Dati bibliografici
Autore: Rosa Affatato
Tratto da: Critica Letteraria
Numero: 43
Anno: 2015
Pagine: 563-583
La cosiddetta “legge del contrapasso” è stata finora oggetto di moltissimi studi, ma tra tutti gli interventi ci sembra utile, negli ultimi anni, quello di Davide Bolognesi , il quale spiega l’origine del concetto di contrapassum nel contesto filosofico e giuridico già noto ad Aristotele che affronta il tema nel capitolo V dell’Etica Nicomachea. Il filosofo esamina qui i diversi tipi di giustizia, ricollegando il concetto di contrapassum anche all'ambito economico dello scambio, spiegando che «le cose di cui v'è scambio [in questo caso, pena e delitto] devono essere in qualche modo commensurabili. A questo scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da termine medio» . Tra pena e colpa deve esistere dunque un termine medio che possa valutarlo: questo è il contrapasso, cioè la moneta che determina il “pagamento” della colpa. Tale concetto, entrando nella riflessione teologica medievale, viene identificato con la giustizia divina, contribuendo, secondo Bolognesi, a un appiattimento del concetto di contrapasso sulla lex talionis che viene citata a tal proposito ancora dai commenti del XX secolo. Non affronteremo comunque in questa sede tutte le possibili implicazioni di tale concetto, per le quali si rimanda ad altro lavoro , ma diremo solamente che dall'analisi dei commenti antichi risulta che il concetto di pena del taglione, in riferimento quindi alla legge omonima, appare per la prima volta in Cristoforo Landino nel suo commento del 1481, in un contesto culturale e mentale dunque già molto lontano da quello dantesco e trecentesco.
Non si tratta quindi tanto di una legge, ma di una relazione tra le azioni della vita terrena e quelle della vita ultraterrena come prolungamento delle azioni della vita del peccatore valutate in base a una logica di scambio.
Il contrapasso nella seconda cantica, oggetto del presente intervento, ricalca il principio della relazione tra colpa e pena che vige per l’Inferno ma assume sfumature diverse arricchendosi dell'elemento delle preghiere dei vivi a favore delle anime purganti e dell'efficacia di tali preghiere nel contesto dell’immutabilità della giustizia divina rispetto alla pena da scontare nel purgatorio. Come sappiamo, tale argomento viene affrontato da Virgilio in Pg VI, vv. 34-42 in cui egli spiega a Dante che l'accettazione delle preghiere da parte di Dio non ne cambia la decisione: «cima di giudizio non s’avvalla» (Pg VI, v. 37). Tale concetto teologico è in stretta relazione con quello sulla giustizia di Dio legata alla conoscenza morale che è l'oggetto del discorso di Beatrice a Dante nel paradiso terrestre (cfr. Pg XXXIII, vv. 67-72), in cui alcuni commentatori individuano il sistema di conoscenza dell’allegoria. Un altro elemento da prendere in considerazione è il fatto che in alcuni passaggi del Purgatorio diversi commentatori mettono in relazione il peccato non con la pena ma con un altro elemento, nuovo rispetto al contrapasso dell'Inferno, e cioè il canto liturgico che le anime intonano nelle varie cornici, tra i quali commenteremo, secondo gli esempi forniti da Chiara Cappuccio, i canti intonati nella cornice dei golosi e dei lussuriosi.
Bisogna innanzitutto notare in che modo i primi commentatori del Purgatorio spieghino l'ulteriore elemento, cioè la possibilità di alleviare le pene grazie alle «orazioni di devoti li quali seranno in grazia», come dicono Iacomo della Lana, il primo commentatore dell'intera Commedia (1324-28) e in modo praticamente identico il notaio Andrea Lancia, da più parti riconosciuto autore della prima redazione dell’Ottimo commento (1333), commentando la domanda di Dante a Virgilio in Pg VI, vv. 28-30: «El par che tu mi nieghi [...] / che decreto del ciel orazion pieghi». I commenti spiegano che la pena è sempre dovuta per il peccato, ma nel purgatorio tale pena può essere ridotta o cancellata grazie alle preghiere di chi è ancora sulla terra senza che per questo sia scalfita la giustizia divina, in quanto, interpretando Aristotele, la decisione divina rappresenta la causa prima e le orazioni le cause seconde che «agiungeno alla prima, o remuoveno senza romper ordine naturale»:
[...]è da immaginare la Providenza divina siccome si immagina la prima cagione, e la orazione degna siccome le seconde cagioni in lo natural corso. Or sì come le seconde cagioni agiungeno alla prima, o remuoveno senza romper ordine naturale, [...] l’effetto della colpa, cioè la pena, si rimoverà .
Addirittura, se le preghiere non fossero accettate, allora sì che s’infrangerebbe la decisione divina: «E non che la Provedenza sia però mobile e rotta, ma s’ella non essaudisse l’orazione in quello sarebbe ella franta, sì che chiaro appare che per orazione s’alleviano le pene di quelle del purgatorio, e non è però la Provedenza di Dio rotta né franta» .
