, le «divisioni» con le quali viene illustrata la partizione e condotta l'esegesi personale dei versi. La Vita nuova appare così nella ricostruzione del Singleton come un'invenzione letteraria che si presenta con i caratteri propri di un testo sacro corredato da una chiosa multipla, secondo una partizione ingegnosa che se può apparire artificiosa e complessa al lettore moderno doveva invece risultare familiare al lettore medievale. Non è qui il luogo di analizzare puntualmente i vari momenti di questa ricostruzione che lo studioso conduce con acutezza e con felici risultati esegetici; basti osservare come ancora in questo caso la Vita nuova, anche se non si accetti in tutto il suo rigore sistematico e nella estrema conseguenzialità lo schema proposto dal Singleton, adombri già un altro aspetto essenziale della scrittura della Commedia, il rapporto, cioè, che sottende la costruzione del poema, tra lo scriba che registra la visione ricevuta per divina autorizzazione e il poeta che limita e ribalta la sacralità della scrittura nella consapevolezza dichiarata della natura fittizia e metaforica del poema.
In questo «libro della Memoria», ombra e analogia del libro delle scritture divine e portatore di simboli e misteri, l'elemento sacrale si appunta sulla tematica dell'Amore e sulla figura di Beatrice. Il Singleton descrive il delinearsi di Beatrice attraverso le pagine della Vita nuova come una sperimentazione progressiva e un superamento delle posizioni tradizionali della lirica d'amore cortese. Le rime del libello e le ragioni e divisioni che le accompagnano si possono infatti persuasivamente raggruppare secondo tre temi che corrispondono allo sviluppo cronologico degli avvenimenti: quelle che dicono gli effetti dell'amore e del «saluto» della donna e quelle in lode di madonna, che riflettono due situazioni tipiche della lirica trobadorica e soprattutto stilnovistica; quelle, infine, composte dopo la morte di Beatrice, nelle quali i due temi precedenti sono fusi e trascesi in un approdo mistico e sacrale dell'amore del poeta, al di là della fenomenologia empirica delle apparizioni fisiche. Il passo fondamentale per cogliere le motivazioni e il senso di questo superamento è il cap. XXV nel quale viene definitivamente negata la concezione dell'Amore come sostanza e persona, tutta la mitologia, insomma, del dio d'Amore. Tale negazione è vista dal Singleton come la condizione fondamentale per la risoluzione dantesca del conflitto trobadorico tra amor sacro e amor profano e del compromesso guinizelliano e stilnovistico della donna-angelo: dopo la svolta del XXV capitolo l'Amore non è più divinità sia pure metaforica, ma s'identifica con Beatrice stessa, «charitas creata», presente insieme come creatura e segno delle cose celesti. Proprio attraverso questa riduzione creaturale dell'amore (e qui appena si sfiora il tema del realismo creaturale dantesco che è argomento ancora tutto aperto allo studio e all'approfondimento) il Singleton vede il risolversi del conflitto e il ristabilirsi di una linea che va da Beatrice, charitas creata e partecipata, a Dio stesso, charitas increata e sostanziale, in un'unica teoria d'amore che riconcilia il culto per la donna con quello di Dio. In questa definizione del costituirsi di Beatrice come creatura e «miracolo», inscindibilmente e senza alternative, messa a confronto con i dati della tradizione cortese, si leggono le pagine più specificamente attinenti alla storia letteraria di tutto il libro; ma l'intento del Singleton punta più in là che a una sistemazione di poetica e di ideologia. Il superamento dei provenzali e degli stilnovisti, la vanificazione dantesca dell'ambigua religiosità di quelle tradizioni di poesia, della «teologia adoperata come tropo», l'assimilazione di Beatrice con la nozione di Amore-charitas creaturale, trovano il loro compimento nella riaffermazione centrale che riallaccia l'intuizione della Vita nuova con l'allegoria compiuta e definitiva della Commedia: l'analogia Beatrice-Cristo. Tutta una ricca serie di riscontri scritturali vetero e neotestamentari, di convergenze di nomi e situazioni è presentata dal Singleton a confermare la sua ipotesi interpretativa, dal Saggio ai capitoli, di cui già s'è detto, «Lo schema al centro» e «L'avvento di Beatrice» rispettivamente nel primo e nel secondo dei Dante Studies. È ipotesi non solo suggestiva, ma ricca di possibilità esegetiche e persuasiva nella misura in cui non venga irrigidita in una statica convenzionalità allegorica, ma collocata nel dinamismo articolato della prospettiva figurale. Ne deriva anzitutto una conseguenza sul piano più strettamente letterario della definizione del genere cui appartiene il libello dantesco: non tanto «opera prima», documento di cultura e di stile tutto legato all'ambito stilnovistico, ma testo intimamente nutrito alle grandi tradizioni di letteratura sacrale, mistica e dottrinale, anticipatore sul piano ideologico e della tecnica figurativa di alcuni motivi profondi e diffusi della Commedia. Emerge qui una linea esegetica che s'appoggia sulla autorità dei nomi, per citare solo alcuni, del Curtius, dell'Auerbach, del Gilson e che nell'ambito della critica dantesca italiana è stata originalmente ripresa dal Branca che, in un notevolissimo saggio, sullo spunto cli alcune proposte linguistiche e stilistiche dello Schiaffini e dello Spitzer ha accostato il libello dantesco nei suoi elementi più tipici, nei modi linguistici e negli accorgimenti narrativi alla tradizione della «devotio» francescana e al genere delle agiografie ducentesche delle «reine di virtù», delle «legende» ascetiche e mistiche. Ma al di là del problema della Vita nuova, le argomentazioni e gli sviluppi che il Singleton deriva dall'analogia da lui proposta tra la figura e l'avvento di Beatrice con la figura e l'avvento di Cristo consentono allo studioso effettive acquisizioni esegetiche suscettibili di svolgimento e ci pare rappresentino, insieme con la descrizione dei caratteri e della natura dell'allegoria della Commedia, gli esiti più notevoli e fecondi di tutta la sua ricerca; nel cuore, dunque, dell'esegesi, se si pensi alla centralità che assume in tutta l'opera poetica di Dante il mito supremo di Beatrice, figura e chiave interpretativa, invenzione esemplare e insieme critica, che adombra e rivela nella sua vicenda tutte le fasi decisive dell'itinerario spirituale e dell'ideologia letteraria dell'autore della Commedia.
