Dati bibliografici
Autore: Mario Casella
Tratto da: Introduzione alle opere di Dante
Editore: Bompiani, Milano
Anno: 1965
Pagine: 116-130
La conoscenza sperimentale di Dio, come oggetto di conoscenza d’amore, è il fine ultimo della Divina Commedia e la causa finale per cui Dante si è mosso, uscendo dalla “selva oscura e selvaggia”, per entrare nel mondo dell’esperienza. Il “luogo eterno” dove le anime esercitano la loro esistenza e la attuano, è il presupposto e la condizione necessaria di questa sua esperienza, perché nel regno dello spirito ricevere dagli altri significa agire, cioè arricchirsi intrinsecamente dell’essere di chi è altro da noi; e quindi perfezionarsi interiormente e manifestare l’autonomia di ciò che c’è di più vivo e di vivente in noi. Il viaggio di Dante è questa azione immanente. È la vita del suo spirito, che attraverso all’esperienza si sviluppa spontaneamente, e cresce e concresce insieme con la sua stessa esperienza, a guisa di globo il cui volume si dilata nella misura stessa che se ne allunga il raggio in rispondenza del cammino percorso. Al termine del suo viaggio la vita spirituale di Dante, che si è nutrita dell’essere esistenziale, sia nel- l'ordine della natura, sia nell’ordine soprannaturale della grazia, congloba in sé tutto quanto l’essere creato, terra e cielo; e Dante non è più che il semplice portatore di una immagine di Dio: quell’immagine, che poeticamente egli oggettiva nel microcosmo della Divina Commedia: un microcosmo analogo, per similitudine di proporzioni, al macrocosmo. E come Dio creò l’universo in sette giorni, iniziando la sua opera in primavera, col sole nella costellazione dell’Ariete; così, analogamente, Dante crea il suo universo poetico in sette giorni, iniziando il suo viaggio in primavera, col sole in Ariete, sotto la finta data del 1300 e nella settimana pasquale di quell’anno. Allegoricamente il viaggio di Dante è il viaggio di ogni anima, che attraverso il mondo dell’esistente tende alla beatitudine soprannaturale come a suo ultimo fine, per grazia di colui che le ha dato la natura; e che l’ha lasciata libera di scegliersi i suoi fini particolari nei limiti del fine generale verso il quale essa è portata dal peso della sua propria essenza. In tal modo il principio vitale e dinamico che via via s’incorpora nella Divina Commedia, — e che si può cogliere entro la pura linea delle determinazioni spirituali che si disegna in Dante come soggetto d’azione — è la vita dell’anima, come “forma intenzionale” che dell’umana essenza è vagheggiata nella mente di Dio e contemplata dagli angeli. E tutto il poema, nella trama fantastica mediante la quale Dante oggettiva e racconta un’esperienza da lui stesso intimamente vissuta in relazione a Dio, che è l’Essere degli esseri, si risolve in una continua metafora; la quale chiude in sé, ed è il suo mistero, un’analogia di proporzionalità propria, assegnabile ed esprimibile per se stessa, ma inesauribile e sovrabbondante di sensi (“polisensos, hoc est plurium sensuum”, come dice Dante nell’epistola a Can Grande), a tal punto che essa è sempre più della sua stessa espressione.
La condizione delle anime, ripartite nei tre regni dell’oltretomba e distribuite secondo l’ordine di una giustizia che tien conto per ciascuna di esse o del merito o della colpa, è l’espressione storica o letterale (“sensus litteralis sive historialis”) di uno stato di fatto. È cioè lo stato in cui storicamente si trova, nel soggetto umano, la natura dell’uomo, con diretto riferimento alle sue condizioni di esistenza e di esercizio nel concreto. Di qui la duplice ripartizione del poema, secondo che l’uomo è considerato (“simpliciter acceptus”) nella sua natura di animale socievole (Inferno e Purgatorio), il cui fine naturale e temporale è la contemplazione (Paradiso terrestre); oppure è considerato (“non simpliciter acceptus, sed contractus”) nella sostanza della sua natura, il cui fine soprannaturale ed eterno è la visione di Dio (Paradiso). In relazione allo stato di fatto in cui si trovano le anime dopo la morte corporale, la raffigurazione delle pene o del premio, a cui esse sono andate incontro, va riportata, perché non sia intesa materialmente, alla nozione metafisica e analogica della “persona”, il cui analogato supremo è Dio. Egli solo infatti possiede la personalità nel senso più perfetto della parola, perché egli solo è assolutamente indipendente nel suo essere e nella sua azione, essendo la sua personalità il suggello della sua trascendenza e delle sue infinite perfezioni.