Commentando la risposta di Virgilio in Pg VI, vv. 37-39 «che cima di giudizio non s’avvalla / perché foco d'amor compia in un punto / ciò che de’ sodisfar chi qui si stalla», l’Anonimo Lombardo (1325) aggiunge e chiarisce che «ex precibus seu elemosinis aut aliis bonis que fiant per viventes in remedium et pro salute animarum, velociter ipsarum animarum gloria adipiscitur, non ideo corumpitur iudicium divinum, quia viventes solvere debita mortuorum suorum tenentur» . I vivi sono tenuti a «solvere debita mortuorum suorum», ma la pena continua a esistere e la relazione con la colpa si basa come vedremo sulle stesse modalità del contrapasso dell'Inferno. La vera differenza tra l'attribuzione delle pene nei due regni sta dunque nel fatto che nel purgatorio esse possono essere “divise” tra viventi e purganti. Le Chiose Ambrosiane (1355) spiegano infatti il concetto di redenzione definendo il purgatorio come luogo “superiore” rispetto all'inferno, chiamato “inferno inferiore”, dove non c'è possibilità di redimersi, mentre il purgatorio sarebbe dunque un “inferno superiore”: «in inferno inferiori nulla est redemptio» . Tale differenza allude forse in realtà al “fuoco purgatorio” che è simile a quello dell'inferno ma qui serve per la purgazione, come ha chiarito J. Le Goff: «Alla fine del secolo XII e all’inizio del XIII purgatorium e ignis purgatorius coesistono quasi come sinonimi» . Si tratta dunque di un movimento ultraterreno della stessa natura di quello che sulla terra compiono i pellegrini; un movimento di natura teleologica verso un luogo che fino al XII sec. non è ancora ben definito — «il Purgatorio come luogo nascerà solo alla fine [del secolo]» — ma che indica una redenzione in fieri, che nell'inferno non può esistere e che nel paradiso i beati hanno già ottenuto. Essendo esso stesso un non-luogo in divenire, anche la pena è “mobile”, può cioè essere abbreviata o cancellata grazie al contributo dei vivi, pur senza modificarne la corrispondenza con il peccato. Non è da dimenticare infatti che l’identificazione del purgatorio come luogo intermedio tra inferno e paradiso è da far risalire a non molto tempo prima della nascita di Dante, tra il 1170 e il 1220 circa, come afferma ancora Le Goff :
L’idea di mobilità è infatti ben familiare all’uomo medievale per il quale «la mobilità [...] è stata estrema, sconcertante [...]. L'emigrazione del contadino, individuale o collettiva, è uno dei grandi fenomeni della demografia e della società medievali. Sulle strade cavalieri e contadini incrociano chierici in viaggio regolare o in rotta con il convento [...] studenti in cammino verso scuole o università celebri [...] pellegrini, vagabondi di ogni genere» .
Dal punto di vista degli insegnamenti della Chiesa inoltre, continua Le Goff, «su questa terra di esilio l’uomo non è altro che un pellegrino perpetuo», fino a dire che «tutto un Medioevo viaggiante pullula e si ritrova a ogni istante nell’iconografia. Lo strumento, presto divenuto simbolico, di questi erranti, è il bastone, il bastone a forma di tau appoggiati al quale camminano, curvi, l’'eremita, il pellegrino, il mendicante, il malato» .
È dunque proprio il purgatorio il luogo nel quale la società medievale si riconosce maggiormente in quanto terreno di «riconquista dell’umano» , come spiegano U. Bosco e G. Reggio nella loro introduzione a Pg I. Significa cioè che il mondo ultraterreno si andava adeguando a quello umano e che tale avvicinamento non poteva che favorire l'approssimarsi della scienza divina all'uomo comune, e la giustizia divina a quella umana.
Non è un caso che anche Benvenuto da Imola, nella seconda metà del Trecento (1375), preferisca sottolineare nel VI canto del Purgatorio il concetto di redenzione (e il conseguente annullamento della pena) operante attraverso le preghiere terrene rispetto all'immutabilità dell'inferno, come aveva fatto già Iacomo della Lana; ma in cambio evidenzia anche il carattere di immutabilità del giudizio divino. Se da una parte infatti «ardor caritatis alicuius juste precantis, compia in un punto, idest, perficiat in momento, ciò che dee satisfar, scilicet, per longum tempus, chi qui s’astalla, idest, ille qui hic stat» , dall'altra «in inferno, [...] homo non debet sperare posse flectere judicium Dei a precibus, perchè ‘l prego da Dio era disgiunto, quia, scilicet in inferno [...] nulla est redemptio; [...] quia sic statutum erat, ne aliquis salvaretur donec veniret Salvator» .
Questi commentatori si soffermano sul concetto di redenzione senza sottolineare quello di relazione colpa-pena e in fin dei conti di contrapasso; ma nell’evidenziare la “disgiunzione” della preghiera da Dio nell'inferno essi sottolineano la componente umana del cambiamento che incide anche sulla giustizia divina — non sul giudizio — in questa “terra di mezzo” che è il purgatorio, in cui la giustizia non è più immutabile come nell'inferno e anche il contrapasso viene “smorzato” dalla preghiera dei vivi sulla terra. In fin dei conti si dà valore all'elemento tutto terreno, che si riprenderà più avanti, della “voce del pregatore” e della voce delle anime purganti nei loro canti. Bisogna arrivare a fine Trecento, a Francesco da Buti (1385-95), che riprendendo esplicitamente il nesso tra pena e giustizia divina dice che «la pena debita al peccato per ragione di iustizia non si manca» per ritrovare il riferimento a colpa, condanna e pena proprio, come si è visto in Aristotele, del concetto di contrapasso. Nel nuovo secolo lo si rintraccerà ancora in vari commentatori, primo tra tutti l’Anonimo Fiorentino (1400) che, commentando il concetto teologico dell’immutabilità del giudizio divino, propone un paragone concreto con la giustizia umana riprendendo la nozione di merito e di scambio già vista in Aristotele:
La voce del pregatore può essere di tanto merito et tanta accetta a Dio, che paga la pena et il tempo che colui ha a stare in purgatorio per cui egli priega: tutto a simile come uno che fosse in prigione per cento lire, un altro che le pagasse uscirebbe il buon uomo di prigione, et la sentenzia del giudice non si romperebbe, avvegna Iddio che ‘l condennato non pagasse, e gli fosse pure un altro che pagassi per lui. Così il giudicio di Dio non si china, la sentenzia di Dio non si piega, se ‘l prego del giusto uomo è di tanto peso che aggravi più la bilancia che la colpa commessa dal peccatore .
