Dati bibliografici
Autore: Mario Apollonio
Tratto da: Storia letteraria d'Italia
Editore: Vallardi, Milano
Anno: 1964
Pagine: 347-370
Da Boezio a Virgilio, il noviziato culturale l’aiuta a scoprire, dietro la figura dell’autore la persona dell’uomo; ma nulla gli consiglia di aprire un divario drammatico fra sé e il mondo (la loro sorte è legata, e dall’uno apprendi l’universo), e tanto meno fra la parola «da se stessa mossa» e il cumulo delle cose già scritte. Questo reinventor della commedia, questo fondatore della nuova drammaturgia, non si dispone a un contrasto tragico col passato: nemmeno col passato prossimo, solito a stuzzicar l’umor polemico dei minori e dei minimi: con l’immoralismo del libro di Jean de Meun il supposto autor del Fiore, il vero cantor della mistica Rosa, non entra in guerra; e se cresce a ritroso, dai siciliani ai provenzali arcaici alla riscoperta dei latini antichi, anche per i guittoniani ha l’offerta di una pronta conciliazione. Ne deriva che gli manca ogni appiglio a introdurre quella discriminazione ora logica ora dispettosa che i moderni han posto come introdut- torio alle nozioni avverse di sé e del mondo. L’epigrammatico del dubbio che rampolla ai piedi del vero, fiduciosamente abbandonato alla natura che lo spinge di balza in balza al vertice dell’essere, accorda il suo istintivo dominio del tutto con l’enciclopedismo della cultura del suo tempo. È se l’ultimo e più grave arresto, negli studi dei dantologi, è stato causato dall'avere sentenziato indifferente la sua poesia alla sua dottrina, nulla gli era più alieno che rinunziare ad accettare il soccorso della cultura per smarrirsi da solo: il mito umanistico del soccorso di Virgilio concesso dal Cielo all’uomo nuovo ha pur questo significato. Eppure, il suo acquisto è tanto più vasto che quello consentito dal rigorismo dialettico: quegli uomini eran troppo pervasi del messaggio cristiano del Regno che ha inizio dal rinnovamento interiore di ciascun uomo, per indugiare a definir le circostanze; e in sé celebravano l’Avvento; e non circostanziavano né il fatto né il da farsi, né la Storia né la Rivoluzione. Se stesso, dunque, incontro a tutto il mondo aperto a lui, confidente. Tale la situazione psicologica del Poeta di fronte alla cultura.
Secoli e secoli, prima di lui, avevano lavorato a colmare ogni istintiva opposizione fra il poeta, che per se stesso ha voce, e la parola organizzata: fosse naturale reverenza al prodigio della creazione poetica, sensibilmente divina, o ili nesso, storicamente solenne, fra poesia e religione, o un ricordo atavico delle attinenze fra la mimesi dell’arte e la mimesi della magìa, gli stessi dotti erano accorsi a giustificare la loto riflessività metodica accanto alla rivelazione spontanea dei vati. Di qui lo studio necessario del rapporto fra la teoresi dell’arte e la teoresi della scienza; e la subordinazione della scienza all’arte, quando predominava una cultura mitologica e la subordinazione dell’arte alla scienza, quando predominava una cultura dottrinale. Meglio è dire, anzi che quando, dove: una distinzione di tempo è soltanto provvisoria e indicativa: nella decadenza imperiale come nel rinascimento romanico, accanto a Marziano Capella come accanto a Bernardo Silvestre, il tempo della organizzazione dottrinale delle immagini è il tempo in cui esse pullulano più feconde; e si allude allo spazio anzi che al tempo, per sotto- lineare il fatto che anche questo divatio tende a risolversi nella scelta individuale: Ambrogio opta per la dottrina, Prudenzio opta per la poesia; ma l’autore della liturgia milanese non è meno poeta dell’autore della Psychomachia. Orbene, quella cultura millenaria aveva anche cercato un termine, per definire quell’intenzione unitiva; e se prevaleva il concettualismo, la forza assorta dell’idea pura, della quale ‘il mondo infero dei sensi non è che una pallida copia, parlava di hyponoia, con Platone: cioè di senso riposto, cui conviene tendere, leggendo e investigando; ma se prevaleva l’empiria, se l’indagine moveva dal concreto e apprestava mediazioni all’esistenza verso l’essere, allora parlava di allegoria, con Aristotele: cioè di un « altro dire », di un protendersi della virtù significante al di là della suggestione più immediata della lettera: la definisce infatti metafora continuata, quasi a prolungare in zone sempre più vaste quella che Vico confermerà essere la virtù creativa della parola. La fortuna del secondo termine sul primo indica che fu messo in disparte ogni rigorismo esoterico, almeno fuor dei circoli misticizzanti; e che il buon gusto, cioè l’attitudine nativa ed educabile ad aprirsi alla suggestione dell'immagine, fece anche questo miracolo, di impedire, da Teagene a Macrobio a Fulgenzio, che la poesia di Omero e di Virgilio andasse sepolta sotto la mora dell’ermeneutica concettualizzante o moralizzante. Non sarà fuor di luogo supporre che ancora il buon gusto, e la naturalezza della civiltà mediterranea, abbiano avuto parole di giusto peso, fra i circoli della cultura cattolica, quando si trattò di accogliere nel canone dei libri sacri la lirica del Cantico o la novella di Tobia. Certo fra i Cristiani l’esempio delle parabole evangeliche non poteva andar perduto; e se l’intellettualismo offriva soccorsi di ermeneutica allegorizzante che poterono talvolta apparir gravosi, la forza immensa della Parola del Figliuol dell'Uomo, che investe uno schema apologico (del quale la certezza storica del fatto importa meno o non importa affatto) e lo riduce a evidenza, a prova concreta, per- ché di lì l’ascoltatore si trasferisca nella vita intima e autentica di chi la narra, via alla vita del Verbo, impone quella soluzione ontologica della vita della parola-parabola, che sarà una delle fasi, anzi la fase creativa dell’Umanesimo. Anche per le Scritture, la cultura dei tempi cristiani non dimenticò la conciliazione allegorica: da Agostino a Pietro Comestore; ma si trattava appunto di conciliazione. L’allegorismo diventava la raccomandazione più importante di cui disponesse quell’intelligenza per evitare di chiudersi in confini sgarbatamente sorvegliati dai rigoristi organizzatori della parola e della ragione. Se la cultura dei nostri contemporanei raccomanda ai lettori di poesia di isolare il più possibile il fatto poetico dal suo riecheggiar nel mondo delle parole, l’allegorismo li esortava alla caccia delle rispondenze.
Tutto quel che la cultura moderna, o la sua zona più acclamata, crede di poter consentire al poeta è la disponibilità: che si riduce a frammentismo, ad abulia, a un rovesciarsi della natura su se stessa, in quella che Dante chiama violenza: a Dio, a sé, al prossimo: sempre violenza contro natura: bestemmiatori, sodomiti, usurai, assassini, suicidi (non sono i peccati moderni?). Ma consentire alla poesia di propagarsi verso la dottrina, e sia pur serbando a questa una dignità maggiore, come a fine benigno, a trasfigurazione iperurania della parola e del segno, significava preferire la vocazione alla disponibilità. Quindi, con quel suo proporre un limite che, superato, consentiva un pieno dominio, anche l’allegoria favoriva per parte sua, ed era parte imponente, l’itinerario verso la libertà: era infatti pur sempre proporre alla parola il fine della verità; ed è la verità che fa liberi. Ma sarebbe opporre alla ricerca un limite insuperabile, sarebbe davvero incatenarla, e vietarle ogni trasvalutazione spirituale al di là della prigione terrestre, proseguire a pretender d'intendere la cultura medievale e la poetica dantesca con il metodo proposto dai residui crociani dell’intellettualismo catalogico e diacritico dell’enciclopedismo. Ogni libertà d’interpretazione era consentita, anzi imposta, da chi considerava la scienza anzitutto come una interpretazione dell’universo, una Imago Mundi, per riferirci al «titolo» più comprensivo di Onorio Augustodunense. Ed ecco proposto il rapporto più ampio: la parola era itinerario dall’uno all’universo, dal poeta al «volume» del mondo. Si avvertiva quello che la cultura moderna avverte così poco, intesa a circostanziare: che ogni parola risuona ai limiti del mondo: non solo per l’autodivinazione dell’«io trascendentale», come nelle più grandi ambizioni dell’intuizione cosmica, ma per una definizione ontologica appropriata e responsabile. Quando l’Aquinate limita alle prime fasi il processo della poesia profana, cui riconosce validità letterale e allegorica, non morale ed anagogica, direi che quasi sospinge i nuovi poeti sulla strada della teologia. Infatti, il vecchio e usatissimo distico scolastico, raccomandando
Littera gesta docet: quid credas Allegoria:
Moralis quid agas: quo tendas Anagogia,
fa una proposta estensiva, che veniva ad accordarsi con la discriminazione tomistica fra sacto e profano nel punto stesso che i poeti accettavano da Dante ad Albertino Mussato a Giovanni Boccaccio di essere poeti teologi: cioè di percorrere fino ai gradi della vita morale e della vita soprannaturale il territorio dell’essere.
