Dati bibliografici
Autori: Bruno Basile; Ezio Raimondi
Tratto da: Aggiornamenti di critica dantesca
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1972
Pagine: 155-162
Nei suoi Etymologiarum sive originum libri XX, Isidoro da Siviglia, uno degli auctores di rito nell’enciclopedia medievale, così chiosa il termine: «Allegoria est alieniloguium. Aliud enim sonat, et aliud intellegitur, ut [Virg. Aen, I 184-185] ‘Tres litore cervos / conspicit errantes’: ubi tres duces belli Punici, vel tria bella Punica significantur. Et in Bucolicis [III 71] ‘Aurea mala decem misi’ id est ad Augustum decem eglogas pastorum» (I xxxvii 22); e poi aggiunge: «Inter allegoriam autem et aenigma hoc interest, quod allegoriae vis gemina est et sub res alias aliud figuraliter indicat; aenigma vero sensus tantum obscurus est, et per quasdam imagines adumbratus» (§ 26). Come alieniloquium pertanto, l’allegoria rientra fra i tropi metaforici; come transumptio difficilis, è capace di nascondere dietro una serie di metafore continuate (così ps. Eracl. Quaest. homer. 5; Arist. Poet. 21; Cic. Orat. xxvii 94; Quint. IX ii 46) un concetto, sino a diventare, come doveva notare qualche secolo dopo Buoncompagno da Signa, «quoddam naturale velamen sub quo rerum secreta occultius... proferentur» (Rethorica novissima, in «Bibl. Turid. Medii Aevi», Bologna 1892, II 281). Sebbene già gli antichi ponessero in guardia contro il pericolo di questo procedimento letterario («bisogna guardarsi... dalla continuazione [delle metafore] acciocché l’orazione non ci diventi enimma», pseudo-Demetrio § 102), mentre si ammette, poi, con i tardi esegeti omerici, che esso è caratteristico dei poeti (G. Tzetze, Exeg. in Il., p. 29, ediz. Helm), nella cultura medievale che vede nascere la Commedia, l’allegoria risulta molto di più del complesso artificio a cui talvolta acconsentirono gli antichi, dalla filologia pergamena all’esegesi dello Scudo esiodeo al Proclo della dissertazione Sull’antro delle ninfe dell’Odissea fino al Physiologus dello pseudo-Epifanio. Essa presuppone infatti un abito di pensiero, una mentalità emblematica che si associa a un’ontologia metafisica in cui è possibile rappresentarsi l’universale come se fosse una cosa concreta, e s’inquadra in una visione critica dell’universo secondo cui il libro della natura riceve luce di continuo dal testo sacro, che è il libro di Dio: al linguaggio dei verba si contrappone il linguaggio delle res, signa translata, intese come simboli esistenziali di una teologia della storia misteriosamente unitaria.