L'idea di merito qui è trattata in modo molto ampio, corrispondendo non solo alle opere del defunto o a quelle del “pregatore”, ma anche alla “voce” di quest’ultimo che «paga la pena per il tempo che colui [il defunto] ha a stare in purgatorio». L'idea della voce che “paga” funge qui da chiave per comprendere il terzo elemento del contrapasso, di cui si è già parlato inizialmente, e cioè il canto liturgico nel Purgatorio dantesco, che però analizzeremo più avanti.
La nozione di merito è ripresa a fine Quattrocento da Cristoforo Landino (1481) ma in senso più restrittivo, cioè nel modo aristotelico che pone il merito in relazione alla pena e al peccato:
O vogliamo dire, che Idio ab etherno conosce chi pecca, et quanto tal peccato merita punirsi [...]. Et questo è secondo el Maestro delle sententie per le buone opere, che l’anima, che è in purgatorio, fece in vita, le quali hanno meritato, che tali prieghi gli vaglino .
Per il cancelliere fiorentino le preghiere dei vivi hanno effetto di diminuire o annullare la pena solo se l’anima purgante ha compiuto in vita delle buone opere, cioè se ha meritato la redenzione così come ha meritato la pena. Il concetto di causa nel contrapasso è dunque qui più evidente, in quanto la pena legata al peccato può mutare solo se a monte, cioè nella vita dell'anima purgante, ci sono state buone opere che insieme alle preghiere dei vivi ne possano causare la “validità” per la trasformazione o l'annullamento della pena.
Ora, per poter capire il contrapasso non solo come teoria del merito e della corrispondenza colpa-pena ma anche come sua visualizzazione allegorica nel Purgatorio, dobbiamo riallacciarci al metodo dell’allegoria analitica che spiega come
[...] la rappresentazione immaginaria (visiva ma anche sonora) non è soltanto un mezzo di rappresentazione iconica, ma piuttosto un mezzo di analisi iconica del concetto, dell'idea, che viene sminuzzato in concetti minori che lo spiegano, e, in questo modo, l'immaginazione diventa un modo di conoscenza [...] .
È attraverso tale metodo che proponiamo di leggere insieme con i commenti antichi il discorso di Beatrice nell'ultimo canto del Purgatorio sulla giustizia divina (e quindi sul contrapasso) e l'intelligenza di questa da parte di Dante:
E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ‘l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
Ma perch' io veggio te ne lo ‘ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto.
(Pg XXXIII, vv. 67-78)
Qui il discorso sulla giustizia divina fa tutt'uno con l'intelligenza di essa, manifestata dall’allegoria dell'albero della conoscenza. Sono infatti «li pensier vani intorno a la tua mente, / e ‘l piacer loro» che hanno distolto il pellegrino dalla meta del suo viaggio, per cui la sua conoscenza era terrena e limitata. Ora Beatrice da una parte lo rimprovera ma dall'altra gli fornisce il tassello mancante, la spiegazione dell’allegoria della conoscenza morale proprio sulla cima della montagna del purgatorio, il regno più simile alla terra, dopo la scalata del quale Dante ha sperimentato sulla propria pelle la giustizia divina con la cancellazione delle sette P dalla sua fronte.
Un’allusione alla conoscenza allegorica come meta del viaggio nel Purgatorio si trova nella terza redazione del Comentum di Pietro Alighieri (1359-64): la mancata conoscenza morale da parte di Dante «huius supradicte arboris scientie boni et mali», che si trova sulla cima del Purgatorio, alla fine del viaggio nel secondo regno, mostra che «nedum ad licteram intelligenda est, sed etiam ad moralitatem et allegoriam»:
Post hec auctor, volens adhuc instare circa tractatum huius supradicte arboris scientie boni et mali, ut ostendat quod nedum ad licteram intelligenda est, sed etiam ad moralitatem et allegoriam, inducit Beatricem hic ad dicendum? .
Non è tutto: la mancata conoscenza allegorica è conseguenza del peccato originale, cioè dell’errato soddisfacimento dell’appetitum comodi da parte di Adamo. Tale peccato incorpora tutti gli altri e anche tutte le pene infernali, che possono essere ricondotte a un'unica pena, un unico contrapasso per contrario: «hec erit maxima impiorum pena in Inferno quia semper appetent comodum et nunquam adsequi poterunt» . L'uso dei tempi futuri — erint e poterunt — sottolinea l'eternità della maxima pena infernale di non poter mai, in eterno, raggiungere il soddisfacimento del desiderio smodato. La misura del desiderio è infatti la giustizia: «cum iustitia sit mensura in appetitu comodi», il peccato originale è dato dal fatto che «primus homo comodum appetiit ultra mensura, scilicet esse sicut Deus, iusti appetitum deseruit, et in hoc peccavit, quia iustitiam deseruit» . L'appetitum comodi non è dunque in sé un peccato, ma lo è il suo desiderio smodato, che in Adamo si riflette nell’«esse sicut Deus», cioè il peccato più grave, quello della superbia. Pietro richiama in questa glossa il concetto aristotelico di misura nella giustizia mettendolo in relazione, grazie alla sua formazione giuridica, con la desertio iustitie e con l'albero della conoscenza del bene e del male come nessun altro commentatore ha fatto. Spiega Francesco da Buti, riprendendo il concetto meritocratico legato a quello di contrapasso, che Dio ha voluto tutto ciò perché l’uomo conoscesse «lo bene de la iustizia» e «sapesse e potesse per merito guardare e lo promesso meritare, come dimanda la iustizia». Se gli avesse dato la conoscenza “infusa” l’uomo non avrebbe infatti compreso «lo bene de la iustizia»:
Et acciò che l’omo lo bene corporale che li avea dato sapesse e potesse per merito guardare e lo promesso meritare, come dimanda la iustizia, in de la creazione diede a l’omo la ragione acciò che cognoscesse lo bene e lo male, e diedeli la libertà de l’arbitrio acciò che per quella, sottomessa a l’obedienzia, potesse meritare [...] Arebbe potuto Iddio, se avesse volsuto, darli di grazia l’uno bene e l’altro [scil. “lo temporale” e “il premio”]; ma non serebbe stata iustizia; ma grazia; e cusì lo bene de la iustizia non serebbe stato comunicato a l’omo .