La persona umana, che è una sostanza individuale completa, di natura intellettuale e signora delle sue azioni, costituisce la vera “nobiltà” dell’uomo; ma è una nobiltà che ciascuno deve conquistarsi, mettendola in luce nella misura stessa che la vita della ragione e della libertà si farà dominatrice in lui della vita dei sensi e delle passioni. Altrimenti egli resterà un “individuo” la cui vita sarà simile a quella dei bruti e delle piante e delle pietre. Lo svolgimento della nostra individualità, che viene dal corpo, è seguito da Dante nella sua discesa infernale: un continuo sprofondarsi nel buio della materia, con il conseguente annullamento della nostra innata libertà. Sotto l’influsso di una passione dominante l’equilibrata armonia della persona umana, nella sua inscindibile unità di anima e corpo si deforma, s’incrina e si frange (si pensi al “Veglio di Creta”), riducendosi a una multiforme pluralità di facoltà dinamiche in contrasto. La progressiva conquista della per- sona, i cui privilegi sono nascosti nella materia della nostra individualità carnale, Dante la invera mentre scala la montagna del Purgatorio; ed è la vita di una ragione che ci giudica e si giudica con un ritorno sui propri atti, e che liberandoci dalle suggestioni della sensibilità ci ordina dal- l'interno e ci dispone stabilmente al vero bene. Ma lo svolgimento completo della personalità, che viene dall’anima, Dante lo invera contemplando nei cieli della sua fede, che sono poi i cieli della grazia di Dio, le anime di coloro che amarono in Dio l’esemplare eterno e la sorgente di ogni personalità degna veramente di questo nome. Essi cercarono di sostituire in certo qual modo, nell’ordine dell’azione, della conoscenza e dell’amore, al loro proprio io l’io divino, rinunziando alla loro personalità o indipendenza di fronte a Dio, dal cui spirito dovevano essere mossi per essere suoi figli. Dall’individuo alla persona morale e dalla persona morale alla personalità, che è in noi il fiorire e il fruttificare, insieme con Dio, di un’idea creatrice di Dio, è il cammino che Dante percorre nel suo poema. È cioè l’esperienza vitale che egli fa di se stesso in virtù di un ordine naturale inscritto nella sostanza di ogni persona. Agire in senso contrario a questo ordine è per l’uomo opporsi alla volontà di Dio; è negare in se stesso, per quanto gli è possibile, il fine che Dio si è proposto creandolo: suicidio di una persona morale creata per la beatitudine eterna, e che la rifiuta. E perciò l’Inferno, dove le anime sono morte alla grazia, è un’escavazione in direzione opposta al loro fine naturale; un’escavazione nell’oscuro dominio della individualità fino al tufo solido dell’istinto. Nel Purgatorio e nel Paradiso, dove le anime sono vive alla grazia attuale e santificante, si ha una continua ascesa di libertà in libertà, di luce in luce, per “la diritta via”.
Lungo il suo viaggio Dante dispone le anime, seguendo l’ordine di una giustizia distributiva, che tien conto dei meriti e delle colpe. Egli consulta la voce della sua coscienza, che è poi la voce di Dio: la voce di quella ragione naturale che ci guida: una ragione analoga alla ragione creatrice, che governa e muove tutte le cose create e le porta al loro fine.
La coscienza morale e religiosa di Dante che giudica, mentre si riconosce giudicato da essa, si radica nel sentimento del Dio vivente in noi e che parla in noi, legando, per un legame di partecipazione, la nostra ragione alla sua stessa ragione. Di qui il tono generale del “poema sacro”, dove Dante, per un’ispirazione che gli viene da Dio, autore della natura e rimuneratore nell’ordine della grazia, si sente nuovo Enea e nuovo Paolo. Investito di una missione provvidenziale, egli spera di redimere colpe ed errori, non a sua gloria ma per la glorificazione di Dio. E di qui ancora la sorgente unitaria di quel linguaggio poetico, essenzialmente lirico e sostanzialmente identico a se stesso pur nella varietà delle sue sfumature, che costituisce il tessuto fantastico del poema. È un linguaggio che non si esaurisce nella sua appariscenza, perché va trasferito, per analogia metaforica, alla vita intima dell’anima di Dante in cammino verso Dio; come pure va trasferito alla vita intima di ogni anima, sia che essa rigetti la vita razionale e s’interni sempre più a fondo nella materia della sua individualità carnale, sia che essa si conformi alle esigenze e ai destini propri della natura umana e si conquisti, mediante la ragione e le virtù morali, una personalità. Solo allora essa si sarà messa tutta in luce, facendo rifulgere in se stessa un’idea di Dio creatore.