Con gli Studi su Dante di Romano Guardini (Brescia, Morcelliana, 1967), tradotti in lingua italiana per l' «Edizione delle Opere» curata dal Centro di studi filosofici di Gallarate, entriamo nell'area degli studi in lingua tedesca che dall'ultimo Ottocento a oggi, dagli anni delle grandi ricerche erudite e testuali alla sintesi tentata dal Vossler nel clima dell'estetica crociana, al Curtius, all'Auerbach, al Friedrich, allo Spoerri, per limitarci ai nomi più familiari alla critica dantesca italiana, rappresentano probabilmente il contributo più ricco e decisivo che le culture straniere hanno arrecato alla conoscenza e all'approfondimento del mondo e dell'opera di Dante. L'edizione italiana presenta in un unico volume una serie di saggi composti in tempi diversi e già raccolti dall'autore in edizione tedesca in due distinti volumi (Der Engel in Dantes gottlicher Komodie, Munchen, Im Kosel, 1951; Landschaft der Ewigkeit, ibid., 1958). Con questi Studi il Guardini, che già aveva condotto acute analisi di carattere teologico-esistenziale su autori particolarmente significativi sotto il profilo religioso quali Dostoevskj, Holderlin, Rilke, si accosta al massimo testo della poesia religiosa occidentale con piena e dichiarata consapevolezza della sua assoluta eccezionalità ed esemplarità come evento letterario e come documento filosofico-religioso. Il tipo di ricerca che caratterizza queste pagine non appartiene propriamente al dominio della filologia e della critica letteraria, né a quello del reperimento o dell'analisi specifica e diretta delle fonti dottrinali del poema; non mira a fornire puntuali proposte interpretative né a prendere posizione sulle questioni più dibattute della critica dantesca; non risponde, insomma, a intenti specialistici, come non «specialista» è l'autore, ma teologo e pensatore cristiano che si volge alla Commedia per cogliere in essa il risultato poetico di una visione del mondo e, più nel profondo, di una fede. Ricerche del genere corrono sempre il rischio, frequentissimo nell'ambito dantesco, del discorso generico, della sintesi agiografica e pretestuosa. Nel severo rigore col quale questo rischio è costantemente evitato è uno dei pregi non secondari del libro del Guardini, capace di cogliere, al di là dell'accumulazione erudita e dispersiva di fonti e nozioni, le premesse ideologiche e l'atteggiamento esistenziale che stanno al fondo dell'invenzione dantesca e ai modi della sua espressione. Il libro riesce cosi di effettiva e grande utilità sia al lettore generico che è messo in grado di percorrere l'edificio dantesco entro un orizzonte e secondo una direzione omogenei, sia allo specialista che è invitato a ripensare in profondo e a contatto con le grandi prospettive della cultura e della spiritualità occidentale la fisionomia complessiva e l'intenzionalità d'un testo che la consuetudine dell'esegesi a distanza ravvicinata può talora far perdere di vista.
Il primo dei due gruppi di saggi che formano il volume è dedicato a « L'angelo nella Divina Commedia », ma è in realtà un abbozzo della struttura generale del poema, entro la quale la presenza angelica acquista il suo significato e rivela la sua funzione. Tale struttura è descritta come il risultato di due moti convergenti, l'uno, assolutamente determinante, che scaturisce dalla volontà e dall'iniziativa divina, l'altro del pellegrino mosso a conoscere il tempo e la storia sul versante dell'eterno. Ciò che Dante «vede» (e fin dalle prime pagine il Guardini definisce la vicenda del poema come un viaggio che si compie in visione) è «la storia e la vita degli uomini, ma non più per speculum et in aenigmate, bensì giudicate da Dio e perciò manifestate»: dov'è evidente la presenza operante del concetto hegeliano, e poi dell' Auerbach, dell'eterno cristiano-dantesco non come dissoluzione del concreto e dell'individuale ma come sua rivelazione e consistenza definitiva, come totale compimento della figura del mondo. Gli angeli si collocano nella Commedia nella linea discendente che da Dio va al creato e agli uomini, ma non agiscono mai al servizio di Dante, non sono sue guide in nessun modo, non stabiliscono con lui un rapporto personale, svolgendo una funzione essenzialmente diversa da quella di Virgilio e Beatrice. Essi sono al servizio esclusivo di Dici, e si muovono nel poema come potenze in cui si raccoglie con la massima intensità quella «tensione» verso il compimento che il Guardini riconosce come caratteristica del viaggio dantesco e come condizione che impedisce alle vicende del poema di svolgersi come aperta, omerica «avventura». In tutte le loro apparizioni gli angeli danteschi rivelano una sorta di cosmica «premura» rivolta al compiersi del regno di Dio, di cui il pellegrinaggio di Dante è un momento, dal primo angelo, inesorabile e tremendo, del IX dell'Inferno, alle intelligenze celesti che nel Paradiso sono colte nella loro funzione mediatrice della volontà divina attraverso la regolata armonizzazione degli influssi delle sfere. Nel riferire queste costanti delle epifanie angeliche della Commedia alla generale concezione biblico-cristiana degli angeli, il Guardini scrive alcune tra le pagine più belle del volume e più penetranti in senso assoluto su un tema che non gode di eccessiva fortuna nell'ambito dell'esegesi dantesca, cogliendo felicemente le motivazioni teologiche di fondo che illuminano e condizionano i modi della figurazione dantesca, tutta aderente, e al più alto livello, all'angelologia biblica, aliena da ogni umanizzazione e contaminazione psicologica dei messi celesti che con Dante appaiono forse per l'ultima volta nella iconografia occidentale nella loro ieratica inaccessibilità, come realtà e potenze, prima di farsi personaggi e metafore o, come in Holderlin e Rilke: figure mitologiche. Non è qui possibile indicare per quanti rami, in questa prima parte degli Studi, il tema dell'angelo si estenda organicamente a illuminare alcuni degli aspetti essenziali dell'invenzione dantesca, soprattutto della terza cantica. Basti sottolineare come un punto solo d'osservazione consente allo studioso una visione e un approfondimento della totalità del poema e di alcuni suoi momenti decisivi, senza divagazioni né prevaricazioni esegetiche, pervenendo così indirettamente anche alla verifica della potente coerenza speculativa e fantastica dell'opera dantesca, quando tale coerenza non la si ricerchi nella puntuale e rigida adesione a questa o a quella tradizione di pensiero, ma sul fondamento di una comprensione organica delle forme essenziali della visione cristiana della realtà che conferisce unità speculativa alla Commedia proprio nella varietà e ricchezza delle fonti dottrinali e delle formulazioni cosmologiche.