Le parole di Beatrice in Pg XXXIII, v. 72 «conosceresti a l’arbor moralmente» si possono benissimo riferire a quanto spiegava Pietro Alighieri, cioè al fatto che la conoscenza «nedum ad licteram intelligenda est, sed etiam ad moralitatem et allegoriam». Dunque il primo peccato, cioè voler essere come Dio, riguarda la conoscenza: allegorica, che è quella divina, in quanto tutto il mondo è un'immagine divina, un’allegoria; ma, di conseguenza, anche morale. Landino riprende tale concetto spiegando come proprio il purgatorio sia il luogo della conoscenza dell’allegoria, dato che essa viene intesa solo dall'anima purgata:
Non obstante che noi habbiano la mente infecta in forma che studiando le chose sacre non le possiamo intendere, perchè “in animam malivolam non introibit spiritus sapientie”, nientedimeno dobbiamo leggere le chose sacre, et intendere le parole, perché dipoi purgandoci intenderemo el senso allegorico .
Dunque il contrapasso nel Purgatorio riguarda non tanto la relazione tra colpa e pena ma la misura della giustizia intesa come conoscenza del bene e del male riservata soltanto a Dio. Intendere il senso allegorico corrisponde quindi a possedere la conoscenza divina, mentre il senso letterale corrisponde alla conoscenza umana. Al grado di conoscenza allegorico l’uomo, secondo quanto riporta Landino, arriverà quando sarà purgato, cioè degno di salire al paradiso; è infatti la cima del purgatorio, cioè il paradiso nel suo grado “terrestre”, il luogo in cui si può conoscere Dio come lo aveva conosciuto Adamo prima del peccato originale, secondo quanto racconta il libro biblico del Genesi.
Non ci stupisce dunque Beatrice che in Pg XXXIII, vv. 76-78 a proposito del «lume del mio detto» incita Dante: «Voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, / che ‘l te ne porti dentro a te, per quello / che si reca il bordon di palma cinto». L'allusione al pellegrinaggio di ritorno dalla Terra santa con il bordone ornato di palme equivale certamente al viaggio dantesco nei tre regni, ma più precisamente al viaggio purgatoriale che egli ha appena terminato e dal quale potrà ritornare nel mondo terreno (e quindi ritornare a un altro viaggio, visto che la vita stessa è un viaggio perpetuo, come spiega Le Goff) portando «se non scritto, almen dipinto» nell’intelletto la palma, cioè il «lume del mio detto». Secondo questo schema di analisi dell’allegoria, l'intelletto equivale al bordone che sostiene il pellegrino nel suo viaggio, mentre il «lume del mio detto» non è altro che la spiegazione delle allegorie, come confermeranno i commentatori successivi, e che equivale alla palma che cinge il bordone del pellegrino di ritorno dalla Terra santa come segnale di raggiungimento della fine del viaggio, del movimento teleologico non solo materiale ma anche mentale della conoscenza. Dante può cioè salire al paradiso conoscendo le allegorie, con l'intelletto cinto dalla luce delle parole di Beatrice e non più dei «pensier vani» che gli hanno impedito di conoscere la giustizia di Dio, cioè il significato morale dell'albero.
Un ulteriore elemento che nel Purgatorio spiega il contrapasso — come ha già evidenziato Chiara Cappuccio — è il contenuto dei testi delle salmodie che le anime di volta in volta cantano nelle diverse cornici:
[Dante] [...] riconosce immediatamente la qualità delle colpe e delle pene delle singole cornici grazie al contenuto semantico del testo melodico. [...] A sorreggere l’impalcatura melodica del Purgatorio ritroviamo, così, il parametro compositivo del contrapasso — già conosciuto dal protagonista durante il suo viaggio infernale ed a lui rivelatosi come principio organizzatore .
Dunque nel Purgatorio alla corrispondenza colpa-pena si aggiunge il parametro musicale che ne rende più esplicita la relazione allegorica:
I golosi, per esempio, vengono immediatamente descritti dal risuonare del XVII versetto del famoso salmo 50, il Miserere, che recita: Labia mea Domine. Gli avari, dall’intonazione del XXV versetto del salmo 118 — Beati immaculati in via, qui ambulant in lege domini — che recita Adhaesit pavimento anima mea. I lussuriosi dal celebre inno Summae Deus clementiae. [...] Nel caso dei golosi, per esempio, il versetto 17 del Miserere colloca in posizione incipitaria il termine /abia: la bocca, come sottolinea già Benvenuto da Imola, che nella vita aveva determinato la perdizione di queste anime, serve ora per intonare le lodi del creatore .