Ma l’esperienza di Dante e di cui Dante s’arricchisce, perché concresce con lui, è una conoscenza poetica (“sensus qui habetur per litteram”), fondata su lo stato di fatto in cui si trovano le anime lungo il suo cammino, ossia lungo la linea dell’attività che interiormente lo finalizza e lo perfeziona. Ciò che Dante conosce sperimentalmente, per connaturalità, nella misura stessa che fantasticamente se la fa presente in visione, è, come ci vien detto nell’epistola a Can Grande, la “natura dell’uomo”. È l’essere umano considerato nel dinamismo interno che lo anima e che lo porta all’azione concreta; e giudicato secondo l’uso del libero arbitrio e la facoltà di scelta in rapporto a’ suoi fini particolari e in rapporto al Bene supremo. È cioè il mistero di ogni anima con i suoi segreti della conoscenza e dell’amore: un mistero che si rivela incorporandosi, ma che incorporandosi si cela; e che Dante poeta oggettiva con la sua fantasia, seguendone fedelmente e con obbedienza i contorni, mentre, con un’analisi docile all’analogia dei trascendentali, vi penetra dentro e ne segue le operazioni, senza ledere in nulla, per ciascuna anima, l’unità, l'originalità e il segreto che le è proprio. Siamo sul piano metafisico della natura creata, dove ogni anima è una partecipazione analogica dell'amore che Dio ha per se stesso in virtù della sua propria perfezione. Il che presuppone una identità di oggetto; per cui ogni anima, amando natural mente se stessa e la propria vita e la vita de’ suoi simili e il “dolce mondo che del sol s’allegra”, ama in se stessa Dio senza conoscerlo e lo serve senza saperlo. E mentre tende alla bellezza che rifulge nelle cose, e che è la loro bontà e la loro verità, essa tende, senza saperlo, a Colui che possiede ogni perfezione creata per identità reale del suo essere, della sua bontà e della sua attività: a Colui che è la Vita stessa, di fronte alla quale tutte le cose sono come se fossero morte.
Il sentimento che Dante ha della vita universa, come attività stabile e permanente e che in tutte le gerarchie degli esseri e nelle forze oscure della natura e nel movimento degli astri e nella radiante luce delle stelle è una partecipazione creata dell’attività divina creatrice, è il sentimento che vibra in tutta la Divina Commedia. E questo sentimento, che è contemplazione poetica delle cose in ciò che è loro vita segreta, involge sempre in sé un’ansia morale e religiosa e un pensoso stupore. Essa crea l’atmosfera spirituale che Dante pellegrino vive e respira, e che egli viene esprimendo fantasticamente in note coloristiche di paesaggio a luci e ombre. Tutto, in natura, dipende da Dio; e perfino le potenze cieche della materia, che sono i mostri infernali, e gli spiriti del male, sono inconsapevoli ministri della volontà divina. Anche l’uomo dipende da Dio, ma come amore creato: un centro di libertà, che fa fronte a Dio e a tutto l’universo, e nel cui segreto non può leggere altri che Dio. Ma la radice di questo amore, che è il seme di felicità in noi seminato dal buon seminatore, è così sprofondata nella materia della nostra individualità carnale, che possiamo solo trovarla di lì dalla nostra notte (Inferno), come di là dalla notte del nostro pianeta c’è agli antipodi il giorno e brilla il sole (Purgatorio). Solo allora quell’io spirituale, quell’io divino che è in noi, si farà sorgente di un’attività spirituale, che nel suo duplice esercizio, teorico e pratico, d’arte e di scienza, sarà un continuo perfezionamento della nostra persona destinata alla vita futura.