Quanto a Dante, non stupiremo che il nostro poeta, gigantesco dilettante, non abbia nemmen conosciuta la fase polemica; ma appunto il suo dilettantismo è nel sottrarsi alla distinzione programmatica, e nel disporsi amorosamente ad un mondo immenso e univoco di verità e di forme. La prima prova, dottrinale e politica, di una validità estrinseca della sua poesia, quella del Convivio, ha se mai il torto di arrestarsi al di qua della autentica ed assoluta, partecipazione dell’essere, cui lo guida la meditazione d’amore: una sapienza che non ancora eccede ogni contento del minor cielo: un’operazione mediata verso un enciclopedismo più di costume e di pratica che di dottrina e di sostanza. Eppure, se l’itinerario sapienziale è sulle prime incerto, se per dirla col suo limpido e facile parlar per emblemi, la Donna Gentile resta ancora troppo al di qua di Beatrice, quando distogli l’attenzione dal polo riflessivo del suo conoscere e la rivolgi al polo inventivo, stupisce lo slancio inconsapevole e destinato del suo poetar giovane. Quella ovvia e tuttavia incerta distinzione fra momento poetico e momento pratico dell’allegorismo, che ritiene valida l’allegoria in cui la poesia è penetrazione e determinazione di un concetto, e non valida l’allegoria dove il concetto si cerchi una figurazione formale, ci aiuta a riconoscere in lui la prevalenza assoluta dell’indagine poetica; e dì pure della prassi, tanto è connaturata in lui l’arte con la scienza e con la vita pratica. Le immagini che gli fioriscono nella mente, in questa più eletta parte dell’anima dove la vita della memoria è insieme affetto e presagio del tempo futuro, lo chiamano immediatamente ai confini del mondo; e se obbedirà loro, come obbedisce, ed al sonetto proemiale, per dire il primo atto di vocazione e il secondo di obbedienza, giungerà dove è destino che giunga, dove Dio lo chiama in persona d’Amore. Stupisce, leggendo, il fatto che tutto resta al di qua della portata della sua parola, tutto ha meno slancio della viva forza che l’attrae alla verità del suo segno, tutto è caduco, a paragone della sua vita immortale. Verso l’allegorismo lo guidava tutta la cultura: in realtà, tuffavano nella mediazione allegorica ogni parola singola, ogni esperienza particolare, con lo stesso proposito con cui noi tuffiamo ogni esperienza nell’immanenza storica: e di quella cultura le due forme più divulgate e osservate nella cerchia mondana cui apparteneva: il simbolismo della società cortese, nella contraddizione e spiritualistica e materialistica quasi egualmente soddisfatta passando da Guglielmo di Lorris a Giovanni di Meun; e l’ontologismo dei Fedeli d'Amore, intento ad una soluzione ortodossa, anche sull’esempio dell'ortodossia dei Francescani, del monismo averroistico. Per un’altra vicenda si ricollegavano: ave- vano superato entrambi, frati e poeti che fossero, il dualismo dei Manichei, protrattosi nel pauperismo cataro come nell’aristocrazia della poetica provenzale.
Entra in gioco la sua persona, e tutto par che si disponga in modo nuovo. Fin qui, a cercare una continenza pratica e dottrinale la parola si definiva negli schemi della retorica: atte appunto di un particolarissimo fattibile, quella della parola, ma non diversa dalle altre arti, che si irrobustivano della «perfecta ratio» loro assegnata. Dopo di lui ed a causa della insostituibile investitura personale assegnata alla sua missione, la retorica viene arretrata: diventa, come ogni altra forma di linguaggio prima del processo di individuazione, una parte della semantica; ed è il momento passivo, recettivo, mnemonico della poesia, quello che resta così bene illuminato nel dramma di Pier della Vigna. Topica, metaforica e simbolica fanno paste di questo repertorio, catalogate come ogni altra parte della semantica, dottrinale che sia o lessicale: studiate a sé, nei loro rapporti storici ed etimologici, avulse dal contesto poetico in cui si trovano. Ma quando la poetica della persona è intervenuta nel repertorio semantico, tutto vive avvolto in questa nuova luce, e la verità della parola nuova ripercorre l’universo illuminando sin dove può giungere. Gioverà rammentare che nella mentalità cosmografica di Dante, aliena dal considerare l’universo in divenire, tutto preesiste alla poesia, anzi all’atto d’amore: che è, agostinianamente, la forza divina che risospinge la creatura al Creatore. L’allegoria è dunque il processo di rifrazione che illumina di nuova luce il mondo prima oscuro. L’impulso poetico si concreta non già nel vuoto o nell’assoluto, ma nelle occasioni del mondo. Immagine del mondo, dunque, ancora; e necessaria enciclopedia; ma non descrittività: i miti della parola, gli emblemi in cui la parola si conforma, penetrano nelle sistemazioni simbolistiche già note e procurano una nuova esegesi al volume dell’universo. Il quale è percorso tutto quanto, e illuminato in ogni sua parte: né esclude la sintesi offerta dagli emblemi: intorno a questi le cose già note, e le non toccate, si aggruppano in un simbolismo nuovo. L’inversio di Quintiliano? Di accertare le proprie responsabilità storiche e dottrinali il poeta non si cura: gli preme appunto poetare, non imitare: «poetando, non l’invidio»: piuttosto, mira al nuovo: «ed attenda ad udir quel c’or si scocca». Antico e moderno, tutto il mondo s’apre al suo dire.
Ogni immagine del poeta si realizza mettendosi in rapporto con un luogo, una metafora o un modo che le preesiste, raccolto nel patrimonio delle forme, il repertorio appunto, la retorica; ed ogni informazione polistorica predisposta alla lettura non può che indicare la direzione delle ricerche e dei puntuali accertamenti, che accompagneranno la dichiarazione del testo: vincolati entrambi, l'introduzione e il commento, all’incompiutezza, se l’una necessariamente pecca di genericità, l’altra di ristrettezza: perché l’arte è attualità, e la memoria poetica, quando il libro è fatto, ha cristallizzato in una forma nuova, trasfigurata, quel che apparteneva alla memoria psicologica. Ogni immagine dunque, voglio proprio dire tutte e ciascuna, percorre il territorio che la «mente» domina, la memoria, l’intelletto, l’anima; ed è un territorio geografico, storico e fantastico: questo non meno reale di quei primi, se la corografia, dal cosmografo Tolomeo al geografo Solino al viaggiatore Marco Polo, così facilmente diventa mitopoetica, e se per contro la forza e l'evidenza del fantasticare danno a quanti immaginano una concretezza così sensibile. Ecco perché risulta difficile designar dei territori ben delimitati: dove finisce l’esatta nozione geografica e dove comincia la trasfigurazione fantastica di luoghi realmente esistenti? Noi abbiamo accettato un catalogo suggerito dalle circostanze della moderna enciclopedia, quando abbiamo esplorato prima i luoghi che i tempi, lasciando da ultimo la cultura, che sembra raccogliere indicazioni meno concrete. Ma per Dante, se non per tutto il costume del suo tempo, non è meno reale quel che vive nella fantasia di quel che vive nel tempo e di quel che vive fra le cose. Ed è probabile che la cultura moderna sia appunto intenta a ridar concretezza alla realtà psichica, dopo la prevalenza, nei secoli, della nozione spaziale (l’intellettualismo matematico), e della nozione temporale (lo storicismo).
