Dati bibliografici
Autore: Zygmunt G. Baranski
Tratto da: «Chiosar con altro testo». Leggere Dante nel Trecento
Editore: Cadmo; Firenze
Anno: 2001
Pagine: 41-76
Negli ultimi dieci-quindici anni, il quasi unanime pluridecennale consenso intorno alla paternità dantesca dell'epistola a Cangrande ha cominciato a vacillare1. In passato, le obiezioni alla corrente critica dominante su questo punto, con la notevole eccezione di Nardi e di Brugnoli (su cui si veda oltre), erano state spesso fondate su elementi piuttosto soggettivi e impressionisti . I dubbi espressi recentemente sono di gran lunga più convincenti, in quanto poggiati su basi critiche e metodologiche più solide. In verità, nel dopoguerra, il primo a porre in risalto i vantaggi di sottoporre il tormentato documento ad un’analisi filologicamente informata è stato uno dei sostenitori della sua autenticità. Nel 1955, dopo avere accumulato diverse prove documentarie, Francesco Mazzoni affermò che, proprio come si addiceva a un’opera del poeta, la lettera era un testo filosoficamente sofisticato. Egli si dichiarò inoltre convinto che quel testo avesse esercitato considerevole influenza sugli esegeti di Dante del Trecento, indicando puntuali somiglianze tra l’accessus della lettera (§§ 5-16) e i prologhi dei commentatori. Dopo il primo intervento nel dibattito, Mazzoni sviluppò progressivamente la sua posizione attraverso una serie di articoli di fondamentale importanza e grande risonanza; e soprattutto tra i critici italiani la sua tesi continua ad essere considerata canonica.
Quest'ultimo fatto non può non sollevare alcune perplessità (e può servire da esempio significativo dell’immobile potere dell'ortodossia critica), poiché già nel 1960, e poi nel 1961, Bruno Nardi aveva ritorto il procedimento analitico adoperato da Mazzoni contro le posizioni stesse del critico, confutandone autorevolmente i principali punti. Nardi mostrò che l'analisi di Mazzoni era basata su una fascia di testi filosofici troppo limitata e che le somiglianze rilevate tra la lettera e i commentari non erano di grande significato, non trattandosi che di luoghi comuni critici e culturali. L'opera di Nardi, il quale, seguendo le proposte di Augusto Mancini accettò unicamente l’autenticità dei tredici paragrafi di apertura che costituiscono i primi quattro capoversi della lettera, fu proseguita nei tardi anni Sessanta ed agli inizi degli anni Settanta dal suo allievo Giorgio Brugnoli che, nella sua edizione commentata dell'Epistola, soppesò scrupolosamente le prove a favore e contro la sua autenticità per giungere alla conclusione che la lettera intera era quasi sicuramente un falso. Brugnoli presentò inoltre una serie di nuovi elementi che rendevano la paternità dantesca del documento ancora più improbabile; e, per quanto ne sappia, direi che nessuno tra i sostenitori dell'ipotesi contraria è mai riuscito a invalidare seriamente quelle prove. Però, malgrado il rigore e l’autorevolezza degli studi di Nardi e di Brugnoli, le loro posizioni sono state sostanzialmente ignorate dai critici italiani.
Non appare dunque affatto strano che la recente sfida al diritto dell'Epistola di comparire tra le opere di Dante sia nata fuori dei confini dell'Italia. Gli studiosi che nutrivano dubbi circa la sua autenticità hanno vagliato elementi interni ed esterni connessi con la lettera, soffermandosi in particolare su tre punti: le differenze formali tra l'uso del cursus nell'Epistola e le consuete pratiche ritmiche di Dante nel comporre prosa latina; la disomogeneità ideologica che esiste tra il sistema esegetico della lettera e i risvolti tipici del pensiero metaletterario del poeta (di questo parlerò più avanti); infine, la data di composizione comunemente accettata per la lettera (di solito collocata tra il 1315 e il 1317) è giudicata troppo prematura, tanto più in quanto si mette in forse il suo carattere di testo unitario, opera di un’unica mano. Vista in questa prospettiva, l'Epistola appare come una compilazione del tardo Trecento fortemente in debito con Guido da Pisa e Pietro Alighieri: un amalgama messo insieme da un compilatore sconosciuto integrando, in una struttura originale, testi diversi composti nel corso del XIV secolo.
