Scrittura sacra e “sacrato poema” [Lucia Battaglia Ricci]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Lucia Battaglia Ricci

Tratto da: Dante e la Bibbia

Editore: Olschki, Firenze

Anno: 1988

Pagine: 295-321

Che il libro sacro della cultura occidentale sia stato ampiamente utilizzato dal Dante della Commedia come fonte tematica, stilistica e genericamente narrativa è un dato ormai da tempo acquisito alla letteratura critica ed esegetica, e brillanti agnizioni si incontrano a ogni pie’ sospinto nelle note, nei saggi e nelle letture più disparate. Meno comunemente acquisita, mi sembra, a onta di saggi celeberrimi e interventi autorevoli quali quelli di un Auerbach o di un Singleton, la consapevolezza del significato peculiare e globalmente innovativo della presenza di calchi, citazioni, allusioni, riprese di strutture narrative e di modi allegorici biblici in un libro che denuncia a più riprese la propria appartenenza al demanio della poesia e che stringe con la langue letteraria rapporti tanto fitti e complessi da potere essere definito come il «luogo summativo di tutte le tradizioni».
Fine principale di questa relazione è quello di dimostrare che, se nelle note dei lettori moderni le molteplici suggestioni della scrittura dantesca, i richiami associati, le reminiscenze eterogenee, e ciò nonostante coartate nel medesimo giro di frase o nell’unità ritmica del verso e della terzina, finiscono spesso accatastate e parificate in inerti elenchi di fonti, in cui la metafora di derivazione biblica può essere letta e giustificata in nome di un’espressività locale e rigorosamente mictocontestuale (magati come una pennellata di colore più solenne o sostenuto, dentro un reticolato di citazioni più propriamente e squisitamente letterarie), se questo succede, dicevo, ciò dipende probabilmente da una sotta di assuefazione culturale al libro dantesco determinata dai lunghi secoli di «assidua frequentazione» personale e collettiva di quelle scritture, che ha finito per appannare, se non pet cancellare totalmente il peso e la natura di significative innovazioni della scrittura poetica, che Dante spesso affida ad un gioco prezioso di combinazioni tra allusioni e citazioni di diversa provenienza.
In realtà, come illustra in modo esemplare l’utilizzazione del sermo humilis di provenienza biblica in un contesto sostanzialmente ‘ tragico’ la presenza della parola biblica mette in crisi un assetto definito, provoca una sorta di terremoto e impone un nuovo assetto che sottende, e al contempo denuncia, modificazioni significative nella poetica dell’autore e, più in generale, nelle sue riflessioni su funzione, responsabilità, significato pubblico e privato dello «scrivere» ed esser poeta in quel periglioso e travagliato inizio di secolo; così che, se la critica delle fonti, o dei rapporti intertestuali, ha spesso utilizzato lo scatto tra un determinato testo primario e il testo alluso come spia di divergenze tra le posizioni teoriche e ideologiche sottoscritte dai due rispettivi autori o tra le loro poetiche, nel caso del rapporto che cotte tra ‘poema sacro’ e Sacre Scritture è proprio l’adozione del testo sacro per eccellenza come fonte e modello di scrittura, ed è la rete di relazioni che le riprese bibliche stringono con riprese da testi più ‘convenzionali’, che permettono di ricavare indicazioni preziose pet la lettura del libro e per la ricostruzione della carriera intellettuale dello scrittore della Commedia.

1. Sezione 1

Giunto nel paradiso terrestre, Dante assiste ad una singolare processione il cui significato i lettori possono decodificare solo a patto di attingere abbondantemente ai testi sacri e all’esegesi patristica. Si tratta, come è noto, della processione dei libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, guidati dallo Spirito Santo. In questa processione, subito dietro i ventiquattro seniori cotonati di fiordaliso, che raffigurano i libri veterotestamentari, vengono quattro animali «coronati ciascun di verde fronda», che raffigurano i quattro evangeli:

Ognun era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo
se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;

ma leggi Ezechiel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;

e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco, e da lui si diparte.
(Purg. XXIX, 94 sgg.)

Del passo interessa qui essenzialmente l’invito rivolto al lettore perché integri la ‘parziale’ descrizione offerta da Dante, ricorrendo a precisi, e esplicitamente citati, luoghi della Bibbia:
[...] leggi Ezechiel [...].

Che la singolare operazione di rimando ad altri libri per integrare il libro che è sotto gli occhi del lettore — operazione che nasce da un totale ribaltamento della tecnica dell’allusione o dell’evocazione — si debba leggere come un espediente adottato dallo scrittore per «citare esplicitamente il testo scritturale cui si richiama nella sua figurazione figurale e profetica» questo gruppo di componenti della processione mistica e «la processione medesima»: vale a dire come dichiarazione di fonte, e, indirettamente, come sostegno e conferma autorevole del narrato, sembra un po’ troppo riduttivo e semplicistico, soprattutto alla luce dei due versi

quali i troverai ne le sue carte
tali eran quivi [...].