La «topica» veniva così a sovrapporsi alla geografia e alla storia: le quali prestavano «argomenti» allo stesso modo e con lo stesso intento che la mitologia e la poesia. Un territorio vastissimo, quello della topica medievale; ma anche i tempi volevano questo, che moltiplicavano quel patrimonio dei loci communes che le scuole retoriche avevano codificato e ristretto, dopo e durante i cataloghi di Aristotele, di Cicerone e di Boezio. Il Cristianesimo aveva aggiunto agli altri τόποί più propri; ma non è senza significato che nell’«orazione» di Beatrice davanti gli Angeli, composta con un rispetto rigoroso dello stile e della consuetudine retorica, diventi «argomento» capitale, per la salvezza dell’Uomo, il «locus communissimus», l'universo:
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali ed in sogni e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti
Dunque il «nominalismo» delle apparizioni e della poetica stilnovistica non basta: occorre il viaggio cosmico nell’abisso d’Inferno e al vertice del Cielo. Nella poetica della visione, che si sviluppa in evidenza e in concretezza i τόποί non riescono a serbare quel senso di elegante distacco, di disinvolto pretesto per un discorso elegante e capzioso, che avevano nella prima trattazione sofistica, e che nemmeno la rigorosa sistemazione dialettica dei Peripatetici poté del tutto superare, intenti a dar loro stabilità e ordine e certezza: diventano cose autentiche e dalla sfera delle probabilità dialettiche entrano nel territorio delle realtà determinate. Più «cosa» di ogni altra è il mondo, il mondo infero che in eterno dura, e il mondo delle stelle eterne. Perciò, fra i «luoghi» utili ad una persuasione, il mondo ha più importanza di ogni altro: riesce decisivo dove ogni altro argomento è parziale e insufficiente. E Dante aggiunge un altro paragrafo a quel suo trasformare le metafore in realtà, che è tanta parte del suo poetare. Ma una volta che l’universo è eletto come «topica» fondamentale del Poema, le distinzioni che noi avevamo lasciato sussistere in sede trattatistica fra realtà sperimentata e realtà immaginata, cadono tutte quante.
Nella nuova ricapitolazione del mondo che egli intuisce, per vendicarsi e salvarsi dell’esilio, conquistandolo perché cacciato di nido, la distinzione fra le terre geograficamente nomenclate e le terre o paesaggi ideali diventa impossibile: la cultura, la cultura retorica che subordina alle sue regole ogni cosa detta e scritta, gli riesce di ausilio prezioso. Se l’enciclopedia antica era una raccolta di notizie utili al discorso, la realtà delle notizie stesse era misurata non già dal grado raggiunto di certezza sperimentale, come accade nell’enciclopedia positiva, ma dalla utilità che arreca all’arte delle parole, alla retorica, subordinata questa al compito della persuasione. Anche Dante subordina i luoghi e la retorica alla persuasione: ma si tratta di persuadere alla salvezza, e la salvezza è il dominio dell’universo letto nel volume di Dio. Quindi una conclusione non più praticistica e moralistica, come nella retorica antica; ma ontologica, perché intesa all’acquisto dell’essere. È più utile a questo compito supremo la descrizione del corso del Po e della pianura padana, o l’evocazione degli spazi deserti a Mezzogiorno e ad Oriente, e dell'Oceano? Qui la nozione storica del moto e dell’acquisto ci aiuta: si fida infatti così poco della virtù suggestiva delle cose, che le contorna volentieri di allusioni morali: ma la virtù poetica è tale che, alla resa della lettura, è più magicamente allusiva dello spazio universo la topografia del Benaco che la topografia di Creta. Ed alla scansione, alla rivelazione ritmica del dramma spirituale di Buonconte è più efficace la scenografia familiare e paesana di Casentino, fra Pratomagno, l’Ermo e Falterona, che allo sfondo decorativo della «figura» di Gerione i tappeti tartari e turchi. Muove dunque dalla topica enciclopedistica della cosmografia morale, e dei paesaggi ideali, che ritrovava nella letteratura medievale latina: quella dove ci ha guidati il Curtius; ma approda alla concretezza della cosa vista, più ricca di vita di qualunque immagine allusiva.
Si potrà dir lo stesso di ogni altra parte della topica: senza attardarsi, ben inteso, a distinguere più che non faccia la consuetudine vulgata del tempo fra i luoghi che appartengono all’argomentazione del discorso, forme proemiali o exodiali che siano, consolatorie e invettive, tradizionali contrasti e concetti, e i luoghi proprii del metaforizzare in senso stretto. Tutto il mondo era un sol luogo: la vita della Natura era allegorizzata in una figura divina; ogni creatura del mondo e della natura era perciò suscettibile di essere collocata in quella figurazione cosmografica che ripercorreva in senso ontologico la descrizione fisica. Le piante, gli animali, e infine le creature umane, cui Dio affida il compito, redimendole, di riportare il mondo creato all’essenza divina, sono disposte in una grande scala, e raccolte in un repertorio che il poeta può percorrere per trovare argomenti alla sua raccomandazione fondamentale, al suo discorso primo ed ultimo, persuadere e condurre gli uomini all’itinerario della mente in Dio. Anche qui una nozione storica di moto soccorre la nostra intelligenza del poeta: infatti, il regno delle piante, come quello delle pietre, ha ancora un’attinenza magica: lapidari ed erbari chiudevano, più che i bestiari, indicazioni precise di scienza e di medicina naturale: le piante, nella sua fantasia, indugiano prima di giungere all’animazione meramente poetica ed umana delle «vive travi» e del paesaggio dell’Appennino nevoso, nella scena della penitenza: dai pruni della selva delle Arpie all’albero della cornice dei Golosi, alla pianta dispogliata e robusta del Paradiso Terrestre; e giungi pure alla Rosa dei Beati: la sua fantasia si arresta alla moralizzazione delle figure botaniche. Ma per gli animali fa altro cammino; e se le Belve, i Mostri, le creature apocalittiche costellano di emblemi paurosi e vivi il suo viaggio, sino all’Aquila che parla nel cielo di Giove, un’interpretazione idillica del naturalismo lo aiuta verso l’animazione purgatoriale delle pecore e delle colombe. Finché l’urgenza del contraddittorio morale è viva in lui, ancora la favola bestiaria ripercorre nei canti di Malebolge; ma quando la disponibilità dell’Antipurgatorio lo avvia a una rivelazione più colma della libertà dell’uomo fra le creature, non ha più bisogno di trattenersi nei limiti propostigli dal repertorio della retorica. Non diverso cammino percorre verso la concreta animazione della figura dell’Uomo. Finché si trattiene nella sfera della sapienza retorica, e frequenta gli eroi antichi, li adorna di quei generici e amplificativi modi della celebrazione retorica: così gli Eroi del Limbo: così lo stesso Giasone, pur nell’ignominia della pena, ritiene aspetto regale: così Bruto che si storce e non fa motto. Ma basta che cominci ad impegnare nella favola d'amore una esperienza sua propria, una reazione morale al tema generico della retorica, ed hai Francesca: dopo di lei è aperto il cammino alla conoscenza concreta dell’uomo individuo; e al ritratto eroico ed oratorio sostituisce il ritratto drammatico.