Questa Weltanschauung sostanzialistica e analogica, in cui l’uomo vede a un tempo, con un solo sguardo, la cosa e il suo senso, l’aspetto sensibile e ciò che è di là dal sensibile, il gesto umano e .il suo valore di rito, i colori e la loro corrispondenza misteriosa nell’anima (si ricordi S. Bonaventura, Opuscula et tractatus quamplurimi, Brescia 1945-1947, II, f. 10 v., col. 2), spiega l’attenzione vivacissima degli uomini medievali per i sovrasensi liturgici e iconografici (la cattedrale come biblia pauperum, in cui tutto dal verticalismo all’orientamento, dalle statue alle vetrate parla mistice), l’attitudine a rileggere i classici dell’antica letteratura nella ricerca di prefigurazioni cristiane o spirituali (teorizzata nel II e III libro del De Doctrina Christiana di S. Agostino, ma si ricordi la lettura dell’Ecloga IV virgiliana nel De Civitate Dei X 27 e nel Lattanzio di Divinae Institutiones VII XXIV), l’interpretazione del: libro della natura come di un libro mistico (il De Natura rerum di Alessandro di Neckam e il De Bono religiosi status et variorum animalium tropologia di Pier Damiano e gl’infiniti bestiari e lapidari) e dei libri sacri come archetipi di scienza, filosofia, storia e morale (Quaestiones veteris et novi testamenti dell’Ambrosiaster, le Allegorie in universam sanctam scripturam dello pseudo-Rabano il De Scriptursi di Ugo da San Vittore e la ‘summa’ Quot modis di Alano da Lilla): si tratta di ciò che il Lewis nel suo libro Allegory of Love propone di chiamare, meglio ancora che simbolismo, sacramentalismo e un Le Goff definirebbe «struttura per analogia per eco». La stessa tradizione poetica di cui Dante è certo partecipe, aveva proposto la figura di un poéta theologus capace di congiungere poesia e scienza e di fornite ai lettori cibo di sapienza in poemi che, da un punto di vista strutturale, sono da considerare tra gli antecedenti della Commedia (il De Mundi universitate di Bernardo Silvestre, l’Anticlaudianus di Alano, la Stella Maris di Giovanni di Garlandia, tutti sulla scia del De Consolatione philosophiae di Boezio e della Psychomachia di Prudenzio) e la ritrovava inoltre nella pratica esegetica dei grandi scrittori del passato assunti come sintesi allusiva di ogni sapere (Fulgenzio e la Continentia Virgiliana e gli scritti Super Thebaidem, Bernardo Silvestre e l’opera Super sex libros Aeneidos Virgilii, Giovanni di Garlandia e gli Integumenta Ovidii). É da dire, per altro, che questa mentalità simbolica implicante, per la letteratura, un pubblico in consonanza con la logica praticamente enigmatica dell’opera d’arte e delle sue senefiances, passa attraverso complesse vicende di cui non si è ancora tracciata per intero la storia: solo negli ultimi decenni i dibattiti frasi critici dell’allegoria e quelli della lettera hanno cominciato a portare qualche luce anche nel campo della personificazione e della tipologia iconografica medievale. Se da una parte le indagini di uno Jauss mostrano che la tradizione letteraria profana trova nel Roman de la Rose una nuova forma di ‘double sens’ dove il segno, rispetto al modello lontano della Psychomachia, è insieme finzione e verità, e, spetta a Brunetto Latini, con il suo Tesoretto, in un’area ormai dichiaratamente dantesca, la scoperta di una fabula allegorica che si costruisce sulla storia e sulla biografia di un io narratore, dall’altra le indagini di uno Spicq, di una Smalley, di un De Lubac, di un Danièlou e persino di un Glunz, hanno messo in evidenza, all’interno dell’esegesi biblica (che rappresenta poi la forma più alta della lettura medievale, e lascia un segno di sé anche al di fuori di un ambito teologico strettamente tecnico) una varietà di esperienze, di discussioni e di scuole in cui sono da vedere altrettante risposte, dettate da ragioni storiche diverse, al principio ermeneutico di una parola a più livelli di significato, tutti compresenti in un verbum che è storia, signum transitivo e insieme res insostituibile. Ciò che resta fermo nella prospettiva interpretativa medievale del testo sacro, sotto una terminologia tutt’altro che coerente (si ricordi che il distico memoriale di Agostino di Dacia «Littera gesta docet, quid credas allegoria, Moralis quid agas, quo tendas anagogia» e lo si rapporti a Isidoro Sent., P. L. LXXIII 579; Remi d'Auxerre In Psalmum VIII, P. L. CCXXI 