Dati bibliografici
Autore: Salvatore Battaglia
Tratto da: Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante
Editore: Liguori, Napoli
Anno: 1967
Pagine: 271-301
È stato Giovanni Boccaccio ad applicare a Dante la categoria intelletualistica del poeta-theologus, secondo la proposizione aristotelica, ch’era pervenuta alla cultura del Trecento per il tramite di Cicerone. Ma anche per Aristotele si trattava d’un lascito del pensiero di Platone, nel cui sistema l’idea della poesia teologizzante s’inseriva con maggiore coerenza, come in un clima mentale più omogeneo. Viceversa la ripresa che ne faceva Aristotele rimaneva in forma episodica e incidentale, in quanto non s’incorporava alla sua più diretta dottrina estetica.
Se qui se ne ripropone la formula, è perché nell’adozione del Boccaccio si delinea la prima organica valutazione della personalità dantesca e della struttura che i posteri più immediati seppero riconoscere alla Divina Commedia. Nel rinnovarne la notizia riteniamo di ricostruire l’episodio forse più cospicuo, e anche più suggestivo, della fortuna dantesca, la cui eredità è possibile controllare in alcuni risultati della critica moderna. Gli antichi riuscirono a penetrare con più profondo scandaglio e con maggiore adesione storica nell'universo artistico di Dante, che invece appare così remoto dalla dimora esistenziale che noi oggi sperimentiamo. Se ci accostiamo alla Divina Commedia con l’esperienza e la sensibilità odierna, essa ci sembrerà l'esemplare superstite d’una civiltà tramontata, quale è quella appunto che identificava la poesia con la coscienza della fede, la fantasia con il sapere escatologico, la realtà con la metafisica: quando, cioè, poesia e teologia si facevano coincidere, in quanto entrambe rivelatrici di mondi occulti e fatali. Il che poi conferiva alla poesia la categoria dell’universalità in un sistema teorico assai più concreto del riconoscimento che ne ha fatto il pensiero romantico e idealista (anch’esso, peraltro, costretto a postulare la genesi metastorica dell’arte in mezzo a un mondo umano che, al contrario, si concepisce strettamente legato all’agone della storia).
Questa categoria del poeta-teologo è stata per l’appunto riesumata dal Boccaccio, il quale non si riferiva tanto ai contenuti dottrinali e dogmatici quanto all’ispirazione fondamentale della Divina Commedia. Per il Boccaccio Dante è poeta-teologo perché ha ripristinato la vera funzione della poesia, che è rivelazione di verità storiche e di simulacri metafisici. Il poeta è il vate, che trasmette le memorie sacre del passato, interpreta i fini della vita umana, comunica agli altri, contemporanei e posteri, la realtà ermetica che ci trascende e celebra la genesi divina del creato. La poesia è un occhio rivolto a scrutare i segreti dell'universo. Il poeta è ispirato da un’arcana energia che gli consente di decifrare o presagire i sensi più occulti dell’esistenza e del destino umano. E pertanto convoglia nella propria ispirazione le qualità e le conoscenze della storia e della teologia: ed è, al contempo, evocatore della tradizione, rapsodo dei fatti e delle gesta di un popolo, di una nazione, dell’umanità intera; ed è, ancora, profeta di vaticini, di premonizioni, di riforme; anticipatore di eventi, di decadenze storiche e di rinascite spirituali; depositario di civiltà perdute e cantore di società nuove . Non c’è dubbio che l'estensione spirituale di questa teoria estetica si presentava in una prospettiva illimitata e fascinosa, quale non è stata più eguagliata. E non si dimentichi che con questa concezione l’attività fantastica e lirica riceveva la prima sicura prerogativa della propria indipendenza da ogni altra qualità razionale, compresa la filosofia, senza tuttavia pretermetterne i contenuti e i valori conoscitivi.
Di questa nozione estetica di ascendenza platonica il Boccaccio aveva dovuto derivare il primo suggerimento dal Petrarca specie da una sua celebre epistola al fratello Gherardo. E il Petrarca, a sua volta, aveva raccolto e rielaborato, con molta discrezione e con il calore della sua consueta partecipazione personale, le suggestioni più appassionate, quasi un manifesto, di Albertino Mussato, l’umanista padovano coetaneo di Dante. E dato che allora non si era in grado di leggere direttamente i dialoghi platonici (se non in parte, nelle versioni del Timeo soprattutto), quest'idea che faceva coincidere la poesia con la teologia e l'ispirazione con il furore divino era filtrata attraverso le testimonianze di Cicerone. Nella sua mediazione si era trasmesso il pensiero estetico di Platone, specie nell’Oratio pro Archia, in cui lo scrittore aveva sostenuto in termini espliciti la netta distinzione del talento, che si acquista con lo studio e l’esercizio dell’arte, dall’ispirazione congenita e si direbbe prenatale del poeta, che è tale per dono di natura e fruisce di un afflato quasi divino: «A summis hominibus eruditissimisque accepimus, ceterarum rerum studia et doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari». Anche il prisco Ennio (prosegue Cicerone) nel suo severo entusiasmo chiama sacri i poeti, come se gli dei avessero voluto accordare a loro questo privilegio celeste: «Quare suo iure noster ille Ennius sanctos appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur».
Questa formula, che in sostanza mirava originariamente a qualificare l’universalità della poesia omerica, il Boccaccio la trasferiva per primo all’interpretazione della Divina Commedia, aprendo una feconda e austera tradizione critica, che giungerà, non senza opposizioni e traversie, nel grande alveo della Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, per rivivere sotto mentite spoglie nel pensiero dei romantici.
Ma bisogna subito avvertire che la categoria del poeta teologizzante rispondeva a una particolare mentalità, quale si era formata nella stessa antichità e si era riprodotta nel Medioevo cristiano. L'ispirazione, cioè, numenica della poesia abilitava a trasferirla nell’esegesi ermetica e l’autorizzava a una lettura per allegorie e per simboli. L’interpretazione traslata della poesia, come la preferivano gli antichi e i medievali, accordava un procedimento metaforico e integrativo, che permetteva di travestire poeti remoti (come Omero ed Esiodo) nel costume mentale contemporaneo. Per questa via l’opera poetica riusciva a rinnovare periodicamente i propri valori e a ritrovare motivi di perenne attualità anche in climi di civiltà disparatissimi.