Alcune delle tesi di fondo accennate nella prima parte del libro ritornano, esplicitate in un contesto più vasto e organico, nella seconda, dal titolo «Paesaggio dell'eternità». La ricca messe di spunti che essa offre si può raccogliere in due direzioni di ricerca, l'una rivolta alla definizione dei caratteri del «realismo» dantesco nei suoi rapporti con la natura e la storia, l'altra alla penetrazione del senso e del valore della concezione gerarchica del mondo che si manifesta nella Commedia. Realismo e ordine gerarchico dell'essere e del movimento sono esaminati dal Guardini da un punto di vista schiettamente metafisico, come modi della visione e non come tecnica dell'invenzione e della rappresentazione, nei loro risultati significativi piuttosto che nella loro genesi espressiva. Il discorso sul realismo dantesco, minacciato sempre dalla genericità, dal compiacimento parafrastico o dal criterio pregiudiziale della mimesi rappresentativa, è giustamente e rigorosamente ricondotto dal Guardini all'interno delle due coordinate fondamentali dell'atteggiamento di Dante di fronte alla natura e alla storia, quella creaturale e quella escatologica; e collocato tutto, al di là del racconto e dell'efficacia rappresentativa, al livello della visione. Ne nascono pagine magistrali e di grande utilità propedeutica sulla fisionomia dell'aldilà dantesco nei confronti di tutta la precedente tradizione mitica e letteraria in genere e in specie del mondo dei morti omerico e virgiliano; sui rapporti fra l'eterno e il tempo in una concezione della storia che entrambi li abbraccia in una prospettiva profetica ed escatologica e sul fondamento dell'Incarnazione; sul carattere individuale e cosmico dell'itinerarium di Dante nei confronti delle principali formule narrative della letteratura occidentale; sulla finalità di attivo intervento e giudizio che muove tutta l'esemplare ricostruzione e il narrato storico dantesco. Il capitolo più denso e felice di questa direzione di ricerca ci pare il IV, «Corpo e corporeità nella Commedia» dove il tema della «fisicità» delle anime dell'oltremondo è inquadrato in quello più generale della storia intesa come «storia dello spirito, ma in quanto incarnato nel corpo» e per la quale la corporeità costituisce il «momento critico». Nel definire la presenza del mondo e della storia nell'aldilà dantesco il capitolo si muove anch'esso lungo la linea segnata dalla posizione hegeliana (e dallo sviluppo che ne trasse l'Auerbach, qui esplicitamente citato):
Il mondo non viene eliminato, ma conservato [...]; l'immediatezza del mondo è superata dalla morte, il suo valore è reso manifesto e giudicato. La transitorietà è giunta alle sue ultime conseguenze, e ciò che è passato sulla terra è assunto nell'aldilà in uno stato definitivo, eterno. Ciò nonostante vi è conservato sia come cosmo sia come storia. La personalità concreta rimane, nella più individuale definizione del suo essere, dei suoi atti, dei suoi gesti. Tutto ciò non è soltanto sottolineato dallo stato eterno, ma portato a compimento (p. 226).
All'interno di questo quadro generale e ormai vulgato del rapporto tra la figura del mondo e della storia e il suo compimento nell'eterno quale si attua nella Commedia, il Guardini rivela i suoi interessi più vivi e raggiunge gli approfondimenti più originali, e insieme intimamente pertinenti, nell'indagine sul tema specifico della corporeità, del corpo fittizio o, come egli preferisce dire, della corporeità intermedia (Zwischenleiblichkeit) che caratterizza le anime del mondo dantesco. La questione della fisica consistenza delle presenze oltremondane non viene banalizzata dal Guardini col ricorso alla tautologia critica della potenza rappresentativa-fantastica, né vanificato in quel discorso generico sul concreto come condizione dell'invenzione e del linguaggio poetico che tanti problemi e dibattiti e polemiche ha suscitato, specialmente in rapporto alla diversa gradazione delle rappresentazioni nelle tre cantiche e alla validità «poetica» del Paradiso, e che occupa tanta parte delle analisi di scuola idealistico-romantica e crociana nei suoi momenti di minor intelligenza e consistenza e di meno critica adesione a modelli ideologici spesso prevaricatori e sostanzialmente estranei al mondo e alla poetica di Dante.
La «fisicità» delle anime è studiata dal Guardini non in rapporto al risultato estetico o alle ipotetiche esigenze della , rappresentazione poetica, ma come conseguenza immediata dell'antropologia tomistica. In effetti come il poeta aveva a disposizione per la sua ideazione cosmica l'immagine del mondo del suo tempo, così per la rappresentazione dell'uomo e della sua interiorità sussistente trovava il suo modello determinante nell'antropologia cristiana e più precisamente nella formulazione aristotelico-tomistica dell'anima come forma corporis. Il «corpo intermedio» appare quindi come la conseguente proiezione figurativa di una concezione filosofica intimamente assimilata, ma anche, e qui il Guardini scrive le pagine più acute e suggestive sull'argomento, di una fede, di un'intuizione religiosa del rapporto fra Dio e il mondo. Il «corpo fittizio», infatti, è l'anticipazione escatologica della fede nella resurrezione della carne e insieme la manifestazione della positività della materia creata, fondata sull'eros cristiano, sull'amore di Dio verso il finito dal quale il finito stesso riceve significato e valore, e sulla kénosis paolina, sull'umiltà partecipata all'uomo oggetto d'amore. Si perviene con ciò a sottolineare con estrema energia il ϧεϊος έρως come il momento centrale dell'intuizione e della rappresentazione dantesca del reale, come l'animazione mistica della sua antropologia, in armonia con la tesi di fondo del libro di un eminente dantista, il Renucci, e a collocare il fondamento della «corporeità» della Commedia in quella erotica cristiana che dal Cantico dei cantici allo Pseudo-Dionigi appare al von Balthasar come il «cuore di tutta la teologia» e nella quale, secondo il Guardini, si può ravvisare la zona più profonda della filosofia di Dante.
