Dati bibliografici
Autore: Inos Biffi
Tratto da: La poesia e la grazia nella "Commedia" di Dante
Editore: Jaca Book, Milano
Anno: 1999
Pagine: 15-23
La Commedia di Dante è potuta sorgere in un preciso mondo teologico e in una particolare esperienza di teologia: cioè, il mondo teologico cristiano, condiviso dalla fede di Dante, e l’esperienza sua personale del cammino di conversione.
Se scomparisse o si attenuasse la sua sostanza teologica, la Commedia si sfascerebbe, perdendo insieme la sua progettazione, la sua consistenza e la sua ispirazione, rappresentando la fede la materia della poetica, o meglio, la materia trasfigurata in poesia.
Ma abbiamo sentito alcune chiare affermazioni sulla poesia teologica di Dante: «La Commedia non è un trattato di teologia», ma «un grande testo poetico» ; e «La Divina Commedia è un’opera essenzialmente poetica, non teologica: essa non è una Somma ma un poema [...]. La verità vi è presente per la sua bellezza»; abbiamo nella Divina Commedia «il primato del poetico sul teologico» ; «come opera d’arte, il fine della Divina Commedia non è che quello di essere bella» .
Romano Guardini osserva: «L'immagine dantesca del mondo, sorta da un’inaudita disciplina del pensiero e da un lungo e grave travaglio di tutte le energie creative, da una profonda partecipazione al corso della storia e da un’ansia appassionata per il giusto ordine delle cose, da una misura di sofferenza e di tenacia che si manifesta nel volto di Dante e in ogni canto del suo poema, trova poi nella ‘bellezza’ la sua ultima parola» , ed Enrico Malato: «La costruzione è grandiosa e riesce a conciliare senza gravi forzature le ragioni del credo cristiano e della teologia con le ragioni della fantasia poetica, che si espande libera verso mete mai pensate, nonché raggiunte, in qualsiasi altra opera di ogni tempo e di ogni letteratura» .
Forse questa dualità «poetico» e «teologico» è il caso di superarla, o di riproporla, disegnando all’interno stesso del teologico il sito o la forma della poesia o dell’estetica, quanto meno rendendo il teologico disponibile al poetico, una volta assicurata la verità alla teologia stessa. La poesia, comunque, nel mondo della teologia si trova a vivere in una condizione indubbiamente singolare.
Da un lato, proprio perché poesia, essa deve godere della libertà dell’immagine, del sentimento e della trasfigurazione. Se certamente anche il vero, nella sua oggettività, ha la sua bellezza e anche la logica una sua gloria, di cui compiacersi e di cui godere — c’è un’ammirabilità e un fascino della Somma di Teologia di san Tommaso e non sorprenderebbe che si resti presi dallo splendore che da essa promana —, è indubbio che la proprietà artistica è dotata di un altro specifico e possiede canoni differenti e riferimenti diversi: il mondo poetico — che poi non è il solo mondo artistico —, per essere bello, non ha bisogno di essere vero; O, comunque, la realtà provocata esteticamente offre di se stessa non il proprio aspetto di verità, ma quello della bellezza, il quale domanda di essere reso con strumenti che non sono quelli dell’oggettività del vero.
Sorprendiamo, così, esattamente il punto critico dell'estetica in teologia. In teologia, alla poesia non è concesso un immaginario così autonomo, che si possa muovere fuori dall’oggettività della teologia stessa — il che significa fuori dai dati della Parola di Dio e della “Grazia” —; e da questo profilo sembra esatto affermare che la teologia ha, come sua prerogativa prima, quella di essere vera, cioè di riflettere la verità, precedente e fondativa, della Rivelazione, il che viene a determinare il proprio linguaggio come il linguaggio dell’oggettività.
La questione è stata posta a fuoco con lucidità ancora da Étienne Gilson, del quale riportiamo anche alcune considerazioni.