Il ritorno trecentesco a Platone e al concetto del fantasma poetico come «idea» preesistente allo stesso poeta e dotata di un retaggio di verità trascendenti e occulte, le quali affondano le loro radici in una dimora iperuranica e s’incontrano con i simulacri dell'assoluto e della fede, equivaleva anche ad un ripristino dell’interpretazione medievale e cristiana. La posizione critica, infatti, che si sviluppa dal Boccaccio al circolo ficiniano, rappresenta una ripresa delle teorie etico-letterarie di cui nel secolo quinto s’era fatto portavoce il Mitografo Fulgenzio, che le aveva applicate in larga scala all’esegesi virgiliana. Solo che nel metodo degli apologisti cristiani era implicita una prevaricazione dei testi classici, nel senso che la lettura più moderna li sottoponeva ad un’opera di riscatto, ritraducendoli nei nuovi valori, che si ritenevano originariamente inconsapevoli e soltanto divinati dalla coscienza degli antichi autori.
Viceversa nella restaurazione umanistica (da Albertino Mussato al Boccaccio, al Ficino, a Cristoforo Landino) si restituiva credito ai poeti a livello reale ed effettivo e si riconosceva nella loro ispirazione il riflesso diretto e operante di una qualità sovrannaturale e divinatrice. Se, cioè, per i lettori cristiani del Medioevo l'applicazione del metodo allegorico ai classici dell'antichità pagana costituiva un espediente per giustificarne lo studio e l’interesse, gli umanisti del Tre e Quattrocento ne riabilitavano interamente la funzione e postulavano la fondamentale sintesi di poesia e di verità, d’intuizione e di costume. Semmai, quel che mette conto di verificare è la graduale conquista che gli scrittori pagani fanno nell’ambito della cultura medievale in questa direzione, cioè come progressivo affrancamento dei loro testi da una superaddita allegorizzazione, a favore di un più positivo riconoscimento della loro consapevolezza edificante e rivelatrice. In tal senso, forse, si può cogliere il trapasso verso un atteggiamento più confidente nei secoli XI-XII, allorché anche le sfere ufficiali della Chiesa e dell’intellettualità ecclesiastica cominciano ad ammettere la validità concreta e «letterale» della sapienza classica. Ma in proposito è bene ricordare che il periodo culturale che si matura nei suddetti secoli e darà ancora i suoi frutti nel Duecento, alla vigilia dello Stilnovo e della Vita Nuova di Dante, si qualifica soprattutto per un ritorno più decisivo delle correnti platoneggianti e agostiniane, che approderanno alle rive della mistica. Il misticismo religioso e l’ermetismo esegetico si valgono entrambi, anche se per vie distinte e con risultati assai diversi, dell’analogo procedimento simbolistico.
L'assunzione dell’ispirazione poetica sul piano della dottrina teologica implica inevitabilmente la lettura allegorica. La stessa concezione platonica della poesia le conferisce valore mitico e la investe di sensi perpetuamente traslati e arcanamente sottintesi. Il metodo allegorico (che poi si venne a codificare nella teoria della poesia teologizzante, secondo il pensiero platonico, e in funzione stilistica e tropica nella retorica aristotelica) era stato escogitato dall’esegesi greca per l'epopea omerica e per il repertorio dei miti e delle favole. Quando questo procedimento interpretativo perviene nelle mani di sant'Agostino (per citare lo scrittore che avrebbe agito più autorevolmente nella cultura medievale) aveva circa mille anni d’esperienza .
La sorte dei poeti, a cominciare s'intende da Omero, restava ancorata all’esegesi allegorica. Tuttavia, la sostituzione nella cultura greca del termine di «allegoria» (che è da considerare un neologismo del secolo I a. C.) al posto della voce tradizionale ύπόνοια, significò, in un certo senso, il tentativo di affrancare l’interpretazione dell'opera poetica da una precisa direzione. Perché rispetto al significato più specifico di ύπόνοια («senso occulto») il più recente άλληορία aveva un’accezione più generica («altro da ciò che si dice») . Ma, in effetti, i due termini continuarono a convivere per un certo tempo come sinonimi, finché il nuovo («allegoria»), entrato nella tropologia della retorica (greca e latina ) e nell’allegorismo cristiano, venne generalizzandosi e prevalendo. Entrambi, comunque, concernevano il medesimo concetto: reperire una verità attraverso un discorso che la dissimula e insieme la rivela .
Nel rapido e tenace diffondersi del trattamento allegorico, non è circostanza secondaria la pretesa di aristocratica selezione che s’accompagna ad una lettura mistica ed ermetica della poesia. Tanto il poeta quanto l’interprete sentono di appartenere a una minoranza eletta, a cui è dato di reperire segni e simboli che si celano nelle favole. Equivaleva a possedere una doppia intelligenza, quella comune e diretta, e un’altra superiore, ispirata, partecipe d'una favilla del divino. La coscienza di poter considerare un testo poetico sotto una duplice visuale, con gli occhi e i sensi consueti e normali e insieme con la rara intuizione del sapiente e del teologo, aveva finito col creare una dimora di privilegio per pochi intellettuali, che, sia come poeti e sia come esegeti, ritennero di nutrire e trasmettere un patrimonio di verità iniziatiche, senza fondo e senza tempo. Nonostante la differenza di epoche e di situazioni, una fondamentale affinità accomuna la sapienza occulta e metastorica di Pitagora , di Evemero , di Fulgenzio, di Dante, di Marsilio Ficino, di Cristoforo Landino (fino allo stesso Vico). Per ciascuno d’essi è l’interpretazione dei testi antichi che li abilita al mondo del conoscere. È sui loro significati e simboli ch’essi possono ogni volta presentire il segreto del mondo, della vita, della sorte, ed eventualmente edificare una concezione della storia, della realtà e della natura.
Questa saggezza nascosta e coperta aveva il fascino di stabilire fra il poeta e la realtà e poi fra il lettore e l’opera di poesia una relazione d’intelligenza, come una complicità d’iniziati. Per suo tramite la poesia acquistava la prerogativa del conoscere intellettuale e del sapere mistico. Si veniva a porre sullo stesso piano della religione e della filosofia, con il vantaggio di operare sulla realtà e sulla natura per via diretta e insieme sotterranea. E le sue immagini permettevano agli uomini di riconoscersi nella propria concretezza ed empiricità, ma nello stesso tempo li autorizzavano a penetrare o tentare i segreti e i misteri del mondo, del creato, del destino eterno. Era un modo di conferire all’arte un significato universalistico e farle superare la sua appartenenza alla trama quotidiana delle passioni e delle sensazioni e all’alea delle finzioni favolistiche. Il concetto che sarà accolto e tramandato dalla poetica d’Aristotele sul carattere dell’arte come imitazione della natura e dell’esperienza, quale semplice riproduzione del vivere e dell'agire umano, conteneva nella sua formulazione più divulgata un principio limitativo, quasi di passiva meccanicità, che finiva per mortificare la stessa vocazione. E viceversa la teoria allegorista e sapienziale apriva alla poesia un orizzonte sconfinato e le attribuiva una qualità rivelatrice e misteriosofica, destinata a sedurre le menti con la lusinga di farle partecipare, pur senza l'obbligo di sistemi dialettici, ad un'attività euristica ed inventiva . L’opera poetica si dotava di risonanze plurime e proliferanti: diventava una suggestione perpetua di indagini, intuizioni, verità allusive e sempre disponibili all'infinito. L’universalità e cosmicità riconosciute all’arte dall’estetica moderna erano presentite dalla cultura antica e medievale attraverso questa coscienza simbolista d’illimitata applicazione.
