Dati bibliografici
Autore: Nino Borsellino
Tratto da: Sipario dantesco. Sei scenari della "Commedia"
Editore: Salerno Ed., Roma
Anno: 1991
Pagine: 72-97
Una dissolvenza che i cineasti direbbero incrociata lascia inquadrata alla fine del canto xxx del Purgatorio la figura della selva: figura inaugurale, un tempo che ormai sembra lontano, dello stesso viaggio dantesco dalla perdizione al riscatto, ora designata a significare in simmetria verticale, sulla cima della sacra montagna, una preistoria cristiana, l'età di un’innocenza naturale irrecuperabile.
L'immagine, prima di fissarsi, scorre lungo un sipario che copre lo spazio di una rappresentazione interrotta. Dietro, nel folto della foresta, si perde l’ultima scena della spettacolare processione edenica, dopo la devastazione del carro della Chiesa e la celebrazione di un trionfo demoniaco. Il «dificio santo», ora mostro apocalittico con sette teste e dieci corna, è ancora presso l'albero della giustizia al quale il Cristo-grifone l’aveva legato, e una «puttana sciolta» vi troneggia sopra. Un gigante, l’Anticristo usurpatore della sacra autorità, si mostra dapprima lascivo con lei, poi la punisce dei suoi adescamenti verso Dante e la trascina via con la belva slegata dall’albero. Finché il rapitore e i suoi ostaggi non si perdono alla vista:
Ma perché l’occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.
Lo sguardo del poeta si muove ancora sul campo lungo di quel sipario, o schermo o «scudo», mentre in noi l’immagine della foresta resta ferma a compenso di una mobilità sensoria che rischia di affaticare la lettura. Il moltiplicarsi delle inquadrature, per non dire (con una nomenclatura fattasi ormai obbligante) degli effetti speciali, con cui il poeta ha realizzato il montaggio delle due grandi sequenze — la processione all’albero di Adamo e l’incursione al carro —, sembra affidare alle risorse spettacolari della ripresa filmica, più che della messinscena teatrale o dell’impaginazione pittorico-narrativa, «la memorabilità dell’enunciazione dantesca». La risposta che qui si propone di dare alla domanda che intonava vent'anni or sono la lettura, questa si memorabile, di Gianfranco Contini («Ma a che cosa si applica la memorabilità dell’enunciazione dantesca?») vuole essere esplicitamente anacronistica. Essa rinvia ad atti percettivi propri della nostra psicologia della forma, preparata, e forse anche condizionata, a cogliere la configurazione di un insieme iconico-verbale nella sua dinamica proiettiva: come su uno schermo dove è presente anche lui, il regista-attore, ed è visibile anche il carrello delle apparecchiature, attrezzate per allargare su panoramiche e stringere su primi piani; su lui stesso, nell’estasi, per esempio, che lo assorbe nella sequenza iniziale:
Tant'eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! -;
o nel sonno in cui sprofonda più tardi sopraffatto da un’inaudita melodia, come Argo «udendo di Siringa» (vv. 64-69):
S'io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com’io m’addormentai,
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.
Ma è anche una risposta parziale. Essa trascura per il recupero totale della performance dantesca il dettaglio, lirico narrativo descrittivo che sia, in cui spesso s’annida il nucleo generativo della memoria nostra, di lettori, quando, in assenza di uno o più personaggi calamitanti, l’effetto si sprigiona da un attacco o da uno stacco comparativi; che so: «come l’augello, intra l’amate fronde » 0, per restare a un’esemplificazione minima tratta da un unico canto tanto concorde col nostro, il xxm del Paradiso: « Quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne », e si propaga per la sua stessa intensa vibrazione a rievocare la totalità, e perciò stesso il senso di un intero blocco narrativo.