In realtà, evocati sinteticamente i tratti più significativi dell’immagine simbolica che entra a far parte della processione che lentamente avanza sotto gli occhi dello stupefatto Dante personaggio, il Dante narratore sottolinea l’incompletezza della sua descrizione per rimandare non alla fonte dell’invenzione dello scrittore, ma agli antecedenti della visione del personaggio. Dante vuol dire qui, chiosava il Landino, che «la vixione de Coanne Evangelista è simelle alla sua». Ma poiché all’interno delle convenzioni proprie dei testi profetici in cui il narratore racconta in prima persona ciò che ha visto, la sovrapponibilità dei racconti, o di spezzoni del racconto, non dipende da soggettivi, creativi, rapporti intertestuali, ma da oggettiva iterabilità della visione stessa, sembra corretto credere che nell’invito a riconoscere l'identità di questa immagine simbolica con le immagini simboliche che entrano a far parte della visione di Ezechiele e di Giovanni, e delle loro narrazioni, si nasconda l’invito a riconoscere la natura del rapporto che corre tra i testi esplicitamente chiamati in causa.
Acquista così nuovo significato e rilevanza il particolare «coronati di verde fronda» che manca, come è noto, nei testi biblici citati da Dante e che, in presenza di un rimando così esplicito, puntuale e intenzionale, non può essere indifferente, o irrilevante.
Se in Par. XXV, 88 sgg. a proposito delle bianche vesti dei beati Dante metterà di nuovo in relazione un libro del Vecchio e uno del Nuovo Testamento (lì: Isaia e Apocalisse) dichiarando, in linea con l’esegesi più tradizionale, che la «revelazion» che si legge nel libro novotestamentario «è più digesta» di quella contenuta nel libro vetero-testamentario, nel passo del Purgatorio su cui abbiamo appuntato la nostra attenzione, analogie e differenze sono decisamente molto meno tradizionali. Parziale sovrapponibilità prospettica e progressiva integrazione di evidente matrice tipologico-figurale dei tre testi dicono infatti che Dante vuol collocare il suo libro in questa catena culturale, terzo tra i libri sacri, con i quali stabilisce un rapporto fatto al contempo di continuità e di integrazione:

Giovanni è meco [...].

Questo passo si può dunque leggere come luogo in cui affiora esplicitamente quella che Guglielmo Gorni ha chiamato «la coscienza metatestuale della qualità profetica del libro»; e, insieme, come esplicita dichiarazione di genere: come invito al lettore a decodificare correttamente giustappunto il genere di scrittura proprio della Commedia e a collocarla su un ben preciso scaffale della sua biblioteca.

2. Sezione 2

Il che, da parte del lettore, non significa sottoscrivere automaticamente che di vera profezia e/o di vera visione si tratti: ma significa riconoscere che come tale essa si offre al lettore e come tale vuol essere decodificata, pur adottando convenzioni, codici e spessore propri della scrittura poetica.
Ed è proprio questa ‘contaminazione’ che qui interessa.
Anche nel passo in questione, mentre segnala la qualità profetico-sacrale della sua esperienza e della sua narrazione, lo scrittore può denunciare la specifica forma poetica del discorso («a descriver lor forme più non spargo / rime, lettor [...]») e denunciare i limiti che al discorso impongono criteri di equilibrio, di simmetria, ecc., che altrove enuncerà più estesamente:

S’io avessi, lettor, più lungo spazio,
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
(Purg. XXXIII, 136-141)

Superfluo ricordare in questa sede i numerosi passi della Commedia in cui Dante esplicitamente dichiara che il libro assolve ad una funzione di predicazione ammonitrice «e quindi profetica» e ad una funzione di predicazione educatrice e catartica che è strettamente connessa con lo sviluppo di una vera e propria teologia morale cui, secondo quanto esplicitamente denunciato da Cacciaguida, si ispira la stessa strutturazione e organizzazione del viaggio e del libro:

«[...] rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;

[…]

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia».
(Par. XVII, 127-142)

Ed altrettanto superfluo ricordate che sia il resoconto della visione sia l’occasionale trattazione di problematiche teologiche e in genere dottrinarie che localmente nel testo nasce per dirimere un problema o chiarire la struttura dei mondi ultraterreni ecc., è affidata a una scrittura che si presenta e si definisce, anche dal punto di vista dell’aspetto, pet così dire, tecnico-attigianale della scrittura, come poesia. Non solo il ‘poema sacro’ è scritto in endecasillabili organizzati in terzine e diviso in sezioni che si chiudono con riprese formali che ricordano la tecnica di ripresa tra stanze di canzone nelle poesie provenzali, ma ‘cantare’ è il predicato del soggetto Commedia («che ’l mia comedia cantar non cura»), le varie sezioni in cui è scandito il testo si chiamano canti e cantiche, e ‘canzone’ è esplicitamente appellata nell’Inferno la cantica stessa:

Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d’i sommersi.
(Inf. XX, 1-3)

Sono fatti di enormi proporzioni e ben presenti alla critica dantesca. Se torno a parlarne è perché vorrei ricordare qui che non solo il ‘cantare’ (magari di marca epica: «arma virumque cano»; «così ’l canta l’alta mia tragedia») non pertiene propriamente alla ‘comedia’ secondo le convenzioni retoriche sottoscritte dal Dante del De vulgari, né l’Inferno potrebbe in nome delle stesse convenzioni appellarsi ‘canzone’, ma che neppure la resa formale adottata ‘conviene’ al soggetto trattato. Come risulta evidente da una lettura della Commedia fatta tenendo nel debito conto convenzioni e dibattiti culturali in corso, la scelta formale compiuta da Dante presuppone in realtà una doppia effrazione del codice corrente che consiste nell’utilizzazione di ‘forma’ e convenzioni proprie della poesia per una scrittura che si proclama profetica e sacrale da un lato e, dall’altro, nell’attribuzione alla poesia di una precisa funzione dottrinaria, sacrale e profetica.
Si ripensi, ad esempio, alle già citate terzine con cui Dante chiude la cantica del Purgatorio, e insieme mette il punto fermo al racconto della sua personale catarsi e alla trascrizione della profezia della imminente catarsi del mondo:

S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ [...].