Potremmo dire a questo punto che la percezione reale del contrapasso da parte dei commentatori si ha proprio nel Purgatorio, laddove nell’Inferno i primi commenti non sempre avevano sottolineato — o inteso — la presenza del «principio organizzatore» di cui parla Chiara Cappuccio.
Spiega infatti Iacomo della Lana a questo proposito, già prima di Benvenuto da Imola, come ai pianti e ai lamenti delle anime nel purgatorio corrispondano i canti, che manifestano «la giustizia di Dio che purga per contrario del vizio»:
Labia mea: Deeseli intendere innanzi: arida sunt, imperquello che, sicome è detto, la giustizia di Dio purga per contrario del vizio, lo vizio della gola vuole sempre avere le labbra asperse dell’umido nutritivo, sichè per contrario la giustizia le fa sempre secche e aride fino che è satisfatta .
Facciamo notare che il verbo arida sunt riportato da Iacomo della Lana a continuazione dell’incipit del verso Labia, mea, Domine non si trova però nel salmo 50; quindi probabilmente è stato citato a memoria, oppure il commentatore ha semplicemente riportato una sua interpretazione del canto delle anime, forse anche senza riconoscere il salmo. Il versetto biblico completo viene invece citato dai commentatori successivi come Benvenuto da Imola:
Labia mea, Domine, idest, illud dictum propheticum quod ad omnes laudes divinas decantatur, scilicet, Domine labia mea aperies et os meum annuntiabit laudem tuam. Quae oratio optime competit gulosis istis, quasi dicant: Labia et os quae exercui multum et saepe ad manducandum et bibendum, nunc, o Deus, aperi ad laudandum et glorificandum nomen tuum cum tanto studio et maiori .
Successivamente è Francesco da Buti a rilevare esplicitamente tale relazione allegorica, spiegando come pianto e canto fossero l’uno la dimostrazione della contrizione del peccato e l’altro il riconoscimento della grazia divina e del pentimento:
lo pianto dimostrava la contrizione del peccato, e lo canto significava lo ricognoscimento de la grazia che aveano ricevuta da Dio, che del loro peccato s'erano pentuti; et ecco che dimostra quel che cantavano: Labia mea, Domine; ecco quello che cantavano; cioè: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, per ristoro che nel mondo aveano aperto le labbra et operato la bocca al peccato de la gola .
lo pianto dimostrava la contrizione del peccato, e lo canto significava lo ricognoscimento de la grazia che aveano ricevuta da Dio, che del loro peccato s'erano pentuti; et ecco che dimostra quel che cantavano: Labia mea, Domine; ecco quello che cantavano; cioè: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam, per ristoro che nel mondo aveano aperto le labbra et operato la bocca al peccato de la gola .
Francesco da Buti soggiunge che tale salmodia dovrebbe servire «per emenda de la gola» anche di chi è ancora vivo, o per evitare la pena dopo la morte, o a mo' di preghiera per le anime purganti: «E di quelli del mondo intende allegoricamente che debbiano così dire per emenda de la gola, e così operare la bocca a la loda di Dio».
Anche l’Anonimo Fiorentino, ormai nel 1400, che aveva affrontato l'argomento già in If XXVIII sottolineando la differenza esistente tra giustizia e contrapasso, evidenzia esplicitamente nel Purgatorio la relazione tra colpa e pena attraverso il contenuto delle salmodie cantate dalle anime:
Labia mea Domine aperies; et os meum annuntiabit laudem. Cantavono questo Salmo, con ciò sia cosa che le labbra peccassono, che non s'apersono secondo la volontà et comandamento di Dio sobriamente; ma secondo la loro volontà, seguitando l'appetito del gusto .
La salmodia fa dunque da termine medio per la spiegazione dell’allegoria della pena riservata alle anime, termine che nell'Inferno i commentatori antichi hanno ricercato a partire dalla comparazione filologica con testi classici e cristiani. Qui invece Dante fornisce un elemento, un indizio in più per l’interpretazione allegorica attraverso la citazione esplicita del salmo che le anime cantano in ciascuna cornice. Non solo, ma le voci cantanti delle anime sono a nostro avviso un ulteriore contrapasso della “voce” dei vivi oranti di cui parlava lo stesso Anonimo che arrivava a essere un contrapasso tra morti e vivi; un merito non tanto dei morti, quanto dei vivi: «La voce del pregatore può essere di tanto merito et tanta accetta a Dio, che paga la pena» . La voce gradita dei vivi corrisponde a quella altrettanto gradita delle anime che in vari inni spiegano l’allegoria della loro pena, come quella dei lussuriosi in Pg XXV. Chiara Cappuccio spiega che
I lussuriosi, nell'ultima delle sette cornici purgatoriali, intonano un inno il cui incipit non sembra esplicitare il rapporto di contrapasso con la pena, Summae Deus clementiae. Il testo dell'inno citato, invece, è un'invocazione alle fiamme affinché brucino i lombi e il fegato, sede della concupiscenza: lumbos iecurque morbidum flammis adure congruis, accincti ut artus axcubent lux remoto pessimo. [...]. Il riferimento alle fiamme della concupiscenza, in questo caso, non si trova, però, nell’incipit citato da Dante ma nell’immediata continuazione dell'inno, evidentemente abbastanza conosciuto e diffuso [...]. Il fuoco, contrapasso purgatoriale alla pena della lussuria, è presente nell’inno che invoca il soccorso divino in difesa delle tentazioni della carne .