Nel canto XXXII è l’incisività di alcune immagini sentenziose che si iscrive dentro di noi fissando la loro autonoma, ma non irrelata memorabilità. Basti l’incastro oracolare (vv. 100-5) tra l’ultima visione trionfale del carro e la sua trasfigurazione demoniaca, con cui Beatrice consacra la missione profetica di Dante:
Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive.
Anche prosodicamente la scansione sillabica dei vv. 101-2 sottolinea l'opposizione «silvano» / «cive», mentre la contiguità delle due perifrasi, «Roma onde Cristo è romano», e «mondo che mal vive», esalta, nello scarto tra solennità e discorsività, il compito dello scriba Dei, già insignito della cittadinanza divina eppure operante nella comunità degli uomini traviata e corrotta. Non altrimenti si memorizza l’epifonema del grifone, «Sì si conserva il seme d’ogne giusto» (v. 48), con tutta la risonanza della sua sibilante allittera- zione.
È vero, qui non si tratta di dettagli compositivi e neppure di dilatazioni o svolte semantiche di marca emozionale. Gli esempi addotti dirigono l’attenzione su luoghi di massima concentrazione ideologica in cui il significato sopravanza l’immagine che si imprime come sigla di una verità oracolare. Insomma, l'espressività del figurato qui si rinchiude in se stessa; non si prolunga come altrove, e anche laddove l’allegoria è ineludibile, fino ad invadere tutto il campo visivo inglobando quello mentale. In questo canto l’invenzione dantesca si manifesta di più nell’intensificazione del processo figurativo, con relativa accelerazione di quello trasformativo, e si realizza in forza di un vistoso virtuosismo, ma a prezzo di una più stretta rispondenza emotiva, che semmai è solo enfaticamente attestata: «simile mostro visto ancor non fue» (v. 147). Perché in questa stazione terminale dell’oltretomba terreno anche l’io empirico, e quindi emotivo, di Dante si va trasfigurando, tra tante trasfigurazioni, nell’io trascendentale che tenta di unificare il molteplice dell’esperienza psicologica e intellettuale accumulato lungo il pellegrinaggio, e a quel molteplice vuole dare un senso.
Ma questo è un corollario che va chiarito con la sostanza più che con i modi della figurazione. Sui quali invece è opportuno ancora indugiare per ammettere che una ritraduzione cinematica della rappresentazione dantesca è in partenza una lettura indiziata di anacronismo, di ricezione impropria del testo per la sovrapposizione della nostra impressionabilità di utenti di altre tecnologie artistiche sull’impressionabilità della fantasia visiva e artigianale di cui Dante è partecipe. E infatti, da tempo, la decrittazione formale dei canti XXIX-XXXII, in cui è inscenato il grande spettacolo allegorico del carro, ha fatto ricorso alle chiave dell'immaginario pittorico medievale col quale quello dantesco sembra più concordare: da qui i suggestivi confronti con i mosaici ravennati e gli affreschi della cripta del duomo di Anagni messi in evidenza da Umberto Bosco e l'attenta ricognizione dell’Oliva nel «ricco deposito d'immagini dell'Apocalisse». Quanto poi ai riscontri teatrali della scrittura dantesca, la ricostruzione di Aldo Vallone della processione simbolica come actio scaenica riporta quella figuratività alle sue motivazioni dinamiche e rappresentative in cui le singole immagini si coordinano tra di loro per restituire scenograficamente e mimicamente il significato di un evento.
Non so però se il parallelismo parola-pittura e parola-scena possa essere spinto più oltre. È probabile che l'invenzione dantesca fosse più accesa dalla consuetudine con le carte di Oderisi, Franco Bolognese, o chissà quale altro miniatore allora pennelleggiasse. Ma di quale materia ridessero quelle carte noi non sappiamo. Perciò anche la nostra identificazione con la tipologia artistica dell’età dantesca non può sottrarsi a un sospetto di approssimazione lungo coordinate di gusto personale. Del resto varrebbe la pena in questa fase forse soltanto congiunturale dell’esegesi dantesca, che risospinge molto indietro le ragioni poetiche, oltre che il mondo intellettuale, della Commedia, rivendicare per contraccolpo i diritti all’impressionabilità della lettura per un’opera come quella dantesca che vive nel corso del tempo e nella sua alienabilità storica. I valori formali si chiariscono via via ed anche si intensificano più a futura che a passata memoria nel contatto con le culture che li assimilano. Non sarà male pertanto mettere in gioco con la poesia di Dante le fenomenologie della ricezione.
