Dati bibliografici
Autore: Ettore Caccia
Tratto da: Dante nella critica d'oggi
Editore: Le Monnier, Firenze
Anno: 1965
Pagine: 305-306
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Ma in quel torno di tempo (Torino, SEI, 1924) usciva anche un altro commento destinato a ben più larga fortuna nelle scuole, il commento del Pietrobono, altra luminosa figura di appassionato dantista anche di recente rievocata sull’«Alighieri» da Bruno Nardi. Ora, con il Pietrobono, si veniva riaffermando quella corrente di studi danteschi che muovendo dal Perez e dal Pascoli, e giungendo ad esiti anche estremi con le proposte di un Valli, dava una particolare importanza alla interpretazione allegorica: corrente che anche ai giorni nostri, e sia pure con una ben diversa sicurezza di impostazione storica, ha episodi significativi nel dantismo di un Singleton, o nel saggio di Salvatore Battaglia sui volumi danteschi del Pascoli. Per il Pietrobono la chiave essenziale dell’interpretazione di Dante e il modo fondamentale di tale interpretazione è l’allegoria, cioè «la sua stessa creazione fantastica, la sua forma di espressione, non l’iponoia dei filosofi ma l’inventio dei retori». L'interpretazione del Pietrobono muove da una convinzione di fondo, difesa anche in poderosi saggi particolari: la donazione di Costantino è per Dante il fatto che ha riportato l’uomo nella condizione della corruzione e della colpa, è come un nuovo peccato originale, e di qui nasce la necessità dell'Impero per la redenzione del genere umano. Questa tesi il critico, con sottilissimo ingegno, trova dimostrata, attraverso il discorso allegorico, nella Commedia: con continui riscontri e con continui rimandi e simmetrie delle quali Dante avrebbe disseminato volutamente tutto il poema. L'interpretazione è interessante, la cultura dantesca dell'autore mirabile, sicura la tenacia del critico nel difendere il proprio pensiero (ne nasceranno garbate polemiche sulle pagine del «Giornale Dantesco», diretto dal Pietrobono, e sugli «Studi Danteschi», con il Barbi stesso, o con il Frascino): e il commento serve bene alla scuola. Ma per la sua tesi di fondo osservava giustamente il Barbi che il Pietrobono avrebbe più prudentemente dovuto a volte assumere la parte di avvocato del diavolo per controllare la validità delle proprie teorie, e non lasciarsene entusiasmare, aggiungendo il rilievo che il peccato di Adamo non può essere posto per la sua gravità sul medesimo piano della donazione di Costantino, volta, secondo Dante stesso, a fini non malvagi, e per certi aspetti di assistenza non illegittima di per sé: e con il solito/acume critico ricordava certi riscontri troppo minuti e discutibili del Pietrobono come nel canto IV dell'Inferno la ripetizione «la selva, io dico, di spiriti spessi», giustificata con il sottile allegorismo di un rimando alla selva selvaggia, o nel XVIII i rimandi per dimostrare che la radice del peccato è una, e che il peccato nell’Inferno è sempre il medesimo, se pure di diversa gravità e chiamato con nomi diversi; o il rinvio, quando il critico si trova dinanzi alle frutta di Alberico, nella Tolomea, al frutto proibito dell'Eden. Discorso che si potrebbe ampliare quando si voglia, e che non si imposta qui in sede di critica, per una discussione di risultati, che non è nostro compito, ma per indicare la qualità e la natura di questo commento, in cui l’animo e l'ingegno dello studioso danno proprio attraverso l’impetuoso fervore una precisa attestazione della propria ricchezza. Per la storia poi della civiltà del Novecento il filologismo di un Barbi e l’allegorismo di un Pietrobono potrebbero dare adito a interessanti considerazioni: ma questo esula dai limiti precisi del nostro disegno, come esula da esso ricordare le altre interessanti, anche se discusse, tesi del Pietrobono stesso sulla autenticità delle Epistole, sul misticismo agostiniano nella Commedia, sulle diverse redazioni della Vita Nuova, sulla cronologia delle opere di Dante.
Tra il 1925 e il 1930 si pubblicava a Milano presso l’editore Vallardi il commento del Flamini-Pompeati. Il Flamini commentava i primi XXV canti dell’Inferno: dopo la sua morte il commento era portato a termine dal Pompeati, il quale poneva in esso le sue limpide doti di studioso e insieme di uomo della scuola, con molta diligenza e con molto buon gusto, come si è detto. L'impostazione del commento stesso è rimasta quella del Flamini, ed è impostazione che fa larga parte alla allegoria morale o a quella politica e al sovrasenso anagogico: la lettera del commento è la bella veste, secondo il critico, dietro la quale si cela il vero intendimento dell'autore. Anche il Flamini dà alcune sue interpretazioni non sempre accettate dalla critica, e pone una stretta relazione ad es. tra il misticismo della Vita Nuova e quello della Commedia; più felice l'accostamento tra le dottrine morali della Commedia stessa e i testi di S. Tommaso, e più felici anche le note estetiche che al commento non mancano: la critica ha indicato ad es. le note agli ultimi versi del canto III e del canto XIII nell’Ixferno, quelle su Gerione, Ciampolo, Vanni Fucci («Studi Danteschi», vol. XII, p. 127 sgg.). Queste interpretazioni che nella trattazione allegorica avevano il loro punto di forza si contrapponevano naturalmente alle dichiarazioni del Croce che per tali interessi critici rivelava un certo senso di fastidio, come per una materia non solo di difficile attendibilità scientifica (che era se mai la riserva della scuola storica per certe interpretazioni troppo personali) ma soprattutto di scarsa forza sentimentale e fantastica: e se in sede teorica il Croce integrò successivamente il proprio pensiero sul dissidio tra poesia e struttura nella Commedia, contrapponendo all'immagine della fabbrica robusta su cui fiorisce una rigogliosa vegetazione di rami e di fiori l’altra immagine, alla quale poco caso ha fatto la critica, dei due piatti distinti sui quali stiano la poesia e la struttura, per rilevarne l’assurdità, proprio in concreto davanti ai problemi allegorici non seppe superare il suo teorico dualismo: e ne nasceranno di contro, tra l’altro, il bel saggio del Getto sul Paradiso o ai giorni nostri certe belle pagine del Fallani. Ma proprio nel periodo tra il 1934 e il 1947 l’impostazione crociana del problema dantesco — che aveva all’estero avuto decisiva influenza sul Vossler — dava i suoi frutti migliori con i commenti del Grabher e del Momigliano.