Episodicamente, lungo il suo cammino, che si sprofonda nelle tenebre per giungere alla luce dell’opposto emisfero e salire “per lucem ad astra”, Dante oggettiva in se stessa la vita di quelle anime che storicamente sono “di fama note”. E cioè, dentro il sensibile e per mezzo del sensibile, egli fa tralucere la luce di una “forma”, come bellezza in sé, come principio di vita e di passione, che ciascuno conosce nella misura stessa che poeticamente la vive. È una verità intelligibile, che non va considerata in modo univoco, come se si esaurisse in se stessa; né in modo equivoco, come se fosse puramente intellettuale o astratta; bensì in modo analogico (analogia di proporzione) in rapporto a Dio, che è l’analogato supremo. E questa verità, presentata “per esempio”, è una verità morale (“sensus moralis”), se si tien conto del fine naturale o temporale al quale l’uomo è ordinato; o una verità spirituale (“sensus anagogicus”), se si tien conto del fine ultimo, soprannaturale, ed eterno.
Secondo le prospettive teoriche del tomismo, già applicate da Dante nel Convivio, la sua esperienza poetica ha così per fondamento “storico” lo stato delle anime dopo la morte corporale, giudicate secondo l’ordine di esercizio, di esistenza e di vita; ma essa si svolge e si organizza in lui secondo l’ordine di specificazione. E cioè la natura o essenza dell’uomo, conosciuta sperimentalmente nei soggetti “esemplari” quale si rivela a lui, sorretto e guidato dalla fede, su tre piani di analogia: quello della pura natura senza la grazia — che è la natura umana collocata nel Limbo dell’Inferno —; quello della natura umana sanata dalla grazia e in viaggio verso l’eternità; e quello della natura umana sopraelevata dalla grazia santificante. Su questi tre piani (Inferno, Purgatorio e Paradiso), che implicano trasposizioni intime di attività e di vita, s’illuminano le simmetrie e le consonanze, le corrispondenze e le armonie spirituali, che collegano tra loro le tre cantiche e ne fanno una unità inscindibile. E ciò con un continuo approfondimento “sur place” del mistero dell’essere, che è l’oggetto di cui Dante poeta va dichiarando attraverso all’esperienza le differenze in esso contenute; poiché l’essere, che tutto imbeve, e non è nemico di nessuno, è il mare immenso nel quale fluisce perennemente l’eterna poesia di Dio.
E in verità quella che Dante coglie poeticamente in ogni essere umano, e che conferisce alla Divina Commedia una salda unità di ispirazione, pur nella varietà delle note individuali in cui questa unità si prismatizza, è la poesia di Dio: ossia l’amore che ogni creatura ha di essa stessa e della sua propria vita, insieme con un desiderio di eternità e di pace con giustizia e di verità e d’amore. Poesia di natura, che sono poi le aspirazioni liriche della nostra anima: affetti eterni, la cui rettitudine, quando la manteniamo, non può non essere che un appello a Dio che li ispira. Ma solo con la carità, che presuppone la grazia, questi affetti possono diventare un abito operativo e farsi vere virtù morali. Altrimenti, come nell’Inferno dantesco, essi non resteranno che pure aspirazioni liriche in contrasto con la nostra azione concreta, e faranno della nostra vita spirituale una vita disarmonica e divisa, sorgente eterna d’ogni dolore. Sarà allora la vita di Francesca, che anela alla pace e la cerca nell’amore col dono di tutta se stessa, mentre se la nega, questa pace, tuffandosi nel vortice della passione; la vita di Farinata, che anela al bene della patria, mentre si fa con la sua azione violenta il suscitatore di odi implacabili e di vendette; la vita di Brunetto Latini, che anela idealmente al bene morale mentre si tuffa nell’immoralità e se ne vergogna di fronte al suo discepolo; la vita di Pier della Vigna, che anela alla giustizia e la vuole a gloria del suo proprio nome, mentre si fa ingiusto contro se stesso e si nega alla vita. Sarà la vita di Ulisse, che anela di conoscere tutto e si strappa a tutti gli affetti per una verità puramente intellettuale che lo attira e lo travolge; la vita di Ugolino, che ama disperatamente se stesso nei figli, ma con un amore che si fa generatore in lui di dolore e di odio eterno.