Eguali risultati darà un’indagine condotta nel proprio territorio della metaforica. Qui, come è evidente, il «dittatore», retore o poeta che fosse (e ancora ripetiamo che toccò a Dante discriminare i due termini, riaccentrando nel poeta, in atto, le responsabilità che prima toccavano al retore), si trovava davanti a un compito più preciso. Se la topica esplorava e ordinava un vasto mondo nei suoi luoghi più utili a stabilir le rispondenze, la metaforica impegna a una dinamica della ricerca concettuale; e il «translatare» del poeta, l’atto cioè del metaforizzare, è il corrispondente retorico della transvalutazione della «filosofia prima» e del «trasumanare» che indica il Pellegrino sottratto alla terrestrità della divina foresta e trasferito nei cieli per riflessa virtù venutagli dal contemplare di Beatrice. Una postilla istituita alle metafore dantesche potrebbe valere anche stavolta di raccomandazione per i futuri commentatori, poco varrebbe all’astrattismo della notizia storica, a darci contezza di quanto fosse frequente la cristallizzazione delle metafore. L’esempio più illustre ne è la metafora della nave, che Dante accetta da quando è uscito, nel Convivio, dalla sfera stilnovistica ed ha fatte sue la retorica e la cultura antica: da quando, dunque, l’eredità romanza non gli è bastata più (diremo, per riportare la discussione a quella problematica del mondo separato su cui si è arrestata, fra noi, anche per riprender fiato, la ricerca dei medievalisti) e le letture latine gli hanno rivelato l’eredità del pensiero unitario occidentale: sino alle più deliberate e sapienziali metafore del Purgatorio e del Paradiso. L’esempio più suggestivo, più pronto ad abbandonare lo schema della metafora di scuola per un’animazione poetica della «figura» è quello del Veglio di Creta: dove la metaforica delle parti del corpo, si raddoppia sulle interpretazioni bibliche e si colloca in uno dei paesaggi eroici più solenni che egli abbia mai disegnato. L'esempio di più larga fortuna dopo di lui, attinto a quelle che il Curtius chiama Schauspielmetaphern, è il cader delle maschere di luce nel cielo Empireo, quando i Beati ritrovano il loro volto ed appaiono nell’evidenza suprema delle loro naturali sembianze.
E infine il luogo dell’«arte del dire» e della stilistica. La reverenza che lo tiene nella compilazione della Vita Nuova, quando ha scoperto la trasfigurazione possibile della sua vicenda amorosa attraverso una giustificazione totale che circostanziasse il tema di Madonna morta e della morte di Beatrice facesse, ancora sull’esemplare di Maria, una dormitio, e dell'amore, attraverso la morte presagita nel sonetto proemiale, un itinerario paradisiaco, trova la sua resa scolastica e accademica nel passaggio dal luogo comune del libro della memoria (assunto dalle Rizze, ma puntualizzato nel proemio), alla formula dossologica che chiude il libello: qui est per omnia saecula benedictus. Della tradizione egli accetta tutto: conduce la poetica dalla più generica nozione di «eloquenza» alla più concreta e più nuova identificazione di realtà e di metafora, protratta dal simbolismo del buon padre Apollo al sonno mistico intorno alla metafora della navigazione degli Argonauti: dai discorsi di politica agli eulogi dei contemporanei illustri: dalla forma mescidata del componimento varroniano di prosa e di poesia alla esaltazione esemplare del poeta come demiurgo, apostolo e profeta. Altrettanto si dica per l’aspetto tecnico di questa problematica intorno alla poesia: non solo la prosa illustre si esempla, per opera sua, con un rigore malnoto, da Albertano a Guido Faba a Guittone, non solo egli conosce i segreti del cursus e conduce le sue epistole a perfetta regola d’arte, e sigla di stilemi, che i suoi contemporanei potevano riconoscere, le allusioni politiche; ma come maestro si preoccupa di erudire i discepoli, e istituisce un trattato di retorica dove ha gran parte l'elaborazione scientifica della tecnica appresa durante il noviziato, negli anni dell’irriflessivo creare e in quelli della meditazione riflessiva. Dove ancora una volta è necessario sottolineare l’esatta rispondenza dell’universale dominio di una materia con il processo di autenticazione e di individuazione: interrompe infatti il De Vulgari Eloquentia quando la sua visuale si allarga al di là del magistero della poesia romanza; e attende alla rivelazione della Commedia. Via via procede a identificarsi nelle forme di esistenza che la cultura suggeriva al poeta: l’irrazionalismo entusiastico del poetare, l’immortalità della poesia, il primato della bella scuola poetica, il numero come cabala e come ritmo... Ma poiché interviene in queste astrazioni portandovi al solito il peso del suo concreto esistere, quello che era custodia storica delle forme antiche diventa viva forza operante nei nuovi tempi e nella nuova cultura.
Egli concilia e suggella in sé autenticandoli i tre tempi della storia della cultura, intorno a lui: l'Antico, il Medioevo, l’Umanesimo; ma con tale accento che gli uomini nuovi, riscoprendo l’antico, venivano a dimenticare la fase intermedia della conciliazione catalogica e storica. Sottace facilmente la menzione di valori, uomini e metodi che, notissimi ai suoi, e confusi nel tritume fra le notizie dei contemporanei, non facevano spicco; ma quando si risale a riscoprire accanto a lui il mondo della cultura medievale, avvertiamo che il panorama della dottrina è assai più ricco di persone individuate che non supponesse la notizia ancora scarsa dei primordi dell’erudizione medievalistica; che il costume dell’anonimato suggerisce la precisa intenzione di cedere, di scomparire, di sommergersi nell’ombra (o nella luce?), quando la mediazione risulti assolta. Sia suggestione della terza corona dei Sapienti ineffabili, così ripensandolo, sia più precisa nozione di circostanze storiche, o la prospettiva apocalittica che le vite innumerevoli cancella nel fulgore dell’avvento, egli è primo a disporre la nuova cultura anche in questo: che gettando un, ponte fra i nuovi tempi e gli antichi, propone l’oblio dei tempi di mezzo. Se applichiamo tale circostanza al problema che qui ci tocca, la nozione del repertorio delle forme, vediamo dipenderne un atteggiamento dottrinale e una notizia storica importantissimi entrambi: l’atteggiamento dottrinale è di cercare, al di là delle sistemazioni formali e mnemoniche della cultura scolastica, le pure forme originali, riscontrare nei classici la notizia che si era raccolta dapprima nei manuali e nei repertori, leggere in Ovidio la storia della Fenice, ma serbandone l’incanto della tradizione millenaria, il coro vanente dei «gran savi»; e la notizia storica è di abolir come provvisoria la nozione dei mondi separati (Medioevo ed antichità classica; Medioevo romanzo e Medioevo latino) che pure il poeta stesso conforta, quando oltrepassa i suoi tempi per intendere all’eccellenza del passato (la perfezione dei tempi pre-cristiani in preparazione del primo Avvento), ed all’eccellenza del futuro (la preparazione della seconda Parusia di Cristo, quando i tempi saranno consumati). Evidentemente, nella mentalità stessa di Dante la dottrina è, come i tempi, provvisoria; ed attinge a piene mani al repertorio vulgato; ma dove l’enciclopedismo disperdeva il patrimonio, egli propone di risalire alle sue origini e di autenticarne i valori; e dove ogni catalogo intellettualistico del sapere cercava un ordine astratto, egli, movendo alla ricerca della concretezza della persona lungo la via di un’ascesi che era poetica e dottrinale e morale, scopriva la concretezza della storia antica: uomini vivi quelli di un tempo, e parole vive le loro, e per riguadagnarli occorre il tesoro della grammatica, delle codificate parole. Il mondo romanzo veniva ad essere bensì un nuovo mondo illuminato da un nuovo sole, anzi da nuovi, l’uno sorgendo dove l’altro tramonta; ma il mondo che ripercorre a ritroso, movendo alla trascendenza dell’essere, è il mondo antico, più prossimo alla natural grazia del dono largito alle origini dell'uomo: in mezzo fra loro scompare il mondo necessario e insufficiente della grammatica.