184 ss.; Abelardo In Ex., P. L. CLXXVIII 731A-770B; Ruperto di Deutz In Eccl., P. L. CLXVIII 1230 ss.) è la certezza che ogni simbolo del dialogo fra Dio e l’uomo, in quanto corrispondenza fra vari momenti della storia sacra, nasca sempre su di una verità storica, sulla haecceitas di un personaggio o di un evento, il cui significato si completa nella totalità organica del piano divino, così come le figure dell’Antico Testamento richiamano costantemente, in una prodigiosa rete analogica, i gesti, le opere di Cristo nel Nuovo e ne ricevono una significazione più profonda (si vedano le coppie tipo-antitipo Eva-Maria, Adamo-Cristo, Mar Rosso-battesimo). Indipendentemente dalla possibilità di dedurre diversi piani di riferimento mistico, l’allegoria si definisce in questo caso come un simbolismo tipologico o figurale d’ordine storico, fondato sulla verità autentica di un evento, e si contrappone strutturalmente al senso riposto della mitologia e della poesia antica dove invece, anche quando ne emana una rivelazione di sapienza, il simbolo procede sempre da una fictio umana, al di qua delle res storiche e della loro interna sintassi divina. È vero, d’altra parte, che questa distinzione tende ad attenuarsi nell’atto concreto dell’ermeneutica, dove la semantica del reale, cioè la tipologia, si sposta di continuo verso la semantica della parola (che è poi l’allegoria) e assume i caratteri di un virtuosismo analogico che si sovrappone spesso al tracciato del senso letterale, anche se è costante, nei grandi maestri, la preoccupazione di ricondurre sempre il sistema dei sensi mistici alla priorità della lettera (si ricordi S. Tommaso Quaest. quodlib. XII q. 6 a. 19 «sensus spiritualis semper fundatur super litteralem et procedit ex eo»). Questo spiega le oscillazioni e le incertezze che si ritrovano nella stesse pagine dei teologi, in un S. Tommaso per esempio (cfr. Opuscala selecta, Parigi 1881, II 399-401), di fronte a una tecnica di cui non era sempre facile definire i limiti di uso, e che diveniva ancor più fluida, per non «dire approssimativa, quando ci si trasferiva nel mondo della letteratura e vi si incontrava, si pensi a Chrétien de Troyes, la distinzione tra matiere, sens e senefiance oppure tra cortex e nucleus, sempre nell'intento di riaffermare un secondo termine del simbolo verbale secondo la libertà di una combinazione linguistica di cui il lettore doveva essere attivamente partecipe.
Lo stesso Dante, dopo avere già discusso nella Vita Nuova (xxv 8 ss.) il problema della ‘personificazione’, si è sforzato di chiarire che cosa intendesse per allegoria nelle pagine del Convivio e nella Epistola a Cangrande (ammesso che sia opera sua), dove sono da vedere, in un certo senso, i prolegomeni di una poetica allegorica della Commedia In Cv II 1 2-3 ss. il poeta ci informa che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale [... che non si stende più oltre che la lettera... L'altro si chiama allegorico], e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna... Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti... Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria. Benché sopra ciascuna canzone del Convivio il poeta userà la litterale sentenza e dopo quella... la sua allegoria, sfiorando incidentalmente gli altri sensi (II I 15), il luogo è importante, non solo per gli exempla canonici addotti (per il senso allegorico Orfeo, che facea con la cetera mansuete le fiere, allegoria degli uomini savi che con la voce umiliano li crudeli cuori; per quello mortale Cristo, che condusse seco solo tre apostoli sul monte della trasfigurazione, tropologicamente 4 le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia; per quello anagogico il salmo 113, nell’uscita del popolo d’Israel d'Egitto, vero secondo la lettera e spiritualmente, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera), ma perché unisce all’allegoria tradizionale ‘lettera-concetto ’, teorizzata da Fulgenzio (Super Thebaidem, p. 180, ediz. Helm) e Alano (De Planctu Naturae, P.L. ccx 456 B), la possibilità di un’allegoria biblica che postuli un testo reale historice et mistice, illustrato nel salmo 113, esempio canonico in questo genere di discussioni si ricordi s. Agostino Enarr. in Ps. cxiii, P.L. xxxvii 1483 ss., e Riccardo da San Vittore In Ps. Cxiii, P.L. cxcvi 337 ss.).