Si tratta certo di più o meno eleganti formule di chiusura, ma che sia il «fren dell’arte» e, soprattutto, l’estensione fisica della scrittura

[…]
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,

e non la fine stessa della visione e dell’esperienza purgatoriale, a imporre il punto fermo acquista significato quando si leggano questi e simili passaggi tenendo presenti certe annotazioni uscite dalla penna del teologo domenicano fra’ Giovannino da Mantova che dichiara di rifiutare di scrivere in versi per non fare offesa, dice, alla sacra teologia «se poeticis regulis obligando», allegando, ed adattando al contesto della polemica col Mussato, un passo autorevole di Gregorio Magno:

Indignum vehementer existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati.

Che il libro che dichiara di narrare una visione organizzata dall’alto, voluta da Dio e come tale, per definizione, veritiera, possa essere scritto in versi non è dunque così pacifico per il Medioevo come a noi può forse apparire, verisimilmente proprio per l’assuefazione al modello dantesco. Ma non si tratta solo di un problema di ‘rese’ formali culturalmente incongrue, o impertinenti, anche se già queste sono di per sé estremamente sintomatiche, In discussione è, mi sembra, la definizione dei compiti, delle funzioni e delle responsabilità della poesia.
Se Tommaso non esitava ad affermare che

poetica [...] est infirma inter omnes doctrinas,
(Summa th., 1, 1, 9)

e Boezio metteva in bocca alla filosofia una violenta accusa contro le muse definite «scenicas meretriculas [...] Sirenes usque in exitium dulces»

quae infructuosis affectuum spinis uberum fructibus rationis segetem necant hominumque mentes assuefaciunt morbo, non liberant;

(Philos. Cons. I, 8-11)

(e si tratta di testi largamente noti a Dante), alla scrittura poetica l’autore della Commedia affida tutta l'enciclopedia culturale del suo tempo oltre ad un’evidente funzione dottrinaria che comprende lezioni di vera e propria teologia morale e una precisa dimensione sacrale-profetica. Basterà qui ricordare al proposito l’esplicita enunciazione, affidata a Beatrice, del nesso che lega visione, racconto e finalità predicatorio-ammonitrice:

Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive;
(Purg. XXXII, 103-105)

o la sottolineatura degli effetti, per così dire, «psicoterapeutici» del racconto stesso messa in bocca a Cacciaguida:

[...] rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
(Par. XVII, 127-132)

3. Sezione 3

È certo tanto inevitabile quanto ormai scontato, imputare la profonda consapevolezza della funzione pubblica e morale della propria scrittura esibita dal Dante della Comedia alle suggestioni che gli venivano dall’Eneide, da lui assunta come esempio sommo di una scrittura poetica che sa esprimete visioni profetiche e farsi carico di contenuti dottrinari, ma anche di precise finalità etico-pedagogiche, se non addirittura di implicite ‘lezioni’ di teologia morale, come risulta dall'episodio dell’incontro di Stazio e Virgilio che, e ricordarlo non può non suonare pleonastico, permette a Dante di esprimere in modo diretto la sua ‘interpretazione’ di Virgilio.
Anche quell’incontro si potrebbe forse aggiungere alla lista delle tappe del viaggio del poeta Dante elencate dal Contini nella celeberrima lettura del 1957. Si tratta di un incontro tra «professionisti della letteratura» e rappresenta una tappa, per così dire, positiva che si oppone diametralmente alla tappa rappresentata da Francesca. Se la lettura di un testo letterario ha nel caso di Francesca giustificato, o addirittura favorito, un peccato che si dovrà scontare in eterno, nel caso di Stazio la lettura di un testo poetico obbliga a meditare su un determinato comportamento, a valutarne la natura, a giudicarlo come peccato e ad allontanarlo da sé, pentendosene. È stata infatti proprio la lettura di un passo dell’Eneide, dichiara Stazio in Purg. XXII, 34 sgg., che lo ha costretto a «drizzare sua cura» permettendogli così di conseguire la salvezza eterna:

Or sappi ch’avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.

E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l’umana natura:

‘Per che non reggi tu, o sacra fame
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
voltando sentirei le giostre grame.

Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
così di quel come de li altri mali.

Quanti risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie ‘l penter vivendo e ne li stremi!

La particolare attenzione che nei due casi citati Dante presta agli effetti della scrittura sul pubblico, e l’implicita ‘condanna’ ed ‘esaltazione’ di due modelli di scrittura, che egli esprime alla luce dei rispettivi ‘esiti’ escatologici sui fruitori, funge per noi da preziosissimo rivelatore dell’ottica con cui all’altezza cronologica della Commedia il lettore e critico militante Alighieri guarda alla letteratura e alla poesia; e viene il sospetto che siano proprio gli acquisti teorici di ‘questo’ Dante a provocare quella non totalmente codificata lettura dell’Eneide che gli permette di adottare l’«alta tragedia» virgiliana come modello ideale (e reale) della sua scrittura poetica all’interno della Commedia: anche se non come modello esclusivo.

4. Sezione 4

Una sottile rete di corrispondenze e opposizioni che lega l’episodio di Casella a passi più o meno contigui della stessa cantica lascia credere infatti — e con questo il discorso torna al punto iscritto all’ordine del giorno — che ben presenti e singolarmente attivi nella poetica dantesca propria della Commedia siano anche i testi poetici per eccellenza della Bibbia, i salmi.
L’incontro tra Casella e Dante si presenta anch’esso come una tappa significativa del viaggio nella letteratura del poeta-personaggio: si tratta ancora di una rilettura di esperienze poetiche fatta alla luce dei loro effetti morali, ed escatologici, sul lettore, e investe, ora, la produzione poetica e teorica dell’autore della Comedia.

‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò egli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.

Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?

qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
(Purg. II, 112-123)

La traduzione in forma scenica di quanto già sostenuto in Convivio II, xiii, 23-24:

E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella [...] la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono;

mette in conto una tutta nuova attenzione al pericolo insito in quell’esperienza.
Osserva Mario Pazzaglia che «l'episodio di Casella è giocato [...] sulla dialettica agostiniana dell’uti e del frui; della bellezza terrena che non deve diventare incanto autosufficiente, ma mezzo di ulteriore edificazione» .

Più che sulla bellezza in senso generale, però, qui Dante sembra meditare proprio sui rischi dell’«amoroso canto» che di quella bellezza rappresenta una manifestazione singolarmente raffinata e compiuta, e sembra gravare di connotazioni negative il canto stesso, responsabile primo di quell’oblioso naufragio della coscienza che provoca stasi e colpevole abbandono dell’iter catartico.
Il tema riaffiora, e la denuncia si fa più esplicita, nell’episodio della «femina balba»

mi venne in sogno una femmina balba
ne li occhi guercia, e sovra i pié distorta,
con le man monche, e di colore scialba.

Io la mirava [...]
[...] lo sguardo mio le facea scorta
la lingua [...]

[…] Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.

«Io son» cantava «io son dolce serena,
che ’marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen patte; sì tutto l’appago!»

Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve [...]

[…] «O Virgilio, Virgilio [...]
fieramente dicea [...]
(Purg. XIX, 7 sgg.)

Confesso che personalmente non riesco a sottrarmi all’impressione, che come tale qui enuncio, che l’episodio di Casella si possa meglio intendere quando si legga tenendo presente questo passo: certo l’affinità che si osserva sia nel sistema dei personaggi (in entrambi i casi Dante è fruitore ammaliato dalla dolcezza del canto; Virgilio si dimentica — anche lui, un poeta! — della propria responsabilità di guida; e un terzo attante interviene col suo grido dissonante a spezzate la malia del canto) che negli attributi di cui si predicano le due esperienze auditive (il canto ‘dismaga’ dal cammino e appaga totalmente, cancellando così qualsiasi altra spinta interiore) autorizza a riconoscere tra i due passi, in mezzo a tante differenze, una serie di affinità proprio sul tema ‘possibili conseguenze morali della fascinazione prodotta dal canto profano sul pubblico’: dal canto profano, perché la condanna (o, se si preferisce, la sensibilità per gli effetti potenzialmente negativi) di questa attività estetica non si applica certo al canto in generale.
Non credo sia un caso che la narrazione dell’incontro di Dante con Casella e la messa in scena di un episodio di fruizione collettiva della musica profana inizi con un altro canto, quello che intonano le anime, tutte insieme, sul ‘vasello’ che le conduce al monte del Purgatorio:

Da poppa stava il celestial nocchiero
[...]
e più di cento spirti entro sediero.

‘In exitu Isriel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
(II, 43-48)

Sembra piuttosto che il secondo del Purgatorio sia costruito su una sorta di sottile opposizione tra il canto del salmo (canto collettivo dell’anima cristiana che oltre tutto ‘cita’ un testo fondamentale per l’ideazione stessa della Commedia) e il canto raffinato, splendido, elitario del singolo che consola, diletta, affascina il pubblico, che, ‘contento’, dimentica il suo vero fine, la sua meta, e interrompe il proprio viaggio a Dio.
E allora andrà detto che oltre che per il passo relativo alla differenza tra frui e uti, Agostino andrà citato per la consapevolezza degli effetti moralmente deleteri di un eccessivo coinvolgimento provocato dalla musica vocale; perfino, per lui, da quella sacra:

Voluptates aurium tenacius me inplicauerant et subiugauerant, sed resoluisti et liberasti me. Nunc in sonis, quos animant eloquia tua, cum suaui et artificiosa uoce cantantur, fateor, aliquantulum adquiesco, non quidem ut haeream, sed ut surgam, cum volo [...]. Aliquando enim plus mihi uideor honoris eis tribuere, quam decet, dum ipsis sanctis dictis religiosius et ardentius sentio moueri animos nostros in flamma pietatis, cum ita cantantur, quam si non ita cantarentur, et omnes affectus spiritus nostri pro sui diuersitate habere proprios modos in uoce atque cantu, quorum nescio qua occulta familiaritate excitentur. Sed delectatio carnis meae, cui mentem eneruandam non oportet dari, saepe me fallit, dum rationi sensus non ita comitatur, ut patienter sit posterior, sed tantum, quia propter illam meruit admitti, etiam praecurrere ac ducere conatur. Ita in his pecco non sentiens, sed postea sentio.
(Confessioni X, xxxiii, 49)

Si tratta del resto di un atteggiamento culturale molto antico (ed è probabile che trovi qui più o meno direttamente la sua remota matrice l’implicita distinzione dantesca tra le differenti conseguente ‘ morali’ dei due tipi di canto) se San Girolamo, impegnato a stilare un progetto educativo per una giovane donna cristiana di nobili natali, aveva ritenuto di non dover dimenticate di segnalare l'opposizione tra musica da ascoltare e musica da non ascoltare, tra canto sacro e musica profana:

(Un’anima votata al Signore) nihil aliud discat audire, nihil loqui, nisi quod ad timorem Dei pertinet. Turpia verba non intellegat, cantica mundi ignoret, adhuc tenera lingua psalmis dulcibus inbuatur.
(Ep. ad Laetam)

Ed è anche un atteggiamento ‘moderno’ come rivela un celeberrimo passo di Salimbene da Parma che, dopo aver narrato il suo casuale ‘incontro con la musica profana’ rappresentato per lui dall’ascolto di una brigata di giovani che in una curtis pisana canta una

cantio [...] inusitata et pulchra, et quantum ad verba, et quantum ad vocum po et modum cantandi, usque adeo ut cor iucundum redderetut supra modum

chiosa allegando un passo scritturale:

[...] Scriptura dicit, Iob. XXI: Tenent tympanum et cytaram et gaudent ad sonitum organi. Ducunt in bonis dies suos et in puncto ad inferna discendunti.
(Cronica, ed. G. Scalia, Bari, Laterza 1966, pp. 60-62)

Si tratta evidentemente di un atteggiamento culturale di lunga durata, ancora attivo dopo la Comedia, come documentano certi ‘attacchi ’ alla musica profana presenti in affreschi trecenteschi: nel Trionfo della Morte del Camposanto vecchio di Pisa, in quello fiorentino dell’Orcagna, in Santa Croce, e nel Governo della Chiesa, fiorentino, nel cosiddetto Cappellone degli Spagnoli. Un atteggiamento con cui il Dante della Commedia sembra fare i conti più esplicitamente proprio nella composizione della seconda cantica.
Altri passi del Purgatorio permettono di meglio cogliere motivazioni e implicazioni sottese a questo sistema oppositivo. Nel canto diciannovesimo, ad esempio, si coglie una sottolineatura della solidarietà tra canto e penitenza, che acquista rilievo se rapportata all'intervento di Catone nell’episodio di Casella

Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.

‘Adhaesit pavimento anima mea’
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.
(vv. 70-75)

E nel canto XXIII le anime penitenti piangono e cantano il salmo penitenziale Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam di cui è citato il versetto Labia mea Domine, «[...] per modo / tal, che diletto e doglia parturìe» (vv. 11-12): anche in questo caso, ben lungi dall’interrompere l’iter penitenziale, il canto accompagna quel cammino e contribuisce attivamente «a spogliar lo scoglio / ch’esser non lascia» a lor «Dio manifesto».
L’annotazione relativa agli effetti del canto sulle anime penitenti dei golosi («che diletto e doglia parturìe») conferma che il sistema oppositivo tra i due tipi di canto si costituisce sulla base dei rispettivi effetti sul pubblico: ai due estremi il dolce «amoroso canto» di Casella su cui grava un implicito giudizio negativo, in quanto generatore di oblio — e in questo senso non andrà sottovalutato il particolare che il pellegrino Dante chiede al musico un «amoroso canto» proprio perché questo può «quetate tutte» le «doglie» dell’anima afflitta dal cammino catartico attraverso il male del mondo -, e il canto collettivo delle anime, che è sì, ancora, fonte di diletto, ma può provocare quella contritio cordis da cui dipende la purificazione delle anime.
Coinvolto in questo sistema di opposizioni risulta allora anche un preciso testo poetico dantesco, quella canzone Amor che nella mente mi ragiona che Casella «sì dolcemente» canta. La cosa non può non apparire curiosa, se non addirittura contraddittoria rispetto a quanto finora sostenuto, a chi ripensi al complicato iter di questo testo nella carriera di Dante e soprattutto al non irrilevante particolare che almeno fin dall’altezza cronologica del Convivio Dante aveva ormai esplicitamente denunciato la qualità allegorica e la precisa funzione educativa di questa, come delle altre canzoni utilizzate in apertura dei vari trattati. Ed enorme appare la distanza che separa questo testo dal suasorio e ambiguo messaggio della «dolce serena» del diciannovesimo del Purgatorio.
Senza entrare qui nella secolare diatriba dei dantologi sul problema rappresentato dalla canzone, che ci porterebbe troppo lontani dal nostro assunto, mi limiterò ad osservare che forse non è del tutto estranea a tale scelta la ripetuta esaltazione della «qualità» formale di questa canzone espressa nei trattati: la sua perfetta rispondenza a quei canoni che il Dante del De vulgari ritiene propri della poesia ‘illustre’.
E il divario tra quanto è lecito cogliere tra le righe dell’episodio di Casella (il rifiuto, o la consapevolezza della pericolosità morale, per dirla col Pazzaglia, dell’«incanto autosufficiente» della bellezza) e quanto si legge nella tornata della canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete inclusa, come Amor che nella mente mi ragiona, nel trattato

Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per ventura elli addivene
che tu davanti da persone vadi
che non ti paian d’essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella,
«Ponete mente almen com’io son bella!»;

questo divario, dicevo, può forse aiutarci a risolvere l'apparente contraddizione e al tempo stesso a riconoscere una non certo irrilevante componente di quella ‘nuova poetica’ che Dante esplicitamente denuncia ed esalta nelle celebri terzine con cui si apre il canto XXV del Paradiso:

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
[…]

vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
[…]

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta [...]

Sembra insomma di essere di fronte ad un ripensamento di quella significativa legittimazione estetico-retorica della bellezza formale della canzone in quanto tale che, in pieno Convivio, è ancora totalmente sottoscritta dallo scrittore fiorentino e che è strettamente correlata con la celebre definizione della poesia offerta — più o meno contemporaneamente — nel De vulgari («poesis [...] nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita»): in realtà nel Convivio la funzione di offrire con una continua chiosa esterna un puntuale controllo della corretta decodificazione del testo poetico sul piano del contenuto, magari mediante l’applicazione dei modi propri dell’esegesi biblica, spetta alla prosa, mentre la poesia in quanto tale ‘rischia’ continuamente la, peraltro qui positiva, prevaricazione del significante sul significato.