Esperienza dell’Inferno dantesco: vita di un’anima, che nella sua naturale richiesta di felicità si tuffa sempre più nel mobile flutto delle cose, e si fa schiava delle cose. Chiusa nella sua realtà tormentosa e corpulenta, essa s’individua e giganteggia quanto più procede per entro alle tenebre delle sue passioni, con un movimento di discesa, di degradazione e di dissoluzione. E la sua eloquenza è quella di un io risentito, che si conferma e stacca gli altri da sé e divide: ora ferma e decisa, ora rapida e a scatti, ora larga e solenne, ora fredda, proterva e tagliente, secondo che prevale in essa lo spirito di passione, di sopraffazione e d’ingiustizia. E tuttavia sempre tale che s’addolcisce con un sospiro alla vita serena, alla luce del sole, al dolce mondo degli uomini e alla sua cara umanità perduta. Desiderio di natura e aspirazione eterna, che è l’espressione insopprimibile del nostro io più profondo: di quell’io della vita, che anela alla vita e che ci precede nell’essere.
Ma sanato dalla grazia e fissato stabilmente in Dio, come bene comune separato da tutto l’universo, quest’io divino, che è la “forma” del corpo, rientra nell’ordine ed è nella luce. Subordinando al fine soprannaturale i suoi fini particolari e contingenti, l’uomo ritrova con gioia l’unità della sua vita; ed è allora il gaudio di un amore che ragiona nella mente; armonia e ritmo e musica interiore e canto. L’amore naturale di noi stessi e della vita nostra nel tempo, sotto questo sole e in questo dolce mondo, si è ormai rilegato con gioia a colui che è l’Amore e la Vita di tutte le vite. E nella permanenza di un desiderio di natura, che è richiesta di vita felice fatta a Dio che solo può appagarla, l’uomo comincia un movimento di ascesa, di integrazione e di creazione. Esperienza cristiana del Purgatorio dantesco. Essa si compie nell’atmosfera spirituale dal Pater noster ed è nel cuore, nelle opere e nella parola la voce della preghiera permanente e la “frequentazione celeste”. L’istinto di preghiera, che in noi è natura che domanda, si esteriorizza e ha la semplicità del gesto e l’umiltà degli occhi levati e l’ardore e la dolcezza. Ed è armonia di anime e di voci, che attraverso a Cristo redentore e a Maria Vergine mediatrice chiedono a Dio il pane della verità, delle buone ispirazioni e della grazia. Poesia eterna, di chi esperimenta in sé l’amore come bontà che si effonde e di cui la preghiera è il desiderio e la ricerca. Bontà di natura, che è il nostro io divino; il quale umilmente fa richiesta di vita felice a Dio, nel sentimento della nostra comune indigenza, delle nostre debolezze e del nostro cieco lume. E questa bontà, che anela alla bontà, e che spontaneamente si dona agli altri, è quella che ci strappa alla nostra individualità materiale, legata alle cose, agli avvenimenti e alle circostanze. Essa ci porta all’azione concreta, perché fa dell’amore “la legge dei membri”: carità fraterna, che è l’ordine di natura, ossia la legge o ragione naturale inscritta da Dio, autore della natura, nella sostanza del nostro essere; da Dio, che la comanda e la esige per tutti i cuori da lui creati fratelli.
Nella permanenza della carità fraterna, tutte le anime del Purgatorio si collocano al disopra del mobile flutto delle cose. Esse amano nell’uomo ciò che piace a Dio e ciò che l’uomo deve essere per piacere a Dio; cioè lo amano in se stesso, nella bontà della sua natura, che già possiede o è capace di ricevere la grazia. E l’eloquenza di queste anime è l’eloquenza della carità fraterna, che è l’anima comune della società di cui ciascuna si sente una parte integrante. E nella società ciascuna si raddrizza, si afferma, si sente più sicura di sé, prende una consistenza propria e si fa persona. Cioè ogni anima si fa creatrice della propria vita interiore e del proprio destino; e creatrice ancora di opere di bellezza, nelle quali, per l’istinto di comunicazione che nelle comunità umane è più profondo che quello dell’interesse individuale, passa, “a quel modo che ditta dentro”, la bontà dell'amore che la ispira. E allora, in virtù di questa elevazione spirituale, il tono di tale eloquenza varia e s’individua secondo gli affetti dai quali ogni anima è mossa; sempre informata alla misericordia e alla pietà, alla commiserazione e all’amore del bene; e sempre devota e affettuosa in ciò che tocca la famiglia, la patria, l’amicizia e la comunanza di vocazioni o di tendenze. Ed è calda e appassionata in Manfredi e in Buonoconte, mite e dolce nella Pia, inquieta e sdegnosa in Ranieri da Calboli e in Guido del Duca, suadente e commossa in Marco Lombardo, soave e nostalgica in Nino Visconti, affettuosa ed esultante in Stazio, serena e fidente in Forese, ammirante e devota nel Guinizelli.