Il tema dell'ordine gerarchico dell'essere e del movimento che nella sua accezione non superficialmente cosmologica ma intimamente ed essenzialmente metafisica è argomento ricorrente in tutte le parti del volume del Guardini, viene affrontato in maniera più diretta e sistematica nel capitolo su «Il fenomeno della luce nella Divina Commedia». Il poema dantesco è collocato a questo riguardo decisamente nella tradizione di pensiero che ha la sua espressione estrema al tempo di s. Tommaso nel Liber de intelligentiis di Witelo e la sua sistemazione filosoficamente più organica in s. Bonaventura, e che per il grande tramite agostiniano e dello Pseudo-Dionigi rinvia a una comune origine neoplatonica. La presenza della luce nell'invenzione, nel linguaggio e nella struttura della Commedia è analizzata dal Guardini, in brevi e dense pagine, non dal punto di vista prevalentemente etico-psicologico, come nell'indagine sui tre «lumina» del Singleton, non in quanto metafora, solenne e consacrata, del cammino verso la verità e la purificazione, ma da un punto di vista schiettamente metafisico-oggettivo, come condizione d'ogni vedere, come l'atto per il quale «la realtà presente diventa trasparente nella sua essenza per lo spirito [...] l'esistente diventa sensibile nel suo valore per il cuore». Si evita così da un lato il pericolo d'una lettura devozionale e genericamente metaforica d'un terna che non è solo coestensivo a tutta l'opera dantesca, ma sta anche a testimoniare la possibilità stessa dell'evento della Commedia; e dall'altro, la tentazione degli accostamenti estrinseci e divaganti con le più diverse manifestazioni luministiche dell'arte medievale che spesso aduggiano, nella critica dantesca, le variazioni sul tema. In una struttura del mondo in cui ogni cosa è vista scaturire ininterrottamente da un punto d'origine e ad esso incessantemente tendere nel ritorno, secondo il ritmo neoplatonico dell’ekdromé e dell’epistrophè, la luce è l'espressione ontologicamente rivelativa del significato e del valore: un rilievo fondamentale dell'analisi stilistico-estetica del poema, il primato dell'occhio e del vedere, viene così fondato direttamente su una concezione metafisica e illustrato, al di là delle incertezze delle analisi psicologiche e di gusto, attraverso i dati di una tradizione di pensiero che colloca gli elementi indeducibili della personalità poetica e del suo stile in una prospettiva nella quale essi trovano la loro specificazione e distanza e possono così rivelare la pienezza oggettiva dei loro significati. Il diverso atteggiarsi del fenomeno della luce, la sua funzione mai esornativa ma effettivamente rivelatrice della condizione delle anime e del senso del viaggio dantesco vengono ripercorsi in rapida sintesi attraverso i tre regni, sino all'Empireo, al momento culminante dell'epistrophè che il Guardini vede tutta segnata e assunta nell'agostiniana nostalgia del creato verso Dio.
Nell'analisi dell'Empireo e particolarmente della «candida rosa», in questo capitolo e soprattutto nel primo della seconda parte del volume, «L'elemento visionario nella Divina Commedia», acquistano rilievo due componenti particolarmente significative dell'indagine del Guardini. La prima, relativa solo ad alcuni luoghi del poema, è il tentativo attuato, con grande misura e cautela critica, di adoperare in sede ermeneutica alcune acquisizioni della psicologia dell'inconscio di origine dichiaratamente junghiana a chiarire le motivazioni di fondo di certe scelte figurative della Commedia: come quella, ad es., della «candida rosa» ricondotta, nella sua diversità rispetto alle figurazioni paradisiache autorizzate dalla tradizione scritturale cristiana quali quelle dell'Apocalisse, a un'origine archetipica che ha nel mandala orientale la sua immagine più significativa e illustre. La seconda ha invece tutta l'ampiezza di una proposta generale, per quanto avanzata dal Guardini sulle soglie del suo studio e poi solo episodicamente e brevemente ripresa: gli avvenimenti registrati nella Commedia si presentano immediatamente, sin dalla «selva oscura», con un carattere onirico, appaiono come accaduti in sogno; e, a uno sguardo. più approfondito, essi si rivelano come frutto di «visione». L'abbozzo d'analisi di tipo junghiano di cui s'è detto, trova appunto in questa proposta generale la sua premessa e giustificazione. Scrive il Guardini:
[...] il lettore deve in ogni caso pensare che tutto ciò che accade nel poema è contemplato attraverso una visione. Ovunque la forma è terrena, ma essa si trova in una condizione disposta ad accogliere un processo più profondo, affinché questo possa esprimersi in essa [...]. Il momento visionario non vi rappresenta semplicemente uno degli elementi in un quadro dove potrebbe benissimo anche mancare, ma è inscindibile dalla narrazione [...] questo sguardo dell'aldilà specifica tutto il processo e la natura delle cose rappresentate [...]. Di quale natura fosse più precisamente questa esperienza: se Dante ebbe una visione decisiva, che si è poi dimostrata vitale nel lavoro poetico e speculativo di molti anni, permeando la vastissima materia; o se si sono susseguite diverse esperienze nel corso della creazione poetica, o se non si trattò affatto di una vera visione in senso psicologico religioso, ma solo di una specie di contemplazione semiprofetica, come si deve per esempio ammettere per i grandi inni di Holderlin, è difficile a dire. Per esprimersi al riguardo in modo adeguato sarebbero necessarie ricerche più estese di quelle che io ho potuto fare (p. 148; pp. 169-69).
