Dati bibliografici
Autore: Piero Boitani
Tratto da: Letteratura europea e Medioevo volgare
Editore: Il Mulino, Bologna
Anno: 2007
Pagine: 470-483
Il lavoro di Lewis prendeva, come si è visto, due svolte: la prima dalla Provenza verso il nord della Francia, la seconda da lì all’Inghilterra. Negli anni successivi a Dante, poeta del mondo terreno, invece, Auerbach cresce solidamente sull’albero centrale del Medioevo per poi fiorire in quella pianta dalle cento ramificazioni, in quell’exploit unico della critica novecentesca che è Mimesis. Proprio mentre Lewis dava voce alla sua idea dell’allegoria, Auerbach meditava su un concetto complementare e tuttavia affatto differente, quello di figura. E se Lewis illustrava la storia dell’amor cortese, Auerbach si dava alla ricostruzione di un genus dicendi, il sermo humilis.
Nell’Allegoria d'amore Lewis aveva costantemente suonato in tono minore il tema del cristianesimo. Auerbach lo pone ora, come già nel Dante, al centro dei propri interessi. Sacrae Scripturae sermo bumilis — un saggio pubblicato nel 1941, di nuovo nei Neue Dantestudien del 1944, e infine rielaborato in Lingua letteraria e pubblico del 1958 — parte proprio da Dante, anzi dal commento di Benvenuto da Imola al verso 56 del canto II dell’Inferzo, dove Beatrice inizia a parlare a Virgilio, «e cominciommi a dir soave e piana». Secondo Benvenuto il poeta ha ragione ad esprimersi così, «perché la parola divina è soave e piana, non alta e superba come quella di Virgilio e dei poeti». La differenziazione fra i due stili, come si è visto nel Dante, risale alla tarda antichità e designa da un lato il sero piscatorius del Vangelo, dall’altro quello «alto» dei classici. Dante stesso, però, oscilla fra «commedia» e «poema sacro» per la definizione del registro della propria opera. Non è possibile, sostiene Auerbach, che non si sia reso conto che lo stile come anche il soggetto della Commedia toccavano anche il sublime.
La mescolanza di humilis e sublimis nella Scrittura era stata tuttavia canonizzata a poco a poco dai Padri, e in primo luogo da Agostino. Nelle Confessioni egli racconta come avesse cominciato a leggere la Bibbia senza essere capace di comprenderla, perché essa gli sembrava troppo al di sotto della dignità ciceroniana: non aveva ancora capito, insomma, che la loro apparenza è umile, ma il loro contenuto sublime e velato di misteri. La Scrittura è umile nello stile perché si presta ai più semplici, sublime nei misteri che si rivelano soltanto ai pochi che sono puri di cuore. L'idea si ritrova nel De Triritate, dove ritorna l’immagine della Scrittura adatta ai bambini, e nel De doctrina christiana, nel quale Agostino parla della «Scripturarum mirabili altitudine et mirabili humilitate».
In realtà, è l’idea stessa di sublime che va cambiando con il cristianesimo. Nello stesso De doctrina christiana Agostino dedica diversi capitoli allo studio dei tre generi dell’eloquenza tradizionale, il «grande», il «temperatum» e il «submissum». Cicerone e gli oratori profani sostengono che gli argomenti di poco conto, come quelli che riguardano interessi di denaro, vanno trattati nello stile basso, mentre quelli che agitano la vita e la morte degli uomini devono essere toccati dallo stile «grande». Agostino, invece, cita un brano della prima Lettera ai Corinzi in cui Paolo tratta con indignazione ed eloquenza delle discordie di ordine materiale che erano sorte fra quella comunità, esortandola a rendersi degna anche di giudizi di minima importanza. Agostino si domanda perché l’apostolo parli così maestosamente di cose tanto piccole. Lo fa, risponde, «per la giustizia, la carità, la pietà che sono sempre grandi, anche negli affari più piccoli». Quando si tratta di qualcosa che ci può preservare dalle pene eterne e condurre alla beatitudine eterna, il soggetto è sempre «grande»: nei discorsi privati e pubblici, nei libri, nelle lettere. «Un bicchiere d’acqua fresca è una cosa piccola e vile; ma forse Dio dice qualcosa di piccolo e vile quando promette che chi lo darà all’ultimo dei suoi servi non perderà la propria ricompensa?». L'oratore istruito dovrà forse usare per questo lo stile basso? «Non ci è forse accaduto che, parlando di questo argomento al popolo, quando Dio era con le nostre parole, da questa acqua fresca scaturisse qualche cosa come una fiamma che trascinava i freddi cuori degli uomini alle opere della misericordia con la speranza della ricompensa celeste?» .