In ragione del loro essere e degli accompagnamenti e delle conseguenze del loro operare, tutte le anime del Purgatorio sono nel tempo che le misura con la luce e col sole; ma, sono ancora fuori del tempo, per l’eternità che esse edificano dentro se stesse mediante il tempo e la carità che non muore. Vita della nostra anima e di tutte le anime, la quale si svolge al confine di due orizzonti: quello della materia che ci limita e quello della luce che piove dall’alto. E la poesia che lì germoglia e fiorisce è la poesia lene e meditativa dell’ora che ci fa puri: l’ora della preghiera, quando si riaffacciano alla memoria le persone care entrate a far parte della nostra anima per comunanza d’affetti e per l’entusiasmo generoso di cui si nutrono la compassione e la comunione, lo zelo di giustizia, la devozione alla famiglia e alla patria e il culto disinteressato della bellezza e dell’arte. Poesia dei ricordi, in un’atmosfera pura, dove tutto resta trasfigurato e rivestito di una luce spirituale, ed è verità e bontà e bellezza. È un mondo conosciuto per esperienza vissuta; e verso il quale ci ripieghiamo pieni di speranza, con un sospiro nostalgico e un desiderio profondo. E siamo come pellegrini, che al chiudersi d’ogni giornata, sul crepuscolo della sera, al primo tocco di campana che suona a compieta, torniamo a vivere spiritualmente con i nostri cari lontani e ne sentiamo pungente il ricordo e aneliamo a far ritorno tra loro, prima di abbandonarci al sonno, entro la notte vigilata dalle stelle.
Il motivo poetico fondamentale dell’Inferno dantesco, dove ogni anima sospira nostalgicamente al dolce mondo e al ricordo di sé nella mente dei suoi cittadini e alla patria diletta, diventa, scavato in profondità e su altro registro concettuale, il motivo poetico fondamentale del Purgatorio e si rivela come l’anelito di ogni anima a una conoscenza sperimentale del proprio io divino, di là da’ suoi limiti e in un presente eterno. Ma questa conoscenza si attua in noi soltanto nel mondo della grazia, che sopraeleva la natura umana e la connaturalizza con Dio; e la si ottiene solo rinunziando alla nostra personalità, per rimetterla tutta nelle mani di Dio, che solo può darcela intera. È l’esperienza del Paradiso dantesco; l’esperienza dei santi, i quali partecipano, secondo la loro vocazione particolare e la loro missione, al patrimonio umano di spiritualità incoativa e di libertà morale — che è poi la vita attiva o sociale nel tempo —, ma con prodigi di attività spirituale e di energia morale o operativa e di virtù veramente soprannaturali. Vita dell’anima, che nella luce della fede raccoglie tutta se stessa e si rimette a Dio e opera con Dio. Fissata stabilmente in lui, come oggetto d’amore, essa tende a perfezionarsi continuamente in questo suo amore, operando non per sé, ma a gloria di Dio, cioè prodigandosi in suo nome per il bene altrui, disinteressatamente, gratuitamente, per modo di dono. La conoscenza sperimentale del nostro io divino, che è amore santificato dalla grazia, procede allora dalla sovrabbondanza della contemplazione, e si comunica e si espande nell’azione, con assoluta libertà, fuori completamente dal mondo della materia. È la vita eterna incominciata nel tempo. Siamo qui nell’eterna circolazione dell'Amore increato, che si dona a noi nella misura stessa che ci doniamo a lui; e che ci innalza sempre più, a suo beneplacito, nei cieli della sua grazia e della sua luce e all’intimità della sua vita; la vita alla quale tutti i santi, secondo le connessioni e le complessioni di natura e grazia, sono strettamente affissi, come le api nell’interno di un fiore, di cui suggono l’essenza preziosa.