In ogni caso, come sottolineano molti critici moderni, si ha l'impressione che lo scrittore del Convivio non abbia ancora chiarito a se stesso sino in fondo il significato delle categorie di cui si serve: il Nardi parla addirittura di una vera e propria confusione tra «sensi grammaticali e sensi teologici», per quanto vi siano altri, oggi, che avanzano un giudizio assai più prudente, tanto più ragionevole, pensiamo, se si tiene conto delle contaminazioni terminologiche e concettuali che s’insinuano, come si è visto, nella letteratura dell’allegoria e del simbolo. Certo, nell’Epistola a Cangrande l’adesione al modello allegorico biblico appare più stretta e consapevole, senza residui contaminatori, come al termine di un travagliato processo di approfondimento espressivo e speculativo a cui corrispondono le rivelazioni, le scelte radicali di una Commedia. Per garantire la qualità summatoria e didascalica del poema, il commentatore dell’Epistola afferma che finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis (§ 39), cioè dal peccato alla Grazia, e aggiunge che questo avviene nella forma della visione, permessa anche a un peccatore in quanto Dio aliquando misericorditer ad conversionem, aliquando severe ad punitionem, plus et minus, ut vult, gloriam suam quantumcunque male viventibus manifestat (§ 82).
Quanto all’allegoria, che deve lasciar intendere al lettore il morale negotium dell’opera, lo scrittore insiste sulla ‘polisemia’ della Commedia (istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, citando ancora (§ 20, 21) i quattro sensi teologici letterale, allegorico, morale, anagogico, ma richiamandosi con l’esegesi del salmo CXIII (In exitu Israel de Aegipto... si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Aegipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensure, significatur nobis conversio animae de luctu et miseria peccati ad statum: gratiae; si ad anagogicum, significatur exitus animae sanctae ab buius corruptionis servitute ad aeternae gloriae libertatem) non più all’allegoria dei poeti, ma a quella del testo sacro, secondo la quale nulla è pura fictio: dai verba alle res tutto è reale, anche se poi può essere svolto in una forma parabolica che chiama in causa l’ordine dell’universo e le funzioni stesse del linguaggio, magari ricorrendo all’artificio di attribuire a Dio mani e piedi pur di trasmettere all’intelletto umano un barlume di verità, ma si ricordi quanto dice in proposito Dante in Pd IV 43 e ancora s. Tommaso Sum. theol. I i 10 ad 3; Quaest. quodlib. vii 14; Comm. Galat. IV lect. vii. Il rapporto istituito da Dante tra allegoria dei poeti e tipologia biblica emerge anche, con adeguata chiarezza, allorché l’Epistola (§ 27) parla della forma sivi modus tractandi della Commedia: accanto ai modi della retorica poetica poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus (presenti, ad es., anche nello Opus metricum del contemporaneo Iacobus Gaietani Stefaneschi, nella cui praefatio l’autore si vantava di aver usata tutta la retorica, idest i modi «narrativus, historicus, descriptivus, demonstrativus, exclamativus, suasivus, dissuasivus...»), troviamo insieme (et cum hoc, dice lo scrittore) i modi diffnitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus, tipici, di solito, dell’esegesi dei testi sacri (si vedano Alberto Magno Summ. Theol. I 9-5, membrum 1; s. Bonaventura Breviloquium, prol. 5; Ulrico di Strasburgo De Bono I tract. II ix).
