Dati bibliografici
Autore: Giuliana Carugati
Tratto da: Dalla menzogna al silenzio. La scrittura mistica della "Commedia" di Dante
Editore: Il Mulino, Bologna
Anno: 1991
Pagine: 33-56
Non c’è lettura della Divina Commedia che non debba fare i conti con il problema dell’allegoria, che è il modo con cui, per concisione a volte fuorviante, ci si riferisce a quello che preferisco chiamare il “gesto scritturario” di Dante. Non ci si stupisce che sia così: capire da dove scrive l’autore, il rapporto del suo testo con i testi che lo precedono, il movimento che lo sottende (e che lo eccede), è il compito imprescindibile di chiunque si ponga di fronte a un testo aspettandosene altro che crude informazioni. Che su questo problema si insista più per Dante che per altri scrittori, non è solo una conseguenza delle complessità generiche di una scrittura che, sotto tanti aspetti, è così aliena dalla nostra sensibilità, così lontana nel tempo e nel pensiero, ma è piuttosto, oserei dire, perché questo nodo centrale in ogni lettura (e in ogni esperienza pensante del mondo) è nella Divina Commedia così scopertamente agito nella scrittura da diventare non il problema soggiacente alla “poesia”, ma, per anticipare ellitticamente qualche conclusione, la cosa stessa di cui si parla. In altre parole, il numero vertiginoso delle proposte di lettura della Divina Commedia non si spiega per non so quale fascino esercitato dalla grandiosità della concezione, dalla forza della lingua o dal realismo delle tradizionali figure: ciò che attira il lettore è precisamente la messa in scena della nascita (e della morte) di una scrittura, la rappresentazione di un rapporto col già scritto che si configura come scrittura e destino personale insieme, o piuttosto come “destino scritturario”. Questo nodo che sta al centro dell’impresa dantesca e che sembra situarsi alle origini di una nostra sensibilità “poetica” moderna, è stato analizzato seguendo tracce diverse, a partire dai diversi interessi e dalle diverse formazioni dei lettori.
Il primo a tentare questa operazione di lettura è ovviamente Dante stesso, con la sua nota contrapposizione di «allegoria dei poeti» e «allegoria dei teologi», ripresa dai primi commentatori e poi a lungo trascurata fino a ricomparire negli ultimi anni, profondamente trasformata, nella critica soprattutto americana. Una qualche dicotomia si ripresenta del resto in tutta la tradizione critica dantesca, sotto guise e nomi diversi: allegoria e lettera, struttura e poesia, religione e filosofia, misticismo e razionalismo, poesia e teologia, profezia e retorica e così via. La critica dantesca dell’ultimo cinquantennio, quella, grosso modo, che si forma direttamente o indirettamente in polemica con la nota posizione crociana di indifferenza nei confronti dell’impianto teologico su cui è strutturata la Commedia , sembra concordare sul fatto che alla base del gesto scritturario di Dante debba essere collocata una profonda convinzione cristiana. Questo non significa però che ci sia accordo su come questa convinzione si esplichi a livello testuale. A grandissime linee, si possono distinguere due posizioni critiche: quella di chi, facendo leva sui testi speculativi di Dante stesso, invoca l’«allegoria dei teologi» come centrale, senza accorgersi di ridurla a poco più di uno stratagemma tecnico, e quella di chi fa di Dante un profeta, uno «scriba» o un mistico infuocato, senza soffermarsi abbastanza sullo spessore propriamente scritturario dell’opera di Dante. In mezzo si situano i critici che cercano un compromesso o una diversa impostazione del problema, ed è in questa linea che vuole situarsi la mia breve riflessione.
La prima posizione, come è noto, è rappresentata principalmente da Singleton. Senza entrare nei particolari di una teoria ormai ampiamente conosciuta, mi limiterò a richiamarne i punti salienti: quando Dante si fa lettore della propria opera, non esita a proporne come chiave di lettura, scavalcando la posizione conservatrice di san Tommaso, quella che in un testo precedente, il Convivio, aveva chiamato, in contrapposizione a quella dei poeti, «allegoria dei teologi». Questa scelta configura, nelle parole di Singleton, un poema «in cui il primo senso, il letterale, va preso allo stesso modo del senso letterale della Sacra Scrittura, cioè come un senso storico» .
Poiché questa soluzione si scontra immediatamente, nel testo stesso dell’Epistola XII e nella pratica testuale della Commedia, con l’ovvia “fittività” dello stile, Singleton ricorre alla famosa formula per cui Dante imiterebbe «il modo di scrivere di Dio». Rimandando a più tardi la discussione — fondamentale — dei significati che sono stati attribuiti ai termini di storia, lettera e allegoria, mi limiterò ad osservare che questa soluzione che si potrebbe chiamare allegorico-imitativa, dopo aver ridotto l’allegoria alla storicità del senso letterale (sulle tracce di Auerbach, che però sviluppa la sua tesi, come è stato osservato, in senso rovesciato rispetto a Singleton), riduce questa pretesa storicità a una «qualità formale del testo», a uno stratagemma tecnico che dipende da un «lettore-complice manipolato dall’autore» . Se questa soluzione di Singleton ha reso possibile una lettura della Commedia sgombra dai pregiudizi antiteologici e anti-allegorici da cui la critica soprattutto italiana era segnata, resta difficile sottoscrivere a una interpretazione di Dante come supremo artefice che, con padronanza assoluta e totale dei propri mezzi, riduce un sistema, anzi il sistema interpretativo della Scrittura, a una tecnica di scrittura personale, sia pure, presumibilmente, per tradurre in questo modo la propria autentica esperienza di cristiano. Il “teologo” che tanta dovizia di analisi testuali dovrebbe far emergere si lascia invece sopraffare da un “poeta” senza scrupoli, intento mimetizzare la propria menzogna sotto il mantello di una impossibile verità storica.