5. Sezione 5

Curiosamente, ma non certo casualmente, lo slittamento dell’interesse dello scrittore dal piano tutto formale a quello più ampio e comprensivo, non di necessità oppositivo, del significato e delle implicazioni morali della scrittura poetica, comporta aggiustamenti e correzioni nelle valutazioni della stessa qualità formale dei testi poetici; e altrettanto curiosamente queste «correzioni» di valutazione espresse sul piano della qualità formale colpiscono proprio i salmi. Si tratta, io credo, di aggiustamenti nel sistema estetico dello scrivente.
Se infatti in Convivio I, vii, 14-15 a dimostrazione degli effetti letali della traduzione («[...] sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»), Dante può citare giustappunto il caso de «li versi del Salterio» che

sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno;

al termine di un lungo processo che permette di qualificare con un termine tanto tecnico quanto gravido di implicazioni per il teorico e per il poeta Dante come ‘dolce’ gli inni liturgici

‘Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
(Purg. VIII, 13-15)

‘dolce’ diventa anche l’attributo applicabile al canto di un salmo. In Purg. XXX, 91 sgg. è anzi espressa la stretta connessione tra la dolcezza del canto — e qui ‘ dolce ’ non è più usato in senso rigorosamente tecnico, ma si apre ad esprimere un’emozione — e l’intenso turbamento che apre la porta alla manifestazione esterna della contritio cordis e al momento fondamentale della confessione pubblica, catarsi e successiva investitura profetica di Dante personaggio.

[…]
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;

ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: «Donna, perché sì lo stempre?»,

lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.

6. Sezione 6

Molteplici le ragioni che possono aver spinto Dante a ritornare sulle proprie certezze teoriche e a rivedere i suoi giudizi di valore: eventuali riletture del libro sacro, magari diversamente orientate da suggestioni derivanti da nuovi incontri culturali o da nuove letture, se non da istanze più personali e profonde; una possibile mediazione del canto liturgico; o altri eventi che ci sfuggono o di cui non abbiamo notizia. Qualunque sia stata la ragione di questo mutamento, sembra comunque probabile che i Salmi, e verisimilmente la poesia biblica in genere, siano diventati ad un certo punto della carriera intellettuale di Dante modelli di riferimento ideale per una poetica che tende a rinforzare lo spessore semantico e ad allargare l’applicabilità del predicato ‘cantare’: il «‘Veni, sponsa de Libano’ cantando / gridò» di Purg. XXX, 11-12 non è poi troppo remoto dal «questo tuo grido farà come vento» con cui in Par. XVII, 133 Cacciaguida allude sinteticamente alla Commedia; o dalla possibilità che la scrittura diventi ‘tromba’, strumento di pubblica denuncia delle varie forme di corruzione e di traviamento morale, come nel canto dei simoniaci; ma anche, altrove, preghiera, confessione e così via.
Ed è appunto l’appropriazione in forme singolari, e singolarmente estese, del modello di scrittura biblica e la sua contaminazione con modelli di scrittura rigorosamente letterari a risolvere, nella realtà e nella prassi della scrittura, il problema culturale, e tecnico, provocato da questo spostamento di poetica.
Gli elementi da citare a conforto di questa affermazione sono numerosissimi. Ricordo qui: 1) l’appropriazione innovativa — ancora una volta! — di quella che nel Convivio Dante aveva chiamato l’allegoria dei teologi, opponendola lì, in sostanziale ossequio di quanto teorizzato da San Tommaso, all’allegoria dei poeti; 2) l'adozione di una struttura narrativa che nasce da una non del tutto prevedibile contaminazione dell’impianto epico classico, che oppone l’‘io’ del narratore all’‘egli’ dell’eroe, con l'impianto narrativo tipico dei libri profetici, dove il narratore e il personaggio sono la stessa persona, indicata con il pronome personale ‘io’ e distinta solo da un’opposizione di marca temporale (‘allora’ vs ‘ora’); 3) la contaminazione dell’eroe classico Enea con il modello biblico di Paolo, e forse anche con quello di Giovanni; 4) l’utilizzazione di un linguaggio di marca umile e provenienza biblica in un contesto che dal punto di vista retorico e stilistico è sostanzialmente una tragedia; e simili.
Non è certamente il caso di riprendere in questa sede quanto mi è capitato di annotare altrove a proposito di questi vari eventi testuali: trattandosi oltretutto di eventi per lo più largamente noti ai lettori di cose dantesche, basterà averli ricordati per segnalarne eterogeneità e rilevanza. Gioverà qui piuttosto cercar di vedere come la fonte biblica interagisca con altre fonti e quale funzione essa svolga dentro un contesto fortemente intessuto di allusioni che scatenano complessi processi associativi i quali a loro volta coinvolgono buona parte della biblioteca mentale del lettore implicito.
Farò un solo esempio, ma oltremodo significativo, sia per la qualità e la quantità di interazioni contestuali che si osservano tra recuperi allusivi provenienti da testi e codici eterogenei, sia per la sede, che è poi il luogo convenzionalmente deputato per, come dice Victor Sklovskij, «indicare il metodo di ricezione del messaggio, il metodo di percezione della struttura dell’opera» così che «l’autore comunica spesso all’inizio dell’opera se si tratta di un romanzo, di una commedia, di un’elegia o di un’epistola».
È da tempo acquisito agli atti della critica e dell’esegesi dantesca che alla perifrasi metaforica «Nel mezzo del cammin di nostra vita» utilizzata da Dante in apertura di libro non sia estranea la suggestione dell’incipit del cantico di Ezechia che si legge in Isaia 38,10 sgg.:

Ego dixi «In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi [...]»;

così come è da tempo acquisito che numerose altre presenze si possano cogliere dietro il piano inizio del libro. Anzitutto Brunetto:

Ond’io in tal corrotto
pensando, a capo chino,
perdei lo gran cammino
e tenni ala traversa
d’una selva diversa.
Ma tornando ala mente,
mi volsi e posi mente
intorno ala montagna [...];
(Tesoretto, 186-193)

ma anche molta parte della biblioteca mentale di un comune lettore primo trecentesco, vista la particolare topicità del motivo «smarrimento nella selva» e la ricorrente utilizzazione dei singoli particolari che costituiscono questo paesaggio (la selva, la strada e il cammino) in opere letterarie, e non, del nostro Medioevo. Nella ‘selva’ inizia infatti, per esempio, la discesa di Enea agli inferi, e nella ‘selva’ i cavalieri errano nella loro quéte. Non possiamo dimenticare inoltre che nella Bibbia lo «smarrimento nella selva» veniva letto come simbolo di uno smarrimento mentale. In Brunetto il motivo narrativo era già carico di tutte queste allusioni: è probabile inoltre che esso fosse la traduzione in termini narrativi di un motivo completamente diverso, quello della introspezione morale e della mediazione ideologica che, dallo smarrimento psichico, portava all’incontro con una personificazione femminile (per lo più con la Filosofia), e poi ad un'esperienza cognitivo-filosofico-morale, per cui basterà ricordare l’Arrighetto, la Philosophiae consolatio di Boezio, il Libro di Vizi e Virtù di Bono Giamboni.
Nel primo verso della Commedia («nel mezzo del cammin di nostra vita») si incontrano così, contaminate nel gioco della metafora (cammino = vita) che prelude al motivo portante della struttura narrativa («nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura [...]»), due allusioni a testi tra loro culturalmente remoti.
Più evidente, esibita tanto da poterci anche riconoscere un’intenzione emulativa, la ripresa dal libro di Brunetto, che coinvolge, come ho appena detto, tanta parte della tradizione letteraria medievale; più occultata quella dal libro di Isaia: eppure è questa l’allusione più gravida di significato per il libro dantesco.
La prima allusione evoca accanto al libro dantesco un libro in cui la storia portante (la storia di un tutto metaforico iter attraverso il sapere del tempo, compiuto dal personaggio che dice ‘io’ in compagnia della Natura personificata) serve come supporto esilissimo per organizzare in forma pseudo-narrativa una vera e propria enciclopedia: un poemetto didattico-allegorico in cui l’‘io’ del protagonista niente altro è se non un pronome grammaticale che vaga in metaforici consessi di virtù ed è vittima di altrettanto metaforici dardi d’amore.
La seconda allusione evoca dietro il libro dantesco il cantico di ringraziamento che Ezechia, re di Israele, alza a Dio per averlo salvato dalla morte. Nel cantico largo spazio è dedicato alla rievocazione della disperata, angosciosa attesa della morte, che Isaia aveva profetizzato imminente

Canticum Ezechiae
[…]
Ego dixi: In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi;
quaesivi residuum annorum meorum.
Dixi: Non videbo Dominum Deum in terra viventium;
non adspiciam hominem ultra et habitatorem quietis.
Generatio mea ablata est et convoluta est a me
quasi tabernaculum pastorum,
praecisa est velut a texente vita mea;
dum adhuc ordirer, succidit me.
De mane usque ad vesperam finies me.
Sperabam usque ad mane; quasi leo sic contrivit omnia ossa mea;
de mane usque ad vesperam finies me.
Sic ut pullus hirundinis sic clamabo, meditabor ut columba,
attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum.
Domine, vim patior, responde pro me.
Quid dicam, aut quid respondebit mihi, cum ipse fecerit?
Recogitabo tibi omnes annos meos in amaritudine animae meae.
Domine, si sic vivitur, et in talibus vita spiritus mei,
corripies me et vivificabis me.
Ecce in pace amaritudo mea amarissima;
tu autem etuisti animam meam, ut non periret,
proiecisti post tergum tuum omnia peccata mea.
Quia non infernus confitebitur tibi, neque mors laudabit te:
non exspectabunt qui descendunt in lacum veritatem tuam.
Vivens, vivens ipse confitebitur tibi, sicut et ego hodie;
pater filiis notam faciet veritatem tuam.
Domine salvum me fac, et psalmos nostros cantabimus
cunctis diebus vitae nostrae in domo Domini.

Si tratta di una storia di smarrimento morale e rischio di morte, intervento autorevole e reale salvezza che mostra singolari contiguità e opposizioni con quella di Dante, soprattutto se letta con il sussidio dell’esegesi patristica che, come è noto, offre del racconto un’interpretazione in chiave morale, sulla scorta di quanto annota in margine all’espressione «In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi» san Girolamo:

Has portas inferni reor, quae aduersum Petrum non preualent, quia dormiuit in plenitudine dierum suorum. Sancti implent dies suos, qualis fuit Abraham, qui m0rtuus est plenus dierum in senectute bona. Peccatores uero et impii in dimidio dierum suorum moriuntur, de quibus et psalmista loquitur: viri sanguinum et dolosi non dimidiabunt dies suos. Non enim implent opera uirtutum, nec student paenitentia emendare delicta. Unde in medio vitae cursu, et in errorum tenebris ducentur ad tartarum.
(S. Hieronymi Presbyteri, Commentariorum in Esaiam liber XI, C. C. series latina, lxxiii, Turnholti, Brepols 1963, p. 446).