Le varie linee critiche di ricerca che negano l'autenticità dell'Epistola sono state integrate da Henry Kelly in un'opera di rilievo, seppure di qualità disuguale, intitolata Tragedy and Comedy from Dante to Pseudo-Dante. Questo libro, insieme ai due autorevoli contributi di teoria letteraria medievale di Alastair Minnis , offre una posizione vantaggiosa da cui esaminare sia la questione della paternità della lettera sia le sue caratteristiche di commento. Questo capitolo si concentra su tali due aspetti; e, seguendo l'esempio di Kelly, inizia col fermarsi sulle definizioni medievali di commedia e tragedia. In questo modo anche il capolavoro "comico" di Dante rientra nell'àmbito dell'argomento; ed è cruciale ricordare che, se si vuole valutare l'Epistola, bisogna sempre giudicarla alla luce della Commedia. AI centro del dibattito riguardante la lettera si ritrovano le questioni fondamentali di come il poema è stato e può essere letto.
La decisione di prendere in esame il carattere dell'Epistola come commentarium deriva non soltanto dal fatto che non molto è stato detto finora in proposito, ma anche dall'impressione che quella della critica letteraria medievale sia attualmente la principale area di ricerca che consente di progredire nell'analisi dell'Epistola a Cangrande. Le altre vie critiche sembrano condurre soprattutto nel regno delle possibilità e delle congetture. La tradizione manoscritta, ad esempio, anziché chiarire aspetti che concernono la stesura del testo, non fa che generare incertezze. Il testo dei tre più antichi manoscritti quattrocenteschi contiene solo i primi quattro capoversi nuncupatori, mentre la lettera completa si conserva unicamente in sei copie cinque-seicentesche. Dubbi altrettanto fondati circondano la datazione, così come quella di numerosi commenti trecenteschi; e, naturalmente, non si deve dimenticare che l'associazione del nome di Dante con la lettera risale al 1400 circa, periodo in cui si è cominciato a riconoscere il suo carattere epistolare. Non vedo come sia possibile, allo stato attuale delle cose, risolvere o anche soltanto continuare a studiare gran parte delle cruces interpretative dell'Epistola a Cangrande. In particolare, è difficile vedere come si possa effettivamente rispondere alla questione del rapporto della lettera con i commentatori del XIV secolo, ed a quella connessa della data e della meccanica della sua composizione. Risulta spesso difficile, per ciò che riguarda questi aspetti, privilegiare un’ipotesi critica piuttosto che un'altra; mentre gli studi formali dell'Epistola sono ancora in uno stadio iniziale. Al contrario, grazie alla ricca fioritura recente di studi che analizzano la riflessione medievale sulla letteratura, il variegato mondo della critica letteraria dell'età di mezzo sta finalmente emergendo con chiarezza e in dettaglio. I principali studiosi dell'Epistola - Moore, Curtius, Mazzoni, Nardi, Hollander e Brugnoli - si sono resi conto che, in primo luogo, essa doveva essere definita in base alla sua identità ed efficacia di commento ad un auctor. Ma, per mancanza cli studi critici di edizioni di testi medievali quali quelli cli cui oggi possiamo disporre, essi non sono riusciti a sviluppare pienamente la loro intuizione. Ora, però, può finalmente cominciare il processo cli reintegrazione dell'Epistola nella tradizione ideologica e genere di cui essa trae origine. Di conseguenza, può essere avviato anche un valido confronto con le consolidate pratiche esegetiche di Dante e con la poetica della Commedia, il testo sul quale la lettera sembra voler fare luce. La critica letteraria medievale, come spero di mostrare, offre un sentiero di attraversamento della «selva selvaggia» dell'Epistola a Cangrande abbastanza sicuro.