Dante chiede dunque ai suoi lettori un'operazione straordinaria, che resta tale anche nel caso in cui l’Epistola non fosse sua. Intrecciate a quelle dell’Eneide, le immagini e le situazioni bibliche, che legano il linguaggio del suo racconto, esigono una sensibilitò disposta a muoversi entro un’‘allegoria fondamentale di tipo biblico, onde la Commedia è storia reale per parabola dell’homo viator (storicizzato nel drammatico ‘io’ del poeta operante in un mondo storicamente determinato) che passando attraverso la storia e l’esperienza del peccato e della redenzione giunge a divenire homo comprehensor (ma cfr. S. Tommaso Summ. theol. III 15 3 c) dell’ordo universalis. Conviene ricordare, a questo riguardo, quanto scriveva Alessandro di Hales nella sua Summa tbeologiae (I q. 1, membrum 1): «Aliter est historia in sacra scriptura, aliter in aliis. In aliis enim historia significatione sermonum exprimit singularia gesta hominum; nec est intentio significationis, interioris, et ideo quia singularium et temporalium actuum est. Omnis talis historia est eorum, quae numquam intelliguntur. In sacra vero scriptura ponitur historia non ea ratione seu fine, ut significentur singulares actus hominum significatione sermonum, sed ut significentur universales actus et conditiones pertinentes ad informationem hominum et contemplationem divinorum mysteriorum significatione rerum. Hinc introducitur passio Abel ut significetur passio Christi et iustorum, malitia Cain, ut significetur perversitas iniustorum, et sic in ceteris. Introducitur ergo in historia sacrae scripturae factum singulare ad significandum universale, et inde est, quod eius est intellectus et scientia». D’altro canto, la Commedia si lega anche alla capacità di rilevare i figmenta, gli integumenta, gli exempla suggeriti da una raffinatissima ars poetica per dimostrare corposamente temi intellettuali e rappresentazioni che posson vivere solo nell’ambito del modo poeticus, se si deve continuare a credere che il poema sorge da un ordine provvidenziale sul piano delle res, ma non è garantito, come i verba della Bibbia, da una rivelazione certa e indiscutibile.
Proprio per questa sua natura composita, in cui è da ravvisare forse un altro aspetto della genialità inventiva dantesca, viene poi da domandarsi come sia da intendere, allora, la fictio della Commedia, poiché se si accentua il suo aspetto immaginativo si compromette la dimensione della ‘verità’ biblica e se viceversa si insiste sul carattere storico della narrazione si postula una specie d’identità col testo sacro che, se si assume l'ipotesi totalitaria di un’esegesi applicata alla parola di Dante, può risolversi solo, a parte la lettura quadripartita di una Sayers, ponendo l’idea di una visione, di una profezia fra Antico Testamento e millenarismo medievale. È vero per altro che Ulrico di Strasburgo affermava che la teologia ammette il «modus poeticus quando veritatem sub integumentis ponit, ut in parabolis sacrae scripturae». Non sta a noi, ora, di dare una risposta, anche perché il problema è più che mai aperto; nondimeno si può osservare che, alla fine, si ritorna ancora alla questione del realismo dantesco e di una sintesi ‘ figurale’ che costituisce, per dirla con l’Auerbach, un unicum nella storia della letteratura europea, anche a considerarlo in rapporto al tema del ‘viaggio’, della ‘aventure’, della ‘queste’. L’allegoria del poema è per l’appunto un viaggio dal peccato (la selva) alla salvezza (la luce divina) con più guide (Virgilio, Stazio, Beatrice, S. Bernardo), incarnazioni anch’esse di una dialettica tra ragione e fede, attraverso paesaggi esemplari di un’umanità disperata, penitente o gioiosa, che trascrive nel libro vitale dell’eternità e della giustizia le scelte compiute in via, nel mondo della storia. All’interno di questa grandiosa costruzione, il poeta ha inventato un sistema di figure congiunte da una simbolica dinamica a questo rapporto di dannazione e di salvezza: le fiere infernali, il veglio cretese, i demoni, la processione dell’Ecclesia triumphans del Purgatorio, la mistica rosa del Paradiso, gli astri e i gesti simbolici del poeta, i simboli cristomimetici e geometrici del Paradiso, (Aquila, Croce, l’ingigliarsi a l’emme). La capacità di decodificare le allegorie della Commedia, che agli occhi di una esegesi sensibile paiono spesso moltiplicarsi in un vero universo simbolico, è sempre stata presente negli esegeti fino dal secolo XIV, tra quelli che ebbero notizia dell’Epistola a Cangrande (citata espressamente da Filippo Villani nel suo Comentum, ma usata da Iacopo, dal Bambaglioli, dal Lana e anche dal Boccaccio): anzi proprio al Boccaccio, dantista lungamente operoso (dai giovanili scritti dello Zibaldone Laurenziano Plut., XXIX 8, alle tre redazioni del Trattatello, ai commenti esegetici della tarda maturità), si deve un tentativo di esegesi sistematica, forse non sempre pertinente e con argomenti nella tradizione di Bernardo Silvestre, ma di notevole importanza, dato il nome dell’autore.