Il procedimento a cui s'ispirava siffatta esperienza aveva una duplice articolazione, o, meglio, una correlazione di tipo dialettico, perché da un canto è l’idea che per esprimersi ricorre alla realtà delle cose e degli aspetti, e, dall’altro, sono le parvenze concrete e sensibili che aspirano a tramutarsi in valori ideali. Il poeta e il lettore risultano solidali in questa sintesi di favola e di verità, di mito e di dottrina, di esperienza e intuizione, di realtà e trascendenza. Trascurare tali presupposti nella coscienza letteraria del nostro Medioevo e nella più interna struttura della Divina Commedia in nome dell’intolleranza di noi moderni verso le forme allegorizzanti e simbolistiche, è un controsenso. Tanta parte dell’estetica resterebbe abolita senza peraltro giovane alla più intrinseca comprensione dei poeti, che a quella poetica si iscrivevano e ambivano, compreso lo stesso Dante. D'altronde, la presunzione di sublimare la poesia nei cieli dell’universalismo allegorico e teologico, non differisce molto dalla prosopopea della cosmicità ed eternità dell’arte secondo la formula idealistica.
Non sì può concludere un discorso sul valore dell’allegoria, quale si è sviluppato nel Medioevo e quale è pervenuto alla spiritualità di Dante, senza chiarirne il concetto attraverso l’intervento di sant'Agostino . All’esegesi mistica e tropologica sant'Agostino ha fatto largo credito, forse più di quanto allora fossero disposti ad ammettere le sfere ufficiali della Chiesa. Nei suoi scritti l’allegoria (come voce e come concetto) risulta assai familiare alla terminologia latina e all’interpretazione religiosa. In un capitolo del suo trattato De Trinitate (nella seconda parte che sviluppa la teoria delle «immagini») è commentato il celebre passo di san Paolo (nella prima lettera ai Corinti, XIII-12): Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem . Sant'Agostino avverte che queste parole non sono affatto comprensibili per coloro che ignorano la dottrina delle figure retoriche, dei cosiddetti «tropi», parola greca entrata nella lingua latina in forma stabile («doctrina quaedam de locutionum modis, quos Graeci tropos vocant, eoque graeco vocabulo etiam nos utimur pro latino»). Poiché — aggiunge — come nell’uso corrente noi preferiamo dire «schemi» a preferenza di «figure», così adoperiamo più volentieri il termine di «tropi» rispetto ai «modi» retorici. S’intende che incontriamo difficoltà a tradurre in latino la terminologia specifica dei Greci. Così avviene, prosegue sant'Agostino, che alcuni traduttori, volendo rendere il testo dell’Apostolo (questa volta nella lettera ai Galati, IV-24): quae sunt in allegoria, senza adoperare la parola greca, fanno ricorso alla parafrasi: Quae sunt aliud ex alio significantia. Ora, precisa a dire santo Agostino, questo genere di tropi, cioè l’allegoria, comprende parecchi tipi o varietà, tra cui l'enigma («Hujus autem tropi, id est allegoriae, plures sunt species, in quibus est etiam quod dicitur aenigma»). È chiaro, secondo lo scrittore, che ogni nomenclatura generica designa le sue varie specie, ma è anche vero che ciascuna d’esse si distingue dalle altre, come appunto accade all’enigma nei confronti dell'allegoria («ita omne aenigma allegoria est, non omnis allegoria aenigma est»). D'altronde, che cosa è l’allegoria se non un tropo mediante il quale noi diciamo una cosa e ne significhiamo un’altra? (Quid ergo est allegoria, nisi tropus ubi ex alio aliud intelligitur?). E a questo proposito lo scrittore cita un passo della lettera ai Tessalonicesi (V, 6-8): Itaque non dormiamus sicut et caeteri, sed vigilemus et sobrii simus. Nam qui dormiunt, nocte dormiunt; et qui inebriantur, nocte ebrii sunt: nos autem qui diei sumus, sobrii simus. Qui si tratta di un’allegoria e non d’un enigma, in quanto il senso è abbastanza esplicito; viceversa, l'enigma si può considerare un’allegoria oscura («Sed haec allegoria non est aenigma... Aenigma est autem, ut breviter explicem, obscura allegoria»).
Quel che qui mette conto di sottolineare è l'ufficio di simbolo che l’allegoria riveste nella stima di sant'Agostino, il quale superava il momento puramente retorico (secondo l’impiego di figura stilistica a cui era stata assegnata l’allegoria nella trattatistica greco-latina dell’eloquenza da Aristotele a Cicerone e a Quintiliano) per una resa d’ordine interpretativo e spirituale. Quando l’Apostolo parla d’allegoria, dice sant'Agostino, non fa questione di parole, ma si riferisce ai fatti: Sed ubi allegoriam nominavit Apostolus, non in verbis eam reperit, sed in facto. E’ allora che l’allusione al «fatto» può risultare di ardua intelligenza, e pertanto l’allegoria assume la specie dell'enigma, secondo la formula appunto adottata da san Paolo: «Proinde allegoria talis, quod est generale nomen, posset specialiter aenigma nominari». Il concetto, cioè, di allegoria o enigma, quale si contiene nella proposizione paolina, rivela la sua indole di «specchio» e però di «immagine», vale a dire una rappresentazione indiretta o allusiva, ma concreta e reale: «Quale sit et quod sit hoc speculum si quaeramus, profecto illud occurrit, quod in speculo nisi imago non cernitur». Nell’esposizione di sant’Agostino si riflette integralmente la sensibilità esegetica del Medioevo e in particolare dello stesso Dante. L’allegoria ci prospetta un «fatto» nella sua compiutezza, che però allude a un altro evento, che si lascia intravedere o presagire per una certa dissimulata rassomiglianza. Nel primo la nostra intelligenza sorprende quel tanto d’incerto, d’oscuro, d’incomprensibile che è implicito fatalmente nella nostra qualità conoscitiva, alla quale la realtà superiore, eterna ed incorruttibile, non può palesarsi in tutta la sua evidenza, fin tanto che il nostro sguardo continua ad essere terreno e mortale: «Cum igitur speculi et aenigmatis nomine quaecumque similitudines ab Apostolo significatae intelligi possint, quae accomodatae sunt ad intelligendum Deum, eo modo quo potest».