La questione, come si vede, è grossa, investe i più disparati campi della ricerca che vanno dalla psicologia in genere e dalla psicologia più propriamente religiosa alla interpretazione filologicamente accertabile dei testi sino alle inevitabili implicazioni della critica letteraria, richiede chiarezza di metodo e capacità sorvegliatissima di distinzioni, data la resistenza che offre a indagini di questo tipo il poema dantesco tutto e dichiaratamente e con estrema consapevolezza di strategia letteraria condotto sotto il segno del «fren dell'arte» e con le risorse più strenue e riconoscibili del mestiere. Nei termini in cui è presentata dal Guardini essa appare piuttosto ancora come una opzione dello studioso, una suggestione e un'ipotesi, necessitando, come scrive il Guardini stesso, di «ricerche più estese»; ma negli studi danteschi di questi ultimi anni non mancano i contributi ulteriori intorno a questo tema e a questa ipotesi.
La suggestione e l'invito alla ricerca che muovono dalle pagine del Guardini sono appunto alla base dello studio più esteso, di Egidio Guidubaldi, dedicato all'argomento, foltissimo di documentazione e riassuntivo in modo pressoché totale di tutti gli elementi che l'esegesi secolare può fornire in ordine a questa direzione di ricerca: Dante Europeo, III, Poema sacro come esperienza mistica (Firenze, L. S. Olschki, 1968); il volume reca come sottotitolo esplicativo: dalla «Visio in somniis» affermatasi nell'esegesi trecentesca alla lettura onirica consentita dalla «psicologia del profondo».
Tutta una linea dell'esegesi italiana che, per fermarci ai precedenti più vicini o immediati, reca i nomi del Nardi, del Montano, del Sarolli e del Padoan, e che, pur nella varietà delle motivazioni e con accentuazione diversa, converge nell'attribuire a Dante il privilegio effettivo o la convinzione soggettiva di una rivelazione divina, di un'investitura profetica o, comunque, di una reale sperimentazione mistica, confluisce in questo volume amplissimo del Guidubaldi e viene verificata al livello e con i metodi della psicologia del profondo attraverso quello che l'autore definisce «il caposaldo junghiano dell'onirica attivazione d'archetipi d'inconscio». La ricerca del Guidubaldi non si esaurisce quindi nella prospettiva psicologica, ma è un tentativo d'individuare in questa prospettiva il diagramma riconoscibile di un evento di ordine genuinamente religioso-soprannaturale, secondo l'inequivoca dichiarazione programmatica:
[...] la proposta qui formulata ritiene di poter additare in Dante i due seguenti aspetti: 1) un perfetto caso di mistica naturale «esperienzialmente» arrivato al plotiniano traguardo dei due «centri in sintonia» (il centro dell'individuo e il centro della realtà universale) [ ... ] 2) la documentabilissima esistenza d'un contesto espressivo atto ad inculcarci (per l'intero itinerario dantesco) una avvenuta fruizione dell'aldilà in termini del tutto rispondenti a ciò che, per l'oltretomba beatifico, viene scandito a chiare lettere dal par. 28 dell'Epistola a Cangrande (p. 31).
Che tale fruizione dell'aldilà debba intendersi contrassegnata dal carattere della soprannaturalità è ipotesi di lavoro che il Guidubaldi fa sua senza esitazione sin dall'inizio, là dove, dichiarando che la sua analisi sarà circoscritta al mondo paradisiaco, aggiunge di considerare «praticamente implicita la stessa soprannaturalità (cors. nostro) dei primi due momenti oltremondani». L'autorizzazione teologica circa la possibilità di questa fruizione lo studioso deriva dai testi della mistica vittorina e, soprattutto, dai passi della Summa di s. Tommaso dedicati all'argomento nella II Ilae, mentre la possibilità d'intendere un'esperienza dell'inconscio oniricamente attivata come la «registrazione» di un evento autenticamente soprannaturale riposa essenzialmente sull'adesione alla concezione junghiana degli archetipi come «presenze eterne», come divina creazione («Dio stesso ha creato l'anima e i suoi archetipi») che il Guidubaldi considera «funzionalizzati» da Dio a una sperimentazione d'ordine soprannaturale concessa per grazia. L'autore ha della novità e dell'arditezza della tesi e del metodo un'acuta consapevolezza che lo spinge, con una strategia dimostrativa a larghissimo raggio, a ripercorrere uno sterminato territorio culturale ed esegetico che con le sue notizie perviene e gravita alle soglie dell'analisi psicologica vera e propria, e che qui possiamo solo in parte e sommariamente accennare: progressivamente, dal cerchio al centro, le indagini di estetica speculativa sui rapporti tra poesia e mistica (soprattutto attraverso i nomi di Brémond e Maritain); gli studi sulle componenti psicologiche del misticismo dantesco e sull'analogo delle precedenti e leggendarie «visioni medievali»; la tesi della «visio in sommiis» che affiora in più d'un luogo dell'esegesi trecentesca e che ritorna energicamente in un Palmieri e, con motivazioni, cautela critica e ampiezza diversa nel Pagliaro, e che si colloca come posizione intermedia tra il « profetismo integrale » di Guido da Pisa e la tesi della totale «fictio poetica» di Pietro di Dante; i dati derivanti dalle grandi esperienze mistiche e dalla fenomenologia della loro espressione linguistica esaminati principalmente sugli esempi di Matilde di Hackeborn, di Ildegarde, di Gioacchino da Fiore e, più oltre, di s. Teresa d'Avila, s. Ignazio, s. Rosa da Lima, che vengono dal Guidubaldi confrontati e assimilati fra loro e con le notizie del poema dantesco in una considerazione essenzialmente sincronica, come vuole il carattere di·« eternità » delle loro fonti archetipe, in una contemporaneità forse troppo estranea e aliena dalle precisazioni e dalle distinzioni che da una prospettiva diacronica sarebbero potute derivare; infine, l' «inequivoco messaggio», che verrebbe a confermare il fatto di una reale esperienza visionaria, dell'Epistola a Cangrande che, contrariamente alla interpretazione allegorica su cui concordano sia gli obiettori almeno parziali dell'autenticità come il Nardi sia i sostenitori come il Mazzoni, è considerata dal Guidubaldi in un fitto capitolo come un'esplicita autorizzazione d'autore della avvenuta visione dell'aldilà. Tutto questo foltissimo apparato culturale che abbiamo potuto solo accennare (ma vorremmo aggiungere le pagine, tra le più utili e circostanziate, sui vari aspetti del luminismo medievale) si presenta, anche a prescindere dalla tesi di fondo, con una sua consistenza autonoma che costituisce