L’altra tendenza, opposta e complementare, della critica dantesca, è quella che fa di Dante uno strumento nelle mani del Dio, un profeta-vate-mistico che non fa che tradurre “poeticamente” esperienze soprannaturali di carattere eccezionale. Il Nardi, che pure, ironicamente, nega che Dante intenda far ricorso all’«allegoria dei teologi» , arriva alla conclusione, opposta rispetto a quella della scuola singletoniana, che Dante sia da considerarsi propriamente un profeta: «Qual meraviglia se anch’egli, Dante, raccolto a meditare sui mali ond’era travagliata l’umanità per implorarne da Dio il rimedio, egli che, edotto da una dolorosa esperienza e provato dalla sventura, non aveva perduto la fede nella provvidenza, ma anzi l’aveva sentita crescere ogni giorno più vigorosa, qual meraviglia, dico, se la sua speranza di un rinnovamento umano, predisposto dalla volontà di Dio, prese forma di profetica visione, e se una voce interiore, risuonando alla sua coscienza, gli disse come al profeta Geremia: — Sorgi e parla, va, grida alle orecchie di Gerusalemme, — o come al profeta Ezechiele: — Figlio dell’uomo, va alla casa d’Israele e riporta ad essi le mie parole —?» . E altrove: «Non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, conosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto quello che aveva veduto ed udito» (296). Espressioni analoghe nel Barbi: «Come gli antichi profeti d’Israele», Dante si sente «investito dell’altissima missione di rivelare “in pro del mondo” il male presente e le sue cause, e il futuro immancabile rimedio della giustizia e bontà divina; e la fantasia del poeta si innalza a una superba grandiosa immaginazione; come già ad Enea troiano, come già a Paolo di Tarso, così a lui Dante il Signore della terra e del cielo concede di violare il mistero della morte e di penetrare nei regni dell’oltretomba, per attinger forza e autorità alla propria missione dalla diretta conoscenza delle pene eterne e delle sofferenze espiatorie e dell’eterna gioia che immancabilmente ci procura dopo la morte terrena la nostra terrena milizia. Naturale, quindi, che l’altra ispirazione del poeta-vate là dove e quando si effonde come afflato profetico assuma il linguaggio ch’è proprio delle profezie e il mistero delle allegorie e dei simboli» . Questa posizione, non che non render conto della specificità dell’esperienza religiosa, non spiega nemmeno come la scrittura si ordini concretamente a questo afflato, a questo entusiasmo. Il ricorso alla categoria trans-storica del profetico, inoltre, non tiene conto del fatto che anche la profezia è un genere letterario, genere di cui non conosciamo le regole e i modi di produzione. Il Barbi, in comprensibile reazione al Croce, identifica il senso allegorico (più generosamente inteso di quanto non lo sia dal Singleton) con il progetto socio-politico-religioso che è solo uno degli aspetti della Commedia, pur integrandovi a mo’ di ripensamento «gli altri elementi che [Dante] vi fa confluire dagli eventi della propria vita e del suo tempo, e dalla storia prossima e remota di Firenze e d’altrove, e di tutto ciò che fu oggetto del suo interesse o amore o odio». Tra «senso allegorico» e «poesia», coincidenza perfetta e non spiegata: «l’allegoria fa corpo con la poesia»; «l’intendimento più alto del poeta... si fonde senza sforzo e senza lasciar residui nel vivo fuoco della poesia» (121).
Anziché ricorrere alla nozione dell’entusiasmo profetico, alcuni critici cattolici, più attenti alle concezioni ortodosse dell’ispirazione biblica, preferiscono parlare della traduzione “poetica” di un’esperienza religiosa ortodossamente improntata ai testi del tomismo. Giovanni Fallani riduce il gesto scritturario di Dante a un’oscillazione tra entusiasmo religioso autentico, cioè garantito oggettivamente da Dio, ed entusiasmo poetico atto a integrare l’altro nei punti mancanti. Commentando il famoso «non pur Enea, io non Paolo sono», questo studioso scrive: «la Grazia opera il prodigio: l’Alighieri, pur non avendo su di sé una così alta missione, come egli confessa, è pur chiamato a ritentarla prima della morte, ripercorrendo integralmente il mistero dell’uomo, veduto nella sentenza inappellabile di Dio nei tre regni dell’aldilà» . Dante, poeta credente, metterebbe in versi la dottrina dell’ortodossia cattolica, in un gesto tranquillo di ripetitore che non rischia nulla. Giovanni Getto, scrivendo sul Paradiso, riconosce nell’esperienza religiosa la molla della scrittura dantesca, per poi ridurla impercettibilmente a «materia» di una «forma» che è invece squisitamente poetica: così il Paradiso è «epos della vita interiore», «dramma della vita della Grazia», «poesia dell’esperienza mistica», «lirica dell’adorazione» . Quanto all’impalcatura teologico-dottrinale, essa è per Getto «estranea» alla poesia e le «resiste» (235).