Tale è il riassunto storico che Dante offre della cultura medievale: né si poteva comprenderlo prima che avesse compiuto il suo ciclo di vita, da lui discendendo, la civiltà moderna delle nazioni, cioè delle «lingue», come anche si disse, e prima che la cultura medievale riapparisse alla nostra intelligenza storica, come un continente sommerso: volontariamente sommerso. Ma qui non cerchiamo più circostanze storiche: tentiamo la traduzione tecnica, l’applicazione di una problematica letteraria e la scoperta di un processo della poetica, a quella fondamentale situazione dottrinale di una cultura, per questo appunto detta medievale, che ha da vanificarsi per consentire la conoscenza dell’antico e la concretezza del nuovo. Per rioccupare questa coltura e ripercorrere l’antico, il nuovo poeta conosce dunque e un momento recettivo del repertorio, e un momento attivo. Ora si tratta di definire il momento attivo. I moderni hanno a loro disposizione la categoria del poeta puro; e non importa che troppo spesso tale categoria si riduca al nominalismo più squallido, quello dell’anagrafe: resta il fatto che al segreto ultimo della persona bisogna pur giungere, per abbracciare il più vasto territorio della conoscenza estetica e comprendere il più distesamente possibile la predicabilità della parola individuata. Con il loro abito scientifico assai più circospetto del nostro, almeno nel territorio delle scienze noumeniche (e diresti senza errare che l’abito stesso si è trasferito nel rigore moderno delle scienze fenomeniche), fra quel segreto della persona del poeta e l’immenso splanamento della predicabilità di un’opera essi disponevano, cominciando, la «figura» del poeta, il ritratto idealizzato dell’uomo e l’aureola della sua divinità, l’«est deus in nobis», protratto, circostanziato e sistemato nella dottrina dei poeti teologi. Ma la «figura» del Poeta, come la «figura» della Donna dai Siciliani agli Stilnovisti, diventava la cifra di un processo intellettivo che si stendeva verso una conoscenza dell’universale, dichiaratamente: alla ricerca, infatti, di altre figure riassuntive, che chiudessero in sintesi l’intelligibilità del mondo. Il poeta, perciò, col suo divino afflato, trascorreva per un mondo di emblemi, che diventassero, sensibilmente animati, indici e riferimenti del linguaggio: andava di là da loro, questo è sempre da tener fermo, ma ne accettava la mediazione: «termini» fra l’ineffabilità dell'uno e la vastità del tutto. Qui soccorra quello che s’è già detto sulla emblematica e sulla simbolica; e si riduca pure, provvisoriamente, la nozione della Commedia alla visita che la figura del poeta fa alle figure che chiudono in cifre semantiche il volume del mondo, indici di una lettura dell’universo, «parole» figurate, se la parola potesse essere altro che metafora, quando dalla sua inerzia di copia della realtà esce per entrare in una sfera di attiva conoscenza della verità. Cose ovvie diciamo, ormai provveduti di storia adeguatamente, e consapevoli delle conseguenze cui ci porta la lettura di Dante fatta non pure con il soccorso delle moderne esperienze poetiche, ma con la nozione della poetica dantesca (cosa curiosa: i più recisi nel negare che un poeta s’abbia da leggere con una sensibilità moderna sono coloro che, ingenuamente e sprovvedutamente, non sanno penetrare nella storia delle poetiche antiche, e che si limitano a proiettare nel passato, considerandola eterna, l’esperienza della penultima stagione letteraria): figura del poeta, valore riassuntivo e pregnante della parola, argomenti per la conoscenza, segni emblematici delle cose, riassunti simbolici dei fatti: tali le tappe che percorre l’operazione del poeta come Dante la intende: sino al termine estremo del « volume » che è il Libro ed è l’Universo. L’allegorica si dispone dunque come termine antitetico della retorica; e si svolge dall’emblematica alla simbolica, che diventano quasi il lessico e la sintassi del linguaggio poetico, pur sempre appartenendole, allo stesso modo che nella retorica si riassumono la topica e la metaforica e la stilistica. Ripetiamo: allegorica come momento attivo.
Dalla confusione di retorica e di allegorica è derivato ogni errore. E che una deficienza teoretica lo rendesse facile, quasi inevitabile, quasi propizio, non fa meraviglia: più in tempo di maggior cura per i fenomeni della letteratura: ché ragionare intorno alla poesia significava o ipostatizzare una idea della pura forma, o circostanziare secondo storia e ragione un contenuto; e i lettori della pura forma non sono certo i più idonei ad immettere entro un testo un’idea di moto e di acquisto, estranea comunque alle loro preoccupazioni, mentre i cosiddetti contenutisti sono sospinti nella direzione contraria a quella dei cosiddetti formalisti, tendono a generalizzare, si dirigono verso la sintesi più generica ed astratta, paghi del catalogo e di un’epigrafe che raccolga l’opera di poesia nella indicazione meno attenta al processo. di individuazione, più comprensiva. Beninteso, in questa direzione si moveva anche il poeta, quando sceglieva a titolo La Commedia (qui subito gli accadeva che la forza della poesia facesse diventare il titolo avventuroso e pregnante), e quando parlava di «stato dell’anime» nella lettera a Can Grande; ma da un titolo per un poeta ha inizio l'acquisto, troppo spesso per il catalogista nel titolo e nel sottotitolo, nell’epigrafe e nel riassunto s’adagia l’amor del sapere. Il lettore, letto «Commedia», sa che tutto gli resta da fare; ma il catalogista, detto «viaggio dell’oltretomba» o «dantologia» o «cronaca di Firenze», lì si ferma, ed ha a noia che una troppa ansiosa e sottile lettura gli dimostri che la sua definizione è provvisoria e che deve alzarsi dal suo sonno; né va molto più in là lo storico, che abbia definito le circostanze di tempo e di luogo che accompagnano la poesia solo per disporsi nel suo ordine. La tentazione della sosta e del sonno prosegue ad ogni passo, e sempre dopo ogni illustrazione storica e dottrinale tocca al lettore rituffare il testo nella vita corrente dell’animazione poetica, nella perenne vita onde la parole perennemente diviene nel mondo. Ora ad ogni passo, dove il lettore procede, il catalogista sosta; e ad ogni passo l'invenzione del poeta, l’immagine in cui si raccoglie, la parola, l'emblema, il simbolo, per il lettore cadono come spoglie inerti, ché l’animazione della poesia egli l’avverte che spira più lontano, e il catalogista le raccoglie con cura, chiamandole a paragone con altre parole e forme note, in modo che il divario s’annulli come irrilevante. Il divario è sempre fra il repertorio e la poesia, fra ciò che prima del poeta era noto e la novità dell’arte, che è appunto il metaforizzare; ed è troppo evidente, da quando l’erudizione veronese del Settecento intese a circostanziare la storia e la dottrina dantesca, che l’erudito, scoperto un riscontro, tenda a parlarne come di «fonte», quando addirittura non livelli nell’indifferente eguaglianza la leggenda del viaggio di San Brandano e l’itinerario dantesco, un genericissimo indice e un individualissimo testo (ai tempi nostri proprio all’enciclopedia dantesca di Carlo Vossler toccò di rendere ognuno avvertito dell’impossibilità di ridurre a notizia la storia della poesia dantesca). Ma una volta stabilita la lontananza fra l’immagini vecchie e le nuove, occorre ridisporre queste nella sintassi stabilita dal poeta e storicizzarle movendo lungo la storia interna della poetica e la storia esterna della fortuna (dove pur interno ed esterno sono termini provvisori, indici di un più e di un meno: intima all'uomo la poesia, ma non estrinseca la storia).