l'articolata ricchezza del libro il quale, sotto questo profilo, si offre come un’occasione per ripercorrere un aggiornatissimo itinerario della letteratura dantesca nella prospettiva mistica e dottrinale e di altri numerosi apporti che a quella prospettiva si possono ricondurre. Ma il volume del Guidubaldi affida la sua novità e la sua fisionomia specifica appunto alla tesi di fondo, alla verifica in termini di psicologia del profondo di un'avvenuta fruizione dantesca dell'aldilà nella forma di una «visio in somniis», espressa dal poeta secondo una simbologia che si riconduce agli archetipi fondamentali dell’«inconscio collettivo». Non è qui possibile passare in rassegna nemmeno sommariamente la serie di argomentazioni e i processi dimostrativi di cui l’autore si avvale, che vanno dall’analisi dei passi più visionari e oniricamente segnati del poema (fra le più puntuali ci sono sembrate le pagine relative alla «selva oscura» e alla visione trinitaria) alla documentazione figurativa per tavole tendente ad assimilare il discorso metaforico dantesco a un «regolare succedersi di “status interiori” già figuralmente codificati»; ma vorremmo soltanto sottolineare qualche acquisizione e abbozzare qualche osservazione sul metodo e sulle conclusioni generali, con tutta la consapevolezza della loro provvisorietà e della loro sproporzione nei confronti dell’amplissimo territorio argomentativo a cui si riferiscono. Sarà anzitutto utile stabilire una distinzione preliminare tra l’analisi condotta con gli strumenti della psicologia dell’inconscio e l’ipotesi di un'effettiva esperienza mistico-visionaria dell’autore della Commedia. Sul versante dell'indagine psicologica il volume del Guidubaldi addita indubbiamente e sviluppa una prospettiva di ricerca di vivo interesse e capace anche di fornire indiretti sussidi all’esegesi del testo dantesco, come avviene di fatto nel corso del volume stesso, quando tale ricerca venga condotta con tutto il rigore e la prudenza che ovviamente richiede e sulla premessa, più volte ribadita nell’ambito degli studi psicoanalitici sull’arte, che ogni descrizione e valutazione di questo tipo rimane necessariamente al di qua non solo di ogni valutazione estetica, ma anche di ogni pretesa di fornite la chiave del processo della produzione artistica in quanto tale. In questa direzione i contributi del Guidubaldi e gli studi condotti per iniziativa dell'Istituto di studi danteschi dell’Università Cattolica di Milano possono aprire un capitolo nuovo e diverso nell’ambito degli studi danteschi. Le nostre perplessità, e anche per certi aspetti non marginali, si accumulano intorno all'opinione relativa a una effettiva sperimentazione mistica come condizione all'avvio e a tutta la scrittura della Commedia. La questione è evidentemente di decisiva e centrale importanza, non solo in rapporto alla storia della spiritualità medievale nella quale l’opera di Dante occupa una zona densissima di significati, ma anche e soprattutto in rapporto alla storia della fenomenologia della produzione letteraria nella quale la Commedia trova la sua definizione. Qui chiarezza e rigore di metodo, che significano essenzialmente aderenza all'oggetto, esigono che non si ricorra solamente, pur con tutto lo scrupolo e l'onestà dell'apparato scientifico, al testo per ricevere smentita o conferma alla tesi proposta, ma ci si domandi preliminarmente se il testo letterario ch'è oggetto della ricerca imponga l'assenso alla tesi stessa per giustificare la sua propria esistenza e interpretabilità altrimenti inesplicabili. Non c'è dubbio che il poema ci presenti un avvenimento d'ordine soprannaturale come effettivamente accaduto; ma la domanda decisiva è da porsi, a nostro avviso, in questi termini: l'avvenimento mistico è instaurato all'interno della «fabula» del poema, o è esso stesso a renderla possibile, a instaurarla e condizionarla, rivelando, sotto quella che solo in apparenza sarebbe la visione (o il viaggio) d'un poema, la figura assolutamente inedita del poema d'una visione? Diciamo subito che non abbiamo trovato nella Commedia, per quanto la conosciamo e siamo capaci di conoscerla, e negli altri testi danteschi chiamati dal Guidubaldi a sostegno della sua tesi, nessun passo che imponga persuasivamente una interpretazione univoca nel senso dell'avvenuta sperimentazione mistica, né tale persuasione ci è venuta dall'insieme dei passi stessi, esaminati nei loro eventuali nessi organici. La lettura della cronaca mistica nel corso del poema, e in particolare nell'ultima zona paradisiaca sulla quale il Guidubaldi incentra il suo interesse («il Dante della suprema esperienza paradisiaca non sta per niente "divulgando" a nostro pro ciò che egli ha provato, ma semplicemente "registrando" [...] le varie figurazioni d'inconscio susseguitesi nelle pagine del suo libro interiore, ragguagliandoci in pari tempo sui riflessi sensibili in lui prodotti dalla genuina funzione soprannaturale cui Dio eleva tali figurazioni, divenute, per ciò stesso, capaci dell'esperienza beatificante che caratterizza l'insieme», pp. 173-74) ci appare sempre rovesciabile nella lettura dell'invenzione della cronaca mistica, senza che al testo derivino incongruenze, oscurità e contraddizioni; ci sembra anzi che proprio tra questi due termini si muova la bilancia strutturale della Commedia e che appunto in quest'ambiguità si dispieghi la suprema strategia poetica di Dante e si possa riconoscere l'originalità di un'operazione letteraria non assimilabile univocamente da un lato all'invenzione mitopoetica e, dall'altro, all'allegorismo didascalico dei poemi teologico-filosofici del medioevo latino. Per l'acquisizione della consapevolezza di questa ambiguità e dei problemi ch'essa suscita in ordine alla definizione dei caratteri propri e, crediamo, veramente unici, nella qualità e non solo nel grado, del poema dantesco, è condizione essenziale e irrinunciabile tenere costantemente presenti le componenti specificamente letterarie del poema, i suoi condizionamenti di poetica e retorico, le fonti classiche e romanze e il modo del loro sfruttamento, insieme, e con nessi inscindibili, alle sue componenti mistiche e dottrinali. L'assenza praticamente totale di questo versante in senso lato «laicale» nelle considerazioni del Guidubaldi non infirma per se stessa l'utilità e la ricchezza degli accertamenti psicologici delle figurazioni d'inconscio, ma impedisce l'aspirazione a travalicarli in una valutazione globale che mira a «cogliere la