Nell'ambito dello stesso tentativo di soluzione profetico-mistica del nodo scritturario di Dante si situa, questa volta a confronto diretto con la posizione singletoniana, l’indagine di Mazzeo, che prende le mosse dall’ovvia critica a Singleton: «la semplice imitazione dell’allegoria di Dio (sic) in maniera estrinseca non avrebbe fatto dell’allegoria di Dante nient'altro che un’allegoria dei poeti. Dante invece rivendica a sé l’ispirazione profetica, la profondità della visione, il potere di leggere la scrittura di Dio nella propria esperienza e di fonderne gli elementi in un insieme coerente. La sua allegoria, in un certo senso, è concepita per essere qualcosa di più dell’immagine dell’allegoria di Dio nel suo libro della scrittura, dove gli eventi stessi rimandano ad altri eventi; è più di un’immagine perché gli elementi cosmologici, storici, personali del poema possiedono quei significati trascendenti che Dio ha conferito e che Dante ha saputo scoprire» . A partire da questa ipotesi, che condivido in linea di massima, Mazzeo sviluppa un’interpretazione secondo cui la scrittura dantesca (almeno nel Paradiso) si impernia sull’uso della metafora, per finire tuttavia in una dicotomia tra religione e poesia che non è essenzialmente diversa dalla dicotomia osservata presso i critici cattolici italiani, salvo la centralità asserita dell’esperienza mistica .
Volendo tentare di impostare il problema del gesto scritturario di Dante per mezzo di categorie più comprensive, sembra indispensabile risalire al concetto di allegoria così come esso è definito dalla tradizione patristica. Come, tra gli altri, ha sottolineato fortemente De Lubac (I, 2, 384-96), il concetto di allegoria quale principio interpretativo della Bibbia sviluppato da Origene e operante in tutta la tradizione esegetica patristica e medievale, si differenzia radicalmente dal metodo di lettura, noto con lo stesso nome, diffuso nell’antichità greca e usato sui testi di Omero ed Esiodo. Questo metodo di lettura, risalente al VI secolo e seguito dagli stoici e dai neoplatonici, consisteva nella «trasposizione simbolica del testo omerico nel vocabolario della cosmologia, della fisica, della morale e della metafisica, come se esso esprimesse o contenesse un senso soggiacente... Il momento ellenico fu essenzialmente una traduzione del mito in termini razionali e intelligibili, senza altra ambizione spirituale o politica» (Compagnon, 165).
L’allegoria biblica, che sotto certi aspetti sembra continuare quella dell’antichità classica, si situa invece in una prospettiva radicalmente nuova. Il primo interprete dell’Antico Testamento, e il primo scrittore del Nuovo, è, come è noto, san Paolo: aderendo al messaggio di Gesù che proclama in se stesso il superamento della legge e l’avvento di una nuova libertà, l’apostolo si situa di fronte al libro dichiarando che «la lettera uccide, lo spirito vivifica» (2 Cor. 3, 6) ed espone il programma cristiano in questi termini: «noi siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a quel che ci teneva prigionieri, in modo da servire nella novità dello spirito e non più nella vetustà della lettera» (Rom. 7, 6).
La comunità apostolica primitiva si costituisce all’origine come interprete di un libro che non si tratta di allegorizzare per trarne delle verità filosofiche, né di chiosare per giustificare dei comportamenti rituali, come fa l’esegesi rabbinica, bensì di “rifare”, di riscrivere, in un altro libro, il Nuovo Testamento. Origene è il fondatore dell’esegesi cristiana in quanto è il primo a rendersi conto che l’interpretazione che il Nuovo Testamento è dell’Antico può diventare a sua volta oggetto di interpretazione: gesto tutto “spirituale” che fonda in effetti una nuova scrittura. Il diritto alla parola, la parresìa del nuovo interprete è fondata sulla fede nella definitività dell’annuncio cristiano, e garantita da essa. Se l’opposizione/riconciliazione tra lettera e spirito, prima paolina e poi origeniana, si apparenta in qualche modo alla figura dell’allegoria pagana, le differenze tra i due sistemi sono però radicali. Scrive De Lubac sull’allegoria cristiana: «Due sensi che si sommano, ovvero due sensi di cui il primo, molto reale in se stesso per quanto esteriore, deve soltanto cancellarsi davanti all’altro o trasformarsi nell’altro a partire da un Avvenimento creatore o trasfiguratore, non sono due sensi che si escludono come si escludono l’apparenza e la realtà, o la “menzogna” e la verità» (I, 2, 517). Anziché stabilire un sistema di corrispondenze tra «immagini menzognere» e verità filosofiche, il nuovo binomio lettera/spirito «induce l’eventualità che ogni proposizione della Scrittura sia equivoca, polisemica e dunque suscettibile di più d’una lettura, storicamente almeno due, quella ebrea e quella cristiana... In contrasto con l’ermeneuti- ca aristotelica e con l’esegesi o l’allegoria greca, il metodo di Origene si definisce come un’intelligenza del doppio senso, del concorrere dei