Egli osserva: il primo verso del I canto del Paradiso — la cantica della quale particolarmente Dante parla a Cangrande della Scala — recita: «La gloria di Colui che tutto move», e vi corrisponde l’ultimo del XXXIII canto del Paradiso, che è l’ultimo di tutta la Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle»; senza dubbio, a comprendere il senso di tutto quanto sta tra il primo e l’ultimo verso, intervengono filosofi e teologi, dal momento che «la verità della dottrina, diciamo il suo senso, è un elemento integrante della struttura letteraria dell’opera» : l’analisi e l’interpretazione del filosofo e del teologo sono «un lavoro eccellente, e tuttavia senza relazione necessaria al senso poetico dell’opera. [...] Ciò che Dante vuole ottenere è che noi sentiamo la bellezza di questa visione filosofica e teologica del mondo» . «La verità del senso è colta qui solo come un bene del quale siamo invitati a godere [...]. Comprendere per gioirne […]. E però, il filosofo e il teologo non saranno soddisfatti. Non è vedere la bontà e godere della sua bellezza quello che loro interessa, bensì vedere la verità e gioirne» . D’altra parte è quanto risulta, oltre che dall’opera medesima, dall’autoesegesi che ne fa Dante stesso nell’analisi della sua opera : «Dante non parla della sua opera come fosse un trattato di teologia» .
Gilson avverte: «Quando si dice che il senso primo dell’opera è la bellezza, che il poeta ci disvela [...], nessuno si mette in mente di disprezzare la verità; solo si tratta di sapere qual è la verità della Divina Commedia. In che cosa consiste e dove occorre cercarla? Evidentemente dove l’ha posta Dante stesso. Ora, egli non l’ha posta, nella Divina Commedia, dove la poneva nella Monarchia, o nelle parti del Convivio che sono pure esposizioni dottrinali: in questi casi si tratta di verità speculativa: scientifica, filosofica, o teologica, e anche storica, e vi si trova per la nostra informazione. Anche la Divina Commedia spesso ne contiene, ma l’informazione che il dotto, il filosofo, il teologo o lo storico ci propongono al fine di istruirci, il poeta la presenta integrata alla sua opera e subordinata al suo fine. Il fine proprio della Divina Commedia non è quello speculativo. [...] Il fine della sacra dottrina è quello di condurre l’uomo a Dio insegnandogli la verità salutare; il fine del Poema Sacro è quello di condurre l’uomo a Dio, agendo sul suo pensiero, sui suoi sentimenti e sulla sua condotta per mezzo della poesia. Come opera d’arte il fine della Divina Commedia non è se non quello di essere bella» .
D’altronde, era la riflessione medievale — e ne abbiamo il riflesso nella lettera accompagnatoria e dedicatoria del Paradiso inviata attorno al 1319 a Cangrande della Scala (Epistola XIII) — dove si distinguono i diversi modi o linguaggi — «modus tractandi» — in relazione a un argomento ; ed erano i teologi stessi, espressamente, all’inizio delle loro trattazioni teologiche — Commenti alle Sentenze o Somme di teologia — a porre la questione se alla teologia fosse pertinente il linguaggio della poesia, della metafora, del simbolo; se confacesse, cioè, alla teologia il «modus tractandi», per usare le parole di Dante, «poeticus» e «fictivus».
Tommaso ne tratta anzitutto nel Commento alle Sentenze, dove riporta l’obiezione: «la poesia, essendo la scienza meno veritiera tra tutte, è lontana più di ogni altra dalla teologia, che è veritiera al massimo. Dal momento che la prima adopera locuzioni metaforiche, la seconda non deve fare altrettanto» (Scientiarum maxime dif ferentium non debet esse unus modus; sed poetica, quae minimun: continent veritatis, maxime differt ab ista scientia, quae est verissima; ergo, cum illa procedat per metaphoricas locutiones, modus huius scientiae non debet esse talis) .