vera fisionomia dell'itinerario dantesco», quando questo non venga mitizzato fuori della verità effettuale del libro. L'argomento dell'intensità emotiva della partecipazione dantesca alla sua vicenda e dei risultati espressivi, a cui il Guidubaldi ricorre in armonia con le motivazioni di carattere più strettamente esegetico e psicologico, ci spinge indubbiamente in una direzione che trascende in qualche modo i condizionamenti della tradizione letteraria e le stesse risorse e ambizioni del mestiere, che attinge probabilmente le zone impervie delle intuizioni mistiche e quelle sotterranee dell'inconscio; ma è necessario per giustificare tale intensità emotiva attribuire un'investitura e una «genuina funzione soprannaturale» alle figurazioni paradisiache (e implicitamente a quelle di tutto il poema)?; non è forse sufficiente un richiamo più generico al grado di assenso e partecipazione col quale Dante aderisce alla sostanza delle cose sperate che il suo discorso poetico adombra (ma le parole forse mancano a dire la forza di attualizzazione della metafora dantesca e insieme la sua costante consapevolezza del limite dell'invenzione e dell'artificio che nella cifra allegorica trova appunto lo strumento di una costante e sistematica demitizzazione), e ad una cultura e a una Weltanschauung per le quali la figurazione simbolica appariva immediatamente dotata di un'autorità non riducibile al successo estetico, ma intrinsecamente metafisica, secondo il libro della natura e della storia, e insieme sacrale, secondo il libro delle Scritture? In questa prospettiva anche il ricorso che l'Epistola a Cangrande fa alle autorità della Scrittura e dei Padri e dei grandi dottori della mistica non ci sembra che autorizzi a interpretare tali autorità come testimonianza addotta da Dante a confermare l'avvenuta «esperienza oltremondana come felice status fruibile da quaggiù», secondo la tesi che il Guidubaldi sostiene nel capitolo dedicato appunto all'analisi del par. 28 dell'Epistola stessa; quando basterebbe a giustificare tale dovizia e responsabilità di citazioni l'intenzione di dimostrare plausibili e non sconvenienti i modi dell'invenzione stessa dell'avvenimento mistico per il tramite di un'opera che pure si presenta coi caratteri della «fictio poetica», l'intenzione di legittimare l'umile e insieme rischiosissima impresa del poeta di tentare una figura inedita dell'opera letteraria («l'acqua ch'io prendo già mai non si corse») attraverso una totale, nell'argomento e nelle forme, contaminazione teologico-sacrale del discorso poetico; e insieme di dimostrare come tale contaminazione, per il tramite della decifrazione allegorica sulla quale tanto insiste il dettato dell'Epistola, possa sistematicamente evitare il pericolo della conversione della teologia nel mito. Il par. 28 dell'Epistola, dedicato al commento delle terzine 2° e 3° del I del Paradiso, che il lettore interessato vorrà tener presente nella sua formulazione letterale, presenta indubbiamente un'impressionante serie di auctoritates a illustrazione di una particolare esperienza mistica, dal Nuovo al Vecchio Testamento, dal De contemplatione di Riccardo di San Vittore al De considerazione di s. Bernardo al De quantitate animae di Agostino; è vero, come osserva il Padoan, che non è dato di riscontrare in altri esempi letterari del tempo una tale gravità di espedienti per un'opera di finzione poetica, ed è anche vero, come bene rileva il Guidubaldi, che il passo è condotto con vigile precisione tecnica e con umile e lucidissima consapevolezza dei limiti della persona e della sua stessa esperienza mistica; ed è vero, infine, come ancora vuole il Guidubaldi, che la gravità probante di tale corredo di autorità non può essere elusa con la facile ipotesi dell'autosuggestione investiturale; ma di qui a riconoscere nel passo una dichiarazione d'autore e di protagonista su un'avvenuta esperienza d'ordine soprannaturale la distanza è ancora molta e, anzi, un'attenta lettura del passo ci sembra impedisca di colmarla. Il discorso richiederebbe una più ampia e minuta argomentazione, di cui qui ci limitiamo a fermare qualche spunto che ci sembra preliminare. Anzitutto, il paragrafo non può essere letto e compreso adeguatamente fuori di una stretta relazione con l'organismo complessivo dell'Epistola, soprattutto per la parte che lo precede con la sua problematica e la sua preoccupazione dominante di accessus ad auctorem, argomento del poema, sensi, titolo, partizioni, forma tractatus e tractandi, genere di filosofia, prologo ecc..., sì che, accanto a quei rinvii mistico-scritturali raccolti tutti in un punto, si leggono quello a Platone, Aristotele, Orazio e Terenzio, Seneca, in tradizionale e non contrastante convivenza. In secondo luogo, bisogna tenere ben presente il punto di vista dell'estensore dell'Epistola e in esso collocarsi; che non è propriamente quello dell'autore né, soprattutto, quello del personaggio protagonista della vicenda o visione, ma quello dell'esegeta che illustra l'opera al destinatario. Si vedrà allora come tutte quelle altissime autorità sono prodotte a testimoniare la verisimiglianza dell'invenzione e del racconto e ad autenticare la precisione terminologica e dottrinale del dettato delle terzine, confermata anche, nel paragrafo immediatamente seguente, con l'autorità di Platone: Dante personaggio ha avuto quell'esperienza mistica e non la persona storica del poeta e dell'autore. In questo modo, anche, all'Epistola si conserverà la sua indubbia destinazione di commento e guida alla lettura, che rischia altrimenti di essere deviata nella documentazione d'un episodio biografico. Viene così offerta dall'autore dell'Epistola una cifra di lettura per il contenuto del poema e non per il poema nella sua realtà totale e condizionante: per tale cifra, sarà vero secondo il racconto quello che è verisimile secondo il libro nella totalità della sua struttura. Quanto questa cifra di lettura trovi riflesso e corrispondenza nell'esegesi sin dai suoi inizi è un fatto accertabile che rinvia al testo poetico per misurarne la forza e la qualità d'invenzione, ed è ben documentato dal volume del Guidubaldi che di questo indirizzo esegetico è anche un documento, l'ultimo, il più conseguenziario e, per gli strumenti psicologici della verifica, nuovo; ma tanto non basta a sciogliere il sospetto della sua unilateralità e dell'insufficienza a cogliere la complessità e i caratteri originali dell'operazione letteraria in cui la Commedia consiste.