sensi, come un’interpretazione di sensi altri (lo spirito) che si nascondono oppure si danno in un senso immediato (la lettera)» (Compagnon, 174). Questo non comporta ovviamente la totale anarchia dei significati: in ultima analisi tutto, seppure in maniera intimamente problematica, viene ricondotto a quella definitività, a quella unicità assoluta di senso che ben presto diventerà il Dio uno e trino del discorso teologico-filosofico. Il discorso esegetico, «se ammette come punto di partenza una certa polisemia, ne riduce ben presto la portata supponendovi un ordine, imponendole di convergere verso un punto in cui tutte le varietà e tutte le contraddizioni vengono trascese, un punto che prende il valore retrospettivo di un referente universale per tutti i significanti accumulati nella lettura» (Compagnon, 184). I tre (e poi quattro) sensi scritturali si sviluppano entro il fondamentale binomio lettera/spirito (equivalente al binomio lettera/allegoria), dove «spirito» rappresenta appunto l’unità definitiva del senso realizzantesi in Cristo e nel cristiano che ne ripete il gesto di interprete. Forse è il caso di insistere sull’assoluta importanza e comprensività di questo binomio fondante, che i commentatori danteschi dell’“allegoria” non sembrano adeguatamente comprendere. Per citare ancora De Lubac, la formula esegetica cristiana «non comporta che due membri, e questi due membri sono compresi e connessi in tale modo, che niente di analogo si trova, neanche vagamente, fuori della fede cristiana. Si tratta di una teoria che, fin nella forma, deve tutto a questa fede e che, nel contenuto, vuole esprimerla interamente. Per non aver fatto questa constatazione fondamentale, più di uno storico ha sperperato tesori di erudizione, o piuttosto ha finito col falsare, ovvero eludere, uno dei più grandi fatti della storia. Per riassumere con una frase: la tradizione cristiana conosce due sensi della Scrittura; i termini generali con cui ci si riferisce ad essi sono quelli di senso letterale e senso spirituale (“pneumatico”), e questi due sensi stanno tra di loro come l’Antico e il Nuovo Testamento; più esattamente e in assoluto rigore, essi costituiscono, sono, l'Antico e il Nuovo Testamento» (I, 1, 305).
Forse è meno facile stabilire esattamente il valore e la portata di quello che si intende per «lettera», poiché i testi che dovrebbero chiarirlo, oltre alle oscurità intrinseche a ciascuno, coprono più di mille anni di storia. Non potendo fare altro, nel mare magnum della letteratura patristica e medievale, che affidarsi all’autorità di De Lubac, risaliremo con lui fino ad Origene, visto non già come figura isolata e aberrante, ma come «l’autore che domina tutta la tradizione posteriore» (I, 1, 198). Lo sforzo che sarà così tipico della teologia moderna, iniziatasi con la Scolastica, di conferire una fattualità incontrovertibile agli eventi “riportati” dalla Scrittura, sembra in Origene subordinato all’esigenza di affermare la novità, altrettanto fattuale, ma in un ordine diverso di pensiero e di realtà, dello «spirito» che col messaggio cristiano si è instaurato nella congregazione dei credenti. C’è in Origene uno sviluppo: nella sua fase iniziale, la riflessione origeniana rimane vicina all’allegoresi pagana e filoniana, per cui dalla «lettera» si trae innanzitutto un insegnamento morale, per passare solo in terzo luogo al livello «spirituale» o «mistico» proprio dell’economia cristiana. Nella seconda fase, il senso spirituale passa non solo dalla terza alla seconda posizione, ma si instaura chiaramente come il senso, l’unico, dell’economia nuova e definitiva. Il testo fondamentale in cui si esprime questa nuova accentuazione, che rimarrà operante in tutta la tradizione successiva, è quello del commento al Cantico dei Cantici, testo in cui «l’anima individuale appare sempre all’intemo della Chiesa, la sua unione col Verbo è indicata come la conseguenza dell’unione di Cristo con la sua Chiesa, le diverse applicazioni che la riguardano sono sempre oggetto di una “tertia expositio” o di un “tertius expositionis locus” in dipendenza dal mistero della Chiesa» (De Lubac, I, 1, 202-3). Non è un caso che la teoria origeniana prenda forma proprio nel commento al Cantico: per Origene, come per tutta la tradizione cristiana, nel Cantico «si trova la quintessenza dell’insegnamento spirituale della Scrittura» (De Lubac, I, 1, 205):
Istud vero unum canticum est, quod ipsi jam sponso sponsam suam suscepturo epithalamii specie erat canendum; in quo sponsa non adhuc per amicos sponsi cantari sibi vult, sed ipsius jam sponsi praesentis audire verba desiderat, dicens: Osculetur me osculo oris sui. Unde et omnibus canticis merito praefertur, videtur enim caetera cantica quae lex et prophetae cecinerunt. Parvulae adhuc sponsae, et quae nondum vestibula maturae aetatis ingressa sit, decantata: hoc vero canticum adultae, et jam valde robustae, et quae capax sit jam virili potentiae perfectique mysterii, decantari .