La difficoltà che noi incontriamo durante la vita, cioè di vedere attraverso uno specchio e nell’oscurità dell’enigma, non deve sorprenderci. Semmai, è una circostanza anch’essa enigmatica la modalità del nostro spirito, che ci ostacola di vedere ciò che in effetti non è possibile non vedere. Tutta quanta l’attività cogitante della nostra mente ci sta davanti agli occhi, reale e insieme astratta, tutta riflessa in uno specchio che la rende chiara ed oscura, come simulacro di verità. A questo proposito sant'Agostino compone una delle sue più belle pagine. Chi non vede, egli si chiede, il proprio pensiero? e tuttavia chi è che possa vederlo veramente, non diciamo con gli occhi del viso, ma con lo sguardo interiore? Il pensiero è una visione dell'anima: sia che si tratti di cose presenti, che i nostri occhi fisici possono guardare e i sensi percepire, e sia che si tratti di assenze, di cui la mente conserva le immagini; e sia che si tratti di pensieri immateriali, che non si riferiscono a determinati oggetti, come sono invece le virtù, i vizi, lo stesso pensiero come tale, e sia che si tratti di cognizioni trasmesse con l’ausilio delle scienze e delle arti liberali; e sia che pensiamo le cause supreme, attinte nelle ragioni della natura immutabile, e sia che pensiamo cose cattive e vane e false, tanto quelle che subiamo senza consentimento quanto quelle che accettiamo con erronea libertà .
La verità è che gli antichi scrittori, tanto i greci quanto i cristiani, non facevano un'effettiva distinzione fra allegoria e simboli, in quanto non era per loro concepibile un’allegoria che non fosse simulacro di verità e rappresentazione simbolica. E questa sarà la posizione assai delicata di Dante, il quale adoperò l’allegoria con valore di simbolo, cioè come espressione concreta di esperienze interiori e immateriali . La difficoltà a qualificare il metodo della Divina Commedia deriva dalla generica adozione del concetto di allegoria, che non è reperibile, se non in minima parte e per pochi elementi decorativi, nella tradizione letteraria a cui fanno capo opere come la Psychomachia di Prudenzio o il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e di Jean de Meun . Viceversa l’allegorismo di Dante, come lui stesso s'è dato pensiero di precisare nel Convivio e nell'epistola a Can Grande, proviene da un'esperienza assai diversa, che si ricollega alla grande esegesi scritturale e alla dottrina euristica di sant'Agostino.
Fulgenzio ha il merito della priorità nella lettura allegorica dell’Eneide. La sua Virgiliana continentia doveva inaugurare nel sesto secolo l’interpretazione metaforica e morale del grande poeta latino, ch’era vissuto alla vigilia dell'avvento cristiano. Il metodo che Fulgenzio applica a Virgilio è analogo a quello adottato nell’altra sua opera, le Mythologiae, condotta secondo il sistema evemerista. Lo stesso Fulgenzio in apertura dell’opuscolo Super Thebaiden esponeva i canoni esegetici a cui s'era ispirato per la sua «contenenza virgiliana». Quel che qui sorprende è il rispetto dell’autore per la posizione profana e pagana di Virgilio, che non subisce da parte di Fulgenzio alcun tentativo di cristianizzazione. Anzi l’interprete è abbastanza esplicito a tale riguardo. Nel dialogo ch'egli immagina con Virgilio, gli fa confessare, per l'appunto, a proposito delle infiltrazioni epicuree che contaminano la veracità del suo pensiero filosofico, quanta remora abbia costituito per la propria esperienza l'ignoranza della parola di Cristo: «Si, inquit, tantas Stoicas veritates aliquid etiam Epicureum non desipissem, paganus non essem; nulli enim omnia vere nosse contingit, nisi vobis, quibus Sol veritatis inluxit. Neque enim hoc pacto in tuis libris conductus narrator accessi, ut id quod sentire me oportuerat, disputarem, et non ea potius quae senseram lucidarem» .
Per Fulgenzio i dodici libri dell’Eneide rappresentano le dodici poste della vita umana, come dicotomia di anima e corpo . La lettura della poesia è fatta secondo gli schemi della «filosofia morale». Quel che occupa l'interesse dell’esegeta è la rappresentazione della sorte dell’uomo, la sua parabola dalla dimora fisica all’ascesa etica e spirituale. Le peripezie di Enea raffigurano l’esperienza paradigmatica del vivere: un paradigma di progressi e regressi, di prove e di conquiste, che Virgilio proiettava in uno schermo di azioni e di episodi reali e storici ma che sotto il velo dell’allegoria costituivano l’edificio morale dell’esistenza . Per quanto arbitraria e superaddita, l'ampia metafora di Fulgenzio corrisponde pienamente al valore che il Medioevo cristiano e moraleggiante assegnava alla poesia. Se ne segua la traccia secondo il riassunto assai conciso ma estremamente esatto che ne ha fatto Domenico Comparetti:
«Virgilio adunque dichiara che il naufragio d’Enea significa la nascita dell’uomo, il quale dolente e lagrimoso entra nelle procelle della vita; Giunone che muove il naufragio, è Dea del parto, ed Eolo che la serve è la perdizione; Acate significa i dolori dell'infanzia; il canto di Iopa, è il canto delle nutrici. I fatti del II e del III libro si riferiscono tutti all'infanzia, avida di meraviglie e di racconti favolosi, come pure ad essa in fine del III si riferisce il Ciclope, che ne simboleggia, coll’occhio unico sulla fronte, il poco intelletto e l’animo prono ad alterigia, il quale è domato da Ulisse, che è il senno. Il periodo dell’infanzia chiudesi colla morte ed i funerali del padre Anchise, cioè coll’uscire dalla tutela paterna. E allora (IV libro) libero di sè stesso l’uomo si dà ai piaceri della caccia e dell'amore; e la vertigine della mente (Bufera) lo conduce alle tresche illecite (Didone), finché ammonito dall’intelletto (Mercurio) ritorna in sè e lascia quelle; l’amore abbandonato muore incenerito (fine di Didone). Tornato al senno, l'animo (V libro) richiama gli esempi della memoria paterna e si dà a nobili