Come ho avuto occasione di accennare più volte, l'aspetto più vistoso della presentazione dei genera contenuta nel decimo paragrafo della lettera è il suo conservatorismo ideologico; e questa constatazione si impone anche se si considerano le sue definizioni senza nessun riferimento specifico a Dante. Questa sezione della lettera si basa, come ho già detto, su alcuni luoghi comuni piuttosto diffusi. E pressoché impossibile distinguere l'analisi proposta nell’Epistola di commedia e tragedia dalla trattazione degli stessi "stili" presente in innumerevoli altri testi in circolazione durante il XIV secolo. Anche il riferimento a Seneca come a un'auctoritas del "tragico", considerato finora problematico, si rivela topico quando lo si ritrova in un accessus a Lucano del XlI secolo. L'effetto principale della prospettiva tradizionalista dell'Epistola è quello di far retrocedere la Commedia sullo stesso piano di un qualunque altro testo in volgare dotato di una struttura narrativa "comica" convenzionale. Tale prospettiva esegetica non sembra adattarsi a un poema che si distingue per la sua unicità e che dedica notevoli energie allo sviluppo di un sistema metaletterario altamente personale - anche se costituito da elementi tradizionali - al fine di giustificare e palesare la propria novitas in campo letterario.
Né si può dire che il decimo paragrafo si distingua veramente dal resto della struttura interpretativa dedicata a spiegare i tratti letterari del poema, la quale è sostanzialmente altrettanto conservatrice. In poche parole, un confronto anche sommario dell'Epistola a Cangrande con qualunque altro testo esegetico medievale dimostra che si tratta di un commentarium non molto diverso da tanti altri. È, in realtà, uno dei meno interessanti tra i commenti trecenteschi a Dante, ed è probabilmente per questo che anche i più convinti sostenitori della sua autenticità non sono riusciti a trovare tracce rilevanti di una possibile influenza della lettera su altri commentatori del secolo. Prima che l'epistola fosse associata al nome di Dante, probabilmente intorno alla fine del Trecento, essa aveva suscitato, non senza motivo, scarso interesse. Soltanto le generazioni successive hanno teso a esaltarne la portata ideologica; e tuttavia, anche la spesso decantata discussione dell'allegoria (§§ 7-8), unica prova, secondo molti critici, che dimostri che la Commedia fa ricorso all’”allegoria dei teologi”, è non affatto così notevole come solitamente si ritiene.
È merito di Alastair Minnis se i paragrafi 7 e 8, la trattazione della Bibbia e delle allegorie della Commedia sono stati ricollocati nel giusto contesto storico. Lo studioso ha dimostrato che essi, lungi dall'essere originali, sono al contrario riconducibili ad una tendenza più generale, che affonda le sue radici nel XII secolo, a combinare le forme esegetiche secolari con quelle legate all'interpretazione della Sacra Scrittura. Non era certo raro che un commento su un autore laico contenesse elementi tratti dall'ermeneutica biblica. Inoltre, «it seems clear [ ... ] that the issue of the relevance of the fourfold method of interpretation in analysing "new" and/or secular poetry was, in the main, a matter of great interest only to Italian intellectuals». Dunque, il fatto che nel Trecento alcuni dei commentatori di Dante, analizzando la Commedia trattino della "teologia allegorica" non costituisce necessariamente una prova dell'influenza esercitata dall'Epistola. Essi non facevano altro che adeguarsi ad un luogo comune culturale, parte a sua volta del più ampio dibattito sul rapporto tra poesia e teologia, argomento centrale delle discussioni letterarie dell'Italia trecentesca e strettamente associato al nome di Dante.
Il contributo apportato dall'Epistola a queste disputationes fu piuttosto limitato. L'esplicita descrizione dell'allegoria della Commedia del paragrafo 8 è alquanto piatta e manca cli qualunque risonanza biblica:
“Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est».