Iacomo della Lana non riconosce in questa occasione l'elemento del fuoco presente nell’inno liturgico — che stavolta non è un salmo, ma uno degli inni contenuti nella liturgia delle ore («Summae Deus clementiae»), di composizione più tarda — come contrapasso del vizio della carne, ma, conformemente con la natura del canto, individua il contrapasso nella sua funzione prettamente liturgica e penitenziale essendo l’inno cantato nella compieta, l’ultima parte della liturgia delle ore, del venerdì sera — giorno in cui ancora oggi la Chiesa prevede opere penitenziali e astinenza dalla carne — come allegoria del peccato di lussuria:
E dicesi questo inno in la Chiesa militante a compieta di venere, lo quale inno è contra lo vizio della lussuria, ed è posto in venere perchè quel dìe si fa astinenzia per la lussuria. Or lo venere se ne dice più delli inni, ma perchè l’ora, quando l’autore vide tali martirii era circa la compieta, introduce che loro orazione era così fatta .
È invece Pietro Alighieri, nella seconda versione del suo commento (1344-45), a riconoscere l’allegoria della colpa in ignis / furor libidinis e la conseguente conscientia morale mettendole in relazione con la pena attraverso la quale «debemus uri quodam rubore»:
Ad secundam partem auctor incipit tractare de purgantibus se in vitio carnis, qui quodammodo sunt in igne conscientiae prout deliquerunt in igne libidinis; unde dicitur:
Igneus ille furor nescit habere modum.
In cuius poenitentia debemus uri quodam rubore, ut ait ad haec Psalmista, in hac poenitudine dicens: ure renes meos et cor meum, Domine .
Pietro aggiunge l'elemento del colore rosso (quodam rubore), legato a livello letterale al fuoco, allegoricamente all’ignis libidinis e moralmente alla vergogna dell’ignis conscientiae. L'elemento del fuoco viene ulteriormente sottolineato nell’inno dai versi che recitano «lumbos iecurque morbidum / flammis adure congruis» comparato da Pietro con l’invocazione del profeta David che, falsamente accusato, dice nel salmo 25 «Proba me, Domine, et tenta me; ure renes meos et cor meum» (Ps. 25, 2). Nel contesto del salmo il fuoco ha valore di prova di innocenza più che di espiazione, mentre Pietro lo utilizza come esempio penitenziale per sottolineare la funzione del contrapasso in questo canto del Purgatorio («ut ait ad haec Psalmista, in hac poenitudine dicens: ure renes meos et cor meum, Domine»).
Nel terzo commento di Pietro Alighieri si trova invece un’altra spiegazione, stavolta basata sull’inno stesso e sul suo contesto compositivo che secondo il commentatore risale a sant Ambrogio il quale lo scrisse «ad implorandum gratiam contram vitium carnis», richiamandosi quindi all’interpretazione di Iacomo della Lana:
[...] fingendo inde auctor tales animas canere ymnum illum quem Ambrosius fecit ad implorandum gratiam contram vitium carnis dicendo: Summe Deus clementie, / mundique factor machine, / quo corde puro sordibus, / lumbosque iecur morbidum /adure igne congruo / et luxu moto pessimo etc. {Hymni S. Ambr. attr. IV} .
Ma il contrapasso che Pietro riconosce in questo inno non è quello per analogia con il fuoco allegorico che brucia la sede del peccato (renes, cor / lumbos, iecur), come aveva detto nel primo commento, ma quello morale per contrario tra verginità e lussuria, sempre sulla scorta di Tacomo della Lana. Se nel precedente commento aveva infatti aggiunto al fuoco l'elemento del colore rosso, non giustificato però dal testo dantesco, qui lo rimuove e aggiunge invece la citazione evangelica di Lc 1, 34 che richiama testualmente il versetto che le anime lussuriose «gridavano alto» alla fine dell'inno: «Virum non cognosco», citato da Dante al v. 128:
Item fingit eas animas inde dixisse et memorasse in laudem virtutis virginitatis contrarie tali vitio luxurie verba Domine nostre ad angelum dicendo: “Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco?” .
In questo senso il contrapasso viene messo in relazione con la causa del peccato, e non con la sua conseguenza, come definito nell’Etica Nicomachea e certamente in linea con la differenza tra contrapasso e allegoria che Pietro aveva spiegato in If XXVIII.
Anche Benvenuto da Imola concorda con Pietro, limitandosi a dire che le anime lussuriose «cantant unum hymnum qui directe facit contra luxuriam» . Francesco da Buti interpreta invece il fuoco dell'inno come allegoria dello Spirito santo, ormai lontano dall'idea dell’ignis purgatorius che aveva dato origine alla parola purgatorium come luogo del fuoco purificatore:
Summae Deus clementine; questo è uno inno che canta la s. Chiesa, che incomincia come detto è; et in esso dimanda che Iddio incenda li cuori del fuoco del Santo Spirito per sì fatto modo, che si cessi de la lussuè 240 ria .
Egli riconosce un contrapasso relativo al fuoco come elemento addirittura santo, contrario alla lussuria più che analogo alla verginità. Tra l’altro Francesco da Buti introduce un ulteriore motivo di analisi, spiegando che le anime che gridano il versetto di risposta della vergine Maria all'angelo sono solo donne. Quello di verginità / lussuria sarebbe dunque un contrapasso solo al femminile:
Unde finge l’autore che quelli spiriti gridino questo, a comendazione de la virginità che fu sì cara a la Virgine Maria, che sensa essa non arebbe accettato; e per maggiore convenienzia si dè intendere che femine fusseno state quelle che diceano: Virum non cognosco .