Il Paradiso è nelle creature che si presentano a Dante questa vita in Dio: bontà infinita di Dio, che si espande e si comunica per mezzo loro, divenute cooperatrici della loro causa e il cui fine è, sulla terra come in cielo, l’avvento del regno di Dio. Cielo e terra sono dunque strettamente congiunti nella vita di tutte le anime; ma perché nel loro io divino — divino secondo natura e divino secondo la grazia — e in virtù della fonte dalla quale derivano tutte le vite, essi si sentono solidali a ciò che in tutte le vite, e ciascuna per sé, è “la concreata e perpetua sete del deiforme regno”: desiderio di natura o “istinto” di comunicazione cordiale, perché di tutta la creazione spirituale si faccia, in Dio e attraverso a Cristo, un corpo solo, nel quale la circolazione della vita non dipenda da nulla. Nel Paradiso tutte le anime sono cittadine di “un impero giustissimo e pio”; e di li esse partecipano alla vita della Chiesa militante, dove la contemplazione amorosa si riversa in protezione e benedizione della comunità, per il bene verso il quale tende la vita sociale, come verso un termine che la trascende e che sta al di là delle sue frontiere. Così tutte le anime, che dentro all’ordine della carità vivono fuori del tempo, rientrano nel tempo con la loro azione. E la loro eloquenza, che mira soltanto al bene della persona ordinata a Dio, ha il tono largo e solenne della vita che insieme vivono con esultante pienezza d’amore, mentre pregano Dio, perché conceda che di tale vita siano compartecipi tutte le creature della terra. In simbolo concreto Dante traduce nel suo Paradiso il dogma cattolico della comunione dei santi, e lo presenta come specchio esemplare dell'umanità sulla terra: vita contemplativa, che per sovrabbondanza interiore trasmoda nell’azione: amore di Dio, dal quale discende l’amore del prossimo.
Nella sua voce unitaria la grande poesia corale del Paradiso dantesco mette in luce il valore della carità e della vera uguaglianza, e nei santi di Cristo lo slargamento conquistatore del loro io divino in opere di bontà, di apostolato e di santificazione, a vantaggio della vita sociale e nel culto unitario di cui Cristo è il legame. Questa voce unitaria ammette, nella sua complessa ricchezza, tutti gli stili: lirico, epico, drammatico, oratorio, profetico, allegorico e mistico; e tuttavia per ogni singola anima, e nel cielo della grazia che le compete, questa stessa voce svaria e si colora di perfezioni apparentemente più opposte, in un’armonia di vita intima e profonda che conviene, ma allo stato puro e infinito, alla stessa vita intima di Dio. È il sentimento cristiano, che viene calato nella vita ed è pacificato in Dio che lo sublima. Tale è la dolcezza soave e la fortezza spirituale in Piccarda, il divino zelo della giustizia e la bontà generosa in Giustiniano, la sfrenata passione d’amore e la temperanza che lo santifica in Folchetto da Marsiglia, la somma sapienza e la pura semplicità in san Tommaso, la contemplazione e l’azione in san Bonaventura. Armonia dei contrari, che sul piano della fede, è quella che anima l’eloquenza ferma e sicura di Cacciaguida in colloquio con Dante: fede nella giustizia di Dio, oscura sì, ma assolutamente certa; immutabile sì, ma tuttavia libera, come la conobbe Traiano e la esperimentò Rifeo; contemplativa si, ma sempre praticissima come la carità, della quale godettero san Benedetto e san Pier Damiani. Armonia dei contrari, che è, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la parola di san Pietro, calda e profetica, ma che incide e taglia come una spada; e che è ancora la parola umile e alta, semplice e solenne di san Bernardo, il quale si esalta esaltando in Maria Vergine la creatura umana in cui risplendono, conciliate intimamente tra loro, tutte le perfezioni divine, e perciò mediatrici di grazia presso Dio. Ma la preghiera di san Bernardo in favore di Dante che la segue con l’affezione, mentre l’accompagna il gesto silenziosamente orante di tutti i beati, non è che la voce di quella sublime unità che stringe tra loro tutti gli spiriti della terra e del cielo, e di cui abbiamo il sentimento quando invochiamo la madre di Dio. Ed è allora la voce della nostra anima, che si dilata e si lancia in tutti gli spazi e in tutti i tempi, dovunque la nostra povera umanità, che soffre, combatte e prega, si fa propagatrice di vita e conduce le sue fasi. Unità della preghiera comune nell’universalità di un sentimento che la nobilita in se stessa e le toglie ogni ombra di egoismo; un’unità, che vive nel pensiero di Dio creatore, e che è la legge comune di vita e il comune destino naturale e soprannaturale.