Si direbbe, comunque, che per quanto vicini allo scrittore della Comedia e alle riflessioni più interne del suo linguaggio, questi antichi esegeti si accontentino di un’ermeneutica eclettica, dove i motivi allegorici e quelli tipologici si confondono insieme in modo quasi aneddotico. Carattere di frammentarietà persiste anche in commentatori, pur linguisticamente assai sensibili, come l’Ottimo e Benvenuto, portati sovente a sforzi di un moralismo crittografico, reperibili ancora nei tardi Commenti di aria quattrocentesca di un Landino (che adotta anche sottili filtri neoplatonici) e del pur benemerito Serravalle. La materia allegorica non riceve nuovi lumi nella cultura del Cinquecento, più sensibile all'indagine sulla lingua poetica (si pensi a certe postille delle Prose della volgar lingua del Bembo, alle Lezioni su Dante di Benedetto Varchi, agli Studi di Vincenzo Borghini o alla Sposizione di XXIX canti dell'Inferno del puntiglioso ma acutissimo Lodovico Castelvetro), anche se qualche traccia di lettura simbolica è reperibile nel Discorso sopra la prima cantica del divino theologo Dante Alighieri di Vincenzo Buonanni o nel Commento di Bernardino Daniello. In fondo è già cominciato un processo di straniamento, anche se continua a fiorire nel mondo figurativo una mentalità emblematica, che riduce l’allegoria a un prodotto astratto e che, dopo Lutero, espunge anche dalla lettura del testo sacro il gusto della comprensione mistica, comune a tutta la teologia medievale. Le nozioni di allegoria e di simbolo si scindono come un negativo e un positivo, divenendo la prima un concetto aggiunto dall’esterno e il secondo un’idea dinamicamente presente nell’immagine: al limite, l’allegoria si determina come svuotamento intellettualistico del simbolo.
A parte il silenzio che avvolge nel Seicento e nel Settecento il problema allegorico dantesco, da cui emergono appena il Commento sui primi canti dell’Inferzo di Lorenzo Magalotti e poche, e per di più scarne, postille delle Illustrazioni alla Divina Commedia di Filippo Maria Rosa Morando, oltre alle pagine (ma fanno caso a sé) del Vico, un'impostazione storica moderna spetta al grande Commento (1865) di Nicolò Tommaseo, ricco di numerosissimi riferimenti biblici che spostano l’attenzione dei lettori verso l’area autentica della sensibilità dantesca, più ancora che alle meritorie analisi filosofico-linguistiche destinate a condurre, dal Cesari al Foscolo (pronto per altro a sostenere luminosamente che «chiunque considera nell’autore il poeta anziché il legislatore di religione, Dante e questo secolo…si rimarranno mal conosciuti») alla scuola dei D'Ancona, Rajna, e magari Scartazzini, Blanc e Witte. Bisogna attendere il tardo Ottocento, tra sfrangiature positivistiche e insorgente spiritualismo, perché, sul filone di una cultura romantica esoterica, si abbiano le prime ricognizioni intorno all’allegoria dantesca: ne sono altrettanti esempi la Beatrice svelata di T. Perez (Palermo 1860), dove l’allegoria diventa mistero con preoccupazioni crittografiche e, all’inizio del Novecento, libri come quelli di P. Chistoni, I simboli degli alberi e delle selve nella D. C., Milano 1910; F. Flamini, Il significato e il fine delle D.C., Livorno 1916; G. Pascoli, Minerva oscura, Livorno 1918; Conferenze e studi danteschi, ibid. 1921; Sotto il velame, ibid. 1923; L. Pietrobono, Il poema sacro. Saggio di una interpretazione della D.C., Bologna 1915 e Saggi Danteschi, Roma 1936; L. Valli, Il segreto della Croce e dell'Aquila nella D. C., Bologna 1922; La chiave della D.C., ibid. 1926, a cui si contrapponevano in altra area storica le solide indagini enciclopediche di Karl Vossler (La D. C. studiata nella sua genesi e interpretata, trad. it., Bari 1927), sebbene sia da dire che il Pascoli vedeva giusto quando insisteva sullo studio sistematico del linguaggio simbolico della Commedia e vagheggiava, per così dire, una filologia sensibile anche al dizionario spirituale del poema. Ma si trattava sempre di un gusto d’opposizione, trascinato a nuove forme di critica celebrativa pericolosamente incline alla logica capricciosa degl’iniziati.