Minnis scrive giustamente:
«That sounds very much like a moral or tropological interpretation in Dante's characters are taken as exempla of what to do which and what to avoid; such a reading proceeds by generalizing ethical precepts from the specifics of the Iiteral sense rather than by subverting it. This impression is confirmed by the subsequent classifìcation of the text under ethics: ["Genus vero phylosophie sub quo hic [ ... ] proceditur, est morale negotiurn, sive ethica” (§ 16). Ethicae supponitur: the formula is familiar from the accessus ad auctores. In the final analysis, then, the author of the Can Grande epistle does not seem to be going very far beyond the "allegory of poets” [ ... ] which type of allegory had a definite moral intent. That is to say, he is reducing the spiritual senses to one, namely the moral or tropological sense, perhaps under the influence of the relatively uniform and essentially moral allegory which medieval commentators were used to extracting from classical literature».
In questa prospettiva, l'identificazione tra l'analisi dell'"allegoria dei teologi" del paragrafo 7 e la specifica definizione dell'allegoria della Commedia che appare nel paragrafo successivo risulta tutt'altro che ovvia. Un ulteriore aspetto problematico è rappresentato dal fatto che la stessa riduttiva definizione viene usata anche nel paragrafo 11, e poi ancora ribadita alcune righe più avanti, quando l'autore spiega l'allegoria del Paradiso: «manifestum est in hac parte hoc subiectum contrahi, et est homo prout merendo obnoxius est iustitie premiandi» (§ 11). Esattamente come per il genus della Commedia, l'analisi dell'allegoria del poema si basa su una metodologia del tutto convenzionale e promuove un messaggio uniformante. Definire, nel XIV secolo, la Commedia come un'opera etica significava ridurla al più basso dei denominatori comuni. Secondo quasi tutte le correnti critiche dell'epoca, etica e letteratura erano pressoché inseparabili.
Risulta tuttavia chiaro che, in opposizione a quanto si afferma nel paragrafo 8 e più in accordo con l'interpretazione dell'allegoria fornita nel paragrafo precedente, nella Commedia Dante rivendica alcune somiglianze tra il poema e la "lettera" biblica. Ciò è confermato particolarmente dal legame privilegiato che il poeta volle stabilire tra la sua opera e la Sacra Scrittura, oltre che dal riconoscimento di Dio come il vero auctor tanto del viaggio provvidenziale quanto del sacrato poema. Si può anche sostenere che Inferno I, il quale convenzionalmente funge da prologo dell'intero poema, sia stato organizzato in modo tale da evidenziare la dipendenza della Commedia dalle strutture dell’”allegoria teologica”. L'Epistola, perciò, non è affatto, come è stato spesso affermato, l'unico documento che giustifichi una lettura del poema secondo le convenzioni della quadruplice allegoria scritturale; e sarebbe, d'altra parte, cosa del tutto assurda se così fosse. Anche accettando la più anteriore delle possibili date di composizione della lettera (1315 ca.), e accogliendo l'ipotesi che essa dichiari che la Commedia deve essere letta in base alle convenzioni dell'"allegoria dei teologi", le prime due cantiche sarebbero comunque state scritte e messe in circolazione prima che potessero avvalersi del sostegno esegetico dell'Epistola. È ovvio, come ho già detto, che l'Inferno e il Purgatorio debbano perciò contenere indicazioni circa il proprio stato allegorico. In caso contrario, le due cantiche si presterebbero a errate interpretazioni; ed è quasi sicuro che Dante non avrebbe mai consentito che ciò accadesse.