La fiamma che scaturisce dal bicchiere d’acqua fresca: questo è per Auerbach il simbolo del sublime cristiano, che usa il sermo humilis, le immagini quotidiane, la storia di Dio stesso umiliato e abbandonato, per far penetrare anche i più semplici entro le insondate profondità divine. Vedremo fra poco come questa idea di sublimità raggiungerà in lui, più tardi, esiti ancora più ampi. La discussione, intanto, chiarisce il Dante e apre squarci illuminanti su tutto il Medioevo. Ma il lavoro di Auerbach non separa mai lo stile dalle idee e queste dal mondo terreno. Quando, nel 1939, pubblica Figura (poi di nuovo incluso nei Neue Dantestudien del 1944) , la sua attenzione si concentra non solo sull’evoluzione della parola, ma soprattutto sulla relazione che la parola designa, a partire dai Padri, fra testi dell'Antico e del Nuovo Testamento e, in ultima analisi, fra eventi storici del passato e del futuro.
Figura è parola latina risalente a Terenzio e Pacuvio, ma la cui vera storia inizia per Auerbach con la grecizzazione della cultura romana nell’ultimo secolo prima di Cristo, cioè con Varrone, Lucrezio e Cicerone. È con essi che il termine acquisisce il senso di «formazione grammaticale» e quello contenuto nei termini greci skhema (in Aristotele, la figura meramente sensibile della forma, morphe o eidos, che informa la materia) e typos, «impronta del sigillo» («come figura in cera si suggella») . In contesti filosofici, Lucrezio e Cicerone impiegano la parola in tutta la sua ampiezza semantica, ma il secondo e l’autore dell’Ad Herennium la usano anche in retorica per designare i tre livelli dello stile. In poesia, Virgilio, Ovidio, Lucano e Stazio conferiscono ad essa anche il significato di «copia», «immagine vana», cangiante, onirica. Per Vitruvio, vuol dire «forma architettonica e plastica». Quintiliano, infine, ne consacra l’accezione di figura retorica. Sono tuttavia i cristiani che imprimono a figura una svolta decisiva. Nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo chiama gli Ebrei nel deserto «figure di noi stessi», e della loro sorte in quelle circostanze dice che «queste cose accaddero loro come figure (typikos, in figura)». Nella stessa epistola, Adamo viene definito typos del Cristo; in quella ai Galati la storia di Agar-Ismaele e quella di Sara-Isacco sono interpretate come i due tipi della Legge e della Grazia e come profezie reali.
L’interpretazione figurale, al contrario di quella puramente allegorica, non perde mai di vista il fatto storico, concreto e reale, insomma la «lettera»: così da Tertulliano sino ad Agostino e oltre, per tutta la tradizione medievale. Per Agostino, la Legge o storia degli Ebrei è figura profetica per la venuta di Cristo; l’Incarnazione ne costituisce l'adempimento; ci sarà poi la parousia finale a compiere definitivamente tutti questi avvenimenti. Typos, figura, umbra, imago: prefigurazione, adombramento. L'essenziale dell’interpretazione figurale è il suo collegare due momenti storici:
L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi [...] nella corrente che è la vita storica, mentre solo l’intelligenza, l’«intellectus spiritualis», è un atto spirituale; un atto spirituale che considerando ciascuno dei due poli ha per oggetto il materiale dato o sperato dell’accadere passato, presente o futuro, non concetti o astrazioni; questi sono affatto secondari perché anche la promessa e l'adempimento sono fatti reali e storici che in parte sono accaduti nell’incarnazione del Verbo, in parte accadranno nel suo ritorno .