L'importante è insomma, quali che siano le modalità della percezione, non appiattire forma e sostanza della rappresentazione nel didascalismo dell’illustrazione. Dante, rientrando nel mondo come il reduce dalla Terrasanta «che si reca il bordon di palma cinto» (Purg., XXXIII 78), non si accontenterà di conservare e mostrare quel segno; vorrà «significare per verba» la realtà simbolica, e perciò simulata, delle visioni, che accompagna, a partire dal purgatorio, il suo itinerario verso Dio. Nei risultati il procedimento descrittivo potrà sembrare analogo a quello impiegato nella prima cantica. Ma nell’Inferno la realtà descritta è vera; il suo significato coincide con l'evento senza simulazioni simboliche. Tra le quinte di un’altra selva, quella dei suicidi, due piante gemono con parole e sangue, eppure non simulano un’altra realtà, perché sono esse stesse una nuova realtà fisica e psichica. Nel Purgatorio il rapporto res-verba si modifica, impone una pluralità di specificazioni: per esempio, nell’intonazione musicale che nell’Inferno può essere solo fragore, rombo, mai armonia. Da qui anche l’incongruenza di certi rapporti di figure che va compensata da una verità postulata piuttosto che dimostrata e anzi rappresentata. Singolare in questo senso il contrasto, che la terzina 40-42 mette in risalto, tra l'aspetto meravigliosamente frondoso dell'albero del paradiso con la sua chioma che si dilata quanto più si innalza nel cielo («La coma sua, che tanto si dilata / più quanto pit è su, fora da l’Indi / ne’ boschi lor per altezza ammirata») e la desolazione della stessa «pianta dispogliata / di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo» sottolineata nei versi precedenti (37-39). Il sovrasenso della visione qui fa aggio sulla rappresentazione che incorpora il senso immediato dell'evento, lasciando scoperta la contraddizione del figurato.
E del resto tutto l'episodio sembra costruito come un ysteron proteron che anticipa i tempi del disvelamento allegorico senza attendere gli atti che lo giustifichino. Si ponga attenzione ai momenti della sequenza della trasfigurazione arborea nei vv. 46-60:
Così dintorno a l’albero robusto
gridaron li altri; e l’animal binato:
«Sì si conserva il seme d’ogne giusto».
E vòlto al temo ch’elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di viole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
L'inno di lode al grifone si leva prima che l’«animal binato» leghi il carro all'albero e prima che l'albero rinasca a nuova vita con quei frutti che egli non staccherà, a differenza dei due primi abitanti dell'Eden. La macchina della visione è preparata per effetti diversi da quella della narrazione: le immagini devono imprimersi come emblemi a rischio di mettere in forse i rapporti temporali di concatenazione. La tecnica della rappresentazione conferma infatti l’antillustrativismo «d’esto visibile parlare», la sua «irriducibilità» ad altre tecniche descrittive o sceniche. Semmai, poste a riscontro, queste serviranno a mettere in rilievo il dinamismo visivo e mentale dell’immaginario dantesco, più degli esempi che siglano, in entrata e in uscita nelle cornici del purgatorio, virtù premiate e vizi puniti, con modalità diverse di figurazione e tuttavia a paradigma, fuori dal tempo della narrazione, di una vicenda in atto, vissuta dal pellegrino e dai penitenti.