Più che comprensibile quindi la reazione di un Croce in un’opera celebre (La poesia di Dante, Bari 1921), coeva dell’edizione di tutte le opere di Dante della Società dantesca, che separava la poesia dall’allegoria («romanzo teologico») negando a quest’ultima ogni valore espressivo al di fuori della testimonianza di un errore legato alla cultura di un’epoca e alle finalità « pratiche » di un programma letterario. Anche la chiarificazione crociana non risolveva però il problema della forma interna della Comedia, perché rinunciava in partenza a un'analisi storica dell’allegoria o ne cercava soltanto le premesse psicologiche; ma da essa usciva intanto pet ogni dantista il fermo invito a rimeditare con nuovo rigore storiografico lo spessore culturale della parola dantesca nel suo intimo itinerario fantastico. Se vogliamo subito passare ai testi più significativi di questo dialogo diretto o indiretto, che non poteva naturalmente restringersi alla sola area italiana, è da avvertire che dopo le vecchie esplorazioni del Moore, il ritorno interpretativo all’allegoria biblica, tipologica o figurale che si voglia chiamarla, si associa ai nomi di Erich Auerbach e di Ch. S. Singleton. Il primo, partito da alcune intuizioni dell’Estetica hegeliana, in una vasta serie d’interventi — da Dante als Dichter der irdischen Welt, Lipsia 1929, e Neue Dantestudien, Istanbul 1944 (tradotti in Studi su Dante, Milano 1963) a Mimesis, Berna 1949 (trad. it. Torino 1956) fino agl’interventi di Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spitantike und im Mittelalter, Berna 1958 (trad. it. Milano 1960) — ha posto in consonanza l’interpretazione figurale della Bibbia, secondo la quale fatti e figure del Vecchio Testamento prefigurano la vita di Cristo (loro autenticazione) con l’idea tomistica che nessun uomo può realizzare, se non nell’aldilà, la propria individuale essenza umana; proiettata nella struttura della Commedia si raggiunge così un’idea allegorica coincidente con la rappresentazione, sullo sfondo dell'eternità del giudizio divino, della contingenza degli eventi storici composti in valori assoluti. Su una via parallela si è posto il Singleton, aperto ai canoni esegetici dell’Epistola a Cangrande (in Dante Studies. I. Elements of Structur, Cambridge Mass. 1957 [trad. it. Napoli 1961] e Journey to Beatrice, ibid. 1958 [trad. it. Bologna 1968]), affermando che la Commedia, scritta non secondo la bella menzogna dei poeti, ma conforme all’allegoria dei teologi in cui i quattro livelli esegetici sono sentiti come un incontro delle varie dimensioni del reale, è un viaggio nell’aldilà che riflette analogicamente il nostro, qui in terra, e l’uno e l’altro sono l’itinerarium in Deum dell’inquieto cuore cristiano, imitazione dunque della rappresentazione biblica nelle figure dell'esodo e del ritorno. Il significato del poema starebbe in questo intimo compenetrarsi di prospettive, in cui il «simbolismo» è l’imitazione della struttura del mondo reale, e l’allegoria «imitazione della struttura dell’altro libro di Dio, la sacra scrittura». Nell'area più propriamente italiana, un posto di primo piano va al Barbi (di cui basterà ricordare Allegoria e lettera nella D.C., in Problemi fondamentali per un nuovo commento alla D.C., Firenze 1956) maestro della filologia dantesca accanto ai Rajna e al Parodi. Il Barbi nella voce Dante redatta per l’Enciclopedia