La risposta di Tommaso: «La scienza poetica si riferisce a cose che, appunto perché non sono veritiere, non si lasciano afferrare dalla ragione; occorre dunque che la ragione venga come sedotta da similitudini. La teologia, dal canto suo, tratta di cose che sfuggono alla ragione, perché sono al di sopra della nostra comprensione; quindi ad ambedue è comune il metodo simbolico, dal momento che né l’una né l’altra sono proporzionate alla ragione» (Poetica scientia est de his quae propter defectum veritatis non possunt a ratione capi, unde oportet quod quasi quibusdam similitudinibus ratio seducatur; theologia autem est de his quae sunt supra rationem; et ideo modus symbolicus utrique communis est, cum neutra rationis proportionetur) .
Mancando, quindi, la poesia di verità, sta all'ultimo posto tra i modi filosofici; perciò le è concesso l’uso del linguaggio “fittizio”. Era la posizione di Aristotele, per il quale «filosofia e poesia [...] sono irriducibilmente contrapposte» .
Ed era la dottrina scolastica comune: «il zz0dus poetico è quello più basso tra i mzodi della filosofia» (Poeticus [...] modus infirmior est inter modos philosophiae) — scrive Alberto Magno — e Tommaso non fa fatica ad accettare che «la poesia è la più bassa tra tutte le scienze» (Illud enim quod est proprium infimae doctrinae non videtur competere huic scientiae, quae inter alias tenet locum supremuna [...]. Procedere autem per similitudines varias et repraesentationes, est proprium poeticae, quae est infima inter omnes doctrinas. Ergo buiusmodi similitudinibus uti, non est conveniens hbuic scientiae) .
Tommaso, poi, preciserà che «il poeta usa le metafore per rappresentare le cose visibilmente» (Poeta utitur metaphoris propter repraesentationem), mentre esse sono presenti nella Scrittura «per necessità e utilità» (Sacra doctrina — ossia Sacra Scriptura — utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem): esse sono il modo per condiscendere ai «semplici», i quali non sono in grado di elevarsi al livello intelligibile; del resto, in sintonia con il processo conoscitivo dell’uomo che parte dal sensibile (Conveniens est sacrae Scripturae divina et spiritualia sub similitudine corporalium tradere. Deus enim omnibus providet secundum quod competit eorum naturae. Est autem naturale homini ut per sensibilia ad intelligibilia veniat. Unde conve- nienter in sacra Scriptura traduntur nobis spiritualia sub metaphoris corporalium, et hoc est quod dicit Dionysius, 1 cap. Caelestis Hierarchiae: «Impossibile est nobis aliter lucere divinum radium, nisi varietate sacrorum velamine circumvelatum». Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur, [...] ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur, ut saltem vel sic rudes cam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei) .
Secondo Curtius «la Scolastica non è interessata a nobilitare la poesia; non ha prodotto una poetica, e neppure una teoria estetica» . In realtà Tommaso ha prodotto della poesia, ma quanto viene affermato è esatto dal profilo preciso che è quello del rapporto tra poetica, filosofia, teologia, verità.
L'uso della metafora e, diremmo più generalmente della poesia, è mediativo e destinato a essere oltrepassato, perché venga raggiunto il contenuto speculativo .
In particolare, con l’istituirsi della teologia in «scienza», si acuisce la questione se sia confacente alla teologia un modo che non sia quello scientifico, o quello artificialis vel scientialis, che definisce gli argomenti, distingue i problemi, raccoglie i risultati (modus definitivus, divisivus, collativus ; o come scrive Dante nella XIII Epistola citata: modus diffinitivus, probativus ).