esercizi (giuochi funebri in onore di Anchise), e l’intelletto trionfante annienta gli istrumenti dell’aberrazione (le navi bruciate). Così corroborato (VI libro) si rivolge alla sapienza (tempio di Apollo) non senza prima essere stato liberato dalle allucinazioni (Palinuro), ed aver deposta la vanagloria (sepoltura di Miseno). Munito del ramo d’oro, cioè del sapere che apre l’adito alle riposte verità, intraprende il viaggio della filosofica investigazione (discesa all’inferno); e prima di ogni cosa-a lui si rivelano nel triste essere loro i mali della vita umana, e passa, guidato dal temo (Caronte), l'onda agitata e torbida degli atti giovanili (Acheronte), onde le querele e i litigi che dividono gli uomini (Cerbero latrante), e che il miele della sapienza sa acquetare. Così procede alla conoscenza della vita futura, delle sanzioni del bene e del male, e dinanzi a quelle ripensa alle passioni (Didone) ed agli affetti (Anchise) della sua gioventù. E l’animo fatto così sapiente (VII libro) si libera dalla ferula precettrice (funerali della nutrice Caieta), e giunto alla desiderata Ausonia, cioè agl’incrementi del bene, sceglie a consorte la fatica e la lotta (Lavinia) e fa suo alleato (libro VIII) l’uomo dabbene (Evandro); nella qual società impara i trionfi della virtù sul male (Ercole e Caco). Fattosi usbergo dell’ardente anima sua (armi fabbricate da Vulcano) si lancia nella lotta e combatte (IX, X, XI, XII) contro il furore (Turno), il quale guidato dalla ebbrezza prima (Metisco), e poi dalla pervicacia (Juturna = diuturna) ha seco l’empietà (Mezentius, comtemtor deorum) e l’irragionevolezza (Messapo). Tutto finalmente conquide la sapienza tronfatrice» .
Un disegno, come si vede, che convoglia il metodo tropologico di tutta quanta l’esegesi medievale. I miti etici e intellettualistici, che saranno cari all’immaginazione di Dante, sono qui presenti. Anche lo schema generale adottato da Fulgenzio non è poi tanto lontano, a parte s'intende la resa artistica, dall’itinerario dell'anima secondo la concezione dantesca. Eppure il Comparetti era troppo classicista per accettare i procedimenti allegorici di Fulgenzio, ch'egli riteneva assolutamente gratuiti e stravaganti, degni appunto della «barbarie cristiana» in cui l’autore componeva. Del resto, è questa la maggiore riserva che si può muovere al Virgilio medievale del grande studioso, che finiva per respingere gli aspetti che meglio avrebbero potuto qualificare la sua stessa indagine e che più luce riflettevano nella stessa situazione dantesca. E tuttavia non gli sfuggiva il carattere precipuo dell'intervento di Fulgenzio nella storia erudita di Virgilio. A tale riguardo il Comparetti citava un episodio che sarà appunto ripreso nel canto di Stazio:
«Il principio fondamentale, vero movente dell’opera, è puramente filosofico; la conciliazione delle favole antiche, non già col cristianesimo, ma colla filosofia. Evidentemente il De continentia si connette direttamente al Mythologicon, di cui costituisce come un'appendice ed a cui infatti è anche di data posteriore. Pel posto che occupava Virgilio nella cultura d’allora, colui che avea applicato l’allegoria ad interpretare filosoficamente la farragine delle antiche favole, era, per lo stesso momento, indotto ad una simile interpretazione della notissima favola dell’Eneide, che quasi costituiva un piccolo ciclo separato da non confondere col resto, che era principalmente greco. Come poi alla prima era criterio fondamentale l’idea generale dell'altezza del pensiero antico, così a questa lo era il concetto di uno straordinario sapere e di una maravigliosa profondità di mente del poeta. Perciò nel Mythologicon sono introdotte a parlare Urania e la Filosofia, nel De continentia Virgilio stesso. Fulgenzio adunque trovasi sul piede degli stoici, come dei filosofi e dei grammatici della decadenza; la sua qualità di cristiano, quantunque incidentemente si manifesti, non contribuisce per nulla alla Dalla dell’opera. Ben si riconosce però nel De continentia quella specie di condizione privilegiata che fra gli scrittori pagani ebbe Virgilio dinanzi ai cristiani. C’è l'idea che la miracolosa potenza del suo ingegno lo abbia avvicinato assai ai principi, singolarmente etici e filosofici, della nostra religione, tanto che quando ei pronunzia cosa che questa non potrebbe ammettere, Fulgenzio lo interrompe esprimendo la sua maraviglia che in quell’errore abbia potuto cadere colui che seppe dire Iam redit et virgo etc . Virgilio risponde:
«Se fra tante verità stoiche non avessi errato con qualche principio epicureo, non sarei pagano. Poiché conoscere tutti i veri non è dato ad altri che a voi, pei quali brillò il sole della verità».
Il forte senso storiografico di cui fruiva l’intelligenza di Domenico Comparetti, finisce col farsi luce, pervenendo a una conclusione che dopo circa un secolo risulta ancora caratterizzante:
«Così, senza nulla di violento, ma per una via naturale e continua, che aveva il suo principio nella stessa tradizione classica, il Virgilio di Fulgenzio, ossia il Virgilio della barbarie cristiana, viene ad avere in sè delle cause di simpatia, che diminuiscono notevolmente le incompatibilità fra lo scrittore pagano e i seguaci di Cristo. Questo tipo nel quale domina già l’idea medievale che, in mezzo alle cause d’errore, la ragione umana fosse arrivata, per quanto poteva senza miracolo e senza rivelazione, a principî omogenei anche ad anime cristiane, non è che un rozzo precursore di quello che troveremo raffinato e sublimato nella poesia dantesca».
E bisogna insistere sul valore e lo spicco di questa prospettiva in cui veniva a collocarsi il pensiero critico, come il massimo traguardo a cui poteva pervenire l’umano intelletto non ancora privilegiato dalla Grazia, e, insieme, la preminenza accordata a Virgilio, come poeta e pensatore. Sono questi, comunque, i capisaldi su cui si fonderà la stima di Dante .