Bisogna comunque dare atto all'autore dell'Epistola, senza però esagerare il fatto, dato il clima intellettuale contemporaneo, di avere forse intuito la vera natura allegorica del poema dantesco. Egli non solo introdusse il dibattito sull'"allegoria dei teologi'' all'interno del commento, ma fece luce su questa procedura ispirandosi a un evento biblico, l'Esodo, così caro a Dante da diventare comune della sua opera. Ciononostante, una volta terminata la breve lezione sull'allegoria del settimo paragrafo, il nostro "anonimo" non seppe, o non volle, trasformare la sua intuizione, se di intuizione si tratta, in una interpretazione diretta del poema. Il fatto che egli abbia chiamato in causa le strutture dell'esegesi "teologica" soltanto rispetto ad un testo biblico è estremamente significativo a questo proposito, e lo è ancora di più, quando si pensa che altri commentatori, ad esempio Guido da Pisa e Jacopo della Lana , non ebbero alcuna difficoltà ad illustrare la "quadruplice allegoria" mediante esempi tratti dal poema di Dante. L'autore della lettera, invece, posto di fronte alla Commedia, rientra velocemente nel sicuro territorio dominato dalle convenzioni di un'esegesi "moralizzante", relegando in ultima analisi il poema al rango delle belle menzogne. I segni di questo indietreggiamento sono emblematicamente impressi nelle due contrastanti definizioni del sensus del poema fornite dai paragrafi 7 e 8. Nella prima, in linea con il tenore biblico del testo, il significato della Commedia viene presentato, pur senza alcuna prova testuale, come "polisemico" («istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuurn»); ma, nel paragrafo successivo, il poema viene esplicitamente ridotto ad un sistema semantico binario («manifestum est quod duplex oportet esse subiectum, circa quod currant alterni sensus»), in accordo con l'allegoresi "poetica" che segue.
Tra i paragrafi 7 e 8 sembra esistere quantomeno una contraddizione. Nonostante ciò che ho affermato nel capoverso precedente di questo capitolo, sono convinto che l'autore della lettera si opponga all'idea che possa esistere un rapporto tra la Commedia e la Bibbia. Il modo più semplice di armonizzare i due paragrafi nel contesto dell'Epistola è quello di considerarli in opposizione tra loro. Il paragrafo 7 si presenta come un'introduzione generale («Ad evidentiam itaque dicendonun sciendum est»), la quale offre una prospettiva sull'intero raggio d'azione dell'allegoria; e, convenzionalmente, l'illustrazione si avvale dell'aiuto di un testo biblico, attraverso il quale vengono mostrati i processi dell'allegoria in factis. L'ottavo, al contrario, puntato specificamente sulla Commedia - come appare chiaro dal fatto che soltanto a questo punto del testo il poema viene considerato sotto una delle categorie dell'accessus -, esemplifica i processi dell'allegoria in verbis. Piuttosto che complementari, come sono stati normalmente interpretati, i due paragrafi sono in contrasto: la Bibbia e la Commedia, dunque, sono citate per esemplificare i due principali tipi di allegoria. Il trattamento tradizionale dell'allegoria presente nell'Epistola, la sua interpretazione della Commedia come fictio e la forma un po' confusa dell'esposizione sono caratteristiche che ricorrono anche in altre parti del testo. L'”anonimo” quasi sicuramente aveva un senso della contemporanea tendenza al riavvicinamento della scrittura religiosa e di quella secolare (di qui nascono le tensioni nell'esposizione), ma, al pari di altri intellettuali conservatori dell'epoca, egli preferì continuare a sostenere la più antica netta distinzione tra la "poesia" e la Bibbia. Dante, sempre ricettivo delle nuove idee, esplorò la potenziale interazione tra l’allegoria in factis e quella in verbis non soltanto nella Commedia, ma anche nella Vita nova e nel Conoioio. Anche considerando i paragrafi 7 e 8 come "manifesto" a sostegno della letteratura umana "teologizzante", le tensioni che esistono tra loro non possono passare inosservate, così come il fatto che Dante trattò la questione in modo sicuramente più efficace nelle tre opere in volgare.