Italiana, con un cauto storicismo problematico, ha discusso il pericolo delle prevaricazioni della struttura sul ritmo narrativo e poetico, osservando ‘ con chiarezza tutta toscana come «a prescindere dalle allegorie o fatte credere da Dante stesso con le sue affermazioni nella Epistola a Cangrande o immaginate dalla sottigliezza degl’interpreti, c'è una allegoria pensata nella prima ideazione del poema, ma questa è così generica e leggera che non impedì o ingombrò affatto la creazione particolare successiva: si tratta di quel senso parallelo all’azione letteraria per cui al viaggio di Dante dalla selva al Paradiso terrestre dietro a Virgilio e all’ascensione per i cieli sotto la guida di Beatrice corrisponde il cammino dell’umanità verso la felicità terrestre sotto la guida dell'Impero e della Chiesa». A queste pagine, che sono il frutto di una lunga, puntuale esperienza di lettore e d’interprete, si possono aggiungere le considerazioni di N. Sapegno (non solo in sede di Commento alla Commedia, ma anche nella Introduzione alla C., in Pagine di storia letteraria, Palermo 1960) che, riprendendo spunti del Russo (Genesi e unità della C., in Ritratti e disegni storici, serie 2, Bari 1951), con una sensibilità storica a cui non è estraneo l’esempio di Gramsci, rilevano come in Dante il «sistema sopravvive anzitutto come poetica», da illuminare caso per caso attraverso le matrici ideologiche dello scrittore; non per nulla, d'altronde, il Sapegno è anche dell’avviso che una nuova lettura dantesca non possa ignorare gli accessus esegetici di un Auerbach e di un Singleton. A questo atteggiamento pare conformarsi molta della critica contemporanea, magari in dura polemica con il crocianismo, come accade nel caso di un Montano; mentre si approfondisce la relazione tra l’allegoria della Commedia e una sensibilità scritturale e tipologica (con gli scritti di un De Lubac o di un Chydenius), si tenta insieme di situare il fatto allegorico nella ricchezza della forma simbolica cristiana tra filo- sofia, poesia e rito, e d’illuminarne gli elementi espressivi che conservano, anche per un lettore moderno disposto ad accogliere l’interna dialettica tra presente e passato, una forma di comunicazione intellettuale. Più di recente il Mazzoni (nel suo Saggio di un nuovo commento alla D.C., Inferno I - III, Firenze 1967) ha dimostrato quale vasto campo di risonanze culturali sia possibile recuperare attraverso un’esegesi che inquadri, sullo sfondo dei testi della mistica vittorina e della tarda latinità, il pellegrino dantesco e una visione del mondo dove il simbolismo biblico e cristiano si configura storicamente nella grande idea di una metanoia politica. Si può forse dire, per concludere, che anche l’allegoria, liberata dai sospetti del razionalismo e dagli entusiasmi dei decifratori, sia entrata a far parte del sistema di linguaggio o della mescolanza degli stili di cui consiste la Comedia. Ciò che sembra appunto Una rigorosa penetrazione della parola dantesca, tenendo conto che le res bibliche o cristiane hanno insieme il valore di verba e appartengono perciò al processo interno dell’espressione, al contesto attivo dell'immagine. La proposizione tomistica secondo cui «intellectus metaforicae locutionis in Scripturis est litteralis», può essere in parte applicata, anche se in senso tutto particolare, al rapporto res-verba della Commedia.