Da Fulgenzio a Dante fino all’interpretazione che della Divina Commedia e dell’Eneide fa Cristoforo Landino sullo scorcio del Quattrocento, si può stabilire una coerenza della poetica letteraria e del canone critico che attraversa circa un millennio . Semmai, è assai utile rintracciare gli anelli di questa catena lungo il Medioevo. È tipico l’intervento di Bernardo Silvestre che continua a tesoreggiare il metodo e le idee del Mitografo Fulgenzio. Per il più recente scrittore medievale, che vive nel secolo XII (l'età a cui si ricollega l'educazione mentale di Dante), Virgilio «est philosophus humanae vitae» .
Se si volesse tracciare un consuntivo in base all’interpretazione virgiliana di questa tarda latinità, già di cristiana dimora, ma che continuava a subire il fascino della cultura classica, risulterà palmare la superlativa e incondizionata stima di Virgilio, poeta e insieme sapiente. Scrittori tra loro assai distinti, come Macrobio e Donato e Servio e Fulgenzio, concordano nel considerare il più grande autore latino quale esponente di un'evoluzione intellettuale che alla vigilia dell'avvento cristiano pareva avesse raggiunto un grado di perfezione insuperabile ed esemplare. Nelle opere virgiliane, e non soltanto nell’Eneide (per quanto nel Poema risultasse più continua e armonica la parabola dell’esperienza e della dottrina) il sapere antico aveva ricevuto una sintesi e un’intensificazione in sede di poesia e di favola, e pertanto suscettibile di un’interpretazione in profondità, vale a dire capace di sviscerare dai recessi dell’ispirazione una sapienza riposta: ch’era stato l'ideale di Platone, poi di Cicerone e ancora di sant’Agostino.
Non c'è dubbio che dal quarto al sesto secolo, nel pieno sviluppo della civiltà cristiana, Virgilio veniva a porsi su un piedistallo in cui lo ammireranno gl'’intelletti di tutto il Medioevo, Dante compreso. La situazione virgiliana quale si rivela nella Divina Commedia è in gran parte anticipata da questi epigoni della latinità classica. Per loro il poeta dell’Eneide aveva toccato il culmine a cui potesse pervenire la ragione umana non ancora illuminata dalla Rivelazione. Nella stima di Macrobio, di Servio, di Fulgenzio, il sapere di Virgilio giganteggiava come un faro altissimo e splendente. Egli aveva portato la scienza degli uomini alla soglia del cristianesimo. Pur senza averne consapevolezza, Virgilio aveva presentito per virtù di intelletto e per qualità spirituale alcune verità che sarebbero state rivelate poco dopo dalla nuova religione. Questa posizione di Virgilio al confine delle due civiltà, quale mediatore tra un passato senza Dio ma glorioso di dottrina e un avvenire di riscatto morale e di amore elettivo, è quella che perverrà a Dante attraversando la tradizione medievale: ma era stata fondata in termini entusiastici da questa più antica generazione di appassionati virgiliani .
L'autorità che ne venne da Macrobio (tanto per la tradizione virgiliana, quanto per il concetto di poesia come allegorizzamento di verità superiori ed enigmatiche) è stata decisiva . Il punto di partenza e di tramite è costituito dal processo filosofico, conside- rato d'ispirazione divina nella ricerca del vero (... «viros sapientia praecellentes nihilque in investigatione veri nisi divinum sentire solitos»). E, d’altronde, molte finzioni letterarie si devono considerare nella loro più occulta significazione allegorica, come sono gli scritti teogonici di Esiodo, la poesia religiosa di Orfeo e le massime ermetiche dei pitagorici . È vero — prosegue Macrobio — che bisogna distinguere tra «favola» e «narrazione favolosa». Quest'ultimo tipo è quello che sa coprire d’un velo di discrezione la cognizione delle verità sacre, e a questo stile si attiene il saggio che intende sviluppare indirettamente la dottrina teologica. Basterebbe pensare — continua Macrobio — alla difficoltà insormontabile che s'incontra nel definire e rappresentare l’Essere supremo, per cui si è costretti a ricorrere al sussidio delle immagini e dei simboli. Non c’è altro modo per intuire la trascendenza. Anche Platone, per esempio, non ritenendo possibile esprimere la natura di Dio con i comuni concetti di cui dispone la mente umana, ne raffigura l’illimitata presenza nella prosopopea del Sole. La verità è — prosegue a dire Macrobio — che la metafisica rimane ineffabile (sarà questa ineffabilità a costituire il miracolo stilistico di Dante nel Paradiso), e pertanto richiede un'espressione profondamente emblematica («ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari»). È per questa via allegorica che gl’iniziati possono attingere i misteri sublimi, e spetta soltanto ai sapienti d’interpretare le verità recondite, mentre gli altri uomini sì contenteranno d’intravederle attraverso le figure simboliche le sed summatibus tantum viris sapientia interprete veri arcani consciis, contenti sunt reliqui ad venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum») . Su tale schermo Macrobio colloca in primo piano l’insuperabile Omero, fonte e origine di tutte le cognizioni divine, che nella finzione poetica ha dato ai saggi la possibilità di penetrare nei recessi della verità (« Homerus, divinarum omnium inventionum fons et origo, sub poetici nube figmenti verum sapientibus intelligi dedit»; II, 10)
Una volta ammessa l’assunzione della poesia (l’omerica, per l'appunto) nella sfera della sapienza teologica, era breve il passo per abilitare l’Eneide alla rivelazione di verità teologali, filosofiche, scientifiche. Questo riconoscimento incondizionato di Macrobio è tributato a Virgilio nei Saturnalia. Anzitutto, il poema virgiliano è uno specchio dell’epopea omerica («Quid et omne opus Virgilianum velut de quodam Homerici operis speculo formatum est»; V, 2) e pertanto al pari del grande rapsodo greco, anche il poeta romano ha trasmesso il sapere pontificale («promitto fore ut Vergilius noster pontifex maximus asseratur»; I, 24), l’ardua dottrina degli auguri («apud poetam nostrum tantam scientiam juris auguralis invenio, ut si aliarum disciplinarum doctrina destituerentur, haec illum vel sola professio sublimaret»), l'insegnamento filosofico, la conoscenza astronomica: e tutto questo con assoluto rigore e brevità esemplare.