Visio e mens sono già nell’esordio del canto gli elementi inscindibili dell’autoritratto di Dante in contemplazione del «santo riso», del primissimo piano della sua estasi. La biografia sentimentale del poeta non basta, come è ovvio, a spiegare questo suo avido dissetarsi dopo dieci anni di separazione dalla donna. La ragione è certo in quell’intreccio di persona e simbolo, passato e presente, che l'apparizione di Beatrice ogni volta annoda e ora l'amante esprime quasi senza ritegno. Giorgio Petrocchi ha scritto in proposito pagine di così piena comprensione che si rischia di guastarle, per chi le conosca, ripassando la scena al rallentatore. Mi soffermerò soltanto su circostanze interne a questa sezione del canto in più stretta relazione con le vicende successive che impegnano, per altre emergenze simboliche, la coscienza del personaggio.
Dante ha attraversato un muro di fuoco per raggiungere Beatrice ancora per esortazione di Virgilio: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (XXVII 35-36). Come un Parsifal purificato dalla prova ha conquistato il Graal. Ma ora ne deve affrontare una nuova uscendo dal cerchio di fascinazione di quel volto disvelato che è anch’esso un muro, una «parete di non caler», di noncuranza per altri pur sacri oggetti. Il grido delle Virtù teologali («Troppo fiso!», v. 9) non vale perciò soltanto come un «ne quid nimis», come un richiamo alla temperanza, quale lo riteneva il Landino, che del resto, scorciando il commento del Buti, equivocava su quel grido attribuendolo alle Virtù cardinali. Esso suona come un avvertimento per il miles Christi, per quel campione della cristianità che Dante sta per diventare – attraverso altre prove e, infine, con rituale immersione battesimale –, a non considerare chiusa la sua avventura umana e la sua quéte nell’oltremondo con un atto contemplativo pur pienamente consolatorio della sua inquieta ricerca di verità.
Piuttosto inquietante è invece per il lettore l’eccesso di amore spirituale, ostentato con un’ingordigia così cruda che nemmeno la crudezza d’una “petrosa”: «a disbramarsi la decenne sete». Tanto da indurre il glossatore quattrocentesco a nullificare la durata reale di quella decennale arsura e a ridurre Beatrice a pura fictio. «Et vuole intentere - riprende il Landino sulla scorta del Buti - che dapoi che hebbe cognitione del senso litterale et morale delle sacre lettere dopo el quale abbandonò tali studii insino che ritornò per havere lo intellecto allegorico et spirituale furono in mezo dieci anni: et però finge che stette dieci anni sanza Beatrice». La glossa sembra assecondare, piuttosto che il testo, la nota distinzione tra i gradi dell’interpretazione formalizzata nell’Epistola a Can Grande; e nessuno, credo, si sentirebbe di condividere una simile riduzione razionalistica di tutta un’esperienza di vita e d’arte a passione ermeneutica, quasi a un risultato d’accademia. Resta il fatto tuttavia che la glossa mette in luce il valore simbolico di Beatrice come ricerca di verità: acqua che soddisfa la sete naturale di Dante; ma esclusivamente di Dante, bisogna aggiungere, in quanto quella soddisfazione coincide col suo desiderio d’amante, diversamente dall'acqua «onde la femminetta / samaritana domandò la grazia», che è la rivelazione in cui s'appagano ragione e fede, la sete naturale d’ogni credente.