L’ideal commento al testo di Dante dovrà dunque criticamente, cioè discriminando, disporre da una parte la congerie del noto, dall’altra le suggestioni del conoscibile; e dall’une all’altre trascorrere, per cogliere il segreto di quel divenire, e attraverso il ritmo di quel divenire il segreto di quell’essere. Dante ci racconta del mondo: o non è l’immagine che si libra nella fantasia di Ovidio cominciando? e non è l’oggetto di ogni cosmografo poeta, che cerca Dio nella natura? Dio, come diceva Alano di Lilla, «tanquam mundi elegans architectus, tanquam auree fabrice faber aurarius, velut stupendi artificii artificiosus artifex, tanquam admirandi operis operarius opifex…». E il viaggio può esser quel di Brunetto. Ma di che altro può parlare il Libro se non dell’Uomo? Ridotto a questi temi l’argomento del poema di Dante risponde ad innumerevoli opere: dove si dirigerà lo sguardo del lettore, se dalla occasione dell’argomento vuol giungere all’atto dell’argomentare, e ad illuminare una qualsiasi zona umana? Appunto alla nozione che quel mondo, quel viaggio, quell’uomo sono realtà diverse da ogni altra, e che il loro essere specifico non può intendersi che distaccandole dal novero del catalogo per intenderne il processo di individuazione a cui le ha sottoposte il poeta. Lo stesso dirai per l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso: perché dalla generica nozione di « sotterra » alla specifica nozione dei «luoghi bui» è già una distanza: quella che misura il rimpianto dei Fiorentini, nel XVI dell'Inferno, e la nostalgia di una storia intesa come conforto e mito e, quasi, salvezza: «Quando ti gioverà dicere i’ fui»: nonché la disperata inerzia onde gravano le rocce della Terra sopra il corpo della Trimurti infera; e il luogo del «temporal fuoco», se confronti la varia figurazione dei leggendari e dei Padri con l'Oceano, l’Isoletta, e il Monte, già ti si rivela il senso saliente di un viaggio e l’ansia della fatica fra le pause dei colloqui e delle meditazioni; e del Paradiso s'è già detto il consapevole e ardito divario fra il senza-luogo Empireo e le occasioni dei pianeti e degli astri, figurati cieli al l’acquisto dell’eterno. Dunque anche le suggestioni più generiche del repertorio il poeta ripercorre animando. Degli emblemi più suoi, come dire che sono escogitati a freddo, prima di situarli nel repertorio e di rituffarli nella storia? La caccia selvaggia nei portali di San Michele in Pavia e le figure di una formella di San Zeno in Verona sono pagine sparse, soltanto; di una enciclopedia per immagini che, se anche non la discorri tutta quanta, che sarebbe impossibile, basta che non la ignori per intendere che non è astratto, non è cosa da compositore di indovinelli il suo immaginare. Ripensa le Belve, ripensa le metamorfosi del Carro, Lonza, Leone e Lupa, l’una dall’altra palesi, l'Aquila che discende a rapir Ganimede, l'Aquila che discende sul Carro, la Femmina Balba, antica Lupa, e sul Monte Pisano il Lupo e i Lupicini guelfi, inseguiti dalle cagne magre, studiose e conte delle grandi famiglie ghibelline. E vedi proprio in Conte Ugolino arrestarsi l’emblematismo, e nell’incubo del sogno, allo strazio dei fianchi ansanti, aprirsi la pietà disperata ed umana del padre che non sa e non vuole soccorso. Il poeta conosce ed inventa, percorre gli emblemi cari al suo tempo, come ad ogni barbarie, che ama meglio leggere pet ideogrammi che per lettere, e ne propone di nuovi; ma serba una disponibilità di fantasia (e di sentimento e di parola) che gli nega chi indiscretamente accorre a sospingere il linguaggio dell’allegorica fuor dai confini della poesia, come se esistesse zona dell’universo che la parola individuata non possa raggiungere, come se l’uomo, creatura razionale, non potesse risalire oltre il cielo che ha minori i suoi cerchi: libero in ogni moto, ora accetta il rigore della cifra, ora compagina in ordine il discorso delle allegorie, ora sovrappone e scompone e contraddice: perché il simbolo del Fiore poteva essere innalzato così dall’erotismo cortese come dal misticismo religioso: né se ne dimenticava il cittadino di Firenze. Il più vicino a lui degli uomini della cultura ch'egli frequenta, in questa disponibilità di fronte all’allegoria, è Sant’Ambrogio: «Et ideo verum putamus utrumque», dice nel Commento a San Luca, «cap. 24 ante finem», di cui s’avvale la liturgia romana, considerando «qua gratia secundum Ioannem crediderint Apostoli, qui gavisi sunt, secundum Lucam quasi increduli redarguantur»: perché il fedele trascorre al di là delle aporie e delle antinomie cercando l’unità della prodigiosa forza raggiante che crea il molteplice e in sé l’accorda all’uno. Così il poeta.
Che altro può e vuole disporre Dante, fra la congerie del repertorio e la nuova realtà, cui il ritmo anima trascorrendo fra le vecchie e le nuove parole, se non la concretezza della sua vita morale? vita d’uomo, vita cristiana, anima che soffre e adora. Ma qui si batte e si ribatte sull’idea di una presenza (e talvolta la smarrisci) che la storia della Commedia ci aiuta a chiudere più da vicino, più presso il limite segreto di una creatività nativa in sé nascosta. Al di fuori di questo metodo dalla storia alla persona, l’indagine è ovvio che si fermi o ad una formula genericamente storica, o ad una formula genericamente morale. Quando la lettura apologetica riscoprì, nel Settecento, un Dante cattolico (prima era cosa ovvia che fosse tale; ma la vicenda del commento di Pompeo Venturi indica meglio di ogni altro fatto, lungo il secolo, il crescere di questa intenzione), le si oppose la fondazione di una intelligenza storica di Dante e la polemica del Foscolo; e quando anche l’intelligenza storica ebbe o parve avere esaurito, alla fine dell’Ottocento, i suoi più urgenti impegni, ecco riavvertirsi, e farsi più acuto nelle opere del Poletto, del Flamini, del D’Ovidio, per dir d’alcuno, il bisogno di una cifra riassuntiva: i «significati reconditi» e la «topografia morale». (Né si discorre del valore ch’ebbe l’interpretazione esoterica, lungo l’Ottocento, e cioè prima che la poetica del simbolismo chiarisse meglio i rapporti fra poesia e conoscenza del subcosciente e del sovrasensibile: era, con quel suo violento appiglio ad una problemativa politica, anche un tentativo di mediazione fra la nozione storica e la nozione morale). Il fastidio dello storicismo cronachistico, insomma, e l’ingenuo dogmatismo che presume di saper trovare la formula che riassume la vita morale, s’accordavano in una ricerca che ignorava, od oltrepassava, la nozione dei rapporti fra teoresi estetica e teoresi filosofica. In questi e negli altri studiosi che si raggruppano intorno a loro, sussiste, anche quando il buon gusto e la tradizione umanistica di una lettura di poesia che s’affidi primamente alla parola individuata li inducono a riservare i diritti della creazione poetica, l’illusione di trovare una formula magica da cui la poesia discenda o a cui si sovrapponga (i più ingenui si innamorano siffattamente della loro scoperta che si accontentano di ammirar la poesia nel suo derivarne «mostrando l’ubertà del suo cacume»: così il Filomusi-Guelfi: i più ansiosi, come il Fraccaroli, persuaso della irrazionalità della poesia, accettano un parallelismo). La critica camminò, come di dovere, complicando, non semplificando; e il Parodi, in uno studio sulla Costruzione del Paradiso Dantesco, coordinava risultati di lettura e indagini induttive sulla problematica astrologica e morale che accompagna il viaggio paradisiaco. Gioverà, probabilmente, mostrare come lettura e cifra strutturale quasi naturalmente si integrassero, in quegli anni; e prendiamo ovviamente esempio dal Paradiso: come una bibliografia anche sommaria del problema della struttura della terza cantica può indicare a chi appena s’informi, l’ordinamento paradisiaco fu fatto dipendere dall’influsso dei pianeti (Flamini), dai doni dello Spirito Santo secondo le forme della visione corporea, immaginativa e intellettuale (Filomusi-Guelfi) dal parallelismo fra i beati e gli angeli (Capelli), dalla contrapposizione fra disposizione divina al Bene e diabolica tendenza al Male, aggruppata nelle tre «disposizion che il ciel non vuole» (Bertoni) e dal rapporto analogico che unisce la struttura d’Inferno, la struttura di Purgatorio e la struttura di Paradiso (Pascoli: siamo, evidentemente, più vicino a quella cifra riassuntiva dove il simbolo già si libera dal calcolo intellettualistico che tenderebbe a disporlo freddamente, e rivela la sua intenzione di emblema: e dietro l'emblema già si palesa la sostanza dell'immagine); e gli altri che si potrebbero annoverare. Ma ecco, quando già operava il salutare richiamo crociano alla necessità della lettura, dichiararsi la provvisorietà delle strutture predesignate dal poeta stesso, che ora accorre ad animate, quasi effettivo luogo dei singoli gruppi di anime i cieli, ora si ritrae alla dichiarazione esplicita della sede empirea (Porena); e un passo del Convivio, dal Busnelli al Porena, offrirne la glossa più persuasiva:
E sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch’entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno pet le sue buone operazioni e contemplazioni: ché, già essendo a Dio renduta e astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso Dio crede che siano.
