Dati bibliografici
Autore: Alberto Casadei
Tratto da: Dante oltre la Commedia
Editore: Il Mulino, Bologna
Anno: 2012
Pagine: 212-217
In generale, il concetto di allegoria risulta ormai molto più sfaccettato rispetto a quanto si è sostenuto nel corso del Novecento. Già uno specialista quale Jean Pépin (1987) aveva sottolineato la difficoltà di distinguere nettamente fra le varie classificazioni medievali (tipologia, figuralità, integumenta ecc.), e ciò è stato ribadito, anche in rapporto alle teorie dei sensi della scrittura, da Minnis (2000) e in specie da Whitman (2000). Di recente, Gilbert Dahan (2005) ha posto in rilievo l’ampio margine di soggettività interpretativa nella ricerca di significati ulteriori rispetto a quello letterale: l’ermeneutica diventa esercizio di divinatio o tentativo di trovare giustificazioni (teologiche, naturalistiche, etimologiche ecc.) a partire da microelementi, su cui s'impone una lettura non falsificabile e, nei fatti, arbitraria, che peraltro quasi mai riusciva a riguardare un’opera nella sua interezza (e questo implica la scarsa plausibilità di definizioni da manuale quali «la Commedia come poema allegorico»: per un inquadramento della problematica della poesia soprattutto fra XI e XIII secolo, cfr. almeno Picone 1987 e, più di recente, Stella 2003).
Risulta quindi assai complicato interpretare il rapporto fra senso letterale e allegorico (senza considerare quello morale e quello anagogico) tenendo a riferimento una specifica chiave di lettura, per esempio ricavata dalle poetrie del XII o XIII secolo. Seguendo un’impostazione cognitivista-scalare, si possono invece considerare le gradazioni dello scarto fra senso letterale e senso trasposto che vengono messe in atto nei vari impianti allegorici: si andrà quindi da testi o parti di testo che non richiedono in alcun modo una lettura di secondo livello, a quelli che possono essere compresi solo ipotizzando un senso ulteriore, che rende quello letterale puramente veicolare. Il problema che si pone, attualmente, è quello di capire quanto la mentalità allegorica, ovvero la tendenza a riporre i significati più importanti al di là della lettera, pesa nell’organizzazione del discorso poetico.
Insomma, proprio la gamma di sfumature desumibile dalle opere di Dante contribuisce a far comprendere quanto varia fosse, nel basso Medioevo, l'applicabilità dei procedimenti allegorici ai testi letterari: procedimenti che una lunga tradizione esegetica aveva ormai piegato a funzioni ed esigenze disparate. Inutile quindi tentare di individuare una modalità unica di allegoresi fra tarda latinità e fase medievale; d’altronde, persino le distinzioni moderne, come quella romantica tra allegoria e simbolo, vengono adesso sottoposte a un attento vaglio storico-critico, dato che gli strumenti linguistici e retorici (spesso i soli con cui sono state esaminate) ne hanno obliterato le implicazioni gnoseologiche: seguendo queste ultime, si dovrebbe individuare un continuum di valenze metaforiche, diversamente graduate nei processi allegorici e in quelli simbolici, piuttosto che una serie di opposizioni radicali.
Si tratta allora di indagare meglio, tenendo conto delle numerose e importanti ricostruzioni già proposte, in quali modi l’allegorismo, in quanto forza mentis della connessione e del senso ulteriore, interviene non esteriormente ma all’interno della poetica dantesca. La distinzione è necessaria per evitare di ridurre il poema dantesco a un’allegoria banale (da A si ricava B, come nel caso delle tre fiere del canto proemiale), oppure di cogliere pluralità di sensi in modo arbitrario e incontrollabile: così avviene, per esempio, nel commento ai primi sei libri dell’Eneide attribuito a Bernardo Silvestre (che incrementa nei primi decenni del XII secolo la tradizione iniziata con Macrobio, Servio e Donato e proseguita con Fulgenzio), un testo forse almeno in parte noto a Dante, e comunque fra i primi a proporre il modello di Enea come homo viator, ma difforme, nell’esegesi puntuale, dalle modalità ermeneutiche del poema.