Perciò l’interpretazione figurale, ponendo una cosa per l’altra in quanto l’una rappresenta e significa l’altra, fa parte delle forme allegoriche nell’accezione più larga, ma da esse si distingue nettamente in virtù della pari storicità tanto della cosa significante quanto di quella significata. Nella loro grande maggioranza le allegorie rappresentano una virtù o una passione o un'istituzione, o in ogni caso «la sintesi più generale di un fenomeno storico (la pace, la patria): mai la piena storicità di un fatto determinato». A questo genere appartengono le allegorie della tradizione che da Prudenzio va fino ad Alano di Lilla e al Roman de la Rose — in altre parole, la tradizione individuata ed esplorata da Lewis.
Di converso, le interpretazioni allegoriche di fatti storici o mitici che vengono spiegati come occulte rappresentazioni di dottrine filosofiche e che pervadono l’esegesi biblica da Filone e Origene in avanti, contribuendo alla teoria dei quattro sensi delle Scritture, sono ancora altra cosa: vi domina una costruzione mistica o etica e il testo viene privato della sua concretezza e svuotato storicamente; inoltre la sua efficacia contiene sempre qualche cosa di erudito e di mediato, e anche di astruso, mentre per la sua origine e per la sua natura «è ristretto a una cerchia relativamente piccola di persone colte e iniziate» .
Infine, ci sono le «forme simboliche o mitiche» riconosciute e descritte per la prima volta da Vico: in esse l’oggetto significato, sempre qualche cosa di estremamente importante e sacro, non è soltanto espresso o imitato nel segno, nel simbolo, ma è ritenuto presente e contenuto in esso: è quello che Lewis chiama «sacramentalismo». Auerbach lo distingue dal figuralismo perché questo deve essere sempre storico mentre quello no, e perché nel simbolo è necessariamente implicata «una forza magica», mentre ciò non è vero della figura.
La concezione figurale della storia domina tutto il Medioevo e su di essa è fondato il suo maggior poema, la Commedia dantesca: in essa, azzarda Auerbach, il Catone che ha funzione di custode ai piedi del Purgatorio («un pagano, un nemico di Cesare, un suicida») è «la figura svelata o adempiuta» del Catone terreno, colui che ha rifiutato la vita per la libertà: la libertà politica e terrena per la quale Catone è morto non è che una prefigurazione della libertà cristiana che egli è ora incaricato di custodire. Anche il Virgilio storico è umbra di quello del poema: in pari tempo poeta e guida; guida come poeta perché nell’Eneide narra un viaggio agli Inferi nel quale vengono profetizzati e celebrati l'Impero romano e la pace universale, e guida come poeta perché tutti i grandi poeti dopo di lui sono stati ispirati dalla sua opera. Virgilio non è dunque l’allegoria di una qualità, di una virtù, di una capacità o di una forza, e neppure di un'istituzione storica. Egli non è né la ragione né la poesia né l'Impero. È Virgilio stesso. Non, però, nel senso in cui lo è il Cesare di Shakespeare, «una persona umana avviluppata nella sua situazione storica». Per Dante ogni vita ha un posto nella storia provvidenziale del mondo che egli interpreta nella visione della Commedia: «Virgilio è bensì il Virgilio storico, ma d’altra parte non lo è più, perché quello storico è soltanto “figura” della verità adempiuta che il poema rivela, e questo adempimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo della “figura”» .