Ora, in questo commento (sono io qui a sottolineare, non De Lubac), il valore della «storia», e cioè della lettera, lungi dal coincidere con l’enunciazione di una fattualità di intervento divino nella storia di Israele (fattualità che, beninteso, non è negata in quanto “precedente” il libro stesso), viene metodicamente sorvolato nella sua cruda referenzialità, per essere assunto nel suo valore di metafora assoluta. Applicandosi a risolvere il versetto «quoniam bona ubera tua super vinum, et odor unguentorum tuorum super omnia aromata», Origene commenta: «Haec nisi spiritaliter intelligantur, nonne fabulae sunt? nisi aliquid habeant secreti, nonne indigna sunt Deo? Necesse est igitur eum qui audire Scripturas spiritualiter novit, aut qui certe non novit, et desiderat nosse, omni labore contendere, ut non iuxta carmem et sanguinem conversetur, quo possit dignus fieri spiritalium secretorum, et ut aliquid audentius dicam, spiritali cupidine vel amore accendatur; siquidem est et spiritalis amor» . Dunque le immagini sponsali del Cantico, libro centrale dell’esperienza cristiana, sembrano per Origene rimandare direttamente a una realtà tutta spirituale, alla quale solo il cristiano può avere accesso. (Questo sarebbe vero anche nell’ipotesi, che non pare sia presa in considerazione da Origene, che l’autore biblico si riferisca consapevolmente, attraverso la metafora sponsale, al rapporto di Iahvè col popolo d’Israele.) La lettera è come eretta in assoluto, nel suo assoluto di metafora senza “cosa trasportata”, tanto che, proprio come abbiamo visto avvenire in san Bernardo, l’esperienza stessa dell’interprete non sa dirsi altrimenti che con le stesse immagini, si forma a partire dal libro che rivela l’uomo a se stesso, che lo forma così com’è. La possibilità che l’autore si riferisca a una comune storia d’amore viene allontanata come blasfema perché solo letterale, crudamente referenziale: ma se anche si ammettesse questa interpretazione, allora il rapporto tra «figura» e «realtà» deborderebbe così radicalmente da quello tra Antico e Nuovo Testamento da diventare un rapporto di carattere permanente e universale. Può darsi, anzi, questo è ciò che di fatto è avvenuto, che «i teologi non fossero disposti a considerare il senso letterale della Bibbia come fittivo, favoloso e menzognero» . Ma è errato affermare che «tra di essi, Origene fa figura di eccezione assoluta» quando ammette che gli scrittori sacri «salvavano spesso la verità spirituale nel corpo che era, si potrebbe dire, menzogna» . Innanzitutto, occorre insistere che il «corpo di menzogna» di Origene non contraddice affatto l’essenziale storicità del libro come testimone (e suscitatore) di una storia che sola ha permesso che si instaurasse la nuova economia cristiana dello spirito: gli abbracci della sposa sono da eludere nella crudezza della lettera, eppure sono le sole parole che dicano la totale, radicale novità dello spirito, storicamente fondata nell’avvento di Cristo. In secondo luogo, Origene non rappresenta né un’eccezione né una figura distante , se bisogna credere alla lunghissima e dettagliatissima analisi che De Lubac dedica all’influenza di Origene in tutta la letteratura esegetica successiva (cfr. I, 1, 207-304). Origene è «quasi direttamente uno dei principali educatori del Medioevo latino. La sua “visione” della Bibbia e della vita cristiana ne avrebbe influenzato profondamente gli usi e i metodi». Insieme con sant’Agostino, Origene sarebbe diventato «il dottore del senso spirituale della storia. Più di qualsiasi altro, in ermeneutica, in esegesi, in spiritualità, sarebbe stato il grande maestro» (I, 1, 219).
Le tracce di questa influenza non sono difficili da ritrova- re: Isidoro di Siviglia, per esempio, parlando del Cantico, raccomanda che «remota Historia, nihil secundum litteram sed spiritaliter cuncta sunt accipienda» . Per san Bernardo, nella cui opera il commento al Cantico rappresenta il testo più cospicuo, il Cantico è un «theoricus sermo» la cui portata storico-letterale è nulla, cioè non è se non irriducibilmente metaforica: «nihil mihi et litterae huic» . Erardo di Béthune scrive: «De visibilibus igitur ad invisibilia transcendamus, quia “ominis caro fenum”. Litteram ergo, sicut fenum conculcemus, cum pedibus calceatis; quia “speciosi sunt pedes evangelizantium pacem”. Conculcantes ergo fenum et paleam, veniamus ad medullam. Cum Pater enim operaretur filiis Israel per figuras, iuxta illud: “Omnia haec contingebant illis in figura”, — Filius autem loqueretur cum discipulis per parabolas, — et Spiritus Sanctus descenderet in discipulis habens linguas igneas: necesse est ut, figuras praesignantes, parabolas disserentes, linguas igneas explicantes, in spiritu ambulemus; quia, ut dictum est, spiritus vivificat» .