La differenza di maggior rilievo sta nell’importanza costantemente attribuita al livello letterale dei testi da parte del Dante (auto)esegeta. Sia che intendiamo questo livello nel suo valore comune (‘significato specifico del testo’), sia che lo intendiamo in quello più largo che comprende anche le implicazioni accertabili (ossia le risonanze semantiche facilmente condivisibili), sta di fatto che Dante non abbandona mai il piano che potremmo definire della semiotica storica, e non impone interpretazioni allegoriche in senso astrattamente filosofico-morale, come fa per esempio un autore intriso di neoplatonismo quale Alain de Lille: la rievocazione dell’adulterio di Paolo e Francesca non si può in alcun modo ridurre a una parabola delle colpe e delle pene cui conduce la lussuria.
Esaminiamo meglio questo punto fondamentale. Se le posizioni del Convivio (II i) in merito ai quattro sensi sono assai note, e risultano comunque prevalentemente didascaliche (per quanto si può evincere dalla martoriata situazione testuale), occorre tornare a riflettere sul seguente passo:
Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata. E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi — che sono, sì come manifestamente pare —, inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato (Cv II i 13-14).
Senza forzature, si può esplicitare quanto testualmente risulta implicito, e cioè che nelle esegesi proposte nel Convivio il livello letterale è decisivo, mentre quello allegorico è in genere invocato da Dante allo scopo di reinterpretare la propria carriera poetica, specie con una lettura ‘surdeterminata’ della Vita nova. Non a caso, nel capitolo iniziale del II libro risultano più scontate, e comunque più passivamente tradizionali, le distinzioni fra allegoria dei poeti e allegoria dei teologi, e in particolare sul valore fittizio della ‘lettera’ per i primi e quindi nelle opere profane: non è questo il principio compositivo seguito da Dante nelle sue opere.
Procedendo su questa strada, una particolare attenzione va dedicata alla citazione del De civitate Dei contenuta nella Monarchia (III iv). Ecco il passo agostiniano:
Haec Scripturae secreta divinae indagamus, ut possumus, alius alio magis minusve congruenter, verum tamen fideliter certum tenentes non ea sine aliqua pracfiguratione futurorum gesta atque conscripta neque nisi ad Christum et eius Ecclesiam, quae civitas Dei est, esse referenda; cuius ab initio generis humani non defuit praedicatio, quam per omnia videmus impleri. Benedictis igitur duobus filiis Noe atque uno in medio eorum maledicto deinceps usque ad Abraham de iustorum aliquorum, qui pie Deum colerent, commemoratione silentium est per annos amplius quam mille. Nec eos defuisse crediderim, sed si omnes commemorarentur, nimis longum fieret, et esset haec historica magis diligentia quam prophetica providentia. Illa itaque exequitur Litterarum sacrarum scriptor istarum vel potius per eum Dei Spiritus, quibus non solum narrentur praeterita, verum etiam praenuntientur futura, quae tamen pertinent ad civitatem Dei; quia et de hominibus, qui non sunt cives eius, quidquid hic dicitur, ad hoc dicitur, ut illa ex comparatione contraria vel proficiat vel emineat. Non sane omnia, quae gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda suni; sed propter illa, quae aliquid significant, etiam ea, quae nibil significant, attexuntur. Solo enim vomere terra proscinditur; sed ut hoc fieri possit, etianz cetera aratri membra sunt necessaria; et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis musicis aptantur ad cantum; sed ut aptari possint, insunt et cetera in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea, quae percussa resonant, his connectuntur. Ita in prophetica historia dicuntur et aliqua, quae nihil significant, sed quibus adhaereant quae significant et quodammodo religentur (De civ. Dei, PL XLI, xvi 2-3; in c.vo la parte citata in Mn III iv).
Questo passo fu forse conosciuto per intero da Dante, perché è compreso nella parte di manoscritto del De civitate Dei conservata già allora alla Biblioteca capitolare di Verona: ma in ogni caso, anche la sola porzione da lui citata è sufficiente a garantire la possibilità di demistificare false interpretazioni allegoriche, persino quelle riguardanti i testi biblici, e ciò serve, nel prosieguo della Monarchia, a dimostrare false le letture allegoriche di auctoritates antiche riguardo al rapporto imperatore-papa. Un impegno di assoluta rilevanza e di fatto risolto attraverso una strenua controinterpretazione delle allegorie infondate.