Dall'interpretazione figurale dell'Auerbach, che è prospettiva suscettibile sempre di sviluppo e approfondimento, alla corretta e analitica definizione dell'allegoria e in genere della sacralità biblica e medievale nell'opera dantesca del Singleton, alla sintesi organica e ricca di spunti della Weltanschaung entro la quale la Commedia s'inscrive del Guardini, sino alla proposta di lettura secondo i metodi della psicologia del profondo, la componente teologico-mistica e la radicale religiosità della poesia di Dante appaiono non solo energicamente sottolineate e approfondite nella ricchezza dei loro riferimenti testuali, ma colte e misurate nella loro presenza coestensiva a tutta l'ideazione e scrittura dantesca. Tanta varietà e ricchezza di contributi, che non si esaurisce certo nelle voci citate, manifesta naturalmente la sua utilità ed efficacia ogni volta che, almeno implicitamente, si condizioni alla concretezza del testo letterario, nella misura in cui si fa esegesi locale o effettivo criterio ermeneutico; rischia di perdere la sua stessa rilevanza religiosa nella misura in cui tale specificità letteraria viene elusa in uno sfoggio erudito di documentazione mistico-dottrinale sul pretesto della Commedia o in un capitolo tutto esteriore di storia del pensiero e del sentimento religioso fuori dei modi propri della «fictio» poetica in cui il poema si realizza. La direzione più propria e feconda della ricerca e dello sfruttamento dei dati desunti dalla tradizione e letteratura biblica, teologica e mistica ci sembra debba puntare non sulla verifica e descrizione del processo di elevazione della poesia dantesca ai modelli di quella tradizione e letteratura, ma, nel senso opposto, nella verifica e descrizione del mutamento radicale che l'assimilazione di quei modelli ha prodotto all'interno della poetica o del linguaggio danteschi sulle soglie e lungo tutto il corso del poema, secondo quella che ci pare la linea di sviluppo della suprema sperimentazione letteraria della Commedia.
Nel «poema sacro» l'eccezionalità, l'esemplarità e il rischio sperimentale dell'attributo non nascono da un processo di elevazione - dal basso verso l'alto - del poema ai livelli della visione e del discorso biblico e, in genere, della più alta letteratura mistica, da una trasfigurazione unilaterale delle muse in Dio, da un condizionamento del libro umano ai libri divini, ma dal processo inverso, dal tentativo - dall'alto verso il basso, per restare in metafora - consapevole e programmatico di tradurre le possibilità e le fecondità di quel tipo di visione, di quel discorso e di quella letteratura nell'ambito di un genere letterario specifico, da un condizionamento, sul piano poetico e operativo, dei libri divini al libro umano, in una conversione, al limite, in schemi retorici delle forme della enunciazione biblica e della tradizione dottrinale e letteraria costituitasi, con maggiore o minore fedeltà, su quel supremo esemplare. Un contributo talora assolutamente decisivo può venire all'intelligenza della Commedia dalla distinzione fra le «due allegorie» e dall’assimilazione dell'allegoria dantesca a quella cristiana o dei teologi con il conseguente carattere di storicità che necessariamente l'invenzione attribuisce al viaggio oltremondano, dall'indicazione del registro metafisico e mistico sul quale le manifestazioni del linguaggio e della fantasia dantesca debbono essere trasferite e decifrate, dalla rilevazione della totalità e intensità psichica che partecipa all'invenzione poetica, quando tutti questi elementi non si sovrappongano al «modus tractandi - per ricorrere ancora all'Epistola a Cangrande - poeticus, fìctivus, descriptivus, disgressivus, transumptivus…» al punto da subordinarlo all'evento determinante di una reale esperienza mistica, o, come più sottilmente vuole il Singleton, da occultarlo, con sublime astuzia poetica, sotto l'apparente realtà del viaggio oltremondano ( «L'invenzione della Divina Commedia è che essa non è un'invenzione»), mentre la presenza di questo «modus» appare altrettanto esplicita e dichiarata che l'asserzione della realtà della visione, come lo studio delle fonti e il versante dell'esegesi stilistica e strutturale mettono continuamente in luce. Proprio sul nesso indistricabile di visione e invenzione, di «fictio» e avvenimento reale, dello scriba e del poeta ci sembra poggiare la strategia strutturale del libro di Dante che trova in questo nesso le condizioni per una poesia che non si risolva in una mistificazione sacrale radicalmente incapace, da un lato, di impadronirsi del reale del tempo e della storia e, dall'altro, di aprirsi a una prospettiva di dettatura trascendente già capace di colmarla e pur sempre totalmente altra dal dettato poetico, dagli «umbriferi prefazi» e dall'«ombra del beato regno»; che sono, al limite, le condizioni di ogni poesia religiosa e che qui, in modi e con risultati che chiedono di essere ulteriormente interrogati, raggiunsero un loro esemplare massimo.