Il resto dell'accessus della lettera (§§ 9-16) non fa che ribadire la stessa idea generale esposta nel paragrafo 8, ovvero che la Commedia è una comune finzione letteraria in forma di poema, portatrice di un utile messaggio morale. Ciò è già implicito nella presentazione del genus della Commedia che appare nell'Epistola. Riferimenti come quelli a Terenzio (di solito presentato come il maggiore poeta morale), alla struttura narrativa "comica" del poema o alla sua possibilità di raggiungere un vasto pubblico (basta ricordare l'allusione alle muliercule) indicano tutti la natura fittizia della Commedia e le sue ambizioni morali. Altrove, nella sezione centrale della lettera, queste caratteristiche sono illustrate apertamente. La descrizione della forma tractandi della Commedia esposta nel paragrafo 9 («Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transmptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probatìvus, improbativus, et exemplorurn positivus») appoggia la definizione allegorica moralizzante del poema proposta in altre sezioni dell'Epistola. I dieci modi specifici assegnati al testo dantesco rivelano chiaramente che la Commedia ha origini umane e non divine e che il suo stile è di matrice tradizionale, poiché essi la caratterizzano sinteti di «two kinds of mode, the "definitive, divisive and collective" mode of human science and those literary modes which were the stock-in-trade of poets both sacred and profane» . Usando una variatio sul subiectum allegorico del poema, l'Epistola dichiara che scopo della Commedia «est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» (§ 15). Essa attribuisce inoltre la paternità del poema interamente a Dante («Agens igitur [ ... ] est ille qui dictus est, et totaliter videtur esse»: § 14) e descrive il fine intellettuale dell'opera come "pratico" (un altro nesso con l'àmbito etico) e solo raramente come "speculativo" («quia non ad speculandum, sed ad opus inventum est»: § 16). Le due ultime definizioni, in accordo con l'interpretazione dei paragrafi 7 e 8 qui proposta, sono specificamente mirate a negare qualunque rapporto significativo tra la Commedia e il Verbo. In particolare, in netto contrasto con quanto Dante rivendica nel poema stesso, si intende negare che Dio possa aver partecipato alla scrittura della Commedia, e dunque che questa appartenga in modo diretto ai processi della salvezza umana (un atteggiamento piuttosto strano se si pensa che la lettera doveva accompagnare il Paradiso). Per il nostro anonimo autore la Commedia appartiene senza alcun dubbio alla vasta tradizione di "scritture" in cui è «lo senso allegorico secondo che per li poeti usato» (Conv. II I 2, 4).
Questa premeditata deminutio del grande poema di Dante si protrae nella particolareggiata esposizione della prima parte del prologo del Paradiso (§§ 22-30). Sebbene questa parte del commento non sia priva di raffinatezze filosofiche e teologiche (anche se la prospettiva spesso si discosta dal pensiero abituale di Dante), essa non rende certamente giustizia alla varietà connotativa delle prime quattro terzine della cantica. Sarebbe piuttosto strano se Dante avesse deliberatamente deciso di ridimensionare la portata intellettuale del Paradiso, specie alla luce del famoso ammonimento lanciato, in apertura del secondo canto (vv. 1-18), ai pochi lettori rimasti. Più in generale, l'interpretazione globale di Paradiso I 1-12 non sembra mai suggerire che l'esegeta stia seguendo le convenzioni dell'”allegoria dei teologi”.
Nell'Epistola si registra anche una tendenza a considerare il Paradiso come in qualche modo "diverso" dal resto del poema, mentre Dante intende presentare la Commedia come un'opera ideologicamente e stilisticamente unitaria. Il Paradiso viene definito una «sublimis cantica» (§ 3); il che implica necessariamente che il Purgatorio non lo siano altrettanto («Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi»). Sublimis non è qui un epiteto generico riferito al soggetto del Paradiso, come comunemente si ritiene; si tratta invece di un preciso termine tecnico. Come dimostra lo stesso autore della lettera, il "sublime" era spesso associato con lo "stile alto" del "tragico" («Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia: comedia vero remisse et humiliter»: § 10); tuttavia, in base all’esegesi della lettera, è difficile immaginare come una commedia possa essere considerata "sublime". Questa è soltanto una delle discrepanze esegetiche che sembrano caratterizzare la struttura ermeneutica della lettera. L'Epistola insiste sulle qualità "tragiche" del Paradiso («Cum ergo materia circa quam versatur presens tractatus sit admirabilis, et propterea ad admirabile reducencla» e «admirahilitatem tangit, cum promittit se tam ardua tam sublimia dicere scilicet cpnditiones regni celesti»: § 19); e anche admirabilis era un termine tecnico retorico usato per descrivere lo "stile tragico" («tragedia in principio est admirabilis»: § 10). È questo il consueto tipo di definizione "stilistica" che ci si aspetta da un lector del Trecento messo a confronto con un soggetto religioso. Inoltre, è indicativo il fatto che, nella Commedia, Dante non abbia mai usato il termine sublimis, con tutte le sue connotazioni selettive, per definire il poema nella sua totalità o il Paradiso in particolare.