Ma di grande rilievo è anche un passo di poco successivo (De civ. Dei, XVII iii 2) in cui Agostino, commentando i vari tipi di discorso profetico, chiede comunque di salvaguardare la verità storica prima di ipotizzare un sovrasenso:
Haec [i fatti evocati in Ger XXXI 31-33] enim et in terrena Ierusalem secundum historiam contigerunt, et caelestis Ierusalem figurae fuerunt. Quod genus prophetiae ex utroque veluti compactum atque commixtum in Libris veteribus canonicis, quibus rerum gestarum narrationes continentur, valet plurimum multumque exercuit et exercet ingenia scrutantium Litteras sacras, ut, quod historice praedictum completumque legitur in semine Abrahae secundum carnem, etiam in semine Abrahae secundum fidem quid implendum allegorice significet inquiratur; in tantum ut quibusdam visum sit nihil esse in eisdem libris vel praenuntiatum et effectum, vel effectum, quamvis non praenuntiatum, quod non insinuet aliquid ad supernam civitatem Dei eiusque filios in hac vita peregrinos figurata significatione referendum. Sed si hoc ita est, iam bipertita, non tripertita erunt eloquia Prophetarum, vel potius illarum Scripturarum omnium, quae veteris instrumenti appellatione censentur. Nihil enim erit illic, quod ad Ierusalem terre- nam tantum pertineat, si, quidquid ibi de illa vel propter illam dicitur atque completur, significat aliquid, quod etiam ad Ierusalem caelestem allegorica praefiguratione referatur; sed erunt sola duo genera, unum quod ad Ierusalem liberam, alterum quod ad utramque pertineat. Mihi autem sicut multum videntur errare, qui nullas res gestas in eo genere litterarum aliquid aliud praeter id, quod eo modo gestae sunt, significare arbitrantur, ita m2ultum audere, qui prorsus ibi omnia significationibus allegoricis involuta esse contendunt. Ideo tripertita, non bipertita esse dixi. Hoc enim existimo, non tamen culpans eos, qui potuerint illic de quacumque re gesta sensum intellegentiae spiritalis exsculpere, servata dumtaxat primitus historiae veritate (c.vi miei).
È qui ancora più evidente che ogni interpretazione allegorica, o anche specificamente figurale, non può prescindere da un'adeguata attenzione al livello letterale e storico. Soprattutto nell’Inferno e nel Purgatorio Dante assegna un’importanza decisiva alla corretta lettura degli eventi storicamente avvenuti (ivi compresi quelli che noi considereremmo leggendari ma che invece tali a lui non apparivano). Questa interpretazione, parziale se non partigiana, considera ancora ottenibile un risarcimento della sconfitta politica e dei soprusi subiti a partire dal 1301, e giunge a un’autentica apoteosi nel finale del Purgatorio, specie se lo consideriamo incentrato sulla lotta finale tra l’imperatore Arrigo VII e i suoi avversari (cfr. Parte 1.3). La costante e mirata attenzione alla storia, e alla propria biografia nel corso della storia, costituisce un aspetto decisivo del poema, e smorza le componenti più tipicamente allegoriche, riconducendole a precisi àmbiti e fini. Come vedremo meglio, però, la rielaborazione stilistica impedisce di ridurre il testo a una mera cronaca, producendo ulteriori effetti, che diventeranno decisivi soprattutto nella terza cantica.
Nel Paradiso l’allegoria in quanto processo dichiarato e/o evidente appare sempre meno necessaria, essendo risolutiva la rappresentazione in sé delle realtà ultime fino a quella di Dio stesso, nei limiti consentiti a un uomo. Mentre aumentano i riferimenti alla mistica (non a caso l’ultima guida è san Bernardo di Chiaravalle, cistercense e devoto di Maria), Dante adotta un tessuto linguistico-stilistico di tipo metaforico sulla scorta, se si vuole storicizzare, delle teorie della transumptio, che lo spingevano a ricercare analogie innovative per riuscire a esprimere l’essenza della condizione dei beati e addirittura di Dio: «Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza; / e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e ’l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri» (Pd XXXIII 115-120; sul modello analogico nel pensiero medievale e in Dante, alcuni spunti utili, assieme ad altri rivelatisi inesatti, si trovano già in Corti 1987). Non si deve qui ipotizzare un significato allegorico; piuttosto, oltre a quello morale, nel Paradiso può in vari passi essere individuato il senso anagogico, che addita il fine ultimo della conoscenza umana, ovvero, secondo il Convivio, spinge a considerare l’«etternal gloria» di Dio. Come è stato notato, fra gli altri, da Rossini (2011), Dante giunge a rappresentare la confluenza finale dell’essere umano nell’essenza divina, il suo ‘indiarsi’ senza annullarsi: e la visione è in sé uno sforzo sublime per elaborare poeticamente, e cioè sensibilmente attraverso lo stile, quanto la teologia e la stessa mistica avevano solo potuto enunciare o far intuire sull’ente supremo.