«Egredienti itaque animae tuae de corpore spendidus Angelorum chorus occurat: iudex Apostolorum tibi senatus adveniat, candidatorum tibi Martyrum triumphator exetcitus obviet: liliata te Confessorum turba circumdet; iubilantium te Virginum chorus excipiat; et beatae quietis in sinu Patriarcarum te complexus astringat...» postillano i Commentatori del Convivio dall’Ordo commendationis animae della liturgia. Ed ecco scoperta l’immagine prima in cui tutte l’altre si dispongono discorrendo, sollecitata da una frase liturgica, dunque dalla forma di vita della parola intermediaria fra la contemplazione poetica e la sostanza delle cose sperate, confermata, a maggiore o minor distanza, dalle elucubrazioni di teologia morale e di cosmografia.
Poteva anche accorrere ad accettare la raccomandazione liturgica; e farci assistere alla processione degli Angeli, degli Apostoli, dei Martiri, dei Confessori, delle Vergini e dei Patriarchi; né certo a taluna di tali indicazioni si sottrae, se rammenti l’aliar degli Angeli su per la Montagna, e il messaggio apostolico affidato all’allegoria della sua prosecuzione scritturale nella processione della Chiesa militante nel Paradiso Terrestre, e il giubilo degli Innocenti in Paradiso: sceglie di preferenza la soluzione offertagli dalla dottrina cosmografica, che risponde al tema del viaggio e propone un nuovo paragrafo da aggiungere alla meditazione trinitaria che vede l’universo permeato dalla presenza di Dio. Sceglie, abbiamo detto; ma sbaglieremmo riconducendo le conseguenze intellettuali del suo scegliere a un processo di separazione: se dall’aut-aut che gli esistenzialisti ripetono da Kierkegaard è tanto lontano quanto dal manicheismo cui s’oppose la nuova cultura francescana o dal calvinismo che tentò di rovesciare la sua prosecuzione rinascimentale. La sua scelta è conseguenza di qualcosa che le preesiste (l’immagine che s'è detta, sorgente dal vivo nesso della sua vita, dal segreto del suo destino, presente, forse, nella ipersensibilità del «raptus» visionario, per una facoltà nativa onde la fantasia si concreta in visione, che i moderni forse hanno smarrito, forse trascurano); e gli consente di trascegliere dal corpo della dottrina quegli argomenti che dichiarano meglio la parola che ha da proporre. Nessuna violenza nella sua scelta; ma la conciliatività deriva sia dalla immensa sistemazione che la scolastica aveva disposto, chiamando la nuova dogmatica e la vecchia filosofia a confermare la sostanza della vita cristiana, sia dalla certezza che l’amore può tutto, e che la carità soccorre anche dove la giustizia ha diviso; e l’ala dell'angelo cancella dove la spada dell’angelo ha ferito; e la lancia di Achille, come il discorso di Virgilio, pagano, ma immerso in una vita cristiana che lo rivela e lo colma, ferisce prima e poi risana. Nessun calcolo, dunque: le rispondenze, taluna delle quali sorprendente per rigore, rivelano, anzi che la freddezza di una sistemazione razionale e aritmetica, l’entusiasmo con cui l'organismo vivo sente ogni sua parte rispondere alla volontà che promana dal principio vitale, e accorrere alla sua parola, ché è in uno potenza ed atto: sono la traduzione semantica del ritmo animatore dell’opera; e poiché il poeta le accompagna con la letizia onde un discepolo di Bach vede il discorso musicale conformarsi nella esattezza di una formula rigorosa, ma serbare l’allegrezza della vita primamente rivelata, un lettore di buon gusto non vorrà sottrarsi al richiamo di quella gioia. Anche la gioia è conferma del partecipare all’essere divino. Nell’universo le cose hanno «ordine e ragione»; e pet questo l’universo è somigliante a Dio: per questo chi lo percorre non può che lasciarsi andare a riconoscere la provvidenzialità del soccorso che prima o poi l’immagine riceve dalla ragione, e il senso dall’intelletto. Le cifre strutturali procedono pertanto ad una conferma, non sono affatto i limiti e le occasioni di tutta la poesia dantesca: nella sua realtà, egli le attende, ma non si turba se l’immagine le oltrepassa, e determina questa o quella aporia, dei fiumi infernali, per esempio, che l’uno dall’altro promanano: quasi sollecita una intelligenza più intima, per superare il divario (e suggerisce così che, diversi di nomi e di una sola sostanza, non sono tanto una scenografia quando l’atto di un dramma sacrale, inteso all’unità del senzatempo, affacciato alla metatesi delle cose, quindi al loro sovrapporsi); o il gran tema della patria terrena affidato all’eresiarca Farinata, che pur serve al disegno provvidenziale e gli dischiude il cammino verso la città celeste, sulle soglie stesse di Dite; o il riso di Beatrice, alla prosopopea del sangue, doppiato su quello della Dama. E che hanno: mai fatto i lettori, per secoli leggendo, se non attendere a conciliare questo o quel divario? Egli visibilmente si allontana, quando abbiamo scoperto un suo segreto, e si dispone in luogo più aperto e più luminoso e più alto.
O ci arresteremo sempre, parlando della libertà della poesia, al di qua della stessa disponibilità, nell’irrilevanza della disinvoltura? Che è dei tempi o in tutto sottoposti al regolamento della parola, come quando s’improvvisava musica e poesia, o in tutto anarchici e disfatti: come i nostri. Dante aveva punito in sé meditando, ed acerbamente punito, nelle Rizze quella disinvoltura; che chiama «leggiadria»: prima che si palesasse per levità d’amore, e spiritualità, e ritorno (rammenta come nel primo del Paradiso si svelle dalla terra, e come sia tanto luminosa la forza che lo folgora verso il cielo, quanto oscura la forza bieca che lo sospingeva dove il sol tace): non conosce infatti, nonché disinvoltura, disponibilità: conosce vocazione, missione. (Ed anche nella storia dei problemi strutturali che ci riguardano occorse il richiamo di un italianizzante, Hauvette, a sottolineare che la Divina Commedia è profezia: presagio del futuro? anche, ma soprattutto «parlare per altri», Dio, nel mistico possesso della Sua Vita: tanto è bene che si discorra al di là delle nostre contingenze polemiche). Se poesia è profezia e missione, tocca alla dottrina dichiararla; ma la dottrina non abbraccerà mai che una parte di quella verità: benché sia necessaria alla dichiara zione di quel divino modo dell’essere. Ne risulta che le allegorie non sono accattate: sussistono investite dalla luce della sua rivelazione, la quale prende attraverso di loro consapevolezza di sé e fa che gli altri la prendano. E come la parola, la parola nuda, la cifra semantica, pur ci soccorre nell’intendere il poeta, che si acquista movendo dalla nozione inerte alla nozione attiva (il più chiaro disporsi di una parola lungo un itinerario è in Dante quello della parola «amore»: sia nei tre tempi della meditazione afflitta e sconsolata di Francesca, sia lungo la sua propria vita, dalla «figura» stilnovistica all’«essenza» teologica), così di questo e di quell’emblema occorre tener presente le attinenze del repertorio per giungere alla luce che riflette l’animazione poetica onde l’investe: vedi, per un tema or ora toccato, quello della Lupa, come in una delle sue tante trasmutazioni, prenda l’aspetto della Femmina Balba, la «dolce» fetida Serena, cui svela e fa confusa la Donna santa e presta. O non è questo il segreto d’ogni lettura? trascorrere dal segno alla sostanza, e dalla meditazione alla contemplazione. Come le parole suonan diverso, così i segni; e si rivelano l’uno accanto all’altro, e il ciclo della Lupa sarà compiuto quando la Femmina Balba si trasformerà un’ultima volta nella Meretrice apocalittica; e le stesse persone: se, metafore di se stesse, si illuminano l’una accanto all’altra, nella società dei vivi, dalla terra al cielo, ché i morti alla grazia non conoscono vita di consorzio, o ne discendono, dal viluppo amoroso in Paolo e Francesca, al groviglio dell’odio in Ugolino e Ruggeri: e Pia vive illuminata dalla presenza delle anime che prima di lei accanto a lei invocano soccorso. La Commedia è tale che tutti i suoni risuonano in lei, come nell'orchestra e nello strumento, armonicamente; e via via che l’indagine prosegue, dentro la cultura dei tempi di Dante e lungo la fortuna dell’opera, fino a noi e dopo di noi: già lo si rammenta. Perciò la sua conoscenza non conosce niente di più pericoloso che la sosta della dottrina che di sé presume, e di sostituirsi alla vita: tutte le volte che l’allegoria fu intesa come una compagine riflessiva, il commentatore si adattò vanaglorioso alla sua scoperta, e si vietò l’intelligenza del testo; ma se quello stesso riscontro, e il ritorno dei tempi e dei temi, e l’indice delle concordanze (parole, emblemi e strutture) tu lo riaccosti all'animazione poetica, la poesia ti si rivela più profonda di quanto l'ingegno ermeneutico l’ha soccorsa a distendersi in ampiezza. Leggendo poesia, noi richiamiamo accanto all'uomo quello che la dottrina cataloga nell’indifferente distanza. Poesia e non-poesia? Anzi, uno spazio che la parola percorre, più o meno vicina al segreto del poeta; ma il torto lo fa a se stesso, chi presume d’allontanar dal poeta quello che allontana il critico da sé, perché inetto a comprenderlo o superbo. E un crescer di parola in parola, di segno in segno, di persona in persona: canto, che chiama e contracanto che risponde; e attraverso la parola invaso il mondo della storia; e il tempo ricreato dall'uomo che contempla Dio. E Certo, «non può tutto la virtù che vuole»: né con la parola Dante giunge E oltre i confini dell’essere, né meditando giunge il lettore a chiarire tutte le È zone che ora sono provvisoriamente oscure, ora accadrà che si rivelino per sempre reticenti, dove la luce dell'ingegno di Dante non è giunta. Ma per nessun poeta la verità ha invaso più cose, ha trasformato più certezze, ha serrato in più brevi termini il confine del reale, prima che il convento delle bianche stole getti le maschere e riveli solo creature nella luce di Dio: se realtà e verità sono termini convertibili, Dante ha dilatato più di ogni uomo al mondo la verità, e di tanto ha ristretto la realtà; ma bada: in attesa che la verità rifaccia cose eterne quelle che erano soltanto occasioni nella nostra vita, e talvolta ostacolo e morte. Così l’esegesi dantesca guadagna sempre più spazio.