Molti i semi che Auerbach pianta qui per il dantismo successivo, specialmente americano. Tutti i germi di Mimesis, d’altro canto, stanno crescendo nella sua mente sovranamente organica. Mancano soltanto l'immensa cornice diacronica, la geniale soluzione dei brani da scegliere per ciascun capitolo e l’analisi più propriamente stilistica. Tra il maggio 1942 e l'aprile del 1945, a Istanbul, Auerbach porta quei germi a fioritura completa nel libro, che uscirà nel 1946 , Naturalmente, questo non è il luogo per discutere Mimesis in dettaglio. Vorrei soltanto fare alcune osservazioni su di esso per quanto ci riguarda nel presente contesto. Mimesis non è un libro sulla letteratura medievale, ma su tutta la tradizione letteraria occidentale, dall’antichità sino al Novecento. E però un libro che al suo interno contiene ben sette capitoli su venti dedicati alla produzione letteraria latina e soprattutto volgare tra il VI e il XV secolo della nostra era: è perciò una sintesi medievistica pari a quella di Lewis e in realtà il complemento perfetto, sul piano del volgare, della Letteratura europea e Medio Evo latino del Curtius (1948) .
Non è certo un caso che siano due filologi romanzi tedeschi a offrire i panorami più validi del Medioevo europeo alla metà del secolo, quando essi stessi e tutto il Continente si trovano ancora in mezzo alle rovine prodotte dall’immane disastro della guerra, delle persecuzioni, dell'Olocausto. A legger Mimesis, per rimanere nel nostro campo, si ha l'impressione, che Auerbach confermerà poi esplicitamente nell’introduzione a Lingua letteraria e pubblico, che la letteratura europea venga lì ripercorsa per far da puntello alle rovine, come direbbe il T.S. Eliot della Terra desolata: per ritrovare un’identità comune e, giunti come alla sua fine, presentare il bilancio di quasi trenta secoli di civiltà.
Eccoci così sprofondati, dopo un capitolo che parte da Ammiano Marcellino per approdare a Girolamo e Agostino (e al figuralismo), nella Storia dei Franchi di Gregorio di Tours: dove vengono narrati, con stile marcatamente «parlato» e spesso senza connessioni logiche, fatti locali e, rispetto all’antico centro romano dell’orbis terrarum, periferici, con protagonisti apparentemente oscuri o minori; fatti, però, che Gregorio ha vissuto o appreso da fonti orali dirette, e che riproduce con «un’evidenza sensibile e uno sforzo d’imitazione immediata della realtà mai tentata dagli storici romani» . Parte da qui il percorso strettamente medievale di Mimesis, con le tappe che tutti ricorderanno. Viene, subito, la nomina di Orlando a capo della retroguardia nella Chanson de Roland: cinque lasse nelle quali il poeta non spiega nulla, ma esprime ciò che succede con tanto vigore paratattico da convincere che nulla potrebbe succedere diversamente e che non ci sia bisogno di legami chiarificatori. La paratassi è tipica, nelle lingue antiche, dello stile umile, mentre nella Chanson de Roland — e nella Chanson d’Alexis — appartiene a quel sublime nuovo, basato non sul periodare e sulle figure retoriche, ma sulla forza di blocchi linguistici indipendenti, posti gli uni accanto agli altri, che vediamo nella Genesi biblica. Segue, poi, la partenza del cavaliere cortese nell’Yvain di Chrétien, con la sua fantastica «avanture», il realismo limitato dall’atmosfera fiabesca, l’autorappresentazione della cavalleria feudale come «creazione estetica assoluta». A contrasto, la sezione successiva viene dedicata al Mystère d’Adam, nel quale il sermo humilis si rivolge ai semplici e ai poveri di spirito immettendo — come farà Francesco d’Assisi in Italia — il fatto sublime nella loro vita quotidiana, e che racchiude le sue scene in una cornice biblico-storica dominata dall’interpretazione figurale.
Il celebre capitolo su Farinata e Cavalcante riassume in una trentina di pagine tutto ciò che Auerbach ha scritto su Dante in precedenza, ma facendolo precedere dalla memorabile lettura di Inferno X, con la sua straordinaria condensazione di avvenimenti, l’articolazione drammatica e sintattica, il suo incessante movimento. Ecco, di nuovo, l’«esistenza immutabile» che Hegel, nelle Lezioni di estetica, aveva postulato per gli abitatori dei tre regni danteschi, e nella quale Dante immerge «il mondo vivente del fare e del patire» in una parola, ecco di nuovo Dante poeta del mondo terreno, e insieme del figuralismo che informa di sé tutta la Commedia, e del sermo humilis e del sublime a un tempo. Con una precisazione che si spinge, però, un po’ più avanti, e più chiaramente, che in precedenza: l’arte dantesca è tale che l’effetto si riversa nel terrestre e il personaggio nel suo compimento afferra troppo gli ascoltatori; nella «immediata e ammirata partecipazione alla vita dell’uomo, l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale, stabilita dentro l'ordine divino, si dirige contro quello stesso ordine divino, lo fa suo servo e l’eclissa. L'immagine dell’uomo si pone davanti all'immagine di Dio. L’opera di Dante ha realizzato l'essenza figurale-cristiana dell’uomo e nel realizzarla l’ha distrutta» .
È possibile che Auerbach abbia qui in mente l’Inferzo e forse il Purgatorio, e dimentichi per un attimo il Paradiso, in cui l’ordine divino riassorbe ogni individualità umana, per quanto pronunciata. Ma soprattutto gli serve questo procedere hegeliano per aprire il discorso al successore di Dante nella narrativa, il Boccaccio del Decameron. Il quale adotta lo «stile medio elegante», ma stacca la sua prospettiva dalla visione figurale e dall’etica cristiana, immergendole invece in un mondo dominato dalla «dottrina dell'amore e della natura» , e spezza l’unità dantesca in cento novelle. Preme, ad Auerbach, giungere al realismo moderno, e il capitolo che egli incentra sulla «Madame du Chastel» di Antonio de la Sale sembra collocato, all’interno di Mimesis, in antitesi a quello sul Frate Alberto boccacciano e a preludio contrastivo di quelli successivi su Rabelais e Montaigne, il realismo della civiltà franco-borgognona del secolo XV apparendo limitato e medievale a paragone di Dante, di Boccaccio, e del Rinascimento.
Il quadro auerbachiano della «realtà rappresentata» nel Medioevo si presenta dunque assai articolato. Auerbach non individua semplicemente le coordinate mimetiche di un testo, ma le inserisce sempre all’interno di un contesto sociale, di una visione del mondo e di una «filosofia dello Spirito»: le aggiusta di volta in volta all’analisi stilistica come a fornirne prova sperimentale: le studia nelle prospettive di lunga durata fornitegli dalla dialettica fra sermo humilis e sublimis e dall’interpretazione figurale della storia. Tali prospettive si completano nel suo ultimo libro, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, pubblicato originariamente nel 1958 . Ad esso egli premette un’introduzione sullo scopo e il metodo che vale anche per Mimesis nonché per i suoi studi precedenti: in Vico egli ha trovato lo storicismo, «la scoperta copernicana delle scienze dello spirito», e in lui l’unità per la quale «negli uomini delle età primitive l’insieme di tutte le azioni e di tutte le concezioni è poetico»: talché la scienza che le studia, la filologia, si estende sino a comprendere la Geistesgeschichte. L'universale che a lui sembra rappresentabile è «la concezione di un corso storico: qualche cosa come un dramma, che non contiene neppure esso alcuna teoria, bensì una concezione paradigmatica del destino umano». L'oggetto della sua indagine, «nel senso più largo, è l'Europa» .
Lingua letteraria e pubblico consta di una serie di quattro frammenti a «integrazione» di Mimesis. Il primo riprende e amplia il saggio già discusso sul sermo humilis; il secondo, Prosa latina del primo Medioevo, colma il vuoto rimasto aperto in Mimesis fra il 600 di Gregorio di Tours e il 1100 della Chanson de Roland; il terzo, Camilla, cerca di esporre il tramonto dello stile elevato antico e la sua rinascita in condizioni mutate; il quarto, Il pubblico europeo e la sua lingua, dal titolo volutamente paradossale a sottolineatura dell’«unità europea», verte sulla «grande pausa durante la quale non c’è un pubblico letterario né una lingua letteraria generalmente comprensibile», e sul suo superamento.
Il modo ideale di leggere Lingua letteraria e pubblico è dunque quello di sommarlo ai sette capitoli medievali di Mimesis e di incastonare in quelli i quattro ora presentati: si vedrà allora che il disegno generale non è mutato se non in una direzione, quella del sublime. In Mimesis e negli studi precedenti, la sublimitas veniva ancora presentata, sostanzialmente, come la profondità dei misteri divini opposta al sermo humilis che li tratta (la fiamma che scaturisce dal bicchiere d’acqua fresca) . Soltanto in un caso, quello della Chansor de Roland, Auerbach aveva accostato lo stile alto di membri paratattici a quello del primo capitolo di Genesi, con un riferimento alla discussione fra Boileau e Huet sul passo del Sublime pseudo-longiniano che verte sulla creazione della luce . Ora invece Camilla non ci presenta soltanto un brano dell’Eneide virgiliana a contrasto con uno del Roman d’Enéas per mostrarci come lo stile alto del primo rinasca in condizioni mutate e in forme diverse nel secondo, ma, sin dalla sua epigrafe, impiega l’impostazione longiniana del sublime come «risonanza di una grande anima» e dello stile elevato che deve servire a trascinare ed entusiasmare. Nel corso del capitolo egli giunge a citare una serie di versi dell’Iliade che descrivono la discesa di Poseidone dalla vetta del monte di Samo verso il suo palazzo, versi usati dall’anonimo nel celebre capitolo IX per illustrare la sublimità nella trattazione del divino; analizza il brano omerico concentrandosi sul suo «attimo» e sul suo «slancio»; e infine lo paragona alle terzine di Inferno IX che descrivono l’apparizione del Messo divino «ch’al passo / passava Stige con le piante asciutte». Auerbach scioglie qui il suo antico dubbio: sì, Dante attinge il sublime, e precisamente nella dimensione longiniana sebbene in maniera profondamente diversa da quella omerica. Auerbach fonde finalmente l’hypsous con l’interpretazione figurale e la poesia del mondo terreno: è l’immagine più alta che ci offre della Commedia e del Medioevo .
L’Agostino del De doctrina christiana serviva ad Auerbach per ribadire l’idea della mirabile «altitudo» e dell’altrettanto mirabile «humilitas» delle Scritture, nonché per introdurre la nuova sublimità cristiana della fiamma che scaturisce dal bicchiere d’acqua fresca. Lo stesso libro viene usato da Robertson nel suo A Preface to Chaucer per mettere tutta la letteratura medievale all’insegna di quella che egli chiama «l’estetica dell’espressione figurativa», cioè in breve dell’allegoria. Robertson non distingue tra diversi tipi di allegoria, come facevano Lewis e Auerbach, né in alcun modo tratta l’interpretazione figurale. Il suo libro è dedicato esclusivamente a quel tipo di espressione, figurativa appunto, che «offre un’opportunità di discernere gli invisibilia Dei attraverso le “cose create”» e che «ha l’effetto di stimolare l’amore verso gli irvisibilia» .
Per poter operare su questo piano Robertson ha bisogno di sgombrare il campo da possibili equivoci. Il Medioevo non crede alla tensione fra opposti come la modernità, ma invece all’ordine gerarchico del tutto culminante in Dio. L'amore viene inteso nell’accezione agostiniana di «carità» come «moto dell’anima verso il godimento di Dio in se stesso, e di se stessi e del prossimo per causa di Dio», e di «cupidità» come «moto dell’anima verso il godimento di se stessi, del prossimo e d’ogni altra cosa corporea non per causa di Dio». Incombe inoltre sull’amore la sentenza paolina, ripresa ancora una volta nel De doctrina christiana, per la quale «la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda» .
Tali opposizioni, sostiene Robertson, non instaurano una tensione di tipo romantico, ma vanno viste alla luce del telos gerarchico, come elementi in una scala che conduce verso l’alto. Il compito dell’allegoria è per l’appunto questo: partire da un oggetto per indicarne un altro, un significato ulteriore superiore. L’allegoria inoltre, per quanto suggestiva, non si presenta mai vaga. In Cuore di tenebra, Conrad scrive che per il suo narratore-protagonista Marlow «il significato di un episodio non stava dentro, come un nocciolo, ma di fuori: avviluppando il racconto che lo generava al modo che una luce produce per contrasto una zona di penombra; o a somiglianza di uno di quei nebulosi aloni che rende talvolta visibile la spettrale illuminazione della luna» . Robertson cita questo brano per sostenere che l’atteggiamento degli interpreti medievali della Scrittura e della poesia è esattamente l’opposto: essi cercano proprio il «nocciolo», il nucleus che si nasconde dentro l’involucro esterno. Né esiste per loro penombra o nebulosità: nel De doctrina christiana Agostino asserisce che «quasi nulla emerge dai passi oscuri [della Bibbia] che non si trovi apertamente spiegato altrove» . Ne consegue che nell’arte e nella letteratura medievali c'è sempre una risposta esplicita al mistero, e che tutto quel che il lettore deve fare è un percorso intellettivo (non invece, come nella poesia romantica, emotivo) di ri-scoperta, di ri-conoscimento di qualcosa che già conosceva. Ne deriva anche che in esse non vi è nulla di drammatico nel senso moderno: «Il Romanico congela le figure nell’immobilità», afferma Panofsky, «o le stravolge in contorsioni incompatibili con le leggi della natura. Il Gotico preferisce scioglierle in autoabbandono lirico; e in nessuno dei due casi parleremmo di un modo d’espressione “drammatico”» .
Chi abbia letto il Farinata e Cavalcante di Auerbach o contemplato le sculture di Giovanni Pisano nutrirà alcuni dubbi in proposito. E chi poi abbia scorso le pagine di Lewis sul Roman de la Rose troverà la seguente frase ad accoglierlo in A Preface to Chaucer: «Il Roman non è affatto un poema psicologico; è la descrizione di azioni umane in termini di astrazioni che appartengono a uno schema oggettivo di valori morali la cui esistenza è indipendente dallo stato psicologico del sognatore. Le sue implicazioni non sono psicologiche ma morali» . Robertson interpreterà tutta la letteratura medievale, inclusa subito dopo la Vita nuova, in questa chiave. Non esiste per lui differenza apprezzabile fra l’allegoria dei poeti e quella dei teologi. L'espressione «figurativa» vale, in modi diversi, per il Romanico quanto per il Gotico, per l’amor cortese quanto per l’umanesimo, per il Chrétien del Perceval e per il Langland di Piers Plowman, per il Chaucer del Parlamento degli uccelli quanto per quello del Troilo e dei Racconti di Canterbury . Il suo merito consiste nel portare alla luce un atteggiamento profondo della mentalità medievale e nell’evocare testi esegetici spesso trascurati. Ma il minimo che si possa dire è che l’integralismo di una simile visione, che tanti seguaci ha avuto nella critica americana, finisce per ingessare il Medioevo in un millennio senza storia.