«Lettera» e «storia» non sono concetti distinti nella tradizione patristica, né bisogna ritenere questa contaminazione un prodotto della primitività degli strumenti critici di cui questi autori dispongono. Non che, come si è già sottolineato, i padri aboliscano la storicità, l’irreversibilità nel tempo dell’avvento di Cristo: ma quando commentano la Bibbia, la loro preoccupazione maggiore è di contrapporre lettera e storia da una parte e spirito dall’altra . Sembra che una preoccupazione positivistica di verificabilità storica abbia lasciato la sua impronta su concetti che a questa preoccupazione sono in origine estranei: come avviene per esempio per tanta critica dantesca, da Auerbach a Singleton a Hollander, che vorrebbe spiegare il realismo dantesco mediante i caratteri della tipologia biblica. Esiste certamente nella più che millenaria tradizione esegetica una vertiginosa varietà di sottolineature e di strategie intese a chiarire, per lo più a fini apologetici, quali parti
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affermata novità del grande teologo (II, 2, 285-302), deroga a una concezione dell’allegoria scritturale che vede in essa il paradigma del messaggio cristiano; «allegoria sumitur aliquando pro mystico intellectu, aliquando pro uno tantum ex quatuor» . «Hic autem sensus spiritualis trifariam dividitur. Sicut enim dicit Apostolus ad Hebreos... lex vetus figura est novae legis; et ipsa nova lex... est futurae gloriae; in nova etiam lege, ea quae in capite gesta sunt, sunt signa eorum quae nos agere debemus. Secundum ergo quod ea quae sunt veteris legi significant ea quae sunt novae legis, est sensus allegoricus; secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta, vel in iis quae Christum significant, sunt signa eorum quae nos agere debemus, sensus moralis; prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria, est sensus anagogicus» . La Scrittura può essere dunque letta secondo la lettera o secondo lo spirito; una lettura letterale è inammissibile nell’economia cristiana; la lettura spirituale, o allegorica, o mistica, non è semplicemente quella che riconosce nei fatti dell’Antico Testamento la figura dei fatti del Nuovo: il senso spirituale della Scrittura è quello conosciuto dal credente, da colui che vive, nella fede, il nuovo, grande, invisibile e inverificabile “fatto” della salvezza.
È vero però che con la Scolastica si introducono spaccatura e spostamenti rispetto a una tradizione più che millenaria. In san Tommaso, la lettera diventa oggetto di una attenzione particolare: non già in sé, come lo era — lo si è visto — nell’appropriazione del mistico, ma solo in quanto è in grado di fomire degli appoggi alle tesi del teologo (il nuovo teologo che insegna in una scuola, il teologo logico-dialettico). San Tommaso prende le distanze da un Dionigi che affermava che la teologia simbolica non è «argomentativa», per inaugurare uno stile di pensiero in cui invece l’argomentazione basata sui testi scritturistici regna sovrana. In secondo luogo, e di conseguenza, la metafora viene ricondotta a far parte del senso letterale, non di quello spirituale-allegorico. De Lubac sottolinea che questa distinzione era operante anche nella precedente tradizione, ma riconosce che san Tommaso vi introduce una maggiore coerenza terminologica e concettuale (II, 2, 277- 78). Si comprende che nello sforzo di ridurre a sistema, ai fini di una corretta esposizione della dottrina cattolica, l’enorme ammasso dei testi patristici, Tommaso voglia tagliar corto a un’eccessiva proliferazione dei sensi che rischierebbe di “poeticizzare” il messaggio cristiano, al di là di qualsiasi preoccupazione logico-filosofica di ridurlo a “verità”. Far rientrare la metafora nel senso voluto dall’autore significa definire con chiarezza il senso argomentativo della lettera, nonché facilitare il compito del nuovo teologo-filosofo che cercherà di fondare su di essa un sistema concettuale univoco e definitivo .
Nella direzione aperta da san Tommaso, il senso spirituale diventerà oggetto di una codificazione sempre più marcata, in quella che sarà la moderna teologia. Chiuso il capitolo della scrittura esegetica, chiuso questo “parlare spirituale” che si espande alle porte del silenzio, la storia della testualità cristiana si biforca: il filosofo-teologo da una parte, lo spirituale “mistico” dall’altra . Una certa libertà di espressione sarà ancora concessa al mistico, ma verrà esercitata tutta una serie di controlli per assicurare che questi non incrini la nuova ortodossia. Chi si approprierà del diritto alla parola sarà invece il poeta: riemerge infatti, con una nuova legittimità, una figura che per dodici secoli era scomparsa sotto quella del «teologo» (nel senso spirituale-esegetico-mistico). «Poetica non capiuntur a ratione humana propter defectus veritatis qui est in eis» : la scrittura poetica rappresenta per san Tommaso un modo spurio di conoscenza, inferiore rispetto alla conoscenza razionale (o a una conoscenza supra razionale, ma garantita dalla ragione) che è propria della filosofia e della teologia. Anzi, poiché non c’è verità che non sia in qualche modo razionale, il poeta non ha niente da rivelare. San Tommaso non sembra disposto, contrariamente alla pratica se non alla teoria dell’esegesi biblica patristica, ad accettare che lo spirito nuovo del cristiano sia titolo sufficiente ad assicurare alla sua parola, alla sua scrittura, un valore assoluto. Non è tanto, come sostiene Eco, che Tommaso per primo affermi che l’allegoria in factis, intesa come tipologia, vale solo per la storia sacra e non per la storia profana . Ma mentre la tradizione patristica è tutta assorta, da un lato nella «grande, unica Allegoria Facti» che è il mysterium ecclesiae, dall’altro ad appropriarsi la lettera del libro da cui il mysterium è costituito, san Tommaso è interessato soprattutto a tradurre il messaggio biblico in un discorso razionale perfettamente organizzato: «lo scolastico — scrive Chenu — si accanisce a isolare il senso proprio, il senso “più proprio” di una parola, come si accanisce a stabilire una definizione: ne abbondano esempi in san Tommaso... È di qui che deriva, nel latino scolastico, la ripugnanza per il linguaggio metaforico e, in generale, per l’impiego delle figure di pensiero e di lingua; esse non resistono alla più elementare astrazione» (93). Nella scrittura di san Tom- maso, «l’antitesi e l’allitterazione verbale sono proscritte; le similitudini sono strettamente disciplinate; la metafora e tutte le immagini analoghe sono riassorbite. Se san Tommaso tiene fermo il principio aristotelico secondo il quale ogni intelligibilità passa per il sensibile, d’altra parte limita e quasi si sente costretto a giustificare il metodo dionisiano dei simboli. La metafora resta un’infermità...; analogamente riduce al loro coefficiente razionale le espressioni sperimentali e le amplificazioni affettive dei mistici, come del resto i tropi e le figure della Scrittura» (99-100). In questo, piuttosto che in una sin- gola operazione teorica, consiste la novità della svolta rappresentata da san Tommaso (e non solo da lui): in questo applicare i criteri di una riscoperta razionalità al discorso spirituale — eminentemente poetico — dell’esegesi biblica: per cui colui che si sa e si vuole spirituale-mistico-poeta dovrà scoprire e difendere un nuovo territorio.