Ma, forse, l'elogio maggiore che Macrobio conferisce all’autore dell’Eneide è il suo confronto con Cicerone, che, sebbene posto al vertice della stima, non riesce a sopportare il paragone. Per valutare la portata di questo apprezzamento, sarà bene citare integralmente la chiusa del commento al «Sogno di Scipione», che costituisce per sé un canone di giudizio assoluto e insieme un progetto di lavoro, che assai probabilmente dovette suggestionare l’emulazione dantesca:
«Tutta la filosofia si distingue in tre parti: la morale, la naturale e la razionale. La filosofia morale concerne il progresso dei costumi; la filosofia naturale considera l’immensità dell’universo; la razionale s’identifica con la metafisica, in quanto si applica alla realtà immateriale, di cui può trattare soltanto l’intelletto nella sua qualità più intuitiva. Nessuna di esse è stata pretermessa da Cicerone nel suo Sogno di Scipione. E, infatti, che altro sono le sue esortazioni ad abbracciare la virtù, ad amare la patria, a disprezzare l’assillo della vanagloria, se non i princìpi più essenziali della filosofia etica? E quando disserta sulla sfera cosmica, sulla singolarità e grandezza degli astri, sull’eccellenza del sole, sui circoli planetari e sulle zone terrestri, e tratta del sito dell'Oceano, e svela la misteriosa armonia dell’empireo, non costituisce tutto ciò i profondi segreti della fisica? E allorché disputa sull’immortalità dell'anima, che non ha nulla della materialità corporea, e la cui essenza, che trascende il sensibile, non può essere attinta che per virtù intellettuale, non ascende lo scrittore alle altezze della metafisica? Bisogna pertanto convenire che nulla ci può essere di più perfetto di quest'opera che contiene integralmente la filosofia universale».
Ma nei Saturnalia alla scrittura di Cicerone si preferisce, senza esitare, lo stile di Virgilio, il quale abbraccia tutte le forme dell’espressione, mentre Cicerone è uniforme, anche se eccelso. Sono tante, si sa, le maniere d’essere eloquente — dice il testo di Macrobio — ed è molteplice l'indole degli stili: c'è chi è fluente e sovrabbondante, e c'è al contrario chi si esprime con rigorosa concisione; uno è scarno, discreto, assolutamente sobrio; e un altro invece è ricco, fiorito e brillante. Ma in così illimitata varietà, soltanto Virgilio ha potuto realizzare la totalità dei modi espressivi (V, 1) . Nelle considerazioni di Macrobio (sia quelle che abbiamo citate dal commento al Sogno di Scipione, sia le altre dei Saturnali) non solo ritroviamo la stima istituzionale dell’Eneide e l'adozione del poema a schema universale (come poesia, filosofia e teologia congiunte, e, insieme, mirabile sintesi degli stili), ma siamo anche alla soglia del programma. spirituale e letterario con cui Dante si accingeva alla Divina Commedia.
Non bisogna trascurare la premessa da cui muove l’esaltante valutazione virgiliana, che è il principio estetico tradizionale, secondo cui i poeti sono rivelatori di verità riposte e parlano per suggestione occulta, che il demone dell’ispirazione rintraccia e svela nel segreto della memoria, da un sapere remotissimo e prenatale che l’anima porta superinfuso dalla notte dei tempi, come voce dell'eternità. Ed è evidente il tentativo di elevare la poesia al rango della filosofia, su cui la prima avrebbe il vantaggio e il privilegio di comunicare un sapere intuitivo, mistico, che sempre resta in parte inedito e pertanto disponibile a ulteriori e progressive intelligenze. Questa interpretazione dell’opera si associa al metodo dell’allegoria, che non sarebbe possibile applicare a un testo dichiaratamente filosofico e dialettico, mentre dispone di un campo pressoché illimitato nell’esperienza a doppio fondo della poesia. S’intende che il Virgilio di Dante non sarà più quello di Macrobio o di Fulgenzio; ma è anche vero che i suoi tratti fondamentali, si direbbe istituzionali, derivano dal loro impianto. Il rap- porto che Dante stabilisce con Virgilio è, si sa, più complesso e soprattutto assai più delicato; ma alla base si riconosce quest’antica immagine di vate e di sapiente. Si può dire che le differenze tra il Virgilio di Dante e quello dei primi mitografi non riguardino la sostanza dell'impostazione critica, sibbene la sensibilità affettiva e lirica del poeta più moderno. La funzione dell’Eneide e del suo autore come paradigma universale e insuperabile d’arte e di sapienza è la stessa anche per Dante. Ed è questo primato di Virgilio che l’autore della Divina Commedia intende eguagliare, o, almeno, integrare alla luce della coscienza cristiana. Per Dante il proprio Poema doveva sostituire l’antico, e come l’Eneide costituiva la summa del sapere classico e pagano, la Divina Commedia avrebbe dovuto esplicare la medesima funzione per i tempi nuovi.
Dante non ha mai dichiarato se per lui la vicenda di Enea rap- presentasse anche l’itinerario dell'anima, come aveva escogitato Fulgenzio e ripeterà Cristoforo Landino in pieno Umanesimo. Ma come si fa a non presupporre una simile o affine interpretazione, quando egli ha concepito nel proprio Poema un viaggio analogo nell’imperituro regno di Cristo? A- dir vero, non sappiamo ancora con esattezza a quale concetto corrisponda l’espressione del poeta all’inizio del Poema quando riconosce di aver mutuato da Virgilio il bello stilo che gli ha fatto onore (Inf. I, 81-7). Si tratta di una formula apparentemente generica e molto vaga e come tale disponibile a più d’una spiegazione . Anzitutto va posto nel giusto rilievo il riconoscimento che proprio dello stile virgiliano fa Macrobio nel quinto libro dei Saturnalia, alla fine del primo capitolo, dove si contiene l’apologia di Virgilio nella forma più appassionata e che resterà canonica:
«A me sembra — scrive Macrobio — che Virgilio abbia previsto con mente non tanto mortale quanto divina d’essere destinato a fare da modello ai posteri, Ed egli non ha seguito altra scorta se non la natura stessa, la madre di tutte le cose, velandola, come nella musica l'armonia vela il diverso concento delle note. E, d’altronde, se osserviamo attentamente il mondo, troveremo una grande analogia tra il suo organismo e la struttura poetica dell’Eneide. Poiché, come lo stile di Virgilio comprende tutte le qualità, ed ora è breve ed ora copioso, ora conciso e ora fiorente, quando mite e quando impetuoso, e a volte è insieme l’una e l’altra cosa, così la terra stessa, qui è adorna di messi e di prati, là irta di selve e di rupi, qui arida di deserto e là ubertosa di sorgenti, e in parte ricoperta dall'immenso mare. E perdonatemi, vi prego, né chiamatemi esagerato se ho paragonato Virgilio alla madre natura: ché, se prendo dieci fra i maggiori oratori che vissero ad Atene, questa capitale dell’Attica, ognuno di loro potrà vantare una qualità di stile, ma Virgilio li fonde tutti nella sua scrittura» .