Implicitamente, inoltre, si svela per questa via un duplice e forse molteplice processo di simbolizzazione di Beatrice e il modo con cui Dante lo acquisisce dopo averlo prefigurato in sogno nella stilizzata specularità del rapporto Rachele-Lia. Speculare è anche l’immagine di Beatrice in questo canto, e la sua significatio. Dante, concentrandosi nella contemplazione del «santo riso», ha sublimato un’esperienza vissuta e poi tradita, ma già allora elevata a teoria. Ma in quella contemplazione egli ha colto solo un aspetto di Beatrice come specchio di quella verità divina che risarcisce il suo destino individuale e gli promette, di là da ogni eventuale azione nel mondo, la beatitudine. L'altro aspetto non gli è ancora noto: è quello della vita operante e della giustizia che gli sarà manifesto nell’atteggiamento più dimesso di Beatrice, sola, seduta «in su la terra vera» a guardia del carro e dell'albero (vv. 94-96); un atteggiamento che sollecita atti di obbedienza e devozione, non di estatica contemplazione. Ora non sarà più in gioco la vicenda intellettuale ed esistenziale di Dante, ma la sua missione di scriba Dei, quella per cui si legittima rispetto alle altre visioni e avventure dello spirito il valore umano del suo poema e insieme la sua sacralità.
La specularità dell'immagine di Beatrice — Virgo sapiens e diva Astrea — non è una pura astrazione simbolica, ma neppure un’incarnazione, una figura dell’incarnazione di Cristo, qui inseparabile dalla doppia identità umana e divina del biforme grifone con cui, in questo spettacolo edenico, il Cristo si manifesta. Non credo che il consenso alla tesi dell’equivalenza delle due figure, sostenuta da Charles Singleton, con una trama di riscontri interni e esterni al poema che si è sempre più infittita, possa trovare proprio in questo scenario simbolico una conferma (oltre tutto una radicale cristologia dovrebbe imporre anche una martirologia: e l’imitatio Christi di Beatrice è spinta fino al miracolo, non fino al martirio). Ciò non toglie che la centralità della sua epifania nel disegno allegorico-narrativo del poema resta un momento cruciale dell’esegesi strutturale e poetica della Commedia.
Ricordo con quanta improntitudine molti anni or sono (del resto nel corso di una stagione molto permissiva quali i declinanti Sessanta) mi avventurai proprio col Singleton in una discussione di seminario sul suo metodo d’interpretazione del poema. Un metodo che a me sembrava troppo teleologico per quella ricerca di una intentio tutta dichiarata al centro e alla fine anziché espressa in fieri, nelle tappe del viaggio a Beatrice che rigenerano e danno ogni volta senso concreto e perfino imprevedibile al progetto dantesco. Oggi mi atterrei di più a quel criterio, ma proprio per mettere in dubbio che per la salvezza dell'anima, che ispira l'itinerario artistico di Dante dalla Vita nuova alla Commedia, sia necessario calare la persona di Cristo nel personaggio di Beatrice. Il supporto simbolico del Cantico dei cantici, il canto Veni, sponsa, de Libano con cui è salutata, nel xxx, l'apparizione della donna, non avvalora un’identificazione; semmai sancisce un patto d'amore con Dio mediato da un oggetto di desiderio della giovinezza, da una passione già sublimata e ora elevata a virtù di conoscenza, e di conoscenza divina.
Questa simbologia si chiarisce nelle ultime visioni del paradiso terrestre. Dante assiste al miracolo della rigenerazione dell'albero del bene e del male con i colori sanguigni del sangue di Cristo crocefisso (vv. 52-60). Il legno della Croce si è innestato in quello della giustizia: un atto d’amore ha gratuitamente riscattato la libertà dell’uomo e insieme la sua responsabilità nel mondo con la garanzia di una legge che non deve essere violata e non può ripristinare l’innocenza edenica. Il sacrificio — atto violento e fondativo — ha separato la storia dalla preistoria, da una condizione di felicità naturale che ormai può essere solo commemorata con un’invocazione, nel nome di Adamo qui mormorato in coro. L'efficacia del rito è insomma, in questo episodio come in ogni rito, propiziatoria.