Vediamo ora come si situa Dante, a livello di riflessione teorica, rispetto a questa tradizione multisecolare. Come è noto, e per riassumere il più brevemente possibile un argomento già così frequentato, in uno dei due testi in cui tratta la questione, quello del Convivio (II, 1, 2-8), Dante sembra contrapporre due diversi tipi di allegoria: quella dei poeti, facitori di favole, che è «quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade nascosta sotto bella menzogna»; e quella dei teologi, di cui però si dice soltanto che «questo senso prendono altrimenti che li poeti». Segue un’esemplificazione, tratta dalla Scrittura, che sembra contraddire l’intenzione espressa di volersi adeguare, nell’esposizione della canzone, al modo dei poeti. Da questo passaggio la cui coerenza teorica sembra lasciare un po’ a desiderare, si possono tuttavia trarre delle indicazioni di carattere generale. Innanzitutto, Dante in esso si mostra informato — e non necessariamente, o non soltanto, attraverso san Tommaso — della tradizionalissima opposizione tra poeta (e il poeta è pagano sempre) e teologo, l’uno ridotto alla menzogna, di vita e di espressione poetica, l’altro, poiché credente, salvo nella verità. In secondo luogo, Dante, estendendo anche al testo del poeta sensi che la tradizione mostrava riservati al teologo (sia pure senza riuscire a fame una presentazione coerente), sembra già esprimere una volontà di rivendicare alla poesia, o piuttosto a se stesso in quanto nuovo poeta, più di quanto la tradizione concedesse. Sembra però — terza indicazione — che il coraggio (e la materia) di questa rivendicazione finalmente gli manchi: Dante sa di aver parlato, nelle canzoni, da poeta non teologo, sa cioè che la sua scrittura non tocca ancora le ragioni ultime, il destino dell'uomo di fronte a Dio e alla morte, né tocca le proprie ragioni ultime di scrittura, il proprio silenzio, e perciò non può pretendere a una fattualità di sovrasensi . O forse queste cose non le sa ancora chiaramente: le intuisce soltanto alla luce di una tradizione solida di secoli, e quando finalmente le comprenderà, il Convivio sarà abbandonato come un vestito troppo stretto.
Nell’Epistola XIII Dante parla da un luogo ormai molto diverso. Anche a prescindere dall’importantissimo contesto, in cui si discutono questioni di visione e di ineffabilità, si possono sottolineare due punti della lettera che funzionano un po’ da spie della mutata prospettiva di Dante. Un primo punto, discusso da Eco, riguarda la descrizione dei sensi secondo cui il poema va letto (essendo stato, se ne deduce, costruito in maniera analoga): «primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram». Eco critica una traduzione corrente di questa espressione, che riduce di fatto l’allegoria di cui si parla alla vecchia allegoria «dei poeti»: «il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo». «Se così fosse — scrive Eco —, Dante sarebbe assai ortodossamente tomista, perché parlerebbe di un significato parabolico, inteso dall’autore, che quindi potrebbe essere ridotto, in termini tomisti, al significato letterale» (28). Invece, «sembra proprio che Dante voglia parlare “delle cose significate dalla lettera”» (29). Seguiamo fin qui Eco, per abbandonarlo quando conclude «e quindi di una allegoria in factis» (che Eco assimila, come abbiamo visto, e insieme a tanti altri, alla “tipologia”). I «significata per litteram» sono i “fatti” della salvezza cristiana in Dante, il suo credersi salvato attraverso il Verbo, il suo essere inserito in una comunità di salvati: a prescindere dalla storia, pur sempre menzognera, “fittizia”, che dice questo fatto centralissimo e unico.