Di persona in persona. Nel novero degli attori del suo dramma, che la statistica dispone in così vario modo, pet città e nazioni, pet età e sesso, degli antichi tempi e dei nuovi (e qualche suggestione n’esce pur sempre: quanti fiorentini fra i dannati? quanti poeti fra le anime purganti? quanti monaci fra i cittadini della città empirea?), trascorri fra gli estremi del puro nome «Diogenès, Anassagora e Tale» e i volti senza nome e le voci puerili degli Innocenti: parallelamente trascorri dal personaggio che par disfarsi della sua storia e invadere la sua leggenda, Conte Ugolino, e solo s’incrudelisce in un ritratto colmo d’orrore, al personaggio che storia e leggenda trasfigura nel puro gesto della devozione mariana, San Bernardo: terzo parallelo, dalla oscenità di una presenza sfacciata, Taide, al simbolismo effuso in pura danza e canto di Matelda. A un discorso quale qui si accenna, dei rapporti fra il simbolo e la persona, è il terzo parallelo quello che più conta; ma non potevamo rinunziare a insistere sul fatto che l’approdo costante, unico, del pensiero di Dante è la persona: di sé e di tutti: donde s’illumina la circostanza che ogni sintassi del discorso, così affidato alle parole, come dietro loro alle prevalenti immagini e emblemi e simboli, non è altro che un soccorso prestato alla ricognizione della persona. «Filios Dei fieri», così sottolinea la centralità della meditazione sulla Grazia il più recente esegeta del Paradiso: che significa ancora ricondurre tutta l'avventura della Commedia, nel suo termine di Paradiso, alla riscoperta dell'Uomo rinato nel sacrificio del Dio-uomo. E il più sicuro acquisto delle indagini complesse e vastissime ordinate sulla filosofia di Dante conclude verificando la «prodigieuse trouvaille artistique» il «pur coup de génie» che ha popolato il poema d’una moltitudine d’esseri vivi: non fredde allegorie ed astrazioni personificate, ma personaggi rappresentativi: dunque, ancora una volta, la prosecuzione intellettuale della parola viene ordinata a complemento del personaggio, se appena portiamo alle sue logiche conseguenze il dualismo che Gilson osserva e di che ogni lettore si risente, fra quel che è un personaggio nella situazione drammatica cui appartiene e la prosecuzione simbolistica che su di lui si raddoppia. Si raddoppia ad arbitrio? Anzi, non fa che proseguire il processo della predicabilità del personaggio: infatti, chi fa giudizio della persona umana è Dio solo, né Dante, pur investito di una missione divina, si sovrappone al giudizio di Dio: solo si dispone, coi soccorsi della Grazia e della ragione, a venerarlo, accetta e adora, e per cominciare lascia che Virgilio chiami scellerato, il maggior scellerato del mondo, «colui che al giudicio divin passion comporta». La passività implicita in ogni visione, e tanto più nella « visione unitiva », che è un’altra delle chiavi offerte per cercar l’unità concettuale della Commedia , di qui comincia e qui finisce. Noi non possiamo, accettata la condanna di Bonifacio VIII, condannare, dopo averli generalizzati in legge e in dottrina, tutti i fatti di Bonifacio VIII (e di tutti i papi, come s’affretta a fare chi vuole accaparrare Dante ad una polemica antireligiosa); né possiamo, accettata la salvezza di Sigieri di Brabante e di Giovacchino del Fiore, esaltare in sé l’averroismo e in sé il profetismo gioachimita: non più che accettare le vittorie amorose del pianeta Venere perché è salva l’avventurosa Cunizza. Nota, ancora, che in questo processo della predicabilità del personaggio la zona più vicina al poeta è quella della fantasia, della scelta che egli fa di un gesto e di una parola significativa, per definire il ritratto: immobilizzeremo il gesto facendo del ritratto un ridicolo burattino, e rinunceremo a ritrovare dietro l’atto drammatico e dietro la parola suggestiva la complessa integrità della persona? A nessuno potrebbe venire in mente, salvo che a un retore, simile grottesca cristallizzazione della poesia. Ma lo stesso procedimento deve essere rifiutato alle cristallizzazioni del simbolismo e della dottrina. Ripetiamo che la ricerca sull’allegorismo e sulle rispondenze è ricerca sintattica certo necessaria per le analisi preliminari del testo; ma al testo si deve pur giungere, e di là alla persona. Ancora, dunque, la conoscenza ultima risulta essere dell’uomo, cui solo tocca l’esser concreto, e nella misura stessa in cui partecipa della concretezza di Dio.
Vedemmo, discendendo, l’uomo, il suo partecipar dell’essere, cioè il giudizio che di lui fa Iddio amandolo, il suo propagarsi in parola e in dottrina, la sua missione, che è la sua presenza storica nel mondo. Questa scala che il poeta dispone per l’intelligenza di ognuno e di sé, non dovremmo ripercorrerla salendo verso la conoscenza di ciascuno dei suoi personaggi, e di lui, che dei suoi personaggi è il primo? Dovendo chieder soccorsi all’opera, dobbiamo pur frequentare i gradi ch’egli ridiscende per comunicare; e dalla esperienza della storia risalire alla conoscenza della dottrina e alla nozione della parola: termine ultimo la persona. L’errore (felix culpa: senza cotale illusione di toccar l’assoluto nei gradi intermedi della conoscenza, la ricerca non sarebbe generosa) consiste nell’arrestare il processo conoscitivo alle sfere esterne: credere di poter guadagnare tutto Dante attraverso la storia: credere di poterlo guadagnare solo attraverso la dottrina: o nella parola, che solo importa: storicismo, intellettualismo, estetismo. Historicus additus artifici propose Croce; ed or ora di Poets on poets parla T. S. Eliot: l’uno assorbendo il philosophus nell’historicus: l’altro consentendo che la poesia divaghi verso la dottrina. Non paia impertinente che, corsi i tre gradi della scala, la conoscenza si risolva in un incontro di persona: l’homo additus non perde dignità né toglie; e al poeta della persona convien pure, per riguadagnarlo, che si saggi il suo verso con un metodo implicito nella sua parola, la poetica della persona.