Ma è anche vero che il concetto di stile nella coscienza di Dante aveva un’accezione più estesa e va messo in correlazione con i termini di «maestro» e di «autore» dei versi precedenti («Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore»), specie col secondo, che alla filologia di Dante risultava ancora legato all’etimo di augeo (‘aumento, accresco’): cioè, Virgilio è «autore» di Dante in quanto ne ha incrementato la virtù a conoscere e pertanto a comporre . E forse non è da escludere che in cima al riconoscimento rivolto al «maestro» e «autore» il poeta cristiano e moderno non abbia inteso alludere al significato più essenziale della propria ispirazione, che sentiva analoga a quella virgiliana secondo la direzione indicata da Macrobio e da Fulgenzio. Egli, Dante, sarebbe il nuovo vate e il nuovo saggio, sulla traccia del maggiore poeta antico. E la Divina Commedia si verrebbe a porre sulla linea dell’Eneide, in un diagramma ideale e insieme storico, ove poesia e sapienza, ispirazione e verità congiurano a edificare la coscienza e la dignità dell’uomo .
Anche per Dante il protagonista dell’Eneide raffigurava le fasi progressive dell’esperienza umana in una prospettiva esemplare. Non c'è dubbio che nel Convivo (IV, XXIV, 9) lo scrittore faccia riferimento alla Virgiliana continentia di Fulgenzio a proposito delle quattro ‘età dell’uomo, anche se l’opera e l’autore non siano citati esplicitamente («lo figurato che di questo diverso processo de l’etadi tiene Virgilio ne lo Eneida»). La giovinezza, che è contrassegnata dalla passione (l’appelito irascibile e concuscipile), si riscatta — dice Dante — se riceve il «freno» della «temperanza» e lo «sprone» della «fortezza overo magnanimitate», come un cavallo montato da un nobile cavaliere che in questo caso è la «ragione» (Convivio, IV, XXVI, 8). E volendo allegare un esempio paradigmatico ricorre per l'appunto alla vicenda virgiliana:
«E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raf- frenare fu quello, quando avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà , e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partìo, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de l’Eneida scritto è! Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a cercare de l’anima di suo padre Anchise, contro tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne convegna ‘temperati e forti’».
Al pari di quanto aveva fatto Fulgenzio e farà Cristoforo Landino, Dante interpreta il poema di Virgilio come specchio e paradigma del vivere morale. E qui, specificamente, ritiene che nei libri quarto, quinto e sesto dell’Eneide si traducano i segni costitutivi della giovinezza («ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura»). Anche a questo ciclo dell’esistenza appartengono i caldi affetti del cuore:
«Ancora è a questa etade, a sua perfezione, necessario d’essere amorosa; però che ad essa si conviene guardare diretro e dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio: conviensi amare li suoi maggiori, da li quali ha ricevuto ed essere e nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato; conviensi amare li suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li suoi benefici, per li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da loro sostenuto e onorato».
Ed è sempre l’eroe virgiliano che ne impersona il concetto più alto: «E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo figliuolo; con li altri adolescentuli armeggiando». Né a questa età può mancare la «cortesia», che veramente s’addice alla vitalità dei giovani anni:
«E questa cortesia mostra che avesse Enea, questo altissimo poeta, nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege, per onorare lo corpo di Miseno morto, che era stato trombatore d’Ettore e poi s'era raccomandato a lui, s'accinse e prese la scure ad aiutare tagliare le legne per lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto, come era di loro costume».
Altro dono della giovinezza è la «lealtà», cioè l'obbedienza alle leggi: «sì come dice lo predetto poeta, nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia ne l'anniversario del padre, che ciò che promise per le vittorie, lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro lunga usanza, che era loro legge» .
La verità è che anche l’esegesi allegorica e la dossologia fulgenziana filtravano nella mente di Dante attraverso un processo di restaurazione e integrazione spirituale, che veniva a realizzarsi come attualità vivente, come autenticità dell’essere. L’unità etica di Enea rispondeva al concetto di personalità che Dante aveva elaborato nella sua profonda consapevolezza cristiana. Non è ch’egli leggesse l’Eneide secondo gli schemi dell’allegoria fulgenziana e in conformità ai canoni retorici e letterari a quella connessi; ma la sua lettura, cioè la sua attenzione interpretativa, gli nasceva dall’animo, come abito interiore, che si valeva degli strumenti più consentanei o congeniali. Dante non poteva leggere l’Eneide diversamente. E non l’interpretava sulla falsariga dell’allegorismo, bensì con quella dimensione spirituale a cui l’aveva educato la sua stessa civiltà. Enea, al pari di qualsiasi protagonista autenticamente umano, gli si configurava come la storia esemplare di un'anima. La misura non era più quella adottata dal Mitografo, ancora imbevuto di deteriore classicismo e di velleitaria erudizione; ma discendeva, mediata o diretta, dall'immagine dell’uomo cristiano quale s'era venuta costituendo nella ‘sua dimora psicologica e letteraria fin dall’esempio di sant'Agostino. L’uomo «nuovo» delle Confessioni, che si edifica anche sull’errore e sul peccato, e nella propria evoluzione rispecchia l'itinerario ideale del credente attraverso le vie della terra e dello spirito, è il modello a cui Dante compara ed eleva ogni esperienza che aspiri a porsi sul piano dell’esemplarità: da quella propria a quella di Enea, senza soluzione di continuità dalla vita alla poesia e dalla letteratura nuovamente nell'arena della realtà. È questo rapporto che stabilisce le tante corrispondenze tra Dante e Virgilio, tra la Divina Commedia e l’Eneide. A noi potranno anche dichiararsi come deliberata ricerca simbologica; ed è anche vero che per il nostro sentimento storico non sarebbe possibile supporre alcuna coincidenza o affinità tra i contenuti danteschi e quelli virgiliani, se non in sede puramente estetica. Ma all’intelletto di Dante non si frapponevano ragioni obiettive che gl’impedissero di ritrovare in un poema, che si era trasmesso come il libro d’oro della letteratura antica, i riflessi precisi e perenni della propria spiritualità, ch'era poi quella fondamentale all'universo umano: soprattutto la concezione della persona, che si edifica nell’agire e nel sentire, lungo il corso degli anni e delle epoche esistenziali, e progredisce come coscienza in atto, risolvendo tutte le esperienze e gli affetti e i pensieri in tramiti morali.