La seconda spia è il fatto che nella lettera a Cangrande, diversamente dal Convivio, si parla non di quattro, ma di due sensi fondamentali: «Et primus dicitur litteralis, secundum vero allegoricus sive moralis sive anagogicus». E più sotto, dopo che i tre sottosensi dell’unico senso spirituale sono stati spiegati per mezzo di esempi: «Et quamquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi». Se leggiamo correttamente, non sembra ci possano essere dubbi che l’allegoria di cui parla ora Dante è un’allegoria di ben altro peso rispetto a quella del Convivio: non si tratta di una scelta astratta che Dante farebbe tra due stili diversi, anzi, la scelta per lui non sussiste più. Il poeta ha così approfondito le ragioni del suo scrivere (e, in maniera perfettamente concomitante, il significato del suo essere cristiano), che non riesce a concepire una scrittura che non possieda tutto lo spessore reale della sua fede. Come nell’allegoria, o senso spirituale, della tradizione esegetica, non ci si limitava alla “piccola” allegoria tipologica, ma si cercava piuttosto di definire un senso nuovo e libero, spirituale appunto, nello svelamento della grande, unica Allegoria della salvezza, così Dante non si preoccupa affatto di giustificare la riconosciuta fittività del suo costrutto per mezzo di elaborate strategie imitative, ma intende asserire quella che è troppo poco definire «dignità filosofica» (Eco, 29) della sua poesia. Scrive Tateo, in polemica con la «scuola americana» dell’allegoria dei teologi: «generalmente si fa notare che ai poeti Dante attribuisce una concezione dell’allegoria come rivestimento “favoloso” di verità, ai teologi una concezione dell’allegoria come nascondimento di verità sotto il racconto di vicende “reali”, quali son quelle narrate nei testi sacri. La differenza sarebbe dunque nella “lettera”, favolosa per i poeti, positivamente “vera” per i teologi. Senonché Dante dice... che poeti e teologi “prendono” il senso allegorico, non che essi divergano per il modo diverso di nascondere la verità... La diversità cui Dante allude riguarderà quindi i limiti del termine allegoria, assunto dai poeti, ossia dai cultori della poesia classica e profana, a designare quella serie di verità umane e razionali che la poesia sottintende, e assunto invece dai teologi, i cultori dei sensi divini, a designare il complesso delle verità di ordine spirituale che un racconto biblico contiene, e che possono essere contenute nella poesia, non tanto ‘per la sua favolosità quanto perché i poeti pagani non potevano aver riposto consapevolmente nei loro scritti delle verità di ordine spirituale, né i loro scritti potevano avere la ricchezza di sensi che contengono i testi sacri, e che è, propriamente, l’allegoria» .
Dante sembra dunque situarsi, al di sopra della diffidenza di Tommaso nei confronti della poesia, in diretta continuità con la tradizione mistico-esegetica a cui appartengono le autorità citate nella lettera a Cangrande: una tradizione in cui l’autore, colui che ha la responsabilità di trasmettere attiva- mente il messaggio cristiano, parla liberamente, nello «spirito», non per costituire una verità filosofico-teologica, ma per “rifare” una scrittura assoluta, affidata alla fragilità della metafora.
A questo punto, e per concludere provvisoriamente, vorrei soffermarmi brevemente su un altro testo teorico di Dante, il De vulgari eloquentia, che in alcuni suoi passaggi significativi è stato ricondotto da Maria Corti precisamente a una delle autorità mistiche citate nella Epistola XII . Si tratta dell’Epistola ad Severinum de caritate, un testo che fino ai nostri giorni è stato attribuito a Riccardo di san Vittore (mentre ora Gervais Dumeige, riferisce Maria Corti, ha dimostrato che è in realtà di frate Ivo). Già il Casella aveva individuato in un passaggio di questo testo la fonte dantesca per la definizione di dolce stil nuovo:
E io a lui: — I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando.
Purg. XXIV, 52-54
La Corti sottolinea nuove corrispondenze formali messe in luce dall’edizione del Dumeige:
Solus proinde de ea (caritate) digne loquitur qui secundum quod dictat interius, exterius verba componit.
Epist. I, 1, 12-13
Nel De vulgari eloquentia (I, 4), Dante afferma che è Dio il primo a parlare all'uomo, con linguaggio non verbale, e che l’uomo deve rispondere per esprimere gratitudine. Mentre il tema del linguaggio non verbale divino è presente presso altri autori (beninteso, autori-esegeti-spirituali), il tema della priorità del linguaggio divino, insieme ad altre coincidenze formali, sembra collegare Dante, secondo la Corti, a questo testo dello pseudo Riccardo di san Vittore. La studiosa conclude: «se lo stesso testo mistico affiora nella mente di Dante sia per il rapporto Dio-Adamo sia per l’altro Dio d’Amore-poeta, la cosa è... sollecitante, perché allora da una sorta di equazione fra Dio che parla all'anima nell’afflato mistico e il dittatore Amore che parla al poeta, può nascere, complice l’allegoria in factis adamitica, un’altra equazione fra lingua universale e naturale adamitica e lingua universale e naturale poetica» (55).
Viene qui confermato, per altro verso, che il modello teorico in cui si cala la scrittura di Dante — vedremo con quali complicazioni a livello testuale — sia proprio quello della scrittura mistica o “allegorica”, nella quale Dante ha percepito quell’assolutezza verbale — nel senso del verbo teologico — di cui si sa capace.