È stato detto che il grifone è come il punto d’intersezione del tempo e dell’eternità. Legando il carro della Chiesa all'albero della giustizia, Cristo ha fondato nel tempo reale, tra vita e morte, tra i «vivi / del viver ch’è un correre a la morte», come sottolineerà più tardi Beatrice, la prospettiva dell'eterno. Qui intanto, al centro dell’episodio, con i versi 60-90, si conclude anche il momento rituale della processione-rappresentazione, con l’ascesa al cielo del grifone seguito dal corteo delle figurazioni scritturali. Ma il carro è rimasto ormeggiato per una rappresentazione in prospettiva simbolica capovolta, dall’eterno al tempo dove Dante colloca la nuova apocalisse, lo spettacolo dell’ultima rivelazione. Però con un ulteriore capovolgimento prospettico: dell’escatologia scritturale in profezia storica.
L’enigma delle due visioni va iscritto in questa stretta interrelazione di eterno e tempo ed anche, dialetticamente, di natura e storia. L'opzione del Pasquazi in favore dell’Empireo e non del paradiso terrestre come luogo «fatto per proprio de l’umana gente» non può essere revocata in dubbio dal simbolismo della rigenerazione dell'albero di Adamo. Dante ha assistito alla trasfigurazione cristiana della pianta biblica irrorata dal sangue della Croce, ma è avvertito da Beatrice, posta a custode del vincolo tra la chiesa di Cristo e la giustizia divina, che la patria dell'anima è altrove e non soddisfa le nostalgie dell'Eden: desideri e miti di recupero di una naturalità divina, di favolose età dell'oro. Le parole di Beatrice replicano, contro il sogno di un ripristino dello stato naturale o «silvano», l’istanza storica e civile del riscatto cristiano, della milizia cristiana santificata nella Roma universale, città di Cristo e degli uomini.
Questo richiamo a una Roma civitas Dei, che esalta la coscienza storica del cristiano piuttosto che il privilegio naturale della creatura, anticipa la rivelazione della missione spirituale dell’Impero, in attesa che il sigillo del balenante ludus de Antichristo, sceneggiato nell’ultima sezione di questo canto, sia aperto ancora da Beatrice: «Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda / che vendetta di Dio non teme suppe» (XXXIII 34-36 sgg.). L’apocalisse di Dante cancella dal testo pseudogiovanneo l’annuncio dello sterminio del mondo in preparazione del giudizio finale; è piuttosto rivelazione di un presente e di un passato storico demonizzati da una Chiesa corrotta e incapace di restaurare dall’interno la bontà primitiva. L'istituzione di Cristo resiste col martirio agli assalti dell'aquila, alle persecuzioni imperiali; la sua saggezza dottrinaria, qui in figura di Beatrice, mette in fuga la volpe dell’eresia; la coda scismatica del drago impoverisce la comunità dei fedeli senza però estinguerla. Ma la tentazione esiziale viene di nuovo da un'offerta, come quella del serpente tentatore a Eva; ed è di nuovo l’aquila, questa volta sostituendo le penne agli artigli, vale a dire una donazione a compenso di un’aspra persecuzione, a provocare la metamorfosi satanica della Chiesa (vv. 109 sgg.).
Dante non esita a dare un’evidenza grottesca alle figure di mutazione dell’arca santa in carro carnevalesco. L’attesa dell’ecclesia spiritualis tenuta viva dal millenarismo gioachimita, oltre che dal misticismo e dall’evangelismo francescano, è qui spettacolarmente esasperata da una vistosa carnevalizzazione del veicolo trionfale e della stessa apparizione di Beatrice. Nelle sette teste cornute del mostro piumato i sette doni dello Spirito Santo, già rievocati da Dante nel diciannovesimo dell'Inferno con la sua «folle» invettiva contro i papi simoniaci, si trasformano per effetto della donazione di Costantino nei sette peccati capitali, quasi a rimemorizzare, come sulla scena di un teatro degli orrori — e con un effettismo illusionistico da Grand-Guignol: meglio, da horror movie per un’apocalypse now —, l’origine diabolica, ma storicamente acquisita, delle colpe via via figurate e confessate nel percorso penitenziale del purgatorio. E la proterva monumentalità della meretrice - forse Eva in reincarnazione postribolare - sostituisce l’umile compostezza della Virgo casta chiamata a tutelare un sacro legame. Si noti la rispondenza oppositiva delle due figurazioni femminili: «Sola sedeasi in su la terra vera, / come guardia lasciata li del plaustro / che legar vidi a la biforme fera» (vv. 94-96); «Sicura, quasi rocca in alto monte, / seder sovresso una puttana sciolta / m’apparve con le ciglia intorno pronte» (vv. 148-50). E una rispondenza oppositiva mettono anche in evidenza le coppie Beatrice-Dante e puttana-gigante, figura della giustizia la prima, e l’altra della ybris contro Dio, di fatto dell’usurpazione dei poteri religiosi e civili.