Sottolineando tale dato, Francesco da Buti evidenzia il contrapasso per analogia fuoco / passione lussuriosa come pertinente a tutte le anime, mentre il contrapasso per contrario riguarda l'elemento fisico della verginità e tocca quindi, «per maggiore convenienzia», soltanto le donne. L'esempio di verginità per eccellenza, la vergine Maria, escludeva forse l'elemento della verginità in relazione al sesso maschile come anche quello della sua perdita. La voce virginitas nella Summa Theologiae si riferisce il più delle volte alla vergine Maria, tutte le altre volte alle donne, e quasi sempre in tema di verginità consacrata. Solo in un passaggio l’Aquinate ne parla genericamente così da riferirsi sia a uomini, sia a donne: «alcune virtù morali toccano la loro perfezione tendendo verso certi estremi: la verginità, p. es., astenendosi da ogni piacere venereo, tocca un estremo, ed è la castità più perfetta» . L'elemento della consacrazione viene ripreso in varie parti dell'argomento 96 del Supplementum dedicato alle aureole che spettano, tra gli altri, anche virginibus. Questo dativo nella traduzione italiana della Summa curata dal padre domenicano T. Centi nel vocabolo è reso bisessualmente come «ai vergini», ma non dobbiamo dimenticare che la parola latina virgo è —guarda caso — di genere femminile e di solito si riferisce a persone di sesso femminile. Per gli altri cinque passi riguardanti la verginità, tre di essi si riferiscono ancora alla verginità consacrata, stavolta esplicitamente femminile. Si tratta di chi abbia il potere di consacrarla e di come una donna violentata, che aveva fatto voto di verginità, abbia commesso un peccato di omissione necessaria, per cui non è più obbligata al voto (cioè, pur essendo stata violentata, era responsabile del peccato “doloso”) . Altri due passi riguardano la verginità perduta da parte di donne non consacrate: in uno si spiega che la donna che ha perso la verginità non può più recuperarla, nonostante la penitenza; nell'altro, unico passo riguardante verginità e matrimonio si analizza il caso di “irregolarità” che si ha quando un uomo sposa una donna non vergine. Nel passo citato, i Padri Decretisti dicono che per il matrimonio «dalla parte dell’uomo si richiede che egli non abbia avuto altre mogli, non che sia vergine; invece dalla parte della moglie si richiede inoltre la verginità». Ma a tale affermazione san Tommaso risponde che la mancanza della verginità nel matrimonio mette l’altro coniuge in situazione di irregolarità in quanto la mancanza di verginità dell’uno si riflette sull'altro:
[...] l'irregolarità deriva dalla menomazione del simbolismo sacramentale. Ora, la corruzione della carne fuori del matrimonio, e anteriore ad esso, non produce alcuna menomazione in tale simbolismo dalla parte del coniuge corrotto, bensì da quella dell’altro coniuge [...], come l'uomo diventa irregolare perché sposa una moglie corrotta, e non perché non è vergine lui, così la donna diventerebbe irregolare se sposasse un uomo corrotto, e non se è corrotta lei .
Anche se in quest’ultima parte l’Aquinate sembra mettere i due coniugi sullo stesso piano, il peccato di lussuria come perdita della verginità che “corrompe” l’altro coniuge, se leggiamo bene, è relativo, per lo meno in misura maggiore, alle donne. A una semplice analisi grammaticale e del periodo notiamo che il teologo usa il tempo al presente con una proposizione causale («l’uomo diventa irregolare perché sposa una moglie corrotta») soltanto parlando dell’uomo, mentre per la donna usa il condizionale costruendo un periodo ipotetico della possibilità («la donna diventerebbe irregolare se sposasse un uomo corrotto»). E se utilizziamo la grammatica come specchio delle intenzioni, ciò che emerge è che mentre la mancanza della verginità al matrimonio è vista come una realtà per le donne che “corrompono” il loro coniuge, per un uomo è solo possibile che ciò accada, ma questa possibilità non ha rispetto alla donna lo stesso peso e la stessa importanza.