E, pur con tutte le cautele che la natura singolare della scienza teologica imponeva, non si esitava ad affermare che, salvi per fede i principi della teologia, questa si muoveva nel modo dell’ars, cioè della scienza, antitetico a quello della poesia. «Il giorno in cui la teologia cessa di nutrirsi di simboli, e, per una parte della sua epistemologia, di essere simbolica, significa l'apertura delle grandi dissociazioni per la “cultura” cristiana. Non avendo più contatto con la cultura che la sostiene — la cultura biblica —, la teologia perde una delle sue immanenti possibilità di vivere in simbiosi con tutta la cultura umana, qualunque essa sia, e già con la cultura antica, che fu il suo primo terreno. Il rapporto che la teologia tiene con le immagini e la letteratura di un’epoca è uno degli elementi più importanti del giudizio da formulare sul rapporto della teologia con la cultura di quest'epoca [...]. L’ebbrezza razionale provocata dalla rinascita dalla scienza e dalla sapienza greche nell'Università di Parigi nel secolo XIII – scrive Chenu – ha sommerso la “letteratura” del secolo XII. Presso i teologi di professione essa ha portato ad asserzioni dispregiative riguardo all’immaginario. La parola di san Tommaso sul defectus veritatis delle arti poetiche, infimae inter omnes doctrinas, è ben nota. Aristotele non era stato più poeta di quanto non fosse stato storico» .
Con la sua Commedia, realizzata attraverso il modo della poesia, Dante in realtà ha mostrato che un’antitesi radicale tra la teologia e la poesia si fondava su un pregiudizio, e il pregiudizio era che per sua natura la poesia era destinata ad alterare la verità e l’oggettività, in particolare la verità e l’oggettività cristiana, o a prescinderne. In realtà, dalla sua opera poetica, esercitata secondo le sue esigenze o i suoi canoni propri, la verità cristiana non era uscita alterata o diminuita, ma semplicemente «bella», «ammirevole» e «dilettevole». Era uscita «verità» da considerarsi dal profilo della bellezza, restando che non tutto era da giudicare allo stesso modo vero, come si deve giudicare in un’opera di teologia o nella stessa Rivelazione. Nella poesia il giudizio di verità come tale è di altra pertinenza, ma il modus fictitius non l’aveva affatto compromessa, e un cristiano non poteva che ritrovarvisi.
Anzi, contro la teoria dei teologi medievali, si potrebbe dire che è la stessa Rivelazione e la stessa fede a domandare il modo della poesia o dell’arte, nel significato nostro. La ricomprensione della Commedia di Dante, da questo profilo, concorre certamente a superare una concezione unidimensionale sia della Rivelazione sia della teologia, cioè della “reazione” ad essa da parte del credente.
La Parola di Dio, o la Grazia, non è riducibile a verità, con esclusione della sua intrinseca bellezza, ammirabilità, gloria, oltre che bontà e desiderabilità.
E, correlativamente, la “reazione” o l'accoglienza di questa Parola o Grazia non attivano solo l’intelletto che ne riconosce la verità. L'intero fascio delle facoltà dell’uomo credente è aperto a iscrivere, e di fatto iscrive, con la fede tutta la gamma o spettro delle proprietà della Rivelazione, che è il Dono e la comunicazione stessa di Dio.
Mediante la poesia si trova esaltata la poeticità di Dio, la sua bellezza, il pulchrum del mistero, e così la teologia viene ad assumere un’altra figura: essa appare allora non solo «intelletto della fede», ma è anche poetica della fede. O, se si vuole, con un intellectus fidei, c'è una repraesentatio fidei, un’ars fidei o una pulchritudo fidei, che suscitano il compiacimento e l'ammirazione che convengono propriamente alla bellezza.
La poesia della teologia, o la teologia nell’originale forma poetica, è un’esigenza che non si può mortificare, pena l’inaridimento della teologia stessa, da cui resterebbero mortificate sia la Rivelazione sia la fede.
Dante ha soddisfatto in grado unico questa esigenza nella Commedia, facendoci contemplare e gustare il mistero cristiano, trasferendo in poesia la teologia, della quale, d’altra parte, egli aveva una chiara concezione.