L'aspetto forse più sorprendente delle procedure esegetiche dell'Epistola è la traduzione in latino della poesia in volgare della Commedia. Considerando l'attaccamento dimostrato dal poeta per il vulgaris italiano, mi riesce difficile immaginare che egli abbia potuto decidere di trasformare quest'ultimo in un'altra lingua; e il latino mi pare la scelta comunque meno probabile, data la fondamentale opposizione che Dante istituì tra italiano e grammatica. Una scelta di questo tipo si sarebbe rivelata in opposizione alla difesa della lingua della Commedia attuata dal poeta nelle Egloghe. Tradurre il poema in latino significava approvare l'attacco portato da Giovanni del Virgilio:
tanta quid heu semper iactabis seria vulgo, et nos pallentes nichil ex te vate legemus? Ante quidem cythara pandum delphyna movebis Davus et ambigue Sphyngos problemata solvet, Tartareum preceps quam gens ydiota figuret et secreta poli vix experata Fiatoni: que tamen in triviis mmquam digesta coaxat comicomus nebule, qui Flaccum pelleret orbe. "Non loquor his, yrno studio callentibus", iniquis. Carmine sed laico: clarus vulgaria tempnit, et si non varient, cum sint ydiomata mille (Ecl. I 6-16).
Anche l'autore della lettera rimase sconcertato dall'uso che Dante fece del volgare e, traducendo la Commedia in latino, egli, convenzionalmente, cercava di associarne il soggetto "sublime" ad una lingua appropriata. Il nostro commentatore sconosciuto rivela qui, come d'altra parte in tutto il testo, tratti tipici della cultura cui appartiene. Com'è noto, un'altra delle questioni critiche più dibattute nel Trecento verteva intorno allo status del latino e del volgare, e alla natura del loro rapporto; e il linguaggio della Commedia costituiva uno dei temi chiave del dibattito. Si tentava in tutti i modi di giustificare i gusti linguistici di Dante, rivendicando, allo stesso tempo, la superiorità del latino. Come ormai ci aspettavamo, anche su questo versante l'Epistola esibisce il proprio conservatorismo ideologico, sopprimendo il volgare della Commedia a favore del latino.
La radicalità delle differenze che separano Dante dalla forma mentis dell'anonimo autore della lettera è notevole; altrettanto profonde sono le divergenze tra le loro due interpretazioni della Commedia. L'Epistola a Cangrande è un commento conservatore che rivela un'ottica estremamente limitata non soltanto sul poema dantesco, ma anche rispetto alla letteratura in senso lato. Tali sono le imitazioni metodologiche ed esegetiche del testo da far sorgere il dubbio che esso non sia neppure scaturito dalla penna di un grammaticus. Dal documento si evince che gli studi filosofici e teologici costituivano indubbiamente le aree di competenza dell'autore. La sua fragilità di commentarium letterario sembra sgretolare il vecchio adagio secondo cui soltanto Dante avrebbe potuto esserne l'autore. In realtà, i sostenitori dell'autenticità della lettera hanno dovuto ricorrere ai più svariati equilibrismi critici per potergliene assegnare la paternità. Nella situazione attuale la conclusione filologica più “economica" - per usare l'espressione di Contini - cui si possa pervenire è che si tratti di un falso; qualunque altra soluzione del caso conduce a una miriade di problemi, contraddizioni e complicazioni. Affermare che la lettera è opera di Dante implica prima di tutto spiegare perché il poeta abbia deciso di produrre un commento così negativo e riduttivo. Esso si pone in violento conflitto non soltanto con le pratiche letterarie e metaletterarie della Commedia, ma anche con quelle delle altre opere autoesegetiche di Dante, come la Vita nova, il Convivio e le Egloghe. Opporsi all'origine dantesca dell'Epistola significa, a mio parere, rendere al poeta un modesto servizio.