E certe immagini del primo canto, oltre la soglia della prima terzina («tant'è amara che poco è più morte», «Temp’era dal principio del mattino [...] sì ch’a bene sperar m’era cagione [...], ma non sì che paura non mi desse / la vista che m’apparve d’un leone») sembrano residui di quella lettura, suggestioni non dimenticate anche se diversamente risistemate su una filigrana che utilizza piuttosto, come mi è capitato altrove di osservare, la storia dell’esodo.

7. Sezione 7

Quantità e qualità dei rapporti intertestuali individuati dalla critica novecentesca obbligano oggi ad interrogarsi sul senso di questa operazione di contaminazione tra testi, e codici culturali, tutt’altro che omogenei. Basti pensare alle differenze che oppongono sul piano culturale e su quello ideologico l’“io” eroe e narratore del libro di Brunetto, esile finzione narrativa, e l’‘io’ del cantico, letto, non diversamente dagli altri personaggi dei libri scritturali, come realtà storiche e al contempo come possibili ‘figure’ di ogni uomo e di ogni anima cristiana: esemplificazioni eternamente valide di tutti i vissuti umani e parametri ideali delle scelte e dei comportamenti umani; e per Dante, qui, in concreto, ‘figura’ anticipatrice di quella tanto singolare esperienza che sta per iniziare e che nell’allusione appare tutta già presente: tutta, per così dire, ‘consumata’. Non è — come annota il Sapegno — che l'utilizzazione della fonte biblica «risponda ad un proposito d’arte, in quanto conferisce al racconto un’intonazione grandiosa e solenne»: essa aggiunge una nuova, e non culturalmente prevedibile, connotazione al motivo tradizionale evocato attraverso il rimando a Brunetto; ottiene come risultato locale di «risemantizzare» in chiave esistenziale e ideologicamente impegnativa un topos altamente convenzionale, ed evoca in limine il testo sacro la cui contiguità con la Comedia è tanto esplicitamente denunciata, come abbiamo visto, nel ventinovesimo del Purgatorio.
Emulativo, oltre che dell’Eneide e di Brunetto, delle Sacre Scritture, il racconto che sta per partire si presenta così al suo lettore come una riscrittura totalmente innovativa dei più tradizionali topoi della scrittura letteraria: conferma tale impressione il fatto che ciò che immediatamente segue, la storia dello smarrimento del personaggio Dante, è costruito giustappunto sulla falsariga della storia dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto che, come ricorda il Dante dell’Epistola a Cangrande, ‘figura’ a sua volta una ben precisa esperienza morale e religiosa, «la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia [...]» e «l’uscita dell’anima santa dal servaggio di questa corruzione alla libertà della gloria eterna».
L’appropriazione dell’incipit del cantico di Ezechia denuncia così la profonda distanza che separa e oppone il testo che sta per iniziare dal libro di Brunetto; quella presenza «avvolge» certo «il freddo dato cronologico [...] di un alone di sacralità, che alza il tono del dettato, e avvalora parallelamente, attraverso la ripresa dell'immagine, e il trasferirla dalla morte fisica di Ezechia a quella spirituale del poeta, il motivo iniziale dell’opera», introducendo così «una venatura di alta spiritualità», come ha opportunamente annotato Francesco Mazzoni, ma offre anche in concreto al lettore un preciso parametro di lettura denunciando il modello narrativo (o, più correttamente, un modello narrativo: l’altro sarà quello virgiliano della discesa agli inferi di Enea) su cui si costruisce non solo il senso mortale della storia che sta per partire, ma anche, e soprattutto, quella stessa storia.
Tutto ciò non può che modificare — e profondamente — lo statuto del genere ‘poema allegorico’: così come profondamente modificano quello statuto le varie forme di appropriazione del modello biblico che si osservano nell’organizzazione narrativa, nell’impianto allegorico e nell'impasto lessicale-stilistico e che ho rapidamente ricordato poco fa. Che la Commedia non si lasci completamente descrivere e giustificare con un puro e semplice rimando a quelle convenzioni, e che essa non si lasci neppure catalogare sic et simpliciter come ‘profezia’ e/o ‘visione mistica’ tradizionale provano del resto le reazioni allarmate, le difficoltà ermeneutiche e le difese appassionate delle prime generazioni di lettori del poema: le voci del Vernani, di Guido da Pisa, di Pietro di Dante, del Boccaccio e di tanti altri confermano anzi, nel loro insieme e nella loro assoluta eterogenità, che le esplicite denunce della novità del libro uscite dalla penna dell’Alighieri («Se mai continga che il poema sacro [...] / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello / [....] con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta [...]») sono tutt’altro che topiche.
Proprio in questa contaminazione di materiali letterari e non, cui è affidata la funzione di risemantizzare in senso cristiano il topos letterario, si può, io credo, riconoscere il segno e la marca della re-invenzione e ri-semantizzazione in senso sacrale del poema allegorico; ma in essa si può riconoscere, anche, al contrario, il segno e la marca della «letterarizzazione» di un libro sacrale: da questa, certo ambivalente e sarebbe da chiedersi quanto mistificatoria, contaminazione e coartazione, da questo straniamento reciproco dei due codici nasce «il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra».

Date: 2022-09-20