Dunque l’alto grido delle donne lussuriose «Virum non cognovi» manifesta il contrapasso in relazione al loro personale peccato, cioè la verginità perduta che è l'esatto contrario del canto; ed è un contrapasso che analizza un peccato riferito peculiarmente alla condizione femminile. Non si tratta più di un canto, come per le altre anime, ma un grido che evidenzia la gravità del peccato femminile rispetto a quello “generale”, sottolineandolo tra l’altro con le parole della vergine per eccellenza, Maria. Il grido sembra inoltre richiamare i guai dei lussuriosi di If V, 48: «così vid’io portar, traendo guai / ombre portate dalla detta briga», quasi a sottolineare, oltre al peccato, la necessità della pena purgatoriale che restituirà alle anime la verginità, se non fisica, come dice san Tommaso, certamente mentale e quindi intellettuale, che è in fondo quella che Dante riotterrà alla fine del Purgatorio: «Ond'’io rispuosi lei: Non mi ricorda / ch'i straniasse me già mai di voi, / né honne coscienza che rimorda» (Pg XXXIII, 91-93). Ci sembra importante a questo punto sottolineare, anche se a margine dell’argomento che stiamo trattando, come la lussuria femminile sia messa in risalto in questo canto forse proprio allo scopo di evidenziare la teoria dantesca sull’anima, in linea con il discorso precedentemente fatto da Stazio sull’anima intellettiva che dopo la morte ha «memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute» (Pg XXV, 83- 84). Sono proprio le facoltà che alla fine del percorso penitenziale ritornano allo stato primordiale, non “corrotto”, evidenziato nei versi più su citati di Pg XXXII: memoria (non mi ricorda), intelligenza-intelletto (ch'i straniasse me già mai di voi) volontà (né honne coscienza che rimorda). E non è un caso che questo discorso sia messo in risalto nel girone dei lussuriosi — e delle lussuriose — che è l’ultimo prima del paradiso terrestre: bisogna riportare la mente a Beatrice, appunto nel canto XXXIII, dove appariranno, guarda caso, altre sette donne / vergini a rappresentazione delle virtù (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, fede, speranza, carità), a compiangere i mali della Chiesa. Ancora donne, non più lussuriose ma virtuose, avendo ormai scontato la pena dovuta; e seguendo le corrispondenze che abbiamo evidenziato, sono donne-virtù come allegoria della mente che ha ritrovato la virtù perduta ed è pronta, come sottolinea Landino, a comprendere ogni allegoria. Non senza Beatrice, che è l'ottava vergine, colei che all’inizio del XXXII canto “dice” («Ma poi che l’altre vergini [scil. le virtù] dier loco / a lei di dir», vv. 7-8) dopo che le virtù hanno cantato: proprio come accade per le donne lussuriose, il cui «alto grido» si ode dopo il canto delle altre anime; e gridano la risposta di Maria. Dunque è tale risposta che corrisponde al discorso di Beatrice: l'una afferma la sua verginità dicendo «Virum non cognovi», l’altra spiega come le sette donne (e Dante) abbiano riconquistato la verginità intellettuale, ancora con parole evangeliche: «Modicum et non videbitis me, et iterum, sorelle mie dilette, modicum et vos videbitis me» (Pg XXXIII, vv. 10-12), cioè vedrete me, l'oggetto che può essere visto dalla mente vergine, che come il poeta stesso le confesserà, non ricorderà di essersi mai straniata da lei.
Nessun altro commentatore trecentesco dopo Francesco da Buti sottolinea il genere delle anime, né si sofferma sul contrapasso lussuria / fuoco fino a Cristoforo Landino, che quasi un secolo dopo vede il contrapasso per contrario proprio nel fuoco che egli accosta però in senso morale allo Spirito santo: «si priega Idio, che incenda e chuori dello Spirito sancto, el quale al tutto fa contrario effecto all’ardore della concupiscentia» , evidenziando una scelta interpretativa ormai completamente lontana dalle categorie allegoriche analitiche che ancora nel secolo precedente i commentatori (tranne Francesco da Buti) avevano tentato di mantenere nell’analogia con il fuoco che brucia il peccato .
La conoscenza della giustizia divina attraverso gli inni liturgici richiama inoltre la “luce” del “detto” di Beatrice come parola cantata in cui la parola-melodia serve per “dipingere” l’immagine allegorica: «se non scritto, almen dipinto», proprio come nelle miniature sono raffigurati i pellegrini appoggiati al bordone, appoggio del cammino ma anche strumento d’“appoggio” musicale del canto liturgico. Tali dati vanno messi in corrispondenza con l’analisi che si è fatta all’inizio attraverso J. Le Goff il quale in vari testi ha posto in evidenza il fatto che all’inizio del XIV secolo si verifica un cambiamento nella dimensione spazio-temporale della società che «si connette a una nuova geografia dell’aldilà che non è più quella dei piccoli ricettacoli giustapposti come le monadi feudali, ma dei grandi territori — dei regni, come li chiamerà Dante» . La questione della conoscenza fin qui analizzata abbraccia cioè anche la dimensione politica e sociale, in quanto il movimento conoscitivo che Dante compie durante tutta l’ascesa al monte del purgatorio fino al paradiso terrestre, alla fine del quale gli viene svelato il meccanismo allegorico della giustizia divina, corrisponde al profondo cambiamento della società medievale dallo status feudale a quello di mobilità verso un altro “mondo”, alla base del quale si ritrova un avvicinamento della scienza divina a quella umana. Il sistema di analogie che si riscontra non è più solo divino / umano ma anche e soprattutto umano / umano: ne sono esempio la corrispondenza tra le voci dei vivi e quelle dei purganti che modificano la giustizia divina la quale diventa anch'essa un'entità in movimento, e in movimento verso l'umano. Il passaggio tra Medioevo e Rinascimento segnalato da Le Goff si ritrova non solo nell'orizzonte teologico del purgatorio ma anche in quello sociale, facendo trasparire secondo lo studioso spagnolo Juan Carlos Rodrifguez «la lucha que opone la primera fase de la burguesfa con la ùltima fase de la nobleza feudal» , lotta che è frutto della contraddizione generata dal mondo feudale in crisi nella sua concezione ‘“organicistica” — in cui cioè ogni più piccolo elemento naturale rimette a un altro divino in una relazione che M.-D. Chenu chiama di «somiglianza dissimile» con il mondo ultraterreno — non più viva nella società borghese e precapitalistica che sta perdendo il riferimento alla dimensione del divino. La nascita del purgatorio e l'interpretazione delle pene di tale regno da parte dei commentatori andrebbero viste anche in questa prospettiva, cioè come specchio del mutamento e del passaggio mentale e culturale da un tipo di società a un’altra, movimento che nella letteratura si riflette nella perdita dell’orizzonte culturale allegorico sempre meno comprensibile al mondo preumanistico e poi rinascimentale che non solo non “vede” più le relazioni analogiche di somiglianza-dissomiglianza tra modo naturale e divino, ma le perde anche in relazione ai testi scritti, muovendosi verso un’interpretazione di tipo morale e astratto non più basato sulla corrispondenza concreta e letterale tra parola, immagine allegorica e concetto teologico.