Una glossa interlineare di questo affollatissimo liber figurarum, puntuale e circostanziata nei dati verbali, forse renderebbe merito a una trama di concordanze e variazioni semantiche, piuttosto che formali, che possono sfuggire a un’ermeneutica allegorica, da glossa ordinaria, fatalmente incontenibile quando ci si addentra nella materia epico-simbolica del canto e dei canti contigui. Ma la macchina spettacolare qui prevale su quella verbale e induce inevitabilmente ancora una volta a dare corpo ai significati allegorici che coinvolgono anche la biografia morale e spirituale di Dante. E questa va valutata in un intreccio di tensioni irrisolte tra istanze politiche e religiose che caratterizza il suo fervido esilio.
Sul piano dell'esperienza privata Dante ha appagato la sua «coscienza infelice» con la nuova rivelazione di Beatrice. Ma, diversamente da Boezio, egli non sa colmare le contraddizioni tra una storia personale ed esemplare e una storia pubblica, anzi universale, con la consolazione della filosofia. L'interruzione del Convivio può voler dire molto in questo senso, può manifestare i limiti per Dante della filosofia; come, per converso, il compiuto programma di una rinata giustizia formulato come manifesto di un’età riformata nella Monarchia rivela la pienezza del disegno politico insieme razionale e provvidenziale. Ma neppure il profetismo escatologico dell’esule di Patmos, del visionario dell’Apocalisse, può coincidere con la prospettiva sua, di esule, ostinatamente terrena e riformatrice.
La sua prospettiva infatti si misura su altre coordinate: classiche, virgiliane. Il suo mandato corrisponde a quello affidato ad Enea nei Campi Elisi, anche se il pellegrino del purgatorio deve postulare soltanto, ed enigmaticamente, senza visioni di gloria futura, la celebrazione di una non lontana palingenesi, proiettando per il momento visioni più prossime di apocalisse. Perciò, se la sua poesia deve essere interpretata come una sacra scrittura legittimata da un’investitura di profeta, che giustifica il macchinoso apparato delle allegorie edeniche, essa va calata nel tempo, come il mistero del dio incarnato per la salvezza dell’uomo e insieme per la giustizia tra gli uomini. La sua profezia storica diventa per questa via il travestimento ovvero la sublimazione della sua ideologia.
Dante ammette, come è stato chiarito in base a riscontri estesi a tutta la sua opera politica, dal Convivio alla Monarchia alle Epistole, la validità giuridica della donazione di Costantino, da cui si origina la corruzione delle istituzioni e della comunità cristiana. Ma condanna il principio etico dell’alienazione del potere imperiale che è per lui emanazione diretta del potere di Dio per la felicità degli uomini. Per questo attende che quell’atto sia cancellato da un «messo celeste», da un’autorità imperiale comunque, con lo stesso, anzi con più pieno diritto. In questa translatio politica della missione rigeneratrice della Chiesa, e per conseguenza «in pro del mondo che mal vive», l’ideologia laica dell’esule resta un punto di fuga nella profezia, per non accettare, anzi per esorcizzare con la fede e la ragione, l'oscena mascherata che ha rinnovato sull'ultima soglia